Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: LeanhaunSidhe    05/07/2019    7 recensioni
La lama brillava ed era sporca. Imuen girò il taglio della falce verso la luna e ghignò incontrando il proprio riflesso. Si sentiva di nuovo vivo. Non distingueva il rosso dei suoi capelli da quello del sangue dei suoi nemici. La sua voce si alzò fino a divenire un urlo. Rideva, rinato e folle, verso quel morto vivente che era stato a lungo: per quanto era rimasto lo spettro di se stesso? Voleva gridare alla notte.
È una storia con tanto originale, che tratta argomenti non convenzionali, non solo battaglia. È una storia di famiglia, di chi si mette in gioco e trova nuove strade... Non solo vecchi sentieri già tracciati... PS: l'avvertimento OOC e' messo piu' che altro per sicurezza. Credo di aver lasciato IC i personaggi. Solo il fatto di averli messi a contatto con nemici niente affatto tradizionali puo' portarli ad agire, talvolta, fuori dalla loro abitudini, sicuramente lontano dalle loro zone di comfort
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aries Kiki, Aries Mu, Aries Shion, Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Ballata dei finti immortali'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ringhiava. La folgore, ghermita dalle sue fauci, sfrigolava: gli bruciava la carne della bocca, lo corrodeva, elettricità fin dentro le ossa. Il suo grido di belva, però, non cedeva, pur se il dolore lo stava dilaniando. L'offesa del fuoco era nulla in confronto a quella causata dall'affronto al suo gemello. La pietà odiosa del vecchio satiro ed il suo viso perfetto lo fiaccavano più della lotta mentre lui, coperto di fumo e sangue, diventava solo uno sconfitto. Aveva ululato, serrando le fauci, disperdendo la folgore tra i denti ormai anneriti, con la bocca fumante, mentre sputava saliva e plasma. Eppure, aveva ancora la forza per affondare le zanne nella carne di Zeus. Ne bramava il fluido vitale. Ebbro della battaglia, folle, perso nella furia: se si fosse placato prima, quell'orrore non sarebbe avvenuto. Se, invece di soccombere all'odio, si fosse fermato a pensare, voltato indietro, concetrato su ciò che era davvero importante! Avrebbe udito le anime stanche dei suoi figli, la loro disperata richiesta di aiuto. Avrebbe scorto l'ombra della fine sui loro visi diafani. Aveva ancora la forza per azzannare, la avrebbe avuta anche per salvarli. Sordo, invece, aveva ignorato, lucido solo nel voler distruggere il proprio nemico. Gli mancava così poco, un attimo, un alito, per annientarlo! In un momento, invece, perse tutto.

Il colpo scagliato dagli altri olimpici uniti, aveva accecato nel suo sfavillare, travolgendo il suo esercito, la sua progenie. Aveva spalancato gli occhi, ammutolito, finalmente consapevole che non avrebbe più fatto in tempo. Diede le spalle a Zeus, incurante della poca onestà dell'avversario, perchè era ai suoi figli che stavano promettendo la fine dell'esistenza. Si gettò nella luce, per raggiungerli, ma era tardi. Fu scaraventato indietro. Quando si diradò il bagliore, tra le macerie fumanti, i suoi domatori erano ancora in piedi. Puntò lo sguardo in quello di Arkai, il più vigoroso, il più potente, e quelle orbite vacue lo atterrirono. Non avevano più nulla: solo odio, lo stesso per cui lui li aveva abbandonati. Dalle fauci smisurate, che crescevano in altezza e sfiguravano il volto del suo guerriero migliore, si alzò uno stridio che gli perforò timpani e cuore. Lo vide sciogliersi, liquefarsi, la sua pelle alabastrina tingersi di cenere. Corse per sorreggerlo, impotente, mentre Arkai tremava convulso ed il suo corpo prodigioso appassiva velocemente, come un fiore seccato dall'arsura. Le vene che pulsavano come torrenti impetuosi sui muscoli delle gambe e delle braccia inaridivano, sabbia riarsa di deserto. Haldir si inginocchiò, mentre tra le dita fasciate dal metallo, presto, invece delle spoglie del suo guerriero ritrovava solo polvere che scivolava via. Si girò di scatto, quando udì il suo nome associato alla colpa, ululato che, quanto era successo, era solo il suo peccato.

