Sasori-
Il terrore ha otto zampe
Amazzonia brasiliana,
febbraio 2002
Sasori
aveva sempre amato ragni e
scorpioni.
Forse
sarebbe meglio dire che ne
era affascinato.
Sebbene
quasi tutti
rabbrividissero a vedere tali creature anche solo in foto, lui andava
al
settimo cielo non appena incrociava uno di quelli animaletti
zampettanti.
Del
resto entrambi i tipi di
animali non mancavano nelle pianure e nei deserti degli Usa.
E
così sin da piccolo, al seguito
del padre naturalista dilettante, il nostro aveva viaggiato in lungo e
in largo
per il grande paese americano.
Grazie
a tali escursione aveva
accumulato una collezione assai considerevole di esemplari vivi, morti
e
impagliati.
Lo
affascinavano di quelli
aracnidi le zampe
lunghe e scattanti,
gli apparati boccali capaci di triturare qualsiasi cosa, i riflessi
pronti, le
code che scattavano come mortali pugnali pieni di veleno, la complessa
anatomia
interna, l’interessante capacità di produrre fili
sottili eppure robustissimi.
Ne
allevava parecchi, dando loro
il cibo come se fossero figli propri, e si dispiaceva quando scorpioni
e
tarantole si mangiavano fra loro.
Quando
un grosso ragno peloso gli
camminava sul braccio gli pareva di andare a passeggio
con un vecchio amico.
Un
giorno poi, curioso di sapere
quale fosse il più grosso aracnide del mondo, aveva preso in
prestito un libro
dalla biblioteca e vi aveva letto che era il ragno Golia sudamericano.
Ora,
una tarantola che misura
trenta centimetri a zampe stese ed è capace di mangiare
topi, lucertole e
uccelli avrebbe dato i brividi a chiunque, ma a Sasori no .
Anzi,
era rimasto stranamente
deluso dal fatto che non vi fossero al mondo ragni giganteschi come
quelli dei
film dell’orrore, ma si era ripromesso che, se fossero
esistiti, li avrebbe
scovati.
Proprio
per tenere fede a quel
giuramento, era partito per l’Amazzonia e stava ora
percorrendo i sentieri
boscosi ripassando mentalmente l’obiettivo delle proprie
ricerche.
Indossava
un cappello di pelle che
gli proteggeva il capo da nugoli di zanzare, una camicia a maniche
corte, jeans
lunghi per proteggersi dai morsi dei serpenti e scarpe sportive.
Nel
suo zaino c’era qualsiasi cosa
potesse servirgli: cibo e acqua almeno per un giorno, medicinali contro
la
malaria e il colera, antidoti contro vari tipi di veleni, una tanica di
benzina
per far funzionare
un fornello da campo
ripiegabile, una torcia, birra, vestiti di ricambio e contenitori per
raccogliere e conservare esemplari animali e vegetali.
Pur
essendo la sua prima volta
nella foresta pluviale, non sembrava impacciato.
Davanti
a lui procedeva la guida,
un indio chiamato Antonio: era più basso e abbronzato di
lui, e si muoveva con
un agilità incredibile.
Aveva
lunghi capelli neri, la
faccia e il corpo nascosto dalle vesti leggere tatuati e portava in
testa un
copricapo di piume d’uccello: nella mano sinistra stringeva
una cerbottana che
aveva usato sovente per procurare a entrambi la cena.
Sasori
alzò il viso da un’antica
carta ottocentesca della zona e disse ad alta voce: “Se le
nostre informazioni
sono corrette, dovremmo giungere stasera al fiume. Là ci
accamperemo”.
“Meglio
così signore” replicò
Antonio. “ La zona oltre quel torrente è
inesplorata, e nemmeno io mi sento
molto sicuro”.
L’indio
stava riprendendo il
cammino quando l’americano gli fece segno di fermarsi.
Avvicinatosi
a una roccia, la
scostò e vi trovò sotto uno scorpione.
“Buono
piccolino, buono, non ti
farò del male” sussurrò afferrando
l’animaletto con delle pinze e infilandolo
in un contenitore di ferro dopo averlo, purtroppo, ucciso.
Come
se niente fosse, lo
scienziato si rialzò e la marcia riprese.
“Antonio,
hai mai sentito parlare
di ragni giganti da queste parti?” domandò
all’indio intento a mozzare i
cespugli a colpi di machete.
