IV.
Mosse e
contromosse
Travis mosse il braccio
indolenzito, sollevandolo e riabbassandolo un paio di volte in un gesto
meccanico e tenendo sempre ben premuto sul pezzo di cotone attaccato
all’interno del gomito con un cerotto. Appena arrivati al
pronto soccorso, gli
avevano fatto degli esami del sangue e gli era stato trovato un calo di
zuccheri. Che soffrisse pesantemente di stress era una cosa
già assodata, ma
una chiacchierata con il medico aveva confermato ogni sospetto e gli
aveva
consigliato di stare a riposo per un po’ di tempo.
Così Travis, una volta
congedato, dovette telefonare alla Yellow Cab per prendersi qualche
giorno di malattia.
Il supervisore in carica gli
domandò dove avesse lasciato il taxi e Travis diede
l’indirizzo del diner.
Quello gli assicurò che qualcuno sarebbe passato a prendere
l’auto per
riportarla alla rimessa, lui ringraziò e chiuse la chiamata.
Si voltò verso Michael,
seduto dall’altra su una sedia di plastica
dall’altra parte di quella piccola
sala d’aspetto, accanto a un distributore di bevande calde;
teneva le gambe
elegantemente accavallate e le mani poggiate in grembo, le dita
intrecciate.
Sorrise: «Licenziato?»
Travis storse la bocca in
quello che voleva essere un mezzo sorriso e una mezza smorfia divertita
e
scosse la testa. Attraversò la stanza a piccoli passi e si
sedette di fianco a
lui. L’italiano distese un braccio lungo lo schienale della
sua sedia e Travis
vi si appoggiò leggermente con il collo, reclinando la testa
all’indietro.
«I dottori mi hanno
prescritto una bella dormita e qualche sonnifero per
aiutarmi» sospirò, lo
sguardo fisso sul soffitto bianco sopra di lui.
«Hai proprio l’aria di uno
che ne ha bisogno» osservò la voce acuta di
Michael.
«Ehi, non ti ho ancora
ringraziato»
Travis girò la testa in sua direzione, il collo ancora
appoggiato al suo
braccio, e gli occhi scuri di entrambi si incrociarono gli uni negli
altri.
«Avevo già sofferto di attacchi di panico, ma mai
così forti. Se non fosse
stato per te, probabilmente sarei ancora ad annaspare su quel
marciapiede.»
«Beh, aiutarti mi sembrava il
minimo, visto che ti sei sentito male proprio di fronte a
me.»
«Molti non lo avrebbero
fatto. C’era un sacco di gente lì attorno. Nessuno
di quella feccia avrebbe
mosso un dito per aiutarmi. Le persone non lo fanno più, non
ci provano neanche
ad aiutare gli altri.»
«Sei proprio un misantropo,
te lo hanno mai detto?» ridacchiò Michael e
posò la sua mano destra sul dorso
di quella di Travis «Sei fortunato allora, perché
si dà il caso che io sia
molto bravo ad aiutare le persone.»
Lo era. D’altronde era
l’angelo che scacciava il Male, come ancora una volta
suggeriva il suo nome.
Quel suo altruismo pareva renderlo alla stregua di un qualsiasi
supereroe.
Travis si divertì a fantasticare su quello che avrebbero
potuto fare insieme
per contrastare il putridume che imperversava nella città.
Intervenire contro
le ingiustizie e difendere chi ne aveva bisogno, come quei tizi
mascherati che
aveva visto sulle copertine di qualche fumetto. Ma tenne quei pensieri
per sé,
ritenendoli forse troppo infantili per essere espressi ad alta voce, e
finì
invece per concentrarsi sul tepore della mano di Michael, lo stesso
calore
familiare che gli aveva infuso calma e sicurezza durante il tragitto in
taxi
fino all’ospedale. Gli piacevano le sue mani, delicate e
femminee ma capaci di
una presa salda e vigorosa. Travis si ritrovò a domandarsi
cosa effettivamente
non gli piacesse di Michael e si rese conto di non avere una risposta.
Lo
trovava così… cercò disperatamente di
non pensare all’aggettivo attraente,
ma era stupido continuare a
ignorare il fatto che fosse così: tutto della sua persona
urlava quella parola
e Travis non poteva fare a meno di sottostare a quel magnetismo che
sprigionava, sentendosi attirato verso di lui come una calamita contro
la sua
volontà.
Probabilmente era rimasto in
silenzio e con lo sguardo fisso su quella dannatissima mano per almeno
un paio
di minuti, perché fu Michael a riscuoterlo dai propri
pensieri, spostando
quello stesso arto per dargli un buffetto sotto il mento e attirare la
sua
attenzione: «Ehi, ti sei dissociato?»
