Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: queenjane    10/10/2018    1 recensioni
Uno spin off di "Phoenix", "Once and again" et alia, ormai.. Le imprese di Catherine e Alexis Romanov al quartiere generale, la Stavka a Mogilev, durante la grande guerra, corre l'anno 1915."... Il quartiere generale.
Rumori e segretezza... E tanto lo zarevic, il diletto e viziato erede al trono dormiva, un dolce peso morto contro le mie gambe, incurante di tutto, una mano tra le mie. Rilassato, in quiete, una volta tanto, che si agitava anche nel sonno.
“ Cat”, aveva mormorato il nomignolo, Cat per Catherine... Un sospiro ... Il mio.
Che sarebbe successo? Quanto avremmo passato?
Era testardo e viziato, mi esasperava e divertiva come mai nessuno.
Un soldato in fieri.
Un monello.
Amato.
Il mio fratellino."..since he was never alone, his family was always there for him the whole time :.. you're never alone, my little Prince, my soldier, my Alexei ..Your Cat .. I love You forever, I'll lack You for always
Un portentoso WHAT IF, Alternative U.
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Zarista, Guerre mondiali
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The Dragon, the Phoenix and the Rose'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“Basta, che divento una teiera, sono pieno di tè”
Petulante.
“Non ho fame”
Scocciato.
“E’ troppo scomodo”
Nervoso.
“E’ troppo morbido”
Monello.
“Ho caldo”
Forse, che avevi la fronte calda, colpa mia che ti avevo messo due coperte sulle gambe, per dare calore.
“Ho freddo”
Vedi sopra, avevo tolto una coperta.
“Ho fame”
Lo segno sul calendario.

“Non ho fame”
La prassi, mi rifiuto di darti corda.
“Non mi voglio lavare”
Ti lavi, non transigo, prima o poi lo fai.

“Non voglio il pannolino”
Finchè non stai in piedi lo porti, lo sai.

“Voglio farmi il bagno”
Alleluia.

“Voglio il pannolone”
Sei stanco e sai che sono stanca, non vuoi che ti portiamo in bagno, ti adegui.

“Ho sonno”
Meno male che succede.
Battute infinite con Alexei, in quelle settimane, lui parlava, io rispondevo tra me e me, lo adoravo, da sempre, e ci conoscevamo tanto poco, cercavo di stare calma, o tentavo, l’adulta nominale ero io.

Come non ti sia riuscito ad evitare di scoppiare in collera Cat, resta un mistero. Ora, invece di murarmi nel silenzio, a una domanda rispondevo con un’altra questione e non me ne andava bene una, dicevo una frase e poi l’opposto, replicando no a dritto a ogni opzione.
Facevo i capricci, diceva Anastasia, che gusto ci trovi a farla ammattire lo sai solo tu, mi dava un bacio e non mi considerava, era matura od egoista nel riprendersi dalla perdita, senza badarmi?.
La frustrazione.
Senza motivo.
O tutti.
Non ne potevo più.
Le mie bizze, da annotare sul calendario, variavo con ostinata perseveranza.
E tu serafica, sorridente, senza repliche, non ti smontavi.
Nell’apparenza eri salda e tranquilla, senza mugugni.
Che andavi macchinando? Sicuro che andavi almanaccando qualcosa nella tua testolina, ti conoscevo abbastanza bene, ormai.
Perché non mi lasciavi perdere?
Da una parte volevo stare solo, a compartirmi, dall’altra, volevo e desideravo anche l’aria, la luce.
Cat mi avevi inviato alle rapide spedizioni, dal sarto, in biblioteca, allo zoo, alle giostre, in  chiesa, due ore al massimo, io dichiaravo di “No” a prescindere, e mi offendevo se non mi dicevi nulla.
 “Alessio, vuoi che ti porti in braccio “
“No”
“Proviamo con delle stampelle? Un bastone?” per camminare,  se volevo stavo in piedi e facevo qualche passo, il ginocchio mi dava meno fastidio.
“NO.”
“Sulla sedia a rotelle?”
“NO” all’infinito.
“Sai qualche altra parola, oltre a no?”
“NO” scrollando le palpebre.
“Che noia”
“Che noia lo dico io, Cat”
“Ah bene, dici altro oltre a no”
“NO”  ti sentii ridere di gusto, di pieno cuore o per i nervi.  E avevo infilato il tuo nomignolo, Cat, come da prassi.
Quello era un nostro tipico dialogo, con poche variazioni e misure.