Arkai non c'era più: al suo posto, solo quel fantasma deforme, col cuore fermo ed avido, che non batteva ed avrebbe rintoccato solo dopo aver privato l'esistenza di altri. Guardandosi intorno, il gigante bianco si ritrovò circondato: quella orrenda trasformazione era toccata a ciascuno dei suoi figli. Non si spostò di un millimetro, appena capì che l'avrebbero attaccato. Della sua forza pareva non esserci più nulla, mentre offriva spontaneamente il corpo a quelle belve. Zeus era intervenuto, trasportandolo via, permettendogli di aver salva la vita, per continuare per un tempo quasi eterno il peso di quella condanna.

Haldir fissò il viso proprio vuoto, che da allora non avrebbe mai più avuto espressione, in quello del suo acerrimo nemico: a testimoniare la sua passata forza, solo l'azzurro impenetrabile e tagliente del suo sguardo. Se davvero fosse stato il dio giusto che veneravano gli uomini, semplicemente, Zeus lo avrebbe ucciso, concedendogli requie. Invece, lo lasciò li, a riflettere sulla propria azione scellerata. Gli olimpi avevano annientato il domatore della vita approfittando del suo legame inscindibile con la famiglia. L'avevano offeso, ritorcendogli contro l'oggetto del suo amore.

 

Haldir cacciò le dita artigliate tra i capelli lunghi, ad intrecciarle con le ciocche, tirare quasi a strapparle, prima di coprirsi gli occhi e scoppiare in un urlo isterico, piangendo, ringhiando ancora. Poi, scemata la rabbia, aveva portato la mano fasciata ad carezzare quella stele immonda in cui li aveva rinchiusi tutti, che si stava per sgretolare, come ogni era. Se avesse potuto tornare indietro, avrebbe dato ogni cosa per rimediare. La pietra bianca, levigata, era fredda al suo tocco, come l'aria percorsa dai fuochi fatui di suo fratello. Battè ancora, tante volte, il pugno chiuso su quella stelle, perchè avrebbe dovuto esserci solo lui, imprigionato e torturato all'interno, solo lui, per l'odio a cui si era abbandonato. Perchè ad imprigionare Imuen erano stati gli olimpi, ma a dannare i suoi discendenti, lui stesso. Aveva gridato, lasciandosi cadere a terra, con un tonfo pesante, nel ghiaccio perenne che mai avrebbe ceduto. Erano le voci alterate dei suoi perduti, che lo chiamavano padre ed insieme demonio. Ed era vero, perchè era stato così sciocco e folle da barattare l'amore più magnifico per il miraggio di uno scampolo di vittoria. Voleva sentire di nuovo il vento, correrci in mezzo, insieme coi suoi figli, vivi, salvi, perchè solo così era felice. Di quanti ne aveva, quanti ne restavano? Gona e Tabe, Brunilde, Seleina. I più forti, che educava in maniera ossessiva, quasi morbosa. Degli altri, più deboli, si era imposto di non ricordare neppure il nome, altrimenti, nelle secoli che scivolavano via, sarebbe impazzito. Stanco, coi capelli sparsi tutt'attorno, steso a perdersi nel ghiaccio che brillava quasi dello stesso colore per i riflessi della sua nuova arma: l'ultima speranza folle che si era concesso di forgiare. Ci aveva infuso zanne e sangue, potere e vita. L'ultima cosa che gli restava, prima di annullarsi. Seleina l'avrebbe odiato per quanto stava per chiedere a quel giovane lemuriano, ma lui non aveva più scelta. Un'altra volta, aveva bisogno dell'aiuto degli uomini. Inforcò il pugnale d'argento nella cintola, prima di rivestire la corazza sui muscoli pieni di cicatrici, nascondere le braccia sotto il metallo, diretto al Grande Tempio.

Avrebbe fatto un giro per il Santuario di Athena in sembianze umane, diretto alla prima casa, o ovunque si fosse trovato il cavaliere d'Altare.

Erano passi pesanti quelli che stava compiendo. Come si aspettava, trovò entrambi quei due lemuriani insieme, negli appartamenti privati. Lo fissarono stralunati, del tutto sorpresi della sua venuta. Di tutti quelli del suo clan che sarebbero potuti venire in visita, certo non si aspettavano lui.

 

"Devo parlare con te."