Riuscì a malapena a terminare
quella breve frase perché Travis si sporse verso di lui con
tutto il corpo e lo
baciò con foga. Avrebbe voluto dire che il suo cervello
aveva dato
completamente forfait, che non si rendeva conto di cosa stesse facendo,
ma
sarebbe stata una menzogna perché sapeva perfettamente la
verità: era stato
travolto da un’improvvisa voglia di baciarlo, di assaggiare
quelle labbra e lo
aveva fatto prima di cambiare idea. Probabilmente lo desiderava dalla
prima
volta che lo aveva visto, era solamente stato davvero bravo a reprimere
quella
voglia sconveniente che si nascondeva nel profondo delle sue viscere e
che
tentava la scalata ogni qualvolta che vedeva Michael. E ora si trovava
in una
sala d’attesa di un ospedale, a baciare un uomo intrappolato
tra il suo corpo e
un distributore di bevande. Inizialmente, sentì Michael
irrigidirsi a quel
contatto imprevisto. Ma furono pochi secondi appena, una probabile
reazione
all’effetto sorpresa, perché si rilassò
quasi subito e rispose al bacio, più e
più volte, e fu lui a proporre per primo di approfondire e a
volersi insinuare
dentro la bocca di Travis, che dischiuse piano le labbra e accolse la
sua
lingua. Si ritrovò a sospirare contro la bocca
dell’altro, a gemere di piacere
e il pensiero lo fece avvampare. Era passato così tanto
tempo dall’ultima volta
che aveva baciato qualcuno che gli pareva di essersi dimenticato come
si
faceva.
Il suo ultimo bacio con una
ragazza era stato almeno un anno prima di partire per il Vietnam, dove,
a
differenza dei suoi commilitoni, non si era mai permesso di
intrattenere alcun
tipo di rapporto con le povere ragazze del posto sfruttate e vendute
per
soddisfare qualunque pensiero perverso dei soldati americani lontani
dalle loro
donne. Ma baciare un uomo, avvertire il suo corpo premuto contro al
suo, era
un’esperienza totalmente nuova e assolutamente imprevista.
Aveva fantasticato
per mesi di baciare Betsy e mai era avvenuta questa
possibilità. E adesso,
l’oggetto delle sue ossessioni da almeno tre settimane
leccava le sue labbra
con un certo impeto, gli accarezzava una guancia con una mano
parsimoniosa
mentre con l’altra, più decisa, lasciava correre
le dita tra le ciocche scure
dei suoi capelli. E si trattava di un uomo. Era la cosa più
surreale che gli
fosse mai capitata e, ciononostante, Travis sarebbe rimasto
così ancora a
lungo, a bearsi del gusto di Michael, se non avesse udito dei passi
lungo il
corridoio che entravano velocemente nella sala.
Indietreggiò, separandosi da
lui con la stessa velocità con cui gli era praticamente
saltato addosso ed
entrambi si misero dritti e composti (Travis sembrava proprio scattato
sull’attenti) mentre un uomo abbigliato in un completo di
tweed azzurro
inseriva un paio di monetine all’interno del distributore e
selezionava un
caffè.
Travis sentiva di avere il
volto in fiamme, la fronte imperlata di sudore, un po’
perché baciare
richiedeva comunque un certo sforzo, ma soprattutto per
l’ansia di quello che
quell’uomo avrebbe potuto dire se li avesse colti in una
situazione così
compromettente. Con la coda dell’occhio, vide invece che le
labbra di Michael
erano incurvate in un malizioso sorrisetto e, Travis poteva giurarlo,
aveva le
gote tinte di una leggera sfumatura rosea sull’incarnato
olivastro.
La macchinetta finì di
versare il caffè nel contenitore di plastica.
L’uomo in tweed lo afferrò, con
una mano un po’ incerta ma attenta a non rovesciare il
contenuto, e si congedò
a loro con un fugace «Arrivederci» al quale Michael
rispose gentilmente.
Travis sospirò rumorosamente
e si lasciò sprofondare nella sedia, passandosi le mani tra
i capelli. «Mi
dispiace!» esclamò, un po’
più ad alta voce del previsto «Non avrei dovuto
farlo!»
«Perché no?»
domandò Michael
e Travis si chiese per un attimo se il suo tono di voce non avesse una
piccola
nota di delusione. Non ne sarebbe stato sorpreso: aveva già
capito la sera
prima che quel ragazzo nutrisse un certo interesse nei suoi confronti,
non era
stupido. Forse si era spinto un po’ troppo oltre, forse stava
rischiando di
illuderlo in qualche modo, ma non riusciva ad ammetterlo, non riusciva
a
convincersi del tutto di non essere effettivamente attratto fisicamente
da lui.
Ma non riusciva ad ammettere neanche il contrario, così
Travis decise di
rimanere sul vago. Era la cosa migliore da fare, in quei momenti di
confusione.
«Se ci avesse visto…»
mormorò, ma finì per lasciare la frase in sospeso
perché
Michael lo interruppe con uno sbuffo.
«Non stavamo facendo nulla di
illegale» osservò e si mise a rovistare nelle
tasche della giacca alla ricerca
di qualcosa.