“Certamente
professore. Nella mia
tribù dicono che ne esistano di così grandi da
poter uccidere i cani senza
alcuno sforzo”.
“E’
una storia che ho già sentito
molte volte. Pensa che in Perù mi hanno fornito presunte
foto di questi esseri,
ma ho tutto il sospetto che fossero uomini mascherati. Eppure in Africa
e
Sudamerica molti giurano di aver visto ragni grossi quasi come uomini,
senza
contare che in passato sono realmente esistiti aracnidi di tali
dimensioni.
Oggi non potrebbero più vivere perché la
composizione dell’aria è cambiata, ma si dà il caso
che in questa zona l’atmosfera
sia simile a quella di milioni di anni fa”.
“Sono
supposizioni interessanti
mister Sasori, ma spero proprio che siano solo leggende”
commentò Antonio
mentre a qualche metro di distanza un corpo peloso strisciava fra gli
alberi.
***
Sasori
si alzò di colpo: non
riusciva a dormire, anzi si sentiva molto vicino al coronamento di anni
di
studi.
Vedendo
l’indio ancora
addormentato nel sacco a pelo, decise di uscire dalla tenda per
passeggiare.
La
luce della luna filtrava
attraverso le fronde degli alberi secolari e le acque del ruscello
gorgogliavano dolcemente.
L’americano
ripercorse lo stesso
sentiero con cui erano giunti, ma a un certo punto, desideroso di
esplorare
quel tratto di foresta, cambiò strada e si
inoltrò nella vegetazione, inseguito
dalle zanzare.
Mise
piede in una radura e, con
propria grande sorpresa, si trovò davanti una grossa buca
scavata in un
rialzamento del terreno e tappezzata dall’interno di rami,
fogli e fili di seta:
sembrava non dissimile dalle tane dove le tarantole tendevano gli
agguati alle
loro prede, ma ad essere abnormi erano le dimensioni.
A
complicare il rebus, all’entrata
della galleria giaceva una carcassa di giaguaro mezza spolpata e
avvolta in un
bozzolo.
Prima
che potesse formulare
qualsivoglia ipotesi sentì un fruscio e si girò.
Dagli
stessi cespugli che aveva
attraversato apparve una mostruosa immagine.
Avanzando
lentamente, si pose
davanti a lui un gigantesco ragno.
Il
corpo stretto e l’addome
rigonfio toccavano quasi terra e ed erano sostenuti da otto lunghe
zampe, al
termine delle quali stavano artigli acuminati, che si estendevano per
un’apertura totale di un metro; sulla terrificante testa
spuntavano otto occhi
nerissimi e rotondi puntati su di lui e le zanne velenifere, che
risaltavano
sinistramente nella penombra.
L’intero
animale era ricoperto da
ciuffi di pelo marrone.
Sasori
in un attimo si dimenticò
della propria promessa di bambino e sperò che fosse solo un
incubo; ma
purtroppo la tarantola era reale e anzi squittendo drizzò la
metà superiore del
suo corpo alzando da terra il primo paio di zampe e digrignando le
tenaglie.
Lo
scienziato sapeva fin troppo
bene cosa significava quella posizione: era la minaccia precedente
l’attacco, e
quindi si voltò e cominciò a correre a perdifiato.
Guardando
dietro di sé vide che
l’aracnide lo incalzava avanzando velocemente sui sottili
arti ed emetteva
suoni da far gelare il sangue, quindi accelerò.
Anche
il ragno aumentò la propria
velocità e in poco fu dietro al professore e agitando le
mortali zanne squarciò
lo zaino, facendo ricadere al suolo il contenuto e fermandosi a
esaminarlo.
Sasori,
ormai esausto e prossimo a
scoppiare, vide scivolare davanti a sé la tanica di benzina
ed ebbe
un’intuizione geniale: versato a terra il carburante, lo
incendiò.
Il
mostro, che stava balzando
sulla preda inerme, finì invece in un inferno di fiamme e
fuggì nelle tenebre
squittendo e zampettando.
Lo
scienziato ormai non se ne
curava più, anzi, aveva iniziato a provare una certa
repellenza per quella
creatura che pure fino a quella mattina sarebbe stato ben felice di
sottoporre
a studi.
Ansimando
entrò nella tenda,
svegliando la guida.
“Cosa
succede professore?” chiese
Antonio già lucido.
“Partiamo
subito. Non c’è nulla di
interessante nella giungla”.