Dall’agosto 1917 fino al luglio 1918, ti avevo aspettato per un anno, o quasi, eri my solace e tanto ero arrabbiato, curvo e sconfitto, mi bastava rivederti per sapere che non era così. Ero un guerriero, non avevo lucenti armature, e un giorno dopo l’altro ero vissuto, senza mollare a prescindere dalle mie crisi.
Sarei crollato senza te? Quien sabe, tranne che mi avevi insegnato a resistere, tu sostenevi il contrario.
La mia principessa guerriera.
Eri leggenda, Cat, eri il sole.
Io il solito impiastro.
E tanto la notte ti volevo avere vicino, e viceversa, se avevo un incubo mi svegliavi, e io te, anche tu avevi gli incubi di continuo. Una pausa, credo, prima della parata e dell’affondo. A volte, svegliandomi ti ritrovavo vicina, il calore e il respiro, mi stringevi “Aleksey” un quieto mormorio “Mamma” ti chiamavo in quel modo, anche se non volevi, dicevi che non ti spettava quell’epiteto, io ribattevo che giocavi da sempre con me, mi raccontavi le storie, mi confortavi, eri la mia mamma, come Olga e Tata, loro erano morte, mi restavi solo te, non replicavi, madre e mamma, due parole che significavano un mondo diverso, la zarina era mia madre. Ed eravamo talmente in confidenza e simbiosi, mi fidavo di te come nessuno al mondo, Cat, che la mattina prima che iniziasse l’ennesima, infinita giornata mi dicevo che forse ce l’avrei fatta. La tua presenza mi impediva di piangere per ore, volevo mia madre e mio padre, le mie sorelle, la vita di prima, prima della rivoluzione e della prigionia, intendo.
Ero stato l’erede al trono e quindi il figlio di un tiranno e di meretrice. Contrasti da incubo. E ora avevo solo te e Andres e Anastasia, un futuro incerto e tormenti garantiti. 
“Così non va sai” una pausa, ti mettesti a distanza, avevo passato i primi giorni da incubo nel torpore, nella disperazione, sempre aggrappato alle tue braccia, mi sentivo meno di niente e per te ero tutto, ti volevo tanto bene e ci conoscevamo così poco, Cat “Per te, che credi, non è vita.. a te è sempre piaciuto, vivere, così è uno stillicidio, Alessio”
“NO”
Riferito a mia madre, a te, alla sorte, gli assassini.
A mio padre che aveva abdicato, per sé e per me, una lesione senza ritorno dei miei diritti.
Da capo.
Non lo so.
Una negazione all’essere nato “disgraziato”, che un movimento troppo brusco mi poteva essere letale, a mia madre che aveva creduto in santi e santoni, in Rasputin, spengendo ogni buonsenso nella disperazione, nel rimorso e nella cattiva salute, che la malattia me la aveva passata lei, l’emofilia si era trasmessa dalla regina Vittoria in poi, la mia bisnonna, nelle case reali di Russia, Germania e Spagna.
La sofferenza.
La solitudine anche in mezzo alle persone.
“NOOO”
Ti tirai una spinta, ora avevo sviluppato anche il vizio di essere recalcitrante e bizzoso, usando una forza che non credevo di avere, rimanesti basita, per poco non andasti per terra, ti copristi il viso con le mani, per evitare sfregi. Borbottasti che non era aria, in punizione, a riflettere entrambi, il viso contro una parete, mi tenevi abbracciato. “Scusami” “Alessio, non mi piace questo comportamento” Rovesciai il viso verso l’alto per guardarti, eri chiusa e dura, le sopracciglia aggrottate e gli occhi erano neri, in senso metaforico e letterale (… quando ero piccola e angariata, sai quante volte Raulov mi ha sbattuto per terra? Chiudiamo qui, che di incubi ne abbiamo a sufficienza)
“Scusami”
“Scuse accettate e tanto in punizione rimani uguale” tuffasti la testa contro la mia spalla, sapevo che per poco non mi avevi picchiato, resistendo comunque al richiamo della frustrazione, dei nodi di angoscia e disperazione.