«Sai che cosa intendo»
«Perché lo hai fatto,
allora?»
Travis sobbalzò a quella
domanda, mentre l’altro non fece una piega ed estrasse
qualche moneta dalla
giacca. Si alzò in piedi e passò in rassegna la
lista delle bevande calde
disponibili prima di spingere qualche centesimo giù dalla
macchinetta.
Travis distolse lo sguardo:
«Te l’ho detto, è stato impulsivo, non
avrei dovuto. Non so perché l’ho fatto.
Mi dispiace.»
«Io invece penso che tu lo
sappia benissimo e ti sia pure piaciuto. Ti mancano solo le palle per
ammetterlo.»
Travis non rispose ma serrò i
pugni: perché gli stava parlando così?
Perché si era spazientito a quel modo?
Non capiva quanto tutto quello fosse nuovo e confusionario, per lui?
Non ci si
raccapezzava e anziché cercare di comprenderlo, preferiva
giudicarlo.
Come se gli avesse letto nel
pensiero, sentì una mano poggiarsi piano sulla sua spalla e
un piccolo
bicchiere di plastica fumante si intromise nel suo campo visivo.
«Scusami» fece
Michael, adesso tornato al suo solito tono di voce suadente,
«non volevo
perdere le staffe. É solo- mi sembri un po’
confuso, Travis».
Il ragazzo sospirò ed accettò
di buon grado la bevanda che l’altro gli offriva.
Afferrò il bicchiere, facendo
attenzione a non scottarsi, e prese a mescolare in senso orario con il
bastoncino di plastica che faceva capolino da quello che sembrava
essere tè
allo zenzero. Michael gli si sedette nuovamente accanto, il corpo
voltato nella
sua direzione, le gambe accavallate e la testa appoggiata a una mano.
Travis, invece, manteneva lo
sguardo fisso sul caldo liquido trasparente, non sapendo bene cosa
rispondere.
Certo che era confuso, non lo era mai stato tanto in vita sua.
Quell’uomo era
entrato nel suo quotidiano da meno di tre settimane, ci parlava da poco
più di
ventiquattr’ore e già gli aveva fottuto il
cervello a quel modo. Si chiese cosa
riservasse il futuro. «É che …
» farfugliò, continuando a evitare i suoi occhi,
«non mi ero mai sentito così. Non mi era mai
capitato, voglio dire … non-»
«… non con un uomo»
Michael
terminò la frase in sua vece e non era una domanda, ma
un’affermazione alla
quale Travis annuì debolmente. Accennare a quel piccolo
movimento di testa
risultò ancora più difficile di quanto avrebbe
creduto. Ma la mano di Michael,
che oramai aveva imparato ad associare a qualcosa di confortante,
trovò la sua
spalla in una dolce stretta che sperava di infondere sicurezza.
«Ascolta,
Travis, non devi parlarmene adesso, se non vuoi. Se è
qualcosa di nuovo per te,
capisco che tu possa sentirti spaesato, che tu abbia bisogno di
metabolizzare,
di capire quello che vuoi. Se, invece, te la sentissi, sappi che hai
tutta la
mia comprensione, intesi? So come ci si sente. Ci sono passato. E sappi
che non
c’è nulla di sbagliato.»
Travis non rispose. Soffiò un
po’ sul tè per renderlo quantomeno bevibile e
mandò giù un paio di sorsi.
A Michael non sfuggì quel
silenzio. «Vuoi che me ne vada?» chiese, e Travis
volse la testa così di scatto
che quasi si fece male al collo.
«No!» esclamò, senza
ombra di
dubbio «No, che non voglio! Senti, io –non so che
cosa devo fare, adesso, forse
… forse è come dici tu, magari devo solo pensarci
un po’ … l’unica cosa di cui
sono sicuro é che voglio che tu resti. Va bene?»
Si rese conto di suonare
probabilmente assai disperato perché Michael
scoppiò in una risatina moderata e
alzò le mani in segno di resa: «Okay, tranquillo!
Non vado da nessuna parte,
cowboy.»
Il tassista rilassò le spalle
e distese le labbra in un piccolo sorriso, mentre l’altro
sollevava una manica
della camicia e controllava l’orologio da polso.
«Sono quasi le quattro»
osservò «perché non vieni un
po’ a casa mia? Intanto non è che domani sera devi
lavorare, dico bene?»
«Oh, io –non vorrei essere di
troppo»
«Nessun disturbo» rispose
Michael, alzandosi in piedi. Travis lo imitò. «Ci
sono solo mio padre e mia
madre, in casa, e se la dormono alla grande. Non mi sentono mai quando
torno a
casa così tardi.»
Si incamminarono fianco a
fianco lungo il corridoio e poi fuori dall’ospedale. Michael
fermò un taxi.
Mentre sfrecciavano in direzione di Long Island, Travis
azzardò: «Credevo che
tuo padre fosse morto. Insomma … per la storia
dell’eredità e il resto.»
