Four Seasons
-Raccolta-
Estate
Inuyasha –Kagome
Depressione post-parto.
Non ho mai sentito una parola del genere.
Cosa significa che Kagome
è in depressione post-parto?!
“Inuyasha, mi stai
ascoltando?”. Scuoto la testa, e mi concentro su Kaede.
O almeno ci provo, continuo a fissare il fagotto che la vecchia ha tra le
braccia. Il fagotto che, in quei giorni, ho solo intravisto. Ho una seria paura
ad avvicinarmene: sembra troppo delicato per poterlo toccare con i miei
artigli, e strilla troppo forte e troppo spesso.
“Capita che le donne con un parto difficile non
accettino il fatto di essere diventate madri”, continua a dirmi Kaede, “lasciare con lei la bambina sarebbe un rischio”.
“Non capisco dove vuoi arrivare vecchia”, sibilo,
fissandola bieco. Lei sospira, e mi molla il fagotto davanti.
“Kagome potrà solo
allattarla, ma per il resto devi badare tu a lei. Io non posso, già questi
primi dieci giorni sono stati infernali, e non ho più l’età per queste cose. Ho
già abbastanza daffare con i bimbi di Sango”.
La fisso. Lei si volta ed esce.
“Sei impazzita?!”, urlo scattando in piedi. Pessima
idea, il fagotto comincia ad emettere urli e strilli. Lo osservo in preda al
panico. Deglutisco, e lentamente lo prendo in braccio, facendo attenzione a
tenere le mie unghie ben lontane da lei.
Da mia figlia.
Rabbrividisco al pensiero. Come sono finito in
questa assurda situazione?
La creatura sembra calmarsi, e mi fissa. Mi fissa
con due grandi occhi dorati, con sguardo confuso e curioso.
“Che c’è?”, domando brusco, squadrandola. Lei ride.
Agita le manine felice, cercando di raggiungere una ciocca dei miei capelli.
“Che c’è da ridere?”, borbotto confuso. Lei si
limita ad acchiapparmi la ciocca in questione e a tirarla.
La mia relazione con mia figlia è cominciata così.
Con il mio urlo, con il suo pianto e con Kaede
che accorre – sospirando – dal cortile.
“Ti assomiglia molto”.
Storco il naso a questa affermazione, e Kagome ridacchia. La bimba ciuccia avida il latte dal suo
seno, e io mi limito a fare presenza perché obbligato da Kaede.
Dice che ha paura a lasciare la bambina da sola con lei.
“Hai deciso come chiamarla?”. Storco nuovamente il
naso.
“Perché devo deciderlo io?”, domando guardandola
male.
“Perché hai bocciato tutte le mie proposte”, si
limita a sbuffare lei. La guardo, mentre fissa la bambina. Ha uno sguardo
strano. In pochi attimi gli occhi le si riempiono di lacrime.
Scatto in avanti, togliendole la bimba dalle
braccia. Kaede si è molto raccomandata: stai attento
agli sbalzi d’umore.
“Non voglio! Ho solo diciannove anni!”, strilla lei
di colpo. Sango entra attratta dagli urli, e mi
caccia dalla stanza dicendomi che ci penserà lei. Esco dalla casa, la bambina
sta piangendo.
“Inuyasha, stai bene?”.
Concentro il mio sguardo su Miroku, che mi fissa
confuso. “Hai una faccia sconvolta”. Mi limito a mugolare in risposta.
“Stai attento, con questo caldo non devi portare
fuori la bambina di giorno”, si raccomanda il monaco prima di andarsene. E io
rimango solo, in mezzo al cortile e con una neonata urlante tra le braccia.
…
Uccidetemi.
È notte.
E io sono stato svegliato dagli urli di quel
maledetto fagotto.
Non vuole saperne di smettere di piangere, ed è
riuscita a svegliare persino Shippo. Il quale mi ha
cacciato via per cercare di dormire.
…
Sbaglio o ultimamente tutti mi cacciano?
Riciclerò frasi di Kagome
– delle quali ho capito il senso ma non il significato –, ma voglio essere
eletto specie protetta!
Sospiro, e decido di portare la bambina a prendere
un po’ d’aria fresca, dato che di giorno non può uscire per il caldo. È una
fresca notte estiva, e le cicale – fastidiose per il mio orecchio – sembrano
divertirla.
Comincio a correre, prima lentamente e poi veloce
come una scheggia. Avevo paura di spaventarla, ma sembra invece curiosa di
sperimentare la velocità. Finché non arrivo nel luogo dove desideravo portarla.
In riva al mare, vicino a Musashi.
La luna piena si riflette nel mare, e le onde si
infrangono dolcemente sulla sabbia bianca.
“Ecco qua”, esordisco rompendo il silenzio, “qui
puoi piangere quanto vuoi senza scocciare a nessuno”. La tolgo dalle fasce in
cui è avvolta, e la metto a sedere sulla sabbia. “Su! Piangi e agitati quanto
vuoi!”.
E, invece, lei mi fissa confusa con quegli occhi troppo simili ai miei. Questa somiglianza
mi da quasi fastidio. Poi distoglie lo sguardo da me, e allunga le sue manine
paffute verso un punto imprecisato.
Seguo il suo sguardo fino all’oggetto delle sue
attenzioni: la luna.
“È la luna”, dico come uno stupido, forse pensando
che la sua curiosità richieda spiegazioni. Ma lei continua ad allungarsi, con
enorme sforzo, verso la sfera d’argento.
“Guarda che non puoi mica prenderla”. Altra frase da
stupido. È ovvio che non può prenderla! Mica devo spiegarglielo io. Questa
bambina penserà che ha un padre idiota.
…
P-Padre?!
E io che mi sono tanto sforzato per non pensare quel
particolare. Non riesco ad
adattarmene. Non mi sono bastati nove mesi, figurarsi tre giorni con la
creatura!
Ma lei continua a sporgersi, fino a cadere
inevitabilmente a faccia avanti sulla sabbia.
E comincia a piangere.
Sbuffo, avvicinandomi e sollevandola da terra.
“Non so chi sia più scemo tra me e te”, borbotto
fissandola, tenendola ben lontana. Lei piagnucola ancora un po’, prima di
smettere nuovamente. Fissa di nuovo la luna, e allunga nuovamente le manine verso
di essa.
Sospiro, sedendomi e mettendola sulle ginocchia.
“Mi assomiglierai pure, ma sei tutta tua madre”,
farfuglio fissandola mentre ride, divertita dai suoi tentativi. “Anche lei
quando la portai qui disse che avrebbe voluto prendere la luna dal cielo”. Mi
blocco di colpo. Già, l’aveva detto. Perché diceva che le ricordava me. Scuoto
la testa, riconcentrandomi sulla bimba. Mi fissa, additando insistentemente la
ruota d’argento. E poi, inaspettatamente, avvicina le mani ai miei capelli,
cercando di prenderli. Faccio una smorfia, tirandoli lontano dalla sua portata:
non intendo fare il bis.
“Sì, anche tua madre ha dato questa motivazione”, mi
lamento, fissandola male.
E lei ride.
Ma cosa ci sarà mai da ridere?
“Ti piace così tanto, la luna?”, domando, sapendo
benissimo che non potrà rispondermi. Diventa seria, mi fissa confusa.
“Se ti piace così tanto… bé, non posso rubarla al cielo per dartela, ma posso fare
in modo che stia sempre con te”, sussurro, guardandola.
E lei sorride.
“Ti piace questa idea… Mitsuki?”.
“Inuyasha!”.
Sbuffo, tappandomi le orecchie.
“Non voglio saperne. Non voglio saperne”, continuo a
ripetere da ormai diversi minuti.
“Aiutami a cambiarla forza!”, si lamenta Kagome da dentro, ma io non mi avvicinerò mai a lei in quel momento. Non a quella mistura velenosa. Avvicinarmi è uguale a
morire.
“Non c’è riuscita neppure quella mummia di Kaede a farmela cambiare quando stavi depressa!
Arrenditi!”, urlo testardo. La sento lamentarsi, ma alla fine la vedo uscire
dopo alcuni minuti con la bambina in braccio.
“Che antipatico che sei”, borbotta sedendosi accanto
a me, “E non mi hai ancora detto perché l’hai chiamata Mitsuki”.
“È la punizione per avermi lasciato da solo con
quella creatura per dieci giorni!”, borbotto io, distogliendo lo sguardo da
lei. Lei sbuffa, concentrandosi sulla bimba.
“Che papà cattivo, non è così Mitsuki?”.
La fisso con la coda dell’occhio, per ammirare mia figlia mentre le lancia
un’occhiata perplessa. Trattengo a stento una risata.
“Nemmeno mia figlia mi da retta”, si arrende Kagome con disappunto, “sarà già in fase di ribellione
adolescenziale?”.
“È questo che succede quando i padri e le figlie
hanno segreti tra loro”, la canzono io divertito, guardando la mia complice
figlia. Anche lei mi guarda, con i suoi occhi dorati.
E sorride.