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Walk of life
“Someday
you will find me
Caught beneath the landslide
In a champagne supernova
A champagne supernova in the sky
Wake up the dawn and ask her why
A dreamer dreams she never dies
Wipe that tear away now from your eye”
Il silenzio
preme gravoso sui suoi timpani e lo induce a strizzare un poco gli
occhi, ancora ciechi nel buio circostante. Il reattore gli riluce
fiocamente nel petto, ma la sua luminescenza non è
sufficiente a rischiarare i dintorni.
All’improvviso, emette un lieve sibilo e si spegne con uno
sfarfallio, calandogli una cortina oscura davanti al volto e privandolo
del tutto della vista. Sente le pulsazioni del suo cuore incepparsi per
un istante con un boato di grancassa, e le schegge acuminate che
fremono nella sua carne, pronte a dilaniarla. Ma l’acuto
dolore che si era aspettato recede, e i battiti riprendono dopo un
istante, regolari, riverberando nel cilindro metallico infisso nel suo
sterno.
Ruota rigidamente sui talloni, muovendo esitante le mani attorno a
sé senza incontrare alcun ostacolo, se non la fredda
resistenza dell’aria che gli preme addosso in un velo gelido.
Lo avverte su entrambi i palmi. Sussulta nel realizzarlo e congiunge le
mani, sfregandole appena tra loro e percependone la ruvidezza e il
calore, i calletti e le cicatrici che punteggiano sia la sinistra che
la destra. Fa poi scorrere le dita lungo il braccio destro e ne
distingue la struttura viva di carne e ossa e tendini, il gomito
mobile, la spalla agile e tonica che ruota senza sforzo in
un’orchestra di tensioni, leve e snodi. Riconosce con un moto
di perplessità una scia di rilievi regolari, più
sensibili e caldi al tatto, e conta uno ad uno dei punti di sutura,
mentre le rughe sul suo volto che si fanno via via più
pronunciate. Affonda leggermente le unghie nella pelle, sulla curva tra
collo e clavicola, e i nervi registrano quella pressione, inviandogli
una nota di fastidio quando inizia a premere con troppa forza. Lascia
la presa, col respiro irregolare, e si sfiora il volto incontrando con
un sussulto l’occhio sinistro, e le ciglia che gli sfiorano i
polpastrelli, e la palpebra socchiusa a proteggere il bulbo. Percepisce
anche il segno liscio di una cicatrice a solcargli l’orbita,
intaccandogli l’arco del sopracciglio. Non avrebbe bisogno di
verificare anche la gamba: già dall’assenza di
dolore e dalla facilità con cui riesce a rimanere in piedi
sa che la destra è viva e reale e non un surrogato
meccanico. Si china comunque a cingere il punto poco sopra al
ginocchio, trovando anche lì la trincea dei punti di sutura,
e nessuna differenza tra le due parti che separa.
Si raddrizza e si copre la bocca, espirando piano, col calore del
proprio fiato che segna l’aria fredda e rimbalza contro il
palmo della mano sana – che non dovrebbe essere tale.
Una spirale di vertigini gli avvita la bocca dello stomaco, e lui
pianta i piedi per terra a ripristinare l’equilibrio, mentre
i propri organi continuano ad agitarsi come scossi da un sisma lieve,
ma continuo.
Quale versione dell’incubo è, questa?
Sta per essere assorbito dalla sua armatura? Sta per annegare
– di nuovo, ancora? Sta per venire stritolato dalla morsa di
Iron Monger? O magari si trasformerà in un androide, o
vedrà crescersi addosso le protesi e l’illusione
di un occhio – come la prima volta?
Rimane in attesa, con quegli scenari che continuano a scorrere,
dibattersi e accavallarsi tra di loro, alimentando le scosse che lo
scuotono dall’interno. Il silenzio rimane intonso, se non per
il suo respiro discontinuo e per il fragore del sangue che gli scorre a
velocità doppia nelle vene, seguendo un percorso
serpeggiante di rapide e cascate che manda in tilt il suo cuore ormai
fuori tempo.
Una
stilla di paura si riversa nel suo corpo, con un retrogusto acido di
bile che gli strappa una smorfia. Porta entrambi i palmi al reattore
spento in un moto istintivo, col corpo teso fino a tremare e gli occhi
sbarrati nell’oscurità.
Si
aspetta di veder comparire da un momento all’altro uno
specchio, o un vetro, un qualsiasi tipo di barriera che lo separi da
una versione più perfetta e completa di se stesso; ma
attorno a lui vi è solo buio siderale privo di stelle, un
grembo freddo ma non ancora ostile che avvolge il suo corpo nudo.