«No, non ancora»
ridacchiò
Michael, ma evitò il suo sguardo, preferendo portarlo al di
fuori del
finestrino, e Travis ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa in
più che non se
la sentiva di dirgli «ma ha avuto un brutto incidente
l’anno scorso e ormai è vecchio
e cagionevole di salute.»
«Capisco» si limitò
a rispondere
l’altro e trascorsero il resto del viaggio in silenzio.
Quando giunsero a Long Island
il cielo era ancora buio e costellato di stelle. Il taxi
imboccò un viale costeggiato
da tigli e delimitato a destra da un alto muretto di pietra e si
fermò poco
distante da un piccolo cancello. Travis trattenne il respiro quando si
accorse
che era sorvegliato da tre uomini, di cui uno estremamente grasso che
si
avvicinò all’autovettura per guardare chi vi fosse
dentro. Ma Michael,
tranquillamente, sorrise e aprì la portiera, sporgendosi
leggermente fuori con
la testa: «Lasciami pagare un attimo!»
L’uomo grasso scoppiò in una
risata sguaiata. Si voltò nuovamente verso il resto del
capannello e Travis lo
sentì dire: «É Mikey. Aprite
pure.»
Come se nulla fosse, Michael
estrasse il portafoglio, contò un paio di banconote e le
allungò al tassista.
Poi scese dall’auto e Travis lo seguì.
«Avresti dovuto lasciarmi
pagare almeno una corsa … » bofonchiò,
ma Michael scosse la testa: «Vorrà dire
che me ne offrirai un’altra quando avrò bisogno di
te»
«Così mi rovini.»
Ridacchiando, si erano avvicinati
al cancello e quindi al piccolo stuolo di uomini che, Travis era pronto
a
giurarlo, erano armati di pistola sotto le giacche eleganti
perché quando si
era fermato il tassì le loro mani erano già state
fatte prontamente scivolare
all’interno di esse.
Il grassone, che sembrava il
più vecchio dei tre e somigliava incredibilmente a un budino
umano, sorrise a
Michael e lo accolse in un abbraccio che quasi fece scomparire il
giovane. La
differenza di corporatura aveva un qualcosa di comico che costrinse
Travis a
soffocare una risatina sul dorso della mano. Liberato dalla morsa,
Michael
lasciò un tenero buffetto sull’enorme braccio
dell’uomo.
«State facendo un ottimo
lavoro qui » disse e fece cenno a Travis di avvicinarsi a lui
per presentarlo
agli altri. «Peter, lui è il mio amico Travis. Non
terrorizzatelo, mi
raccomando.»
Travis non aveva ancora ben
registrato che Michael lo aveva introdotto con il termine amico perché il budino
gigante gli afferrò la mano e, a dirla
tutta, la sua stretta non era neanche così possente.
«Peter Clemenza» si
presentò, per poi sporgersi nuovamente verso Michael per
sussurrargli qualcosa
all’orecchio.
«Va bene» mormorò il
ragazzo
e affondò le mani nelle tasche dei pantaloni neri,
«chi viene a dare il
cambio?»
«Tessio. Verso le sei.»
Michael lo ringraziò in
italiano. Poi prese Travis sottobraccio e si incamminò con
lui attraverso un
piccolo sentiero di mattonelle circondato da aiuole che conduceva a un
compound
di quattro case costruite in pietra e disposte in circolo, davanti alle
quali
erano parcheggiate diverse automobili d’epoca laccate di
nero. Una delle
villette era dipinta di un aggraziato color crema, aveva le travi a
vista e una
veranda al posto del portico. Michael lo condusse lì,
sollevò lo zerbino di
fronte alla porta, afferrò la chiave che vi trovò
sotto e aprì, invitando
Travis a entrare per primo.
Una volta messo piede
nell’ingresso buio, Michael si mosse per accendere una
piccola lampada a muro
che emise una luce fioca, poi richiuse lentamente la porta. Si
portò due dita
alle labbra, intimando a Travis di fare silenzio, dopodiché
gli prese
nuovamente il braccio e lo condusse verso quella che sembrava essere la
porta
di uno scantinato. In fondo alle scale, invece, Travis vi
trovò un’accogliente
tavernetta in stile rustico, adibita a cucina e sala da pranzo. Il
rumore di
una lavatrice in funzione in una stanza adiacente gli suggeriva la
presenza
della lavanderia.
Travis, che non era
decisamente abituato a un tale lusso e, soprattutto, a
quell’ordine si guardava
attorno registrando ogni minimo particolare: dal lungo tavolo in noce,
circondato da alcune sedie e una cassapanca dello stesso materiale, ai
vasi di
piante appesi al soffitto, alle pareti in pietra grezza adornati di
fotografie
di cui molte in bianco e nero. Travis venne particolarmente attratto da
quella
più grossa, a colori, che stava al centro della parete
dietro al tavolo e che
era sicuro rappresentasse la famiglia di Michael al completo durante un
matrimonio. Lo intravide a destra dell’immagine, sorridente e
in piedi tra due belle
ragazze, una dai lucenti capelli castani abbigliata in rosa che pareva
essere
la damigella d’onore, e un’altra dalla chioma
dorata il cui cappello quasi
nascondeva il viso di Michael accanto a lei. Travis riconobbe la divisa
militare che indossava lui e non riuscì a trattenersi.