“Va bene”
Rimanesti  rigida, ricordai che le avevi prese quando eri piccola, posai la schiena contro il tuo torace, ti presi le mani, la testa contro la spalla, percepii che sospiravi, esasperata forse.  E divertita, una cosa inopinata “Non mi corrompi, Alessio” una pausa “In punizione meditativa rimani, come me, che non ho capito come trattarti”
“Non è una punizione, questa per me” mugugnai, ti baciai il palmo della mano, era calloso, avevi le unghie corte. Non era una punizione, ripeto. Era amore.
“Me lo immagino” Mi ritrovavo esatto nell’incavo delle tue braccia, mi sentivo al sicuro, come sempre, un innocente e un tiranno.
L’esilio e la disperazione, ora ero a casa mia.
Once and again.
Cat raccontami una storia che non abbia termine, alla fine ci crederò, ci crederemo.
….
Che palle, annottavo tra me e te lo concedevo, quella era una reazione al lutto, al dramma che ti era toccato, mi ricordavo la pazienza. Di non sbuffare o rispondere male, come un pezzo di ghiaccio in una giornata di primavera,  le parolacce mentali erano uno sfogo, che sennò sarei esplosa, mi conoscevo parecchio bene in quei frangenti. Dovevo e cercavo di essere impassibile.
Anastasia meditava parecchio, per conto suo, ribadisco, ogni tanto parlavate, non so di cosa, di specifico. E non me la sentivo di caricarla di quel fardello, del tuo accudimento pratico, tranne che, come già rilevato, con Andres ti vergognavi e lei non avrebbe saputo gestirti, nonostante la buona volontà, l’assistenza era complessa, definizione ridottissima.
E volevi me, lo avevi ribadito fino alla nausea.
Valletti e infermieri no, solo me.
Cercavo di capirti, Alessio, lo giuro.
La frustrazione.
Senza motivo.
O tutti.
Non ne potevi più, dicevi ogni tanto, non era colpa mia, di sicuro,  e ti dovevi sfogare, eri un asso Aleksey, e io ero una campionessa di testardaggine.
Bisognava valutare chi si sarebbe sfinito prima.
Se non mangiavi ai pasti, stavi a digiuno, non cedevo di una iota.
Non volevi uscire, sul momento non forzavo, troppo.
Ammettevo, almeno tra me, che ero una grande rompiscatole, non ti davo requie.
“Cosa fai, sono stanco” non sentii volutamente, lo misi seduto davanti al tavolo dinanzi a noi
“Ora mi aiuti, voglio fare una torta di mele e le patatine fritte” cibi che aveva adorato, a Mogilev, e dopo, che sapevo cucinare, insieme ad altri “Intanto mi mangio una fetta di pane con la marmellata di mirtilli” stanco o meno, pane caldo, burro e marmellata gli aprirono lo stomaco, prassi consolidata.
“Buffona,” enunciò lui mangiando la fetta, il sole accendeva di riflessi autunnali, ambrati i suoi capelli“Sai che li adoro, i mirtilli”
“Buffona” di nuovo  “Si dice che Bucefalo, appunto, il cavallo di Alessandro Magno, fosse un Akhal-Teke, un cavallo celeste” come un insulto e si divertiva come me, un ossimoro in termini.
“Giusto, credo di avertelo detto io” buttai via le bucce di mela, dentro il fuoco della stufa, l’aroma si sparse, gli diedi il tempo di leccare la pastella della torta senza che me ne accorgessi.
“E mi aspetta ad Ahumada?”
“Se vuoi, solo se vuoi”
“Intanto vorrei un quaderno per fare un diario”
Come Olga, come le nostre sorelle, scrivevano giorno per giorno i piccoli fatti, cronache di una vita che non sarebbe più tornata, le lezioni, le gite in slitta, visite di famiglia, partite a tennis  e quanto altro. Come aveva fatto lo zar, annotazioni giornaliere che avevano cadenzato la sua esistenza.