Il suo timpano vibra all’improvviso, registrando un suono che
la sua mente non identifica subito, ma che il suo cuore accoglie con
uno spasmo di sollievo che quasi fa male. Sente la testa svuotarsi, con
quel suono singolo che si raddoppia, e poi triplica, fino a diventare
una successione infinita e regolare che si sincronizza ai suoi battiti,
e poi ai suoi passi quando si incammina verso di esso.
Avanza a tentoni nel buio, seguendo il familiare clangore metallico di
un martello sull’incudine.
***
Febbraio 2008,
Afghanistan
La grotta
lo accolse con le sue pareti fredde e irregolari, densa di fumo acre e
pulviscolo sospeso che catturava la fioca luce delle lampade a olio,
ammiccando in brillii dorati.
Batté le palpebre, mettendo a fuoco il frammento scheggiato
di uno specchio davanti a sé, e l’iride scura che
ricambiava il suo sguardo. Ruotò appena la testa, e anche
l’occhio sinistro si rifletté illeso sulla
superficie sporca. Si vide aggrottare le sopracciglia con fare critico,
e abbassò lo sguardo sulla mano destra, sana e intenta a
stringere un rasoio consunto, il che spiegava il suo volto insaponato
per metà. Si chinò a sciacquarlo nella ciotola
d’acqua di fianco a lui, e realizzò in quel
momento di non avere controllo sui propri movimenti, pur avvertendo
ogni input sensoriale che registrava il suo corpo. Sentì le
contusioni alle costole protestare, il gelo umido della caverna che
penetrava sotto i vestiti leggeri, la cappa di fumo che gli irritava la
gola. Il magnete premeva contro le ossa, nella carne, rendendo ogni
respiro superficiale un’agonia, e sentiva i fili collegati
alla batteria per auto tendersi ad ogni piccolo spostamento, dandogli
l’impressione che fosse sempre sul punto di venir strappato
via dal suo corpo come il tappo di un lavandino. Sussultò a
una fitta più intensa, e non seppe se fosse stato lui a
reagire o il Tony del sogno, o forse del ricordo. Era come essere
bloccato in una visuale in terza persona molto ravvicinata. Per amore
della sua sanità mentale, si adeguò a
considerarsi parte integrante del proprio corpo, e non una sorta di
entità ectoplasmatica sospesa a mezz’aria sopra la
propria spalla.
Si deterse il volto nella bacinella, sfregandosi via lo sporco e il
sapone dalle guance, e quando tornò a fissarsi
c’era la parvenza di un pizzetto ancora troppo folto a
incorniciargli il mento. Sembrò considerarlo un risultato
passabile e si tamponò con un panno il viso grondante e
arrossato dall’acqua gelida.
«Stark, che stai combinando?»
Tony sobbalzò tra sé e sentì il cuore
bloccarsi in gola, spigoloso, ma la sua controparte si girò
tranquilla in direzione di Yinsen, semisdraiato sulla sua brandina, le
mani intrecciate sulla nuca e l’acuto sguardo azzurro puntato
su di lui. Tutte le parole che avrebbe voluto dirgli gli si incunearono
sotto la lingua, si impigliarono nelle corde vocali, sfuggirono in aria
silenziosa dagli angoli della bocca, impossibili da pronunciare,
perché quel Tony ancora non sapeva a chi avrebbe dovuto la
propria vita di lì a poco. Non poteva ancora essergli grato,
ed era comunque troppo intento a mostrarsi arrogante e sicuro di
sé nonostante avesse una bomba a orologeria nel petto. Forse
sotto quel punto di vista non era poi cambiato molto.
«Mi sto rendendo presentabile,» replicò
infatti, senza scomporsi. «È un
crimine?» aggiunse poi, senza sforzarsi di scherzare davvero.
«Certo che no. Non mi dispiace vedere un po’ di
civiltà, ogni tanto,» replicò
l’altro, serafico come sempre e con quell’accento
un po’ cantilenante che sembrava sempre celare un filo
d’ironia.