«Anche io ero nei Marines!»
esclamò, voltandosi. Michael si stava vuotando un
po’ d’acqua del rubinetto in
cucina in un bicchiere di vetro. Il ragazzo mandò
giù qualche sorso, prima di
rispondere: «Appena arrivato dall’addestramento, mi
hanno spedito subito a Khe
Sanh»
«Io ero a Cam Ranh quando è
stata bombardata. Sono stato congedato nel ‘73»
«Non parliamo di guerra» lo
interruppe Michael e Travis si trovò d’accordo.
Ogni giorno cercava
disperatamente di non pensare alla sua esperienza in Vietnam eppure
quelle
sensazioni che aveva provato ogni giorno in guerra continuavano a
ripresentarsi
in maniera prepotente nella sua testa, attorno a lui, nei volti delle
persone
che lo fissavano o che urlavano per strada o che si sparavano addosso
in
lontananza nel buio dei vicoli.
Michael gli si avvicinò,
appoggiandosi al tavolo di legno, e si mise a guardare la foto che
aveva
catturato il suo interesse. «I miei»
spiegò, indicando il quadretto con un
dito.
Travis ridacchiò: «Non so
perché ma l’avevo capito»
«Ah, zitto. Quelli sono i
miei genitori, Vito e Carmela» Il padre di Michael, che
troneggiava al centro
della foto, era un patriarca dall’aria austera e possente:
tarchiato, dai radi
capelli brizzolati, elegantemente agghindato con un frac e una rosa
all’occhiello, teneva sottobraccio una bella signora
sorridente, dalla chioma
riccia e dai tipici lineamenti della donna siciliana e un lungo vestito
di raso
rosa pastello.
«Tua madre ti somiglia molto»
osservò Travis, facendo scivolare lo sguardo un
po’ sulla donna e un po’ su
Michael.
«É vero» ammise
Michael, per
poi sgranare gli occhi mezzo secondo dopo, come se avesse realizzato
qualcosa
all’improvviso. «Oh mio Dio, sai che cosa ho
notato? Che tu sei praticamente
identico a mio padre quando era giovane!»
«Macché!»
«Ah no? Giudica tu stesso, é
quello lassù» e gli indicò una foto
decisamente più datata, in bianco e nero,
che stava un po’ più in alto e ritraeva un giovane
di bell’aspetto, con i
capelli pettinati all’indietro come li portava Michael.
Teneva una coppola tra
le mani e l’espressione sul suo volto e nei suoi occhi scuri
aveva un ché di
malinconico e forse fu proprio quel piccolo particolare a far rendere
conto
Travis che, effettivamente, poteva esservi una certa somiglianza tra
lui e
quell’uomo non più così giovane.
Travis lanciò uno sguardo di
approvazione a Michael, prima di tornare a concentrarsi sulla foto del
matrimonio: «Chi altri c’è
lì?»
Gli piaceva l’idea che
Michael avesse una famiglia numerosa. Aveva sempre desiderato un
fratello o una
sorella con cui crescere, giocare, scorrazzare nei campi dietro casa,
ma i suoi
genitori non gli avevano mai donato quel tipo di compagnia.
Michael si schiarì la gola e
tornò a snocciolare velocemente alcuni nomi: «Gli
sposi sono mia sorella Connie
e suo marito Carlo. Lui è mio fratello Fredo, che adesso sta
a Las Vegas. Tom
Hagen –vi siete parlati al telefono»
«Ah» fece Travis, e non seppe
perché, ma apprendere quella nozione suscitò in
lui una strana sensazione
indecifrabile. «Non avevo capito che fosse tuo parente
stretto. Aveva un
accento mezzo irlandese … »
«Già»
ridacchiò Michael «mio
fratello Sonny lo trovò quando era un bambino che mendicava
per la strada. Lo
portò a casa e ha sempre vissuto con noi da allora. I miei
non lo hanno mai
adottato ufficialmente perché mio padre insisteva che
divenisse il consigliere di
famiglia.»
Travis annuì, ma in realtà
era ancora più confuso di prima. Da quando erano arrivati a
Long Island gli
frullavano in testa mille domande, come perché ci fossero
degli uomini armati
di guardia fuori dal cancello della tenuta o che diavolo fosse un consigliere, ma non voleva rischiare di
sembrare troppo invadente. Quindi decise che avrebbe lasciato che
Michael gli
desse chiarimenti se e quando avrebbe voluto lui.