Esordì asciutto, indicando Kiki. Ormai abituato ai singolari modi di quel personaggio, Mu non ci aveva fatto troppo caso, mentre Haldir entrava dentro. In qualche modo, aver partecipato alla prova di Seleina aveva fugato in lui tanta della diffidenza verso i Dunedain. Probabilmente, addirittura troppa. Quando, poi, il gigante bianco estrasse quel pugnale d'argento dalla cintura, lo pose sul loro tavolo e lo allungò verso di loro, la curiosità si accese repentina.

Kiki non era uno sciocco: si era reso conto all'istante del potere intrinseco e spaventoso di quell'arma. La sentiva pulsare, gli parve viva, inadatta ad un mortale. Forse solo un dio avrebbe potuto maneggiarla. C'era così tanta energia in un oggetto così piccolo che ebbe paura di passarci le dita sopra.

"Questo è il motivo per cui, quando mi sono misurato con te, ero debole. C'è molta della mia energia, qui."

Haldir aveva poggiato la mano su quel pugnale affilato, dalla lama dritta e lucente, percorso da segni che assomigliavano ai simboli delle rune e componevano singolari enigmi.

"Avresti il coraggio di usarlo?"

Kiki sbattè le palpebre un paio di volte, confuso.

"Perchè vuoi che lo usi io?"

Il gigante bianco aveva annuito. Era la domanda giusta.

"Perchè hai il cosmo per dominarlo ed un'anima che può capire, a differenza di molti dei tuoi compagni."

Haldir si girò un secondo verso Mu, prima di tornare a concentrarsi sul minore.

"Voi cavalieri vivete solo per Athena, sacrificate ogni cosa per lei, anche l'amore per una femmina, per un fratello, per la famiglia. Tu no. Per questo puoi capire. Tu sai cosa significa sporcarsi nell'odio dopo aver perso chi si ama."

Kiki sentì le vestigia pesanti, sulle spalle.

"La mia fede in Athena è salda ora."

Haldir lo ricambiò con occhi ardenti.

"E' salda perchè è temprata. Tu, a differenza dei tuoi pari, ti sei immerso nel mondo degli uomini e sei tornato dalla tua dea. Quanti tra i tuoi pari lo fanno per davvero? Più facile ritirarsi in Jamir..."

Il gigante bianco indicò Mu, che si sentì punto sul vivo.

"... o chiudersi nella meditazione, come quello della sesta casa. O soccombere ai fantasmi della mente, come quello della terza. Di ciò che vuoi, ragazzo. Tu sei diverso. Che tu ne sia consapevole o no, il fatto non cambia. Ed è per questo che ho bisogno di te e non di un tuo pari. Le armi Dunedain hanno bisogno di uno spirito affine per poter essere usate, e di un cosmo potente. Ho testato quanto vali. Tu puoi riuscire."

Kiki si grattò la testa, non ancora convinto.

"Ammettiamo che io sia in grado di usare la tua arma, che vuoi che ne faccia?"

"Voglio che la pianti nel petto del capo dei perduti. Sconfitto lui, fermare gli altri sarà più semplice."

Mu, fino ad allora in silenzio, conscio della portata dei poteri in gioco, chiese se quella era la strategia di cui si serviva ogni volta che il suo sigillo veniva meno. Gli fu spiegato che le magie dei Dunedain, per riuscire, avevano bisogno degli uomini, come era stato fatto per riportare in vita loro.

Senza il l'appoggio folle di Seleina, loro, di certo, sarebbero rimasti ancora in quella stele. Sorpreso, apprese che quella era la prima in assoluto che veniva tentata una mossa del genere. Perchè Haldir era sfinito di quel ciclico logorarsi e cavalieri come Kiki non nascevano a tutte le generazioni. Soprattutto, quel pugnale aveva il potere di uccidere definitivamente i perduti, se usato a dovere. Era la possibilità di concedere pace alla sua progenie rovinata, una volta per tutte. Terminare tutto sarebbe stato compito di Zalaia ed Imuen. Ovviamente, i Dunedain avrebbero fornito tutto l'appoggio necessario. Era una decisione solo di Kiki.

"Ma ti sia anche chiara una cosa, ragazzo: se usi male la mia arma, rischi di lasciarci la pelle. Con noi si sceglie. Quando si sceglie, poi non si torna più indietro. Per cui, prenditi un attimo per riflettere. Tornerò presto, per conoscere la tua risposta."