Si vide alzare le spalle in modo brusco, senza degnarlo di
un’occhiata, e si riconobbe in quell’atteggiamento
scostante, di quando si sentiva preso in giro e non voleva concedere la
soddisfazione di darlo a vedere. In effetti ci aveva messo un
po’ a decifrare il proprio compagno di prigionia, e aveva
comunque finito per fraintenderlo spesso, solitamente quando esprimeva
opinioni o commenti sensati. All’epoca era abituato a
considerarsi la persona più sagace nella stanza, e ricordava
bene quante volte si fosse ritrovato senza parole di fronte a Yinsen, e
quanto ciò lo avesse frustrato. Si era sentito in bilico,
precariamente in equilibrio sulle poche convinzioni che gli erano
rimaste e che franavano inesorabili sotto i suoi passi malfermi, mentre
continuava imperterrito ad avanzare.
Un’inattesa fitta di vergogna lo investì:
paradossalmente, aveva conservato più dignità in
quella grotta buia che nel letto di un ospedale. Era certo che lo
sguardo di Yinsen potesse vederlo, vedere lui adesso,
assieme a tutti gli errori che aveva commesso prima di rialzarsi, e fu
sollevato quando il suo alter ego abbassò gli occhi, intento
a sistemarsi un cavo fastidioso impigliato nella stoffa lacera della
canottiera.
Sentì
un istintivo moto di panico nel non vedere alcuna luce azzurrina,
nonostante sapesse di avere ancora il vecchio magnete, spento e
precario. Quasi gli venne da sorridere amaramente della sfrontata
ironia del caso, che a due anni di distanza l’aveva
precipitato in una situazione terribilmente simile; ma quando si
sentì parlare di nuovo, con la voce bassa amplificata dalle
pareti rocciose, la sensazione di déjà-vu
lo
colpì alla bocca dello stomaco come un pugno a tradimento:
«Quanto
tempo mi dai?»
Yinsen sollevò le sopracciglia in un moto di sorpresa, ma
non si scompose, limitandosi a raddrizzarsi un poco sulla brandina.
«Se non ti sbrighi a finire il Jericho, molto
poco,» fu la piatta risposta.
«Intendevo fisicamente,»
replicò lui, puntandosi un dito quasi distratto sul magnete.
«Ho fatto i miei calcoli, e questo coso non è
abbastanza potente: prima o poi le schegge mi ostruiranno
un’arteria, o mi spaccheranno il miocardio. Morire
così non rientra nei piani,» sciorinò,
con calma apparente.
Tony
riusciva a sentire il tremito dei suoi pensieri di allora in sincrono
con quelli che gli si agitavano in testa adesso, in un ronzio acuto e
disturbante. Solo che due anni fa aveva molto meno da perdere. Pepper
era solo una voce lontana che gli intimava di non arrendersi, in coro
dissonante con quella di suo padre che gli ripeteva brusco che gli
Stark erano fatti di ferro. Iron Man era ancora un bozzolo informe
sepolto nel suo inconscio, un semplice mezzo d’evasione e
riscatto. La volontà di fare qualcosa di buono in vita sua
non era ancora emersa, soverchiata da quella nuda e cruda di liberarsi
o morire nel tentativo, perché Tony Stark era troppo
orgoglioso per lasciare il palcoscenico prima di aver lasciato il segno.
Vedendosi a distanza, sembrava un uomo molto più rotto di
adesso, con molte più crepe a solcargli l’anima,
da sempre celate da un involucro che aveva appena incominciato a
scheggiarsi e che necessitava di un’altra corazza per non
cadere a pezzi.
«E che piani avresti?» lo interrogò
Yinsen, ancora flemmatico ma con un’onda
d’interesse a modulare la sua voce.
«Quanto tempo ho?» insistette ancora lui,
accennando alla batteria per auto col mento e ignorando la domanda.
Yinsen rifletté qualche secondo e nel mentre si
alzò, si lisciò le falde della giacca consunta e
si piazzò a un paio di passi da lui, le spalle leggermente
curvate.
«Un paio di settimane,» decretò poi, con
occhio clinico. «Il magnete è una misura
provvisoria. Non è stato pensato per tenere lontane le
schegge per sempre.»
«Non ho mai pensato di poter vivere per sempre,»
replicò asciutto lui, inutilmente caustico. «Due
settimane. È più di quanto mi
aspettassi,» ragionò quindi tra sé.
«Cosa hai in mente?» chiese ancora Yinsen,
scrutandolo con curiosità trattenuta.
Forse anche con un pizzico di speranza, che si conficcò
rovente nel cuore di Tony, carica dell’eco di parole pesanti
e promesse silenziose che si propagava al contrario, scaturito da un
futuro troppo prossimo.
«Prima i dettagli tecnici,» replicò lui,
incrociando le braccia sotto al magnete con apparente sicurezza, anche
se continuava a spostare il peso da un piede all’altro.