Michael indicò nella foto un
giovane alto, con le spalle larghe e i ricci ramati. «Lui
è Sonny, mio fratello
maggiore» disse. Spostò il dito sulla ragazza dai
capelli castani: «Sua moglie
Sandra … un gran bel pezzo di ragazzo …
» -risero perché aveva indicato sé
stesso- «e Kay. La mia ex ragazza».
Travis non riuscì a
trattenersi dal rivolgergli un ghigno e Michael esclamò:
«Ehi, che hai da
ridere?» Ma era visibilmente divertito anche lui.
«Fai stragi di donne, tu,
eh?»
«Mh. E non solo»
Travis fu tentato di
chiedergli qualcosa in proposito, ma poi vi ripensò e
lasciò che fosse Michael
a parlare: «Mi faccio un bagno. Non riesco a dormire senza.
Vieni.»
Travis fu colto alla
sprovvista: «Vuoi –che venga in bagno con
te?» farfugliò, sentendo chiaramente il
rossore impossessarsi delle sue gote. Ma Michael non gli
lasciò nemmeno il
tempo di replicare, gli prese il braccio e lo guidò in un
piccolo antibagno
dove aprì un piccolo armadio ad ante. Dentro vi era una
scarpiera e, sopra,
alcune mensole che contenevano asciugamani, scatole per il cucito e
alcuni
giochi da tavola. Cautamente, Michael estrasse una grossa scatola di
legno con
sopra una scacchiera. Muovendola, le pedine all’interno
fecero un gran baccano.
«Sai giocare a scacchi?»
domandò, chiudendo l’anta dell’armadio.
Travis scosse la testa. «Non fa niente.
Ti insegno io. Puoi prendere una sedia, per favore?»
Lui eseguì. Quando mise piede
nel bagno, Michael aveva già posato la scacchiera su un
piccolo sgabello e
aperto il rubinetto della vasca per riempirla di acqua calda. Presto,
il bagno
si riempì di un piacevole tepore e dell’odore di
sapone e sali da bagno, mentre
i due sistemavano i pezzi per prepararli al gioco. Travis
imparò presto che
ogni pedina aveva la sua casella e un movimento proprio:
l’Alfiere
esclusivamente in obliquo, il Cavallo a L, la Regina a proprio
piacimento… Era
pieno di regole e più complicato di quanto avesse mai
pensato, ma Michael gli assicurò
che avrebbe capito meglio una volta iniziato a giocare. Quando la vasca
fu
abbastanza piena d’acqua, Michael cominciò a
sbottonarsi la camicia e Travis
scostò lo sguardo, sentendosi profondamente imbarazzato, e
tornò a guardarlo
soltanto una volta che lo udì immergersi. Il fatto che
avesse evitato di
guardare la sua nudità più intima, non lo
aiutò a sentirsi più a suo agio. Il
suo petto bagnato, sul quale pendeva un piccolo crocifisso
d’argento appeso al
collo, si alzava e riabbassava lentamente seguendo il ritmo regolare
con cui il
ragazzo inspirava ed espirava, rilassandosi e beandosi del vapore che
li
circondava. Prese una manciata d’acqua e se la
versò sulla testa, bagnandosi i
capelli, passandosi le mani tra le ciocche marroni che ricaddero
spettinati
sulla sua fronte. C’era un qualcosa di più
infantile in lui, con quell’aspetto,
eppure Travis pensò che fosse ancora più bello.
Si ritrovò a frenare il
crescente impulso di strapparsi di dosso i propri vestiti e unirsi a
lui. Il
solo pensiero lo fece eccitare.
Oh, merda. Oh cazzo,
no, no, non adesso!
Si mosse a disagio sulla
sedia e accavallò in fretta le gambe, cercando di nascondere
disperatamente la
propria erezione che cresceva sfacciatamente. Era una posizione
tremendamente
scomoda.
Travis si impose di non
guardare Michael, di non pensare al fatto che l’acqua gli
copriva a malapena la
zona pelvica, e si concentrò sulla scacchiera, schiarendosi
la voce per
attirare l’attenzione dell’italiano e iniziare il
gioco.
Michael si voltò e sorrise:
«Scusa, ci sono. Hai tu i bianchi, quindi spetta a te la
prima mossa.»
Travis annuì e mosse un
pedone avanti di due caselle. Sollevò gli occhi su Michael,
in cerca di
approvazione, ordinando a sé stesso di non abbassare lo
sguardo su qualunque
altra parte del suo corpo bagnato: «Posso farlo
all’inizio del gioco, vero?»
«Come prima mossa
sì» rispose
lui, e spinse un suo pedone.
Travis fu il primo a perderne
uno nella sua schiera. Ovviamente se lo era aspettato. Ma dovette
perderne
altri cinque o sei e pure una Torre prima di rendersi conto che,
effettivamente, c’era qualcosa che non andava.
«Mi stai imitando!»
esclamò e
Michael gli rispose con un ghigno.
«Effetto specchio»
spiegò
«mosse e contromosse. É lo svantaggio del bianco.