“Va bene” cambiai parere, andai a prendere una cosa“Forza, infilati questa giacca” porgendogli l’indumento, mi obbedì senza altre osservazioni, tranne sbuffare, sonoro.
“Perché?” intanto mi sentiva trafficare, cigolii e rumori, avevo aperto la porta.
“Cat?”
 “Non capisco”
“Cat?”
“Sì che capisci, usciamo, lo scegli te” una pausa “Dai, Alessio, per favore”
Spostò gli occhi da me e alla porta, soffiando. “Dammi il braccio, forza! Ci arrivo da solo, sostienimi solo un poco” Quando fu sulla sedia a rotelle, mi accoccolai sui talloni “Davvero, devi uscire” mi buttò le braccia sul collo, serrandomi forte, gli massaggiai la schiena, intanto appoggiavo il mento sopra la cima dei suoi corti capelli castani “Un’ora al massimo, per gradi, Catherine, tutto insieme non reggo”
“Promesso, fidati”
Mi guardò male, si fidava di me più di ogni persona al mondo e viceversa, era scontato e non lo era affatto, stavo per tracimare, se fossi esplosa me ne sarei pentita e tanto la persona adulta ero io, dovevo ricordarmene.
Ed era un primo pomeriggio, il cielo sfumato di cobalto, la luce del sole batteva sulle facciate delle case, regalando ambrati riflessi. Lui  osservò la gente, le strade, curioso. Gli  piaceva, fine del dettato. Ed era nervoso, osservai che stringeva i braccioli fino a farsi sbiancare le nocche. Trattamento d’urto, forse eccessivo, gli faceva male stare sempre chiuso, d’altra parte le mie risorse e la mia pazienza si stavano esaurendo.
“E’ stato così tremendo?” scrollò le spalle. “Io .. “eravamo di nuovo a casa, la sortita era durata meno di tre quarti d’ora, non gli avevo messo neanche il pannolino, provvidi al rientro, era così assorto che manco mi badava. Lascialo stare, non lo assillare. “Ma ..” una pausa “Sai che ..”
“Cosa Alessio?”
“Nulla” facendo una smorfia, frammentata, decodificai che non lo sapeva nemmeno lui, io che dovevo dire, nulla per non dire tutto. “Ti fa  voglia di riprendere a studiare qualcosa?”
“Voglio anche giocare, non tendere troppo la corda”
“A cosa?Morra cinese, dama, scacchi..” elencando con le mani.
“Anche e  .. vorrei disegnare”
“Mmm.. alianti e aeroplanini..” una rapida lista che gli era piaciuta, sempre, ricordai quando era piccolo, una volta, facevo le bolle di sapone e si divertiva a farle scoppiare tra le manine paffute “Sì” glielo richiesi “Alessio, scusa se ti ho assillato.. vorresti un valletto maschile? Saresti forse più a tuo agio, per  essere lavato e accudito, credo”viva la ripetizione..
“Io voglio te”Uno scatto limpido, senza fallo “Vieni qui, tranquillo, per quello stai tranquillo, non ti lascio”
“Sicuro?”
“Sicuro” tremavo, mi calmò, la sua agitazione cedeva il passo alla mia.
Io ero occupata da Alessio, in un certo senso era la mia fortuna, mi impediva di abbandonarmi alla cupezza, al dolore.
Anche se lo assillavo in maniera costante e esponenziale.
Per il resto di quel pomeriggio non tirai un fiato, con la scusa di pelare cipolle davo libero sfogo alle lacrime. Lui era assorbito dal quaderno, dai fogli sciolti e dalle penne e dai pastelli colorati. Mi misi a pulire da cima a fondo, le spalle che sussultavano.
Piangevo.
Mi mancava Olga, e Tata e Marie e i miei figli, avevo timore di quello che potevo dire o fare ….