«Puoi togliermi il magnete?»
Yinsen sbarrò appena gli occhi dietro le lenti rotonde,
scoccando un’occhiata confusa prima a lui, poi al congegno
che lo teneva in vita, infine alla batteria.
«Stark, non sono un medico e non ho un giuramento
d’Ippocrate, ma non ti aiuterò
a…»
L’altro sospirò irritato, interrompendolo con un
gesto brusco della mano.
«Intendo dire: si può rimuovere senza
uccidermi?»
Tony
sentì un retrogusto di bile in bocca, e un vuoto familiare
al centro del petto, ma si sforzò di non farci caso.
«Teoricamente no,» rispose Yinsen, ancora
perplesso. «Senza magnete moriresti nel giro di qualche ora
e…»
«Qualche ora,» ripeté lui, passandosi
una mano dietro al collo con fare meditabondo mentre annuiva tra
sé. «Sì, può
bastare.»
«Stark, se non mi spieghi cosa vuoi fare non
posso…»
Lui si riscosse e, inaspettatamente, trattenne un mezzo sorriso, uno di
quelli che affiorava spesso sul suo volto con un pizzico di
spavalderia: tirò fuori dalla tasca un foglietto spiegazzato
e lo aprì di fronte agli occhi acuti di Yinsen, rivelando le
linee intricate di un progetto conosciuto.
«Ho qualche idea per quell’ “ultimo atto
di sfida”,» annunciò quindi, inarcando
con aria di sfida un sopracciglio nell’osservare la reazione
del suo compagno, intento a studiare dubbioso il progetto.
«Ma prima mi serve un cuore nuovo, Dottor Ho.»
Yinsen distese il volto in quell’espressione a
metà tra il saggio e il furbetto che gli rivolgeva quando
riusciva a sorprenderlo in modo positivo, per poi scrutarlo da sopra il
bordo dei fogli con complicità.
«Da Tony Stark, non mi sarei aspettato niente di
meno,» sorrise, con un cenno di riconoscimento.
A Tony si annebbiò la vista, e sentì a sua volta
lo specchio di quel sorriso che gli inclinava le labbra.
***
14 Maggio 2010, Villa
Stark, 07:15
Il mormorio
dell’oceano filtrava ovattato dalla vetrata, con la risacca
calma e regolare che accompagnava il suo respiro in onde morbide.
Era sveglio da un po’, forse anche più di
un’ora, ma quel suono rassicurante, la carezza delle lenzuola
e il tepore di Pepper lo avevano convinto a non abbandonare
quell’alcova cosciente tra il sonno e la veglia in cui era
adagiato. Era emerso dal sogno senza scossoni, con solo un fugace
fremito della palpebra e un piccolo brivido dovuto all’aria
fresca del mattino sulla spalla scoperta. Tra le scapole aveva
percepito il respiro lieve di Pepper, discosta dal cuscino e
raggomitolata contro di lui, con un braccio a cingergli mollemente i
fianchi.
Non si era ancora mosso di un millimetro per timore di svegliarla,
anche se, dai suoi piccoli movimenti e dal modo in cui aumentava di
tanto in tanto la stretta su di lui, sembrava anche lei nel
dormiveglia. In quel momento, sentì le sue labbra premergli
contro la pelle, a pochi centimetri dal bordo metallico della protesi,
e si lasciò sfuggire un respiro più sonoro, per
poi cercarle la mano e lasciarsi stringere più forte, con
l’impronta morbida del suo corpo contro la schiena. Si mosse
un poco, anche se riluttante a sfuggire al sonno non del tutto
dissipato, ma non si voltò, mentre Pepper riprendeva a
respirare profondamente con le dita ora intrecciate alle sue, pelle
contro metallo.
Tony si riscosse del tutto, trattenendo uno sbadiglio e allungando
cautamente le gambe per stiracchiarsi senza svegliarla.
Avvertì delle fitte moleste ai moncherini e allo sterno,
unite all’indolenzimento
invece gradito che gli attraversava il resto del corpo. Aveva perso il
conto di quante volte avessero fatto l’amore quella notte.
Erano passati dall’assaporare con metodica lentezza
quell’attimo fuggente a scontrarsi insieme quasi con rabbia
contro il tempo perso, cercando di recuperarlo ad ogni bacio, carezza e
affondo che aveva piacevolmente rubato loro il sonno. Si erano
addormentati del tutto solo un paio d’ore prima, sfiniti e
appagati, col primo chiarore bigio dell’alba a rischiarare la
vetrata e le loro membra ancora strettamente annodate.