Ti serve una strategia.»
Al suo nuovo turno, Travis si
fermò per pensarci un po’ su. Doveva anticiparlo.
Bloccarlo in qualche modo,
portare il gioco a un nuovo livello.
Michael lo vide in difficoltà
e decise di venire in suo aiuto. «Ti do un indizio»
mormorò «il tuo Re è
scoperto.»
Aveva ragione. L’Alfiere nero
era pericolosamente nella traiettoria. Travis afferrò la
regina e la spostò di
qualche casella davanti al Re. Michael rise. Afferrò
l’Alfiere e si mangiò la
Regina. Aveva vinto.
«Scacco Matto»
ridacchiò.
Travis gli riservò
un’occhiataccia: «Mi hai ingannato!»
«Avresti perso comunque. Ma
ti concedo una rivincita.»
«Sei troppo bravo»
sospirò
Travis, lasciandosi cadere contro lo schienale della sedia.
Michael si appoggiò con
entrambe le braccia al bordo della vasca e vi posò sopra la
testa. «Gioco solo
da più tempo» osservò «Mio
padre è ossessionato dagli scacchi, ha voluto per
forza farci imparare tutti. Mosse e
contromosse.» Il suo sguardo mutò in un
attimo, nel ripetere quelle parole,
divenne quasi tediato e si spostò nel vuoto, in un punto
impreciso del
pavimento. «Dovevo entrare negli affari di famiglia per
rendermi conto di cosa
volesse dire in tutto questo tempo.»
Travis si raddrizzò sulla
sedia. Doveva chiederglielo. D’altronde, aveva il diritto di
sapere, dal
momento che si ritrovava sotto il suo tetto ed era stato lui a
invitarlo lì. Ed
era come se Michael fosse sempre in procinto di dirglielo, ma per
qualche
motivo si bloccava, cambiava idea, ritornava sui suoi passi. Era giunto
il
momento di mettere le cose in chiaro.
«La tua famiglia non importa
solo olio d’oliva, non è vero?» chiese e
il cuore prese a battergli più forte
del previsto. Aveva paura di sfanculare tutto quello che era stato
costruito
con Michael e, visto il brevissimo arco di tempo e il punto in cui si
ritrovavano, non sembrava trattarsi di poco.
Michael contrasse le labbra
in una smorfia, ma non negò.
«Facciamo affari» rispose
«abbiamo alcuni casinò a Las Vegas.»
Travis grugnì: «Non mi piace
quella roba»
«Neanche a me. Per questo ci
ho spedito Fredo. Lui dirige laggiù e Tom si occupa di
controllare cosa ne
incassiamo. Mi chiamano solo se c’è qualche
problema, per discutere di compravendita
e cose di questo genere.»
Travis piegò la testa di lato
e lo osservò: «E tu?»
«Io cosa?»
«Tu che ci fai qui?»
Michael si raddrizzò nella
vasca ed inspirò profondamente prima di rispondere:
«Favori.»
Travis, il cui corpo non era
rimasto immune alle azioni dell’altro uomo, si costrinse a
rimanere concentrato
sulla conversazione, che ormai aveva preso toni decisamente seri.
«Che tipo di
favori?»
«Qualunque tipo che faresti a
una cerchia di amici» rispose Michael, scrollando le spalle
«se qualcuno ha
bisogno di soldi per aprire un ristorante, viene da me e può
chiedermi un
prestito. Se qualcuno fa un torto a un amico o a un membro della sua
famiglia,
io mando qualcuno a punirlo. Purché siano cose serie,
ovviamente, non perché il
vicino tiene il volume della televisione troppo alto. Prendi il pazzo
della
Magnum di cui mi hai raccontato stasera. Metti che abbia ammazzato la
moglie.»
Travis rabbrividì a quelle
parole.
«Ora, se quella donna fosse
stata, per esempio, la figlia di un caro amico di famiglia, questi
potrebbe
venire da me a chiedermi giustizia. Una telefonata a un mio uomo fidato
ed ecco
che il killer della Magnum rimane solo un brutto ricordo.»
La bocca di Travis si
spalancò; un po’ per lo stupore, un po’
per il pensiero di quel pazzo a cui
veniva fatto saltare in aria il cervello come lui gli aveva raccontato
che
sarebbe successo a sua moglie.
«Cazzo … » fu
l’unica parola
che fuoriuscì dalle proprie labbra, mentre quelle di Michael
tornarono a incurvarsi
alla vista della sua espressione. «Te l’ho
detto» sussurrò «sono bravo ad
aiutare le persone.»
Travis fu colto completamente
alla sprovvista. Vide Michael alzarsi velocemente e si
ritrovò a contemplarlo
completamente nudo davanti a lui. E questa volta non distolse lo
sguardo, anzi.
Lo lasciò vagare. Lasciò che i propri occhi
registrassero ogni cosa, ogni
muscolo teso, ogni goccia sulla sua pelle ambrata. Guardò le
sue gambe, le sue
cosce levigate, si soffermò forse un poco più
sulla sua virilità che ricadeva
morbida da sotto i peli del pube. Risalì sui suoi addominali
non
particolarmente scolpiti ma comunque evidenti, seguendo la linea dei
peli del
petto, e si leccò le labbra alla vista dei suoi capezzoli
bagnati, delle sue
clavicole, del suo collo impregnato d’acqua, di quel suo viso
angelico. Era
bellissimo. Una visione celestiale. Il dislivello della vasca rispetto
al
pavimento gli regalava qualche centimetro in più e, dalla
postazione di Travis
sulla sedia, sembrava un titano. Ancora meglio, un Dio nato
dall’acqua, come in
un dipinto di qualche altro italiano famoso nel Cinquecento o
giù di lì.
Travis si mise in piedi,
incurante della propria erezione che oramai premeva quasi dolorosamente
contro
quei maledetti jeans, e Michael gli sorrise. Non si dissero niente.
Nemmeno
quando gli mise una mano sulla spalla, appoggiandosi a lui per uscire
dalla
vasca. Non parlarono quando Michael iniziò a slacciargli la
cintura. Si
limitavano a guardarsi negli occhi, le labbra di Travis appena schiuse
e tremolanti,
quelle di Michael incurvate in quel lieve e sensuale sorriso che non
accennava
a smorzarsi. Trattenne il respiro quando sentì la mano
destra del ragazzo
massaggiare la sua erezione attraverso la stoffa grigia dei boxer che
indossava
e si lasciò sfuggire un forte gemito quando gli
abbassò la biancheria e il suo
palmo e le sue dita si serrarono decisi sulla sua intimità.
Michael mosse
avanti e indietro la mano, accarezzandogli il membro lungo tutta la
lunghezza,
alternando movimenti lenti e minuziosi con altri più veloci
e incredibilmente
eccitanti. Con la sinistra, invece, dalla spalla era risalito al suo
collo, poi
fino al suo volto e gli accarezzava dolcemente una guancia, passando
ogni tanto
il pollice sulle sue labbra, da cui Travis lasciava fuoriuscire sospiri
e
gemiti di piacere intenso al quale non era più abituato.
Dio, non ricordava
nemmeno l’ultima volta che si era toccato da solo e Michael
era così
dannatamente bravo e deciso che sapeva che non sarebbe durato ancora a
lungo.
Quando avvertì di essere sempre più prossimo al
limite, Travis afferrò il volto
di Michael e lo baciò per la seconda volta in quella serata,
se possibile, con
ancora più vigore e passione rispetto a un paio di ore
prima. Si rese subito conto
della differenza. La prima volta era stato un bacio di pura e semplice
impulsività. Questa volta c’era di mezzo tutto il
fermento dell’attimo e fu
bellissimo. Venne nella mano di Michael, ringhiando eccitato sulle sue
labbra.
Le gambe di Travis tremavano, come se avesse corso, e la parte
più bassa del
suo ventre quasi doleva. Gli sembrava di aver fatto uno sforzo
sovrumano. Strinse
Michael in un abbraccio, sfinito, nascondendo il viso
nell’incavo tra la sua
spalla e il collo e si beò per qualche attimo
dell’odore della sua pelle ancora
bagnata e profumata di sapone. Probabilmente aveva fatto un macello
perché lo
sentì borbottare: «Mi ero appena lavato,
comunque.»
Travis rise, ma non lo lasciò andare per un po’. Stare stretto a lui lo faceva sentire calmo e appagato e gli infondeva una certa sicurezza, come se nulla al mondo potesse sfiorare i loro corpi intrecciati. Sentì le dita di Michael accarezzargli l’attaccatura dei capelli.
Siccome ci troviamo in casa di Mike, in questo capitolo compaiono e vengono citati altri personaggi de Il Padrino; se avete visto il film, avrete senz'altro riconosciuto Clemenza e, ovviamente, tutta la sacra famiglia dei Corleone. Se, invece, non lo avete visto, be', spero che fosse comunque tutto abbastanza chiaro.
A un certo punto, ho voluto proprio fare la simpaticona perché quando Mike dice a Travis che somiglia a suo padre quando era giovane, é un chiaro riferimento al fatto che entrambi i personaggi sono stati interpretati da Robert De Niro. Scusatemi, ma non ho resistito a fare questa trashata.
Altra cosa un po' più importante: il prossimo aggiornamento arriverà con qualche giorno di ritardo in più perché la prossima settimana parto per Londra e, siccome in ostello sarò ovviamente impossibilitata ad aggiornare, questa settimana mi dedicherò esclusivamente al terzo capitolo di Bridge Over Troubled Water, l'altra mia storia. Se non la seguite, fatelo!
Ringrazio come sempre chi lascia recensioni e anche chi ha inserito la storia nelle Preferite/Seguite. Spero che non mi abbandonerete, ci si vede al prossimo aggiornamento <3