Poi, non ci fu verso di trattenerlo. Come era entrato, lasciò quelle stanze e sparì.

 

 

Imuen aveva lasciato andare il suo gemello alla prima. Lui era diretto alla quarta. Gona gli aveva riferito che Death Mask e Zalaia non si erano ancora ammazzati. Si chiedeva per quanto sarebbero riusciti a mantenere lo stato delle cose. Sentiva il ragazzo palesemente agitato ma meno di come si aspettava. Evidentemente, l'allievo aveva raggiunto una sorta di equilibrio con quel suo singolare genitore. Si avviò dove percepì rumori di colpi, a passo lento. Non aveva fatto caso che anche il timbro vocale di padre e figlio si assomigliasse. Alcuni degli improperi che udì quel giorno però, erano del tutto nuovi per lui che, pure, non era una verginella ed aveva passeggiato sulla terra per secoli e secoli. Rassegnato, alla fine, a mostrarsi, si palesò nell'ambiente scuro del tempio di Cancer. A giudicare dagli odori che gli arrivarono al naso, quel posto necessitava di una vigorosa ripulita. Poichè erano impegnati nella lotta e non si avvidero di lui, già torvo, materializzò la falce e ne battè il manico sul pavimento lastricato e polveroso, con energia. Il suono, enfatizzato dal suo essere seccato, sortì l'effetto desiderato, di rendere chiaro ad entrambi chi fosse giunto.

Zalaia, come suo solito, aveva lasciato andare la maglia lorda del padre con uno strattone, spingendolo indietro. Aveva abbassato l'altro braccio con cui caricava il pugno. Se non altro, aveva solo sbilanciato il suo avversario.

"Vi misurate nel corpo a corpo perchè col cosmo avete già finito?"

Colto alla sprovvista da quella visita, si aspettava il rimprovero del maestro, per star perdendo in quel modo indegno il poco tempo che avevano a disposizione. Inaspettatamente, fu la risposta di suo padre a trarlo d'impaccio, che rassicurava Imuen sul fatto che sulle tecniche di Cancer fossero a posto, visto che l'allenatore provvisorio era eccezionale e l'alunno più o meno passabile. Sconcertato, fissò suo padre, che aveva ridotto poco meglio della prima volta, pesto come un sacco da box. Non riusciva a credere che quell'individio stesse davvero tentando di aiutarlo ad evitare la lavata di capo. Rimasto, come poche volte in vita sua, senza una risposta sagace pronta, aveva semplicemente confermato le parole del padre, prima di fissarlo in modo strano. Se fossero stati due persone normali, probabilmente, una volta soli, l'avrebbe ringraziato.

Imuen, però, non era certo in visita di cortesia o per impicciarsi di affari di famiglia che gli competevano fino ad un certo punto. Gli chiese, infatti, di poter parlare in privato. Vide un'urgenza che non si aspettava nel suo maestro. Quell'atteggiamento non gli piacque per niente. Lo seguì fino al colonnato antistante il tempio, attenti a non mostrarsi però fuori. Si appoggiò ad una colonna. Imuen era titubante. Lo vide tergiversare troppo, per come aveva imparato a conoscerlo.

"Haldir ed io, in questa era, abbiamo pensato di cambiare strategia."

Imuen, a differenza sua, era eretto e fiero, mentre parlava. Fissava un punto lontano ed il suo sguardo era fermo.

"Mio fratello ha pensato di avvalersi dell'aiuto di un combattente del Grande Tempio, perchè usi una nostra arma. Haldir vuole farla finita una volta per tutte e pensa che la battaglia di questa epoca possa essere risolutiva."

Era raro che si sentisse così insignificante nei confronti del proprio maestro. Intuì che faceva fatica a chiedergli quanto doveva.

"E' un'arma che purifica. Se si avvicina un sangue puro, avrà problemi. Se si avvicina un mezzo sangue come te, beh, diventa semplicemente umano."

Lo vide trattenersi con un certo disgusto. Ormai, però, gli era più chiaro dove volesse andare a parare.

"Quel cavaliere d'argento deve arrivare a colpire al cuore il capo dell'esercito nemico. Tu lo sai come funziona la formazione dei perduti. Significa buttarcisi dentro, arrivare al centro. Aumentare enormemente i rischi che si corrono. Quel cavaliere è forte ma da solo sarebbe spacciato. Te la sentiresti di accompagnarlo?"

Zalaia ci aveva pensato solo una frazione di secondo, prima di accettare, perchè le sfide impegnative erano sempre state uno stimolo incontenibile, paragonabile solo al piacere di una donna.

Imuen, invece, impassibile, aveva tremato. Tutto avrebbe voluto, fuorchè sottoporre l'allievo ad un azzardo simile. Ormai, però, ne aveva fatto un guerriero. L'aveva gettato in mezzo all'arena che era cucciolo. Si chiese se non fosse stato meglio insegnargli meno dei suoi segreti, quel tanto che gli fosse servito per proteggere sua madre. La parte peggiore, poi, sarebbe stata informare Mnemosine. L'unica cosa che poteva fare era cercare di proteggerlo al meglio durante lo scatenarsi della battaglia. Lo guardò ancora e ne fu orgoglioso. Era certo che padroneggiasse già a dovere ognuna delle tecniche di Cancer. Provò di nuovo quel soffocante senso di colpa, alzando lo sguardo verso il custode della quarta casa, sicuro che, da lontano, li stesse osservando.

"Perdonerai mai quel povero diavolo?"

Accennò col capo, infatti, poco dopo, verso le proprie spalle, nelle viscere di quel tempio.

"Per quel che può, ce la sta mettendo tutta mi pare."

Zalaia, infastidito, aveva annuito. Era già tanto che non avesse sputato in terra o sbuffato. Fu congedato poco dopo.

 

 

Death Mask non aveva idea di cosa quei due si fossero raccontati. Era palese, tuttavia, l'affiatamento che c'era tra Imuen e suo figlio. Per quanto quei due fossero diversi fisicamente, eccezion fatta per colore di occhi, carnagione e capelli, erano molto più simili di quanto lui stesso e Zalaia sarebbero mai diventati. Come avrebbero potuto, pochi giorni insieme, ricucire anni di lontananza? Anni di bestemmie sul suo conto e di malumore verso di lui... Rientrò, stizzito, nell'antro che chiamava casa. Era piobato in cucina, deciso a far fuori mezza bottiglia di vino, quando fu raggiunto da suo figlio. Per quanto ce la mettesse, ogni sforzo si stava rivelando inutile. Non capiva il senso di continuare quella farsa. Il ragazzo ormai era pronto. Poteva sloggiare tranquillamente, per quanto lo riguardava. Come a conferma di quello scomodo pensiero, la voce monocorde del ragazzo esprimeva a parole che se ne andava a radunare le sue cose. Per lui, era tempo di rientrare al campo principale. Furioso, gli aveva ringhiato che poteva fare come gli pareva. Chi era, in fondo, lui per sindacare? Zalaia aveva impiegato pochi minuti per radunare i quattro oggetti e stracci che si era portato appresso. Si attardava, stranamente, sulla soglia della cucina. Il cavaliere ne vedeva l'ombra allungarsi sul tavolo: non si spostava. L'impeto fu quasi quello di lanciargli la bottiglia in testa. Quando, però, udì la domanda del ragazzo, il vino che stava bevendo gli andò di traverso. Ammutolito, gli fece ripetere due volte quanto aveva appena detto. Non riuscì a credere che lo invitava con lui al campo dei Dunedain.

Visto che tardava a rispondere, il suo angelo specificò, nuovamente arrabbiato, che non era un obbligo. Poteva restarsene benissimo dove si trovava. Probabilmente, il ragazzo aveva anche voglia di spaccare sulla sua, di testa, la bottiglia di rosso che stava ancora tracannando.

"Certo che voglio venire, animale! Dammi solo qualche minuto per avvertire il Gran Sacerdote."

Il problema non fu tanto ottenere il permesso di Shion che, certo, tutto si aspettava, meno che riuscisse nel miracolo di sistemare le cose col suo pargolo. Fu attraversare la dodicesima ed affrontare Aphrodite, che ce l'aveva ancora con lui per essere stato sbattuto fuori dal quarto tempio in malo modo, giorni prima. A nulla valse svelargli, ormai che era chiaro che ne aveva il permesso, la verità. Perchè che Zalaia fosse figlio suo era assurdo da concepire anche per il suo migliore amico.

 

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: LeanhaunSidhe