“Hai pianto e non sono le cipolle”Alessio fece la sua diagnosi, verso le sette, sentii le sue mani sul viso,  mi faceva male la schiena, mi doveva venire il ciclo e avevo i nervi in procinto di scoppiare, ormai era abitudine e prassi. “Forse no, oppure sì”replicai.  
“Catherine” Mi sdraiai vicino al lui sul divano, il suo reame, mi fece il solletico, mi fece fare un sorriso con le dita. Gli baciai la fronte, tra una cosa e l’altra era l’ora di cena, alla fine.
Dal nuovo diario di Alessio “.. prima sera che scrivo qualcosa. Sono stanco, ho mangiato zuppa di cipolle, fatta da Cat, e pane e formaggio, mele croccanti. Mi sembra un componimento dei bambini piccoli, cosa ho mangiato, ma ho tanto da dire e anche nulla, da non sapere come fare” un banale esordio che poco rivelava e nulla nascondeva.
“Lo leggi?”
“No, sono cose tue private”
“Ma non ho nulla da nascondere”
“Cose tue private uguale” almeno quello, annotai. Si lavò i denti, andò in bagno, accompagnato da Andres, parlottando poi con  Anastasia, fino alle dieci di sera, risatine e sussurri divertiti, al loro invito, mi unii pure io, osservando un aliante, un modellino.
“Te lo porti a dormire?”
“Sì” lo fece ondeggiare sopra di sé, un breve volo, annodandomi le braccia mentre lo svestivo, mi aiutava, “Ti voglio bene, Cat” “Io pure, tantissimo” una pausa “So che lo sai” , almeno quello senza filtri, iperboliche parole, lo sapevamo, faceva piacere dirlo, gli misi il pannolone per la notte, prima o poi avrei smesso di lavarlo e cambiarlo, o almeno speravo “Sempre Cat” Ti scocciavo da quando eri piccolissimo, figuriamoci se non lo sapevi, tesoro mio, pure mi faceva piacere che ogni tanto me lo dicessi “I am your little prince”
You’re my treasure, Aleksey. Always ”
… mi amavi, Fuentes, sempre, che le tue esigenze cedevano il passo a quelle di un ragazzo scampato a un dramma, che aveva bisogno di me e io di lui, in quei giorni infiniti che si arrotolavano l’altro sull’uno, anteponevi il desiderio di condividere il letto con me, tutta la notte, rispetto ai bisogni di Alessio, che si era abituato, rilevo, a dormire con me a distanza di un palmo. Salvo spiazzarmi e spiazzarci, il mio bambino, chiuso nelle sue ineludibili fragilità che dentro era una gigante.
Un titano.
Ce la avrebbe fatta, sarebbe stato bene.
Bene nel senso che sarebbe sopravissuto al trauma e allo sconquasso, sarebbe diventato grande, un soldato, forse, e tanto era già un eroe, senza peso o misura.
 “Cat” mi chiamava, tenero.
“Sono qui”
“ Grazie”
“ E dai, io non faccio nulla di speciale,  piantala”
“Questo lo decido io, non tu”
Ma stava meglio, un giorno dopo l’altro, pace che si fosse fissato.  
 . E la guerra era ormai agli sgoccioli, andava veramente a rotoli per Austria e Germania. La Russia, con la pace separata di Brest-Litovsk del marzo 1918, si era tirata fuori dal parapiglia, trovandosi invischiata negli scontri tra Bianchi e Rossi, propedeutici per la guerra civile in suntuoso  corso.
Anche io avevo controllato, come da prassi, il lupo e Cassiopeia, la spia bara tornavano in quelle lunghe sere, era cambiata come l’estate che segue la primavera, un implicito percorso.
“Che inventa Andres?”. Alessio mi servì la domanda dopo colazione, io fissavo ipnotizzata un vaso con delle rose che mi aveva regalato, dai petali vellutati, quindi la tazza di caffè, era piena e fredda ormai, mi ero versata il liquido scordando di berlo, persa dietro alle mie vaghezze mentali “Di tutto un poco”

“Cat” tornai dal mio volo pindarico, nel passato, mi accorsi che aveva finito una brioche alla ciliegia E il mio caffè. “Ti fa male, freddo, dico”
“Cat, andiamo a fare una passeggiata? Per favore, eh”glissando sul mio appunto pro forma.
“Subito, ma te lo prendi decente, caldo”
“Che?”
“Il caffè” il sorriso gli arrivò fino alle orecchie.
E uscire gli era piaciuto.
Per gradi.
 
Camminammo nelle vie lastricate del centro, era una bella città, ricca di architettura, storia e salubrità. Osservavo i percorsi della luce, gli angoli. Rettifica, io camminavo e spingevo Alessio, sulla sedia a rotelle, gli promisi una sorpresa, scrutandolo con occhi d’aquila per vedere se era stanco, sudava, la folla gli dava fastidio.
Stupida.
Idiota.
Voglio che si goda la vita.
E non devi opprimerlo.
Muta, cretina.
“Che sorpresa?”
Dal nuovo diario di Alessio “… siamo stati a messa, una chiesa ortodossa a sette minuti a piedi da casa. Cioè, Cat, camminava, io ero sulla sedia a rotelle. Una funzione completa
Di due ore, non ricordo che si celebrava, ma era la casa di Dio, poteva sostare anche una principessa cattolica, convertita come me. Da quello che avevo capito, la Danimarca era tollerante ma i culti erano ammessi. Scrutai le icone, un piccolo, brillante movimento.
Dal nuovo diario di Alessio “…tornati a casa, sorpresa, il tappeto dei giochi
Era un angolo del salotto con tappeti morbidi, cuscini, un piccolo regno con libri e cuscini, un caleidoscopio. “Niente spigoli” rilevò Alessio, che non vi erano mobili, si poteva spostare da solo, senza patire il freddo, che il pavimento era di parquet. Niente sedia a rotelle, nessun pericolo immediato.
“Che idea”
“Un’idea, qualcosa che posso fare…”senza il perenne incubo di un urto contro un mobile. Un pensiero la cui semplice ovvietà lasciava basiti. Dopo anni di attento, sorveglianza e timore ..
Dal nuovo diario di Alessio senza data “… io non avrei dovuto fare nulla e avere nulla, che ero in un dato senso disgraziato, come dicevo gli altri potevano fare tutto e io nulla. E sono riuscito a ridere, mi piacevano i cavalli e le storie di Cat, l’esercito e i mirtilli.. Senza cedere”
Nessuno capitolava, si restava solo spiazzati.
Come Anastasia, quando pescò Andres che aveva finito di cucinare porc en croùte da cui colava burro alla mostarda, accompagnato da fagioli e patate, oltre che una tarte au citron. Il pane lo avevamo acquistato, la perfezione di Andres non si estendeva anche in quell’ambito“Sai cucinare?” gli fosse spuntata una altra testa sarebbe rimasta meno allibita.
La sua risata faceva vibrare le pareti “Ebbene sì” affermò Andres. “Raccontale della Leonessa di Ahumada” ghignò Alessio, prima di fiondarsi sulla cena. Inutile, avevo imparato a fare qualche torta, le patatine fritte, uova fritte e pollame, aprivo le scatolette di cibo con consumata perizia e poco altro e tanto Andres mi batteva serenamente su tutta la linea, accidenti. In compenso affermava che ero bravissima a tagliare la frutta per la macedonia e gradiva i nostri spuntini a base di fragole e panna, divorava i frutti e la sottoscritta ..  e viceversa ..Mm.
“La leonessa di Ahumada?? Chi è”
“E dai che la conosci, almeno di vista. Vediamo se indovini.. è mora, con gli occhi verdi, Alessio la ritiene una calamità che mi è capitata, la moglie me la sono cercata” gli giunse un colpo sul braccio, di mio finto sdegno.
“Tua sorella?La marchesa?”  con stupore, rincalcando le parole di Alessio, in una lontana stagione.
“ Marianna Sofia Fuentes, maritata Cepeuda.. Che ti prende per sfinimento, dura come una selce..E di una scommessa persa”
“Racconta. Immediatamente”
“Allora.. nel 1896, mio padre portò me e i miei fratelli in Africa, a caccia. “Alessio si mise in ascolto, da capo, vorace, Andres era meglio di un teatrino dei burattini, quando era in forma, come adesso, poteva tenere banco per ore ”. .Chiaramente la ragazza sapeva sparare.. Gazzelle, impala, e così via, ma la preda più ambita era il leone, ovvero il re della foresta. Con Jaime e Enrique stabilimmo che il primo che avesse abbattuto un leone, avrebbe imposto una penitenza agli altri.. eravamo dopo cena, bevendoci una birra, lei leggeva qualcosa poco distante, e tanto ascoltava, fidati, due orecchie tese come castelli per sentire quello che inventavamo. Intervenne, piccata, giustamente, che non era stata presa in considerazione e per evitare spargimenti di sangue, che lei ci avrebbe trucidati ben prima ..stabilimmo che avrebbe partecipato, anche se ritenevamo che fosse una cosa da maschi. Che non ci avevano capito nulla, infatti fu la ragazza a acchiappare il solo leone della spedizione e ci servì una lezione memorabile” si asciugò le  mani in un canovaccio, Anastasia sorrideva, incredula.
“Cioè.. ??Vi fece prendere lezioni di cucina?E vostro padre non osservò nulla??”
“ Disse che avevamo dato la parola e quindi dovevamo imparare, che Marianna ci aveva ben gabbati. Che imparassimo una cosa da donna, ecco l’ironia della leonessa”
Una pausa “E si raffredda, non voglio avere cucinato invano” affermò il picador, l’eroe della Calle Mayor, Andres Felipe Leon, principe Fuentes dai mille talenti e misteri.
E con Alessio, da capo e di nuovo, mi divertivo, ridevo e mi esasperavo.
E leggevo i giornali, anche indietro, l’offensiva dell’estate 1918, le battaglie e i ripieghi, Aleksey lo stratega diceva che era un massacro, vinti contro vinti, alla fine dei conti, vinceva chi resisteva un filo in più. E noi con lui. He is strong, brave, a Knight. I’ll tell you a story, Remain with me.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: queenjane