Tony
non ricordava l’ultima volta in cui fosse rimasto a letto con
qualcuno dopo essersi svegliato. Di solito si svegliava per primo,
scivolava via dalle braccia della donna di turno e si avviava in
laboratorio senza voltarsi indietro, spesso con un mal di testa da dopo
sbornia a tormentarlo. La maggior parte di coloro che si lasciava alle
spalle si accontentava di quella notte di eccessi e di potersi vantare
di essere andata a letto con Tony Stark; qualcuna gli aveva rivolto
sguardi delusi, perché forse, in fondo, ci avevano creduto;
un paio di volte ci aveva forse creduto lui stesso, senza poi prendersi
sul serio.
Non sapeva in cosa stesse credendo adesso, né se fosse
razionale o meno, ma si sentiva avvolto da una nube soffice e
voluminosa che gli alleggeriva i pensieri, offuscando qualunque sua
volontà di lasciare quella nicchia tiepida. La sola idea gli
sembrava assurda, anche se quella piccola parte di lui che ancora gli
bisbigliava suggerimenti infondati all’orecchio lo pungolava
malignamente, dicendogli di alzarsi e andare via di lì come
aveva sempre fatto, e che questa volta non sarebbe stata diversa dalle
altre. Si concentrò sulla stretta di Pepper attorno alla
vita, una cima di sicurezza fissata all’ancora della sua
mano, che gli impediva di sprofondare in quei ragionamenti.
Soffocò del tutto quelle parole illogiche, le
annegò in quel contatto vivo che si insinuava sottopelle
irrorandolo di nuova fiducia; in se stesso, in lei, in un futuro che
non era meno minaccioso, ma che non avrebbe dovuto affrontare da solo.
Trovò infine il coraggio di voltarsi verso di lei, rimanendo
nell’intreccio delle sue braccia. La vide schiudere appena
gli occhi, fissarlo da sotto le ciglia chiare per metterlo a fuoco, e
inclinare appena le labbra in un sorriso ancora assonnato che Tony
ricambiò, anche se in modo molto più esitante di
quanto avrebbe voluto.
Come gli succedeva spesso con lei, la lingua gli si incollò
al palato, e forse non era un fatto del tutto negativo, visto che nel
suo cervello non aleggiava un solo pensiero coerente e la sua banca
dati mentale non era d’aiuto in una situazione a lui del
tutto estranea. Abbassò lo sguardo, vacillando ora di fronte
al suo, con un’improvvisa e spiacevole consapevolezza di se
stesso e del proprio corpo che lo indusse a scostarsi un poco da lei,
senza però ritrarsi completamente. Era del tutto
irrazionale, lo sapeva, ma alla luce del giorno si sentiva
più vulnerabile e con ogni difetto impresso nero su bianco
sulla pelle, come il reticolo plumbeo che spiccava attorno al reattore.
Pepper non lo trattenne, ma fece risalire la mano lungo il suo fianco e
gli sfiorò il volto con la punta delle dita, adesso del
tutto sveglia e anche lei muta, intenta come lui ad assorbire e
interpretare ciò che era e sarebbe successo. Colse un breve
sprazzo d’incredulità sul suo volto, probabilmente
la stessa che stava pervadendo lui.
Non era esatto dire che si sentisse a disagio, ma avvertiva chiaramente
l’euforia e la complicità della notte appena
trascorsa che si affievolivano, lasciando il posto a strascichi di una
realtà sempre più tangibili e opprimenti,
concentrati in noduli plumbei stringenti al centro del suo petto. Erano
impossibili da ignorare, anche se alleviati da una tenue
serenità di fondo che non percepiva ormai da più
di due anni.
Gli occhi di Pepper scivolarono sul reattore, e non si curò
di nasconderlo. Tony percepiva come stessero seguendo corrucciati le
linee violacee e contorte che si diramavano da quel dischetto azzurro e
metallico, accentuate dalla sua tenue luminescenza e dai raggi del sole
che filtravano sempre più intensi nella stanza. Lui si
immerse invece in un altro azzurro, più vivo e sereno, nelle
nebulose cangianti attorniate da costellazioni di efelidi davanti a
lui. Quando i loro sguardi si incrociarono di nuovo, si
sentì in grado di risintonizzare i suoi pensieri, aggirando
il segnale distorto della paura che iniziava ad agitare entrambi,
trasmesso dalla medesima consapevolezza.
Per mesi avevano raccolto i pezzi e li avevano ricomposti uno ad uno,
con pazienza e dedizione, a volