7° Capitolo
«Come può
essere sparito?» Derek non poteva crederci, non poteva sentire che la storia si
stesse ripetendo dopo nemmeno due settimane.
«L’abbiamo perso
di vista» proferì Allison con un magone in gola, la voce tirata. «Stava
giocando con il suo nuovo puzzle e ci siamo distratte un momento. È così
tranquillo quando deve risolvere i suoi rompicapi e poi non c’era più».
Non c’era più. Come
potevano non essersi accorte che un bambino di cinque anni stava levando le
tende? «Era sotto la tua responsabilità, cacciatrice».
Allison
sentì tutto il suo risentimento, la sua rabbia, il modo dispregiativo con cui
aveva dato fiato all’ultima articolazione. «Non può essere andato così
lontano».
«Lo
sottovaluti» tuonò il lupo mannaro, i lampi azzurri che sfociavano nelle iridi
di giada.
«Ha cinque
anni, Derek» lo fece ragionare la mora, voltando la testa da un lato all’altro
e lanciando un segno alla banshee che non aveva smesso di cercare. «È a piedi,
da solo, dove potrebbe andare?».
Derek era
sempre più convinto di avere a che fare con degli incapaci. «Dove potrebbe
andare? L’unica cosa che guida quel bambino è il Nemeton
e tu l’hai perso».
Un silenzio
istantaneo cadde dalla linea telefonica e tutto ciò che il mutaforma udiva era
il respiro rarefatto della ragazza. «Andremo lì».
«No, io
andrò lì» la fermò immediatamente l’uomo, ringhiando e mostrando dei denti che
non poteva vedere, ma era in grado di immaginarli molto dettagliatamente. «Voi
tornate al loft e non muovetevi».
Interruppe
la chiamata con sgarbo, rischiando di distruggere lo smartphone per quanto lo
stringesse forte e trattenendo il ruggito che gli graffiava la trachea.
Deaton era rimasto nel suo mutismo controllato per
tutto il tempo della telefonata, scrutando attentamente lo svolgersi della
conversazione ed osservando Derek cambiare al suono di ogni vocabolo. «Devi
andare a prenderlo».
Non aveva
bisogno che quel veterinario da quattro soldi gli dicesse cosa fare, come se
avesse davvero bisogno di quel suggerimento per muoversi ed andare a cercarlo;
era implicito che sarebbe uscito di lì come una furia, dirigendosi verso le
radici maledette di un albero ormai scomparso da anni. «È il tuo modo per dirmi
te l’avevo detto?».
«Separarti
da Stiles non è mai stata una buona idea» suonava con un aspetto più ampio,
riecheggiante, che ridondava dal passato ed il suo eco perdurava fino a
quell’istante. Era una verità che si sposava con ogni azione di Derek. «In
questo momento lo è ancora di più. È la tua ombra e tutto ciò che fai si
ripercuote su di lui. Per Stiles, adesso, sei tutto ciò che di più importante
ha».
Derek in questo momento è tutto il suo mondo, erano quelle le parole che Isaac aveva usato, esprimendo qualcosa di
forte, qualcosa di veritiero che non poteva essere negato, ma l’Alpha perduto
non poteva ancora saperlo, non poteva crederlo reale. Non riusciva ancora a
capacitarsi di come fosse possibile che Stiles, il piccolo indifeso Stiles di
cinque anni, avesse scelto lui tra tutte le opportunità che aveva a
disposizione; un uomo che non aveva mai visto.
Il lupo
mannaro si limitò a guardarlo storto, senza ribattere in alcun modo, benché
fosse chiaro il suo astio, e filò via di gran carriera, sbattendo la porta e
lasciando risuonare agitatamente il campanello sistemato sopra di essa, che
segnalava l’arrivo di un nuovo cliente.
Risuonò
tanto selvaggiamente che sbatté contro il muro varie volte e perdurò per un
tempo illimitato.
Sfrecciò
come un folle per le strade di Beacon Hills, bruciando i semafori, non
fermandosi a nessuno stop e lasciando ruggire il motore; in quel momento di
rispettare il codice stradale non gli importava affatto.
Abbandonò
l’auto senza curarsene minimamente ai piedi del bosco, correndo verso il punto
in cui aveva trovato Stiles la prima volta ed incontrando il vuoto.
Derek
rimase spiazzato per un lungo primo momento, i sensi assordati e bloccati, le
iridi incredule che vedevano il nulla. Eppure il suo
olfatto lo percepiva, sapeva che fosse lì, non potevano essere le precedenti
tracce, quelle di quattordici giorni prima. Dio,
sperava che non fossero quelle, che il suo istinto fosse andato oltre, cercando
il fagotto prezioso che gli avevano perso e non il ragazzo diciassettenne che
era stato ingoiato da quella malia.
Derek era
sicuro che in qualche modo il cucciolo d’uomo fosse stato attratto dal richiamo
del Nemeton, da qualcosa che era scattato e che
l’aveva indotto ad abbandonare il posto sicuro in cui era per raggiungerlo.
Esisteva una motivazione particolare? Perché era scattato proprio in
quell’istante, nell’unico momento in cui lui si era allontano? Derek era
completamente in alto mare, non sapeva a cosa avrebbe dovuto pensare prima, ma
soprattutto non sapeva come avrebbe fatto a trovare le radici di un albero di
cui ignorava la collocazione. Nessuno del branco era più stato in grado di
trovarlo dopo che Stiles era riuscito a trarre in salvo tutti gli adulti che vi
erano prigionieri, guidato dalla mappa mentale che il suo sacrificio gli aveva
concesso. Ma poi si era cancellata, sia nell’umano, in Scott e nella
cacciatrice e non erano più stati capaci di ripercorrere le loro impronte.
Eccetto un recente Stiles guidato dall’incanto. Derek non poteva credere di
trovarsi al centro di una radura e non sapere come muoversi, non avere
completamente la vaga idea di come orientarsi per agguantare il bambino e
riportarlo a casa.
Nell’attimo
in cui espresse il desiderio di riaverlo con sé, Stiles si materializzò ai
piedi del bosco, sbucando dalla vegetazione a piccoli passi ed emergendo
illuminato dai raggi lunari.
Non era
cambiato nulla. Né una nuova forma né quella vecchia da diciasettenne, era
semplicemente e candidamente il bambino che stava cercando; quello timido,
diffidente, logorroico e con fin troppi pensieri per la testa, talmente arguto
da preoccuparlo. «Stiles».
Gli occhi
d’ambrosia brillarono nell’oscurità calante, il viso si alzò verso l’alto, incitato
da quel richiamo e l’attenzione si catalizzò sul lupo. Apparivano distanti,
offuscati, esattamente come lo erano stati quelli dello Stiles adolescente,
lontani e adombrati, con la mente altrove e l’esistenza esclusiva della
tangibilità del suo corpo.
Il tenero
Stiles, la sua piccola volpe, era stato calamitato dal potere che il Nemeton aveva su di lui.
«Perché mi
fai questo?» domandò Derek con la rabbia crescente che l’aveva accompagnato
dalla telefonata con la cacciatrice, le sue notizie di malaugurio e
l’incapacità di portare a termine un compito semplice. «Perché mi stai punendo
in questo modo?».
Stiles lo
guardò per un attimo assente e poi emerse il caramello autentico delle sue
iridi, quelle attente, quelle consapevoli di chi fosse e avesse davanti. Quelle
che riuscivano a vederlo. «Derek».
Non era il
suo Stiles diciasettenne, quello che l’amava con tutto se
stesso, era la sua piccola volpe che gli voleva un bene dell’anima, la sua
unica guida in quel mondo che gli appariva estraneo e nemico. «Lo sai cosa
significa sparire? Cosa significa per me vederti sparire?» gli urlò contro il
licantropo, furioso, baritonale e con i denti stretti, le scintille blu
elettrico nelle gemme di smeraldo che si mostravano ad intermittenza,
controllandole con grande fatica.
Stiles
quasi inciampò sui suoi stessi piedi, gli occhi sgranati ed interdetti,
immobile su quei passi che l’avevano condotto lontano dalla boscaglia, davanti
alla vista del licantropo, sotto la luce dell’unico satellite della Terra. Non
proferì parola e Derek sapeva che era un cattivo segno.
«Stiles»
era sull’attenti, un soldatino perfettamente addestrato, consapevole che di lì
a poco si sarebbe abbattuta una tempesta senza controllo. «Non devi farlo mai
più» il mutaforma lo prese di peso, accostandolo al fianco, tenendolo stretto
con un braccio, mentre con l’altro tentava di togliere tutta la polvere di
terriccio che aveva addosso, impiastricciandogli persino il viso. «Non
allontanarti mai più. Non scappare mai più».
Le iridi
d’ambrosia si inumidirono ed il labbro inferiore tremò. «Mi dispiace».
Era una
voce rotta, confusa, provata e che non riusciva a capire appieno cosa le stesse
capitando intorno. Tutto quello che Derek riuscì a fare fu premerlo ancora più
forte contro di sé, affondare il naso tra i capelli sottili e castani della
creaturina che teneva tra gli arti superiori ed il cuore che cominciava a
rallentare lentamente dopo lo spavento. «Sei la persona più importante per me,
Stiles».
Il
corpicino fu scosso dai singhiozzi ed il bambino inspirò pesantemente dalle
narici. «Scusa» proferì come un frammento di vetro incastrato nella trachea, la
consapevolezza di aver recato del dolore a colui che non smetteva di prendersi
cura della sua persona, delle rogne e seccature che continuava a dargli. «C’era
questo canto, mi faceva male alle orecchie, non riuscivo a farlo smettere».
Il canto. Derek si
scosse leggermente dalla testolina, voltando la propria nella direzione da cui
il cucciolo d’uomo era provenuto, continuando ad incontrare un sentiero che mai
gli sarebbe stato permesso di individuare, di percorrere. «Lo senti ancora il
canto?».
«No» disse il figlio dello sceriffo dopo un attimo di
dubbio, come se l’avesse notato solo in quel momento, facendo mente locale e
rendendosi conto che il suono che gli bucava i timpani si era esaurito. «È
finito».
Era finito
davvero? «Chi cantava?».
Stiles alzò
il viso per la prima volta da quando il mannaro l’aveva catturato tra le
braccia, fissandolo come se avesse detto qualcosa di pazzesco ed inconcepibile.
«Non lo so».
Stiles
semplicemente non aveva idea con chi o cosa avesse a che fare. «Perché pensi
abbia smesso di cantare?» Derek si chiedeva che tipo di litania fosse.
«Mh» Derek lo vide spremersi le meningi, concentrarsi e
corrugare la piccola fronte. «Sono arrivato e ha smesso».
Bastava
così poco? Serviva soltanto quello? «Perché stava cantando? Voleva qualcosa da
te?».
Stiles
contrasse gli occhi, come se tentasse di recuperare la memoria, dare un senso
alle domande che Derek con moderazione e con gli intervalli giusti gli poneva.
«Non lo so, non mi ricordo».
Era così
che funzionava? Il Nemeton l’attirava a sé e Stiles
doveva correre senza nemmeno sapere il perché, togliendogli perfino i ricordi
di ciò che era avvenuto? «L’hai sentito altre volte?».
«No» scosse negativamente il capo ad accompagnare la
risposta.
No, forse lo
Stiles di cinque anni non l’aveva ancora sentito, non era stato acchiappato ed
imprigionato da quella cantilena che l’attirava a sé senza riguardo per
nessuno, nemmeno per Stiles stesso. Ma lo Stiles di diciassette anni l’aveva
sentito eccome e si era volatilizzato.
Possibile
che il Nemeton l’avesse richiamato a sé dopo la
maledizione che gli aveva scagliato contro perché aveva attivato un nuovo
processo? «Stiles, la prossima volta che sentirai di nuovo questo canto, non
andare via da solo. Informami o informa chiunque sia con te ed andremo dove ci
dirai di andare».
Gli occhi
spalancati di Stiles si rimostrarono, ancora liquidi e pieni di sensi di colpa,
ma Derek non voleva vederli così, non voleva mai vederli sofferenti. «Scusami
tanto, Der».
Derek lo
circondò meglio con gli arti lunghi, accarezzandogli la schiena con tutta la
dolcezza, l’intenzionalità di calmarlo e rassicurarlo, schioccandogli un bacio
pieno di premura sulla fronte aperta. «Non importa, stai bene».
Proteggere
quel bambino era la missione della sua vita e non avrebbe permesso che gli
venisse strappato nuovamente.
Stiles
cadde in una fase di mutismo perpetuo e Derek era troppo fuori di sé per
incitarlo a parlare, a tirar fuori ciò che aveva dentro; tutto quello che
doveva fare era rimanere vigile, tenere gli occhi sulla strada e non strappare
il volante come aveva voluto fare un’ora prima. Quando finalmente entrarono al
loft le cose non erano cambiate.
Ad attenderli,
come gli aveva espressamente consigliato, vi erano le due ragazze, la bionda
fragola che sedeva apparentemente tranquilla sul divano e la cacciatrice che si
aggirava per il monolocale agitata e nervosa.
Il
portellone scorrevole fu aperto ed entrambe si voltarono nella direzione da cui
proveniva il rumore metallico e strisciante, saltando in aria speranzose.
«Stiles!» esclamarono all’unisono, precipitandosi verso il bambino ed
accerchiandolo velocemente. «Stai bene? Sei tutto intero?» non dovevano nemmeno
porgliele certe domande, stavano testando di mano propria in che condizione
fosse la creaturina, se avesse ferite o se apparisse spaventata e provata
dall’esperienza che aveva vissuto.
Derek non
ci stava affatto. «Era tuo compito, vostro compito, provvedere a lui ed invece
siete riuscite a perderlo. Dentro casa».
Allison
tentò di reggere bene il colpo. «Mi dispiace, Derek. Ci siamo distratte un
attimo e…».
«Vi siete
distratte? È l’unica giustificazione che hai?» la voce alta riecheggiò per
l’unica immensa camera, il disprezzo che in quel momento sfociava a fiumi e
l’ira che non poteva trattenere in alcun modo. «È un bambino, Allison. Un
bambino. Non devi togliergli mai gli occhi di dosso» era già impensabile farlo
con il sopraggiungimento prossimo dell’età adulta, ma in quelle fattezze non
era minimamente discutibile. «Non ha diciasettenne anni, non è quello a cui
siete abituate. Non sa gestirsi da solo, non deve nemmeno farlo. Dovevate
soltanto tenerlo d’occhio».
«Non
gettarci addosso i tuoi sensi di colpa» graffiò senza pietà la banshee, stanca
di venire attaccata ed ancora di più sull’insistenza di Derek di abbattersi su
Allison. Lupo e cacciatrice, certi aspetti non cambiavano mai.
All’improvviso
i suoni si cancellarono dal loft ed una pesante aria cadde su di loro.
«Vuoi
giocare, banshee?» il tono vocale del mutaforma era di un’incandescente lama
che affondava imperterrita.
«Ragazzi,
per favore» la mora si pose in mezzo, cercando di addolcire la pillola e non
farli scattare come bestie che si sarebbero distrutte. Era preoccupata, non
tanto per quei due, ma per come avrebbe reagito Stiles che li fissava dal
centro della stanza, senza sapere cosa dire e somatizzando tutto ciò che vedeva
ed udiva.
«Non ci
saremmo mai dovuti preoccupare di lui in questo modo» disse la bionda fragola
indispettita, le fiamme che ardevano nelle iridi di smeraldo. «È in queste
condizioni a causa tua, perché tu hai preferito anteporre te stesso a lui,
quando per una volta nella tua miserabile vita potevi scegliere il bene di
qualcun altro. Ma no, tu hai deciso di lasciarlo. Hai deciso perfino di non
metterlo al corrente, tutto questo perché non potevi confessargli che lo amavi
anche tu».
«Lydia» la
sgridò a chiare lettere la cacciatrice, alzando il tono vocale ed assestandole
uno sguardo di ammonimento.
Ma era
troppo tardi, Derek si era irrigidito, indurito per una verità non espressa e
non ancora confermata che gli veniva sbattuta in faccia e Stiles aveva
cominciato a piangere incontrollatamente. «Per favore, smettetela. Non
arrabbiarti con loro, Derek. È colpa mia».
Stiles era
esploso, si era spezzato più di quanto ad un bambino di qualsiasi età potesse
accadere e lo stesso senso di inadeguatezza, di aver commesso un errore fatale,
la parola o gesto sbagliato, si ripercuoteva su di lui, esattamente come
capitava allo Stiles diciassettenne che sapeva mascherarlo bene ed al lupo
dalle iridi di ghiaccio.
«Stiles»
Allison provò a chiamarlo senza risultato, vedendolo sparire in un attimo dalla
loro vista, nascondendosi ai loro occhi e giudizi, dal litigio incomprensibile
alle sue orecchie che i tre stavano portando avanti.
Le loro
cattive azioni avevano commesso un enorme danno.
L’immobilità
nel monolocale perdurò per attimi interminabili, cristallizzati ed infiniti.
Perfino il respiro appariva congelato.
Allison
indirizzò un segno eloquente alla banshee che la esortasse ad allontanarsi ed
uscire dall’appartamento, antecedendo ad una catastrofe che aveva previsto nel
momento in cui Derek e Lydia sarebbe ritornati padroni di loro stessi. La rossa
si mobilitò controvoglia ed ancora combattiva.
La
cacciatrice prese un profondo respiro, diede un’ultima occhiata in giro alla
ricerca di un bambino che non trovava, ma di cui sentiva i continui ed
interminabili singhiozzi che si bloccavano nella gola e che soffocava dietro le
manine. Perché riuscivano a distruggerlo così facilmente quando lui viveva per
proteggerli? «Mi dispiace davvero, Derek. L’hai affidato a me perché sono la
seconda persona di cui si fida di più dopo di te e ti ho deluso».
Chi
deludevano davvero era Stiles. Non riuscivano a salvaguardarlo nemmeno nel
momento in cui era maggiormente vulnerabile. «Non è colpa sua» proferì Derek
profondamente e conscio del significato di quelle parole. «Il Nemeton l’ha chiamato a sé» e continuavano ad essere
sprovvisti della motivazione che muovesse i fili di quegli strambi eventi
incomprensibili.
Derek
benediva la struttura del suo appartamento, nessun numero sproporzionato di
camere, nessuna tipologia di porta che poteva essere sigillata ed a cui non
avrebbe avuto accesso, che non poteva nemmeno essere sbattuta per comunicare
dissenso e rabbia. Nessun posto dove andarsi a rintanare dopo che si aveva
subito un brutto colpo.
Stiles
l’avrebbe fatto, si sarebbe nascosto da qualche parte, girando la chiave e
bloccando la serratura, continuando a piangere.
In verità,
l’aveva fatto.
Nel momento
in cui il monolocale si era svuotato e le voci erano sparite, tutto ciò che era
rimasto era l’odore salmastro delle lacrime del bambino, i gemiti ed i singhiozzi,
il continuare ad inspirare profondamente dal naso provocando rumore. Derek
aveva provato a riprendere il controllo di sé e ad avvicinarsi per calmarlo,
confortarlo, dirgli esplicitamente che non era minimamente colpa sua, ma lo
sguardo che Stiles gli aveva rivolto era spietato, bruciante, pieno d’acqua, ma
devastante. Gli aveva urlato contro di rimando ed era scappato via, chiudendosi
nel bagno.
Ecco,
quella possibilità non l’aveva presa in considerazione; per quanto in passato,
al loro primo approccio, il cucciolo d’uomo si fosse dimostrato fin troppo in
sintonia nel far scattare una serratura a cinque anni, Derek aveva dimenticato
che effettivamente una stanza in cui chiudersi nel suo appartamento da una sola
immensa camera esisteva. Stiles aveva ragionato immediatamente sull’aspetto.
La creatura
della notte sapeva che non poteva seguirlo, che non poteva semplicemente
abbattere la porta anche se ne aveva le capacità; tutto ciò che gli rimaneva da
fare era sedersi sul pavimento, accostare la schiena al muro accanto all’unica
uscita ed attendere.
Attendere
con il piagnisteo di Stiles che non si arrestava e che gli lacerava i timpani.
Lo Stiles adolescente
non piangeva mai, non mostrava in che condizioni in realtà fosse, quanto
venisse turbato da ciò che gli accadeva intorno, quanto male le persone a lui
più vicine gli arrecassero. Stava in silenzio, stringeva i denti, riempiva il
vuoto con la sua voce risonante ed a tratti acuta, ma profonda nella maggior
parte del tempo, permettendo che l’attenzione che potesse concentrarsi su di
lui venisse dirottata. Rimaneva in un angolo oscuro e nascosto nel suo privato,
non dando accesso a nessuno. Per quanto le iridi fossero spesso liquide e
pronte a trasformarsi in gocce di sale, Stiles non permetteva mai che
scivolassero via. Se non in casi estremi quando lo pregava disperatamente.
Era da
quelle rarissime stille d’acqua autentiche che Derek veniva risvegliato e
portato a credere ciecamente in lui, mobilitandosi per fargli ottenere ciò che
il terrore della perdita esigeva indietro, esattamente com’era accaduto con il
Darach.
Il Darach, l’inizio
della fine a cui Derek aveva dato il colpo di grazia.
Gli ingranaggi
della serratura scattarono ed uno Stiles stremato varcò la soglia, un pugnetto
a strofinarsi un occhio e l’altro a tirare verso il basso la maglia ancora
sporca di terriccio.
Derek
trattenne il fiato quasi a non volersi far notare, ma la sua presenza era
evidente ed il figlio dello sceriffo si voltò nella sua direzione alcuni attimi
dopo, mostrandogli gli occhi rossi dal pianto. Lo Stiles diciasettenne non
piangeva, ma se non poteva permetterselo a cinque anni, quali altre occasioni
avrebbe avuto? «Sei ancora arrabbiato?».
Gli
chiedeva se fosse arrabbiato, lui? Quello più arrabbiato tra tutti era Stiles
stesso. «Non lo sono con te».
Il bambino
lo fissò a disagio, indeciso e leggermente ferito. «Voglio bene ad Allison».
«Lo so»
certo che le voleva bene, era stata la figura più vicina ad una mamma e la
migliore compagna di giochi che avesse mai potuto avere in quella situazione
bizzarra.
Stiles
rimase ancora sulle sue, piantato davanti all’entrata per il bagno,
l’incertezza che ancora lo accompagnava. «Non puoi perdonarla?».
«Perdonarla?»
ripeté Derek in un eco meditativo, analizzando il significato della parola.
«Non sono molto bravo a perdonare».
Gli occhi
della creatura si ingigantirono sbigottiti e le dita che prima si agitavano, si
fermarono di colpo. «Perché?».
Il mannaro
rispose con un semplice e conciso scuotimento delle spalle, non indicando
precisamente qualcosa e lasciando tutto nell’aria, ad interpretazione del suo
interlocutore. Lo Stiles adolescente sapeva bene perché fosse del tutto negato
per quel tipo di pratica.
Stiles
persistette a guardarlo nel silenzio misterioso che era calato ed improvvisò un
passo che Derek fece finta di non notare, poi ne percorse uno nuovo ed un
altro, a quel punto il lupo poteva solo aspettare che il suo piccolo inquilino
decidesse come procedere. «Non puoi perdonare nemmeno me?».
Derek si
girò di scatto, trovandolo quasi implorante ed afflitto da quella possibilità.
«Perdonarti?» lo attirò a sé e lo fece abbassare, portandoselo sulle gambe
distese. «Non hai nulla da farti perdonare» come poteva tormentarsi su
quell’aspetto? Come poteva prendersi delle colpe che non esistevano,
estendendole all’inverosimile?
«Stiles»
l’umano non era per niente persuaso ed al contrario sembrava provare maggior
dolore. Le dita di Derek gli solleticarono immediatamente una guancia sporca,
scostandogli i ciuffi ribelli che gli coprivano il visino. «Tutto quello che è
successo non è affatto colpa tua».
«Ma sono
andato via» ribatté Stiles con l’evidenza nelle parole, i fatti che si erano
susseguiti.
«Ti sei
solo allontano ed hai continuato a camminare perché non c’era nessuno che ti
fermasse» era nella natura di ogni bambino prendere il largo, sparire dalla
vista dei genitori o di chi aveva il compito di salvaguardarli; la curiosità
aveva la meglio e bastava una singola distrazione per vederli volatilizzarsi.
Con Stiles era triplicato all’infinito. Soprattutto con il Nemeton
attivo. «Non devi fare l’adulto, Stiles. Sono le persone più grandi che devono
occuparsi di te. Allison doveva soltanto stare attenta e non l’ha fatto».
«Potevo
tornare indietro» continuava a non essere convinto pienamente e Derek purtroppo
riusciva a capirlo.
«No, non
potevi» non con il Nemeton in testa che lo attirava a
sé, ammaliandolo con il suo canto ed impedendogli di compiere qualsiasi scelta
razionale. Ma Stiles non era in grado di comprenderlo.
Il cucciolo
umano ricadde in un silenzio meditativo, abbassando gli occhi e fissando un
punto a Derek estraneo, quasi cercasse di assimilare quanto detto per poi annunciare
una sua risposta. Era talmente innocente che riempiva il cuore maledetto della
creatura della notte. «E tu, Stiles, sai perdonare?».
Gli occhi
di autentico oro scattarono verso l’alto, incontrando le gemme magnetiche
dell’uomo, allargati e pieni di sorpresa. «Sì, penso di sì».
Sì, le labbra
del lupo si arricciarono automaticamente all’insù ed apparivano colme d’affetto
tenero, ma piene di rammarico. «E puoi perdonare anche me?» Stiles non era
realmente capace di perdonare, ma uno dei suoi talenti era rivalutare le
persone con cui aveva a che fare. Non comunicava a voce il suo cambiamento di
visione, ma supportava con il suo essere sarcasticamente brutale, condividendo
i suoi pensieri e ragionamenti su tutto il resto.
Il figlio
dello sceriffo sbatté le palpebre diverse volte, disorientato, estraniato da
ciò che gli veniva comunicato, dalla possibilità che gli veniva proposta e che
non afferrava in alcun modo. «Perché dovrei?».
«Potrei
aver fatto qualcosa di male» di molto male. Era stato talmente crudele da
distruggerlo, da relegarlo in quella parte di se
stesso che sarebbe dovuta essere in grado di proteggerlo ed il Nemeton aveva agito di conseguenza.
«Ma io ti
voglio bene» proferì con candore, restio a comprendere bene la situazione, un
concetto che gli era parecchio anomalo. Non vedeva alcun motivo per cui avrebbe
dovuto perdonarlo o trovarsi nel caso di non esserne in grado.
Derek
soffocò una risata amara, che uscì a metà ed il cuore arrancò un altro colpo.
«A volte non basta».
Le manine di
Stiles andarono a circondargli il volto, una per lato, risultando più piccole
di quanto Derek avesse supposto. Era tutto più grande di quanto un bambino
potesse sopportare, ma le iridi d’ambra erano inequivocabili, determinate e
piene d’amore senza necessità di compromessi. «Ti voglio bene e ti perdono».
Chi era
quella creaturina che aveva il dono di liberarlo dall’oscurità che
l’accompagnava dai suoi quindici anni, dal peccato di cui si era macchiato e
dalla devastazione che aveva portato, divenendo l’artefice della cancellazione
della sua stessa famiglia? Della sua felicità?
Derek aveva
perso tutto nella sua miserabile ed immotivata vita e Stiles, qualunque Stiles
avesse davanti, era in grado di riconsegnarglielo.
Con la
morte nel cuore si chiese se anche lo Stiles diciasettenne fosse in grado di
perdonarlo.
Era passata
un’intera giornata dalla bufera targata il
ritorno del Nemeton e Derek percepiva che
qualcosa non andava per il verso giusto.
Come gli
era già capitato di notare nei giorni precedenti, Stiles si lasciava andare al
sonno con maggiore facilità e quel soggiorno si prolungava sempre un po’ di
più, cedendo al regno di Morfeo nei luoghi più disparati, finché non arrivò il
momento in cui di svegliarsi non ne voleva proprio sapere.
«Stiles, è
ora di andare dal tuo papà» Derek tentò la carta che sapeva avrebbe raccolto
maggior risultato, un appuntamento fisso che avevano quasi quotidianamente e
che faceva sentire il cucciolo umano tranquillo e con una parte della famiglia
perennemente con lui. Era necessario, era immancabile e Stiles non se lo
sarebbe perso per nessuna ragione al mondo.
Ma quella
ragione stava sorgendo.
Stiles era
crollato ai piedi del letto, lontano da qualsiasi oggetto potesse prendere il
posto di un cuscino, simularlo in qualche modo, e Derek aveva pensato che
avesse bisogno di recuperare le energie per ridursi in quello stato. Per tutto
l’arco delle ore giornaliere Stiles aveva perlopiù dormito ed il tempo dedicato
al gioco si era ridotto all’osso.
Lo scosse
leggermente, poi con maggior intenzione, ma l’unica cosa che otteneva erano dei
mormorii ed il continuare a ronfare.
Derek non
aveva molta scelta e decise di prenderlo di peso, facendogli indossare una
giacca della sua misura ed evitando di combattere con le scarpe. Non aveva nemmeno
senso cambiarlo, per tutto il giorno era rimasto dentro il suo amato pigiamino
verde pastello e non c’era stato verso di toglierlo.
Lo fece
distendere sui sedili posteriori, stando bene attento a non fargli sbattere la
testa o qualsiasi arto del corpo, procedendo adagio verso la stazione di
polizia.
«Ehy, Stiles» quando arrivarono le cose non erano cambiate
di una virgola, il tentativo di svegliarlo andò a vuoto e Derek fu costretto a
prenderlo in braccio, a stare molto più attento ad estrarlo dalla Camaro,
abbassando il sedile anteriore e spostandolo in avanti, permettendogli di avere
più spazio per prenderlo e portarlo via.
L’edificio
pieno di agenti non si sorprendeva più di vedere quasi ogni giorno il bruto
Derek Hale con un bambino al seguito, spaventosamente simile a quello che era
stato il figlio dello sceriffo nell’età infantile, trattandolo come se tra le
mani custodisse la reliquia più sacra esistente. Non appariva tanto bruto
quando era in compagnia del cucciolo tutto occhi.
Il mannaro
bussò appena alla porta della massima autorità della città per annunciarsi,
aprendola ed entrando immediatamente. «Ehy, ragazzi,
stavo cominciando a preoccuparmi» li accolse con un sorriso limpido sul viso,
la cena d’asporto che l’uomo aveva ordinato per tempo già pronta sulla
scrivania, con tutto ciò che rendeva Stiles ghiotto.
Ma quella
curva verso l’alto si spense quando Derek scosse la testa con fare negativo,
quasi avesse comunicato tutto quello che c’era dietro con la singola occhiata
che gli aveva rivolto. «Sta dormendo» disse il mannaro in una spiegazione più
eloquente, tenendo saldamente il pargolo con una mano premuta sulla schiena.
«In realtà è tutto il giorno che dorme».
«Oh» vocalizzò Noah,
aggrottando lievemente la fronte. «Potevi lasciarlo dormire e passare domani».
«No» negò con evidenza il licantropo, passando il
piccolo umano al padre che lo prese prontamente tra le braccia. «Non si sarebbe
mai perdonato di aver mancato l’appuntamento» Stiles aveva davvero bisogno di
vedere il genitore regolarmente. Sia per se stesso che
specialmente per lo sceriffo.
L’uomo di
legge comprese i pensieri del lupo e quelli intrinsechi del figlio che venivano
espressi in sua vece, annuendo in risposta ed allontanandosi di qualche passo
con il fagotto per creare una sorta di intimità tra loro. «Ehy,
volpacchiotto».
Stiles
borbottò nell’incoscienza, riproducendo versetti impastati dal sonno che non ne
voleva sapere di defilarsi e permettere quell’incontro sudato tra i due,
conducendo il bambino a lottare contro le palpebre serrate che si aprivano con
fatica. «Papà?».
«Ciao,
Stiles» lo accolse pieno d’amore familiare il capo della polizia, scuotendolo
leggermente in una danza ipnotizzante, lasciando affacciare un sorriso caloroso
ed un bacio di tenerezza su una tempia.
Il cucciolo
umano soffiò un saluto di rimando, allacciando come poteva un braccio sulle
spalle del padre, e stringendolo con le poche forze che il dormiveglia gli
permetteva. Era il suo modo di far intendere che era presente e riusciva a
percepirlo intorno a lui.
Da quel
momento Derek fu tagliato fuori.
«Hai detto
che ha dormito tutto il giorno?» chiese lo sceriffo una decina di minuti dopo,
accarezzando affettuosamente la cute della creaturina, scompigliandogli
teneramente le ciocche castane.
«Sì» affermò il mutaforma, seduto sulla sedia vicino
alla scrivania dove periodicamente rimaneva in attesa, ma che la maggior parte
delle volte lo accoglieva come ospite a trecentosessanta gradi.
«Mh» Noah scese in uno stato
meditativo, andando indietro con i ricordi e posando le labbra sulla fronte
aperta del bambino che continuava a tenere gli occhi chiusi, sconfitto nella
sua battaglia per rimanere sveglio, ma facendosi sentire attraverso mormorii
che lo tenevano legato al mondo terreno, rispondendo alla voce del padre che
interagiva con lui. «È un po’ caldo».
Le
sopracciglia della creatura della notte si rizzarono e le pupille nere si dilatarono,
irrigidendosi nella seduta composta. «Cosa vuol dire? Che ha la febbre?».
«Forse»
soppesò l’uomo di legge, poggiando a sua volta la fronte su quella del figlio,
comparando la temperatura corporea differente. «Qualche linea».
Derek
divenne una maschera di panico. «Non l’ho notato».
Lo Stiles
adolescente avrebbe adorato vederlo sfiorare l’agitazione e lo sceriffo non
riuscì a trattenere quell’inarcarsi delle labbra verso il tetto, tra un misto
di divertimento e compassione. «È normale, Derek. Avrai anche tutte le tue
abilità lupesche ad aiutarti, ad avvertirti, ma non hai mai avuto a che fare
con qualcuno che può prendersi un semplice raffreddore e cedere ad esso. E hai
anche fin troppe cose per la testa per accorgerti se la sua temperatura è cambiata,
soprattutto se lievemente».
Non era
vero, Derek non era d’accordo. «Mi accorgo di tutti i cambiamenti di Stiles»
era nato con tutti quei sensi sviluppati per un motivo e non l’avevano mai
tradito, soprattutto se riguardava Stiles. Pensare che potesse essere accaduto,
che si presentasse in qualche modo la possibilità, non lo entusiasmava in
alcuna maniera.
«Ah, ne
sono convinto» certo che sì, Derek viveva per quel bambino. E per Stiles in
ogni sua sfaccettatura.
«Cosa
dovrei fare?» il mannaro non era pienamente convinto di voler indagare su
quanto lo sguardo dello sceriffo andasse oltre le parole e le implicazioni che
il suo tono di voce consapevole gli avesse comunicato.
«Tienilo
lontano dalla corrente, se vuole dormire lascialo dormire, ma non permettere
che salti i pasti» elencò sapientemente il genitore, riportando alla mente come
ci si comportava in quelle situazioni, soprattutto avendo a che fare con un
essere così piccolo. Erano circa sette anni che non doveva più occuparsi di
Stiles sotto quell’aspetto, riusciva a cavarsela sempre autonomamente.
«Dovrebbe passare da sola, ma se peggiora o va avanti, passeremo alle maniere
forti».
Nell’inesperienza
di Derek, che tutto legava all’autoguarigione che richiedeva tempo senza dover
fare nulla – se non spezzarsi un osso di tanto in tanto per attivarla –, non
poteva far altro che affidarsi a chi ne sapeva più di lui sulle sfaccettature
da comune mortale.
«Ciao,
piccola volpe» Derek aveva realmente provato a seguire le indicazioni che gli
erano state suggerite, a lasciare che l’arco delle giornate passasse
rispettando i suoi orari sempre più lunghi di sonno, lottando per svegliarlo
ogni volta che giungeva l’ora di mangiare e tenendolo il più riparato
possibile, senza soffocarlo. Ma la temperatura corporea non scendeva ed al
contrario non faceva altro che alzarsi, gli occhi di Stiles si aprivano sempre
meno ed il respiro era arrancato e pesante. Derek vigilava su di lui come un
avvoltoio, costantemente ai piedi del letto a tenerlo d’occhio, a controllare
quanto aumentasse il calore e quanto il volto fosse rosso e pallido. Aveva
provato ad assorbire i suoi mali e il suo dolore attraverso il dono del suo
essere sovrannaturale, ma le vene non si erano mai tinte di inchiostro nero e
non era riuscito a sottrargli un solo attimo di agonia. Aveva dovuto ricorrere
ai vecchi metodi tradizionali umani, riempiendo il freezer di cubetti d’acqua
che dovevano trasformarsi in ghiaccio, svuotando il supermercato di ogni
surgelato possibile e tamponando la fronte del bambino con tutto quello che di
freddo aveva in casa. Ma non variava di un grado e Derek aveva cercato in ogni
modo di rimandare dall’informare lo sceriffo delle condizioni del figlio, ma ad
un certo punto si era visto costretto ad agire di conseguenza e correre a far
partire una chiamata.
Quando era
stato chiaro che qualunque terapia umana leggera non portasse risultati, era
intervenuto Deaton stesso, ma non conosceva una cura
che potesse aiutarlo, capire che cosa fosse accaduto. L’incognita rimaneva il Nemeton che lo sovrastava ed aveva la meglio su qualsiasi
mano esterna.
«Sembra sia
in incubazione» aveva proferito il druido con espressione grave dopo che aveva
provato per la seconda volta ad iniettargli qualcosa che potesse farlo stare
meglio, almeno tentare di alleviarlo, ma continuavano a non avere riscontri.
Derek
l’aveva guardato storto, inarcando le folte sopracciglia e giudicandolo
apertamente. «Vuoi dire che sta covando ben altro?».
«Voglio
dire che sembra si stia preparando ad una nuova fase» dichiarò il veterinario,
accostando una mano alla fronte grondante di sudore del cucciolo d’uomo. «Ma
non so che fase sia. È scaduto il tempo? Il suo corpo ed il Nemeton
stanno valutando come procedere? Potrebbe crescere o rimanere in queste
condizioni?».
«Sta
raccogliendo le energie» proferì Derek in un sussurro, improvvisamente
illuminato dal significato che potesse rappresentare quel nuovo aspetto di
quella storia fuori da ogni logica.
«È una
possibilità» confermò Deaton, riponendo il sacchetto
di ghiaccio che Derek cambiava ogni ora, ogni volta che si accorgeva che non
bastava più. «Qualsiasi cosa accadrà, deve averne bisogno e questo è il suo
modo di affrontarlo».
In
qualsiasi maniera si fossero mobilitati, non sarebbero riusciti ad averla
vinta. «È scaduto il tempo» Derek lo realizzò con un masso sul petto, a
schiacciargli le costole e perforargli i polmoni.
Osservò il
bambino disteso scomposto sul materasso a due piazze, le coperte completamente
scacciate sul fondo del letto, lontane da qualsiasi strato di epidermide. Non
aveva più il suo pigiamino verde con i lupi, era troppo pesante e zuppo di
sudore e Derek l’aveva già lavato due volte in un solo giorno. Tutti gli altri
che Stiles non aveva mai toccato erano troppo spessi e comportavano lo stesso
problema, tutto ciò che rimaneva erano le maglie primaverili ed estive del lupo
che teneva nei ripiani vicini, le uniche con un tessuto leggero e che gli
dessero possibilità di movimento. Erano enormi e gli coprivano le gambe fino ad
oltre le ginocchia, ma erano gli indumenti con cui Stiles soffriva meno.
Il figlio
dello sceriffo apparve rispondere al saluto carico di affettuosità da parte del
mannaro, muovendo parzialmente il capo verso la direzione della voce e
rispondendo con versi che non riproducevano alcuna parola.
Derek gli
baciò la punta del naso e le labbra della creaturina si curvarono appena verso
l’alto. Non c’era nessuno in quel monolocale adombrato, illuminato soltanto dai
raggi lunari che filtravano dall’immensa vetrata. Erano soltanto loro due a
combattere l’universo. «Lo sai quanto sei prezioso per me?» o loro stessi.
Il
mutaforma si distese accanto a lui, sistemandogli meglio la maglia che
persisteva ad alzarsi e scoprirlo. «Quanto tu sia la persona più importante per
me?».
Come poteva
saperlo, non glielo aveva mai confessato. Quando Cora era riemersa da quello
che Derek credeva il regno dei morti, tutta la sua attenzione si era rivolta a
lei, alla sua salvezza, a tenerla viva e Stiles non gliene avrebbe mai fatto
una colpa, era felice che il licantropo non fosse più solo al mondo, che parte
della sua famiglia fosse ancora integra; che una parte di quello che aveva
perduto fosse tornata. Derek aveva rinunciato al suo stato di Alpha per lei e
non serviva nessuna spiegazione. Forse Stiles gli avrebbe perfino perdonato di
aver scelto lei invece che lui, che non fosse stato in grado di poterli avere
entrambi, trovando una soluzione per convivere nella stessa città o
inventandosi qualsiasi cosa per mantenere i rapporti.
No, Stiles
avrebbe accettato di buon grado la scelta genuina di Derek di seguire la
famiglia ritrovata, quello che non gli avrebbe mai perdonato era di aver scelto
la codardia sotto forma di Cora. Di averla presa come scusa per andare via e
non tornare più.
Non aveva
deciso di seguire la sua sorellina ritrovata per pura bontà d’animo, con il
preciso scopo di non trarre alcun vantaggio, al contrario aveva colto
l’occasione al volo per salutare se stesso, con la
recondita possibilità di riabilitarsi, di lasciarsi tutto alle spalle e
dimenticare. Non mettere più piede nel luogo che gli aveva sottratto tutto ciò
che aveva ottenuto, perfino la sua stessa umanità. Per Derek, Beacon Hills era
solo sinonimo di male e dei continui errori che aveva ripetutamente fatto
accadere, del sangue di cui voleva persistere a macchiarsi e che Stiles insieme
a Scott gli avevano impedito di far sgorgare. Ma esisteva del sangue versato da
cui non avrebbe mai potuto pulirsi. Anche se Stiles aveva fatto di tutto per
coprire le sue mani con le proprie e nasconderlo, prendersi metà del carico di
dolore e colpevolezza che l’omicidio brutale ed immotivato di Boyd aveva comportato, schiacciando definitivamente un
Alpha che in quell’istante aveva cessato di esistere. «Sei tutto ciò che mi
resta».
Il respiro
della piccola volpe si fece rauco, quasi graffiante, talmente allarmante che
spaventò Derek, portandolo a scattare sul letto e ad ampliare i sensi
ipersviluppati. «Stiles» ma il bambino sembrava non sentirlo affatto, sordo
alla sua voce ed a qualsiasi cosa gli stesse comunicando.
Gli toccò
la fronte bollente che quasi gli scottò una mano e Derek impallidì a quella
rivelazione. «Ti prego, Stiles, torna da me» lo prese di peso, lasciandolo
accomodare tra le sue braccia, sistemandoselo sul petto e tenendolo stretto.
«Farò qualunque cosa, ma torna da me».
Era fuoco,
era come stringere tra le mani lingue fiammanti rosse e blu, sentire la lava
scivolare sull’epidermide e carbonizzarla, eppure nell’attimo in cui il mutaforma
l’aveva preso con sé, il respiro di Stiles era tornato regolare, seppur ancora
pesante e profondo, ma non sembrava più il raschiare di una grattugia
arrugginita.
Era quello
il segreto? Era la costante presente fisica di Derek a fare la differenza?
Non ti sarei bastato? La domanda riecheggiava nella mente del lupo mannaro. Era stata la prima
volta in cui Stiles aveva espresso chiaramente il sentimento che c’era tra
loro, dandogli corpo, rendendolo concreto e tangibile, cancellando il patto di
tacito consenso, il silenzio che nascondeva la verità.
Lo so che ogni cosa qui ti ricorda i tuoi
fallimenti ed errori. La famiglia e il branco che hai perso, i continui
tradimenti che hai subito ed i sacrifici che hai fatto, Stiles conosceva tutto di lui, sapeva captare e comprendere i suoi
pensieri e tormenti senza alcuna fatica. Sapeva esattamente come si sentisse,
che cosa l’avesse mosso a decidere di abbandonare Beacon Hills ed a voltare le
spalle al passato come se non fosse mai esistito. Cancellare tutto quello che
aveva conosciuto. Chi aveva conosciuto. Non
sono abbastanza? Stiles aveva dedotto che se era intenzionato ad archiviare
tutto quello che gli era successo per tentare di ricostruirsi una vita o quanto
meno non lasciarsi divorare dai sensi di colpa che non facevano altro che
sormontare ed aumentare, allora era logico e consequenziale che Derek l’avrebbe
dimenticato. Derek avrebbe dimenticato volutamente Stiles.
La creatura
della notte accostò la fronte a quella del cucciolo d’uomo, invaso dal calore
bruciante che proveniva dal corpicino, circondandolo con tutta la lunghezza
degli arti superiori ed avviluppandosi intorno a lui. «Stiles» non valgo la pena. Che stolto era stato.
«Ne vali la pena» che terribile stupido si era dimostrato. «Vali ogni pena di
questo mondo. Vali ogni goccia di sudore che ho versato, le persone che
purtroppo ho perso. Il dolore che ho patito» inspirò a pieni polmoni l’odore
febbricitante del figlio dello sceriffo, il bagnato portato dalle ghiandole
sudorifere, ignorando le vene che per la prima volta si tingevano di nero,
permettendogli di sottrargli parte del male che provava. «Sei la cosa più bella
che mi sia capitata negli ultimi sette anni. Se tutto quello che ho perso e le
avversità che ho incontrato mi hanno condotto a te, io l’accetto» non poteva
più fuggire, non poteva più negarlo. Lo rivoleva a tutti i costi indietro. «Con
te ho rivalutato tutta la mia vita».
Si distese
stremato sul materasso, trascinando Stiles con sé che non aveva nemmeno la
forza di ribellarsi o di comunicare il suo dissenso, tenendolo ancorato a sé e
non allentando l’abbraccio che li legava, cullandolo passivamente. «Vali la
pena» cantilenò più volte, nella stanchezza che precipitava a fiumi e che
l’aveva visto vegliare sul bambino per più di quarantotto ore senza mai
chiudere le palpebre per raccogliere le forze.
Morfeo
aveva deciso di portarlo via e Derek non poteva resistere a quella malia dolce
ed accogliente, che gli prometteva il riposo di cui necessitava, la quiete di
cui aveva bisogno, assicurandogli di restituirlo all’esserino prezioso che
stringeva tra le braccia la mattina successiva.
Appollaiate sulle sue spalle in attesa, anche la
temperatura corporea che si abbassava e la metamorfosi che prendeva forma
avevano qualcosa in serbo per lui in quella medesima alba. Il cambiamento ed il
risultato delle sue azioni.
Che
scoppiasse una bomba tra lui e le ragazze era inevitabile, come l’accanimento
di Lydia nei suoi confronti, lo sbattergli in faccia la verità senza che lui
fosse pronto ad affrontarla. Stiles non vive benissimo i loro scontri, ne fa
una propria colpa e Derek non può fare a meno di provare empatia per lui, ma
allo stesso tempo deve mostrargli la verità, liberarlo dal peso che si porta
dietro. Ma non è anche quello che lo Stiles, ogni Stiles, fa per lui?
I
timori del lupo nei riguardi di Stiles si sono mostrati veritieri e benché non
capisca cosa gli stia succedendo, non può negarsi di realizzare i suoi desideri
anche nell’incoscienza; continuare a portarlo da suo padre e tutto quello che
può fare, come lo è cercare di trovare una soluzione con Deaton
che non ne è comunque in grado. Quindi, cosa gli rimane da tentare? Derek può
solo aspettare, sperare e ricoprirlo di quelle parole che non gli ha mai
confessato. Verrà ricompensato?
L’aggiornamento
per la settimana prossima ricadrà proprio il giorno di Natale e cercherò il
modo di postarlo ugualmente, senza ritardare troppo, non scendendo oltre il
ventisei. Vedremo cosa accadrà e possiamo dire tranquillamente che siamo alla
battuta finale.
A settimana prossima,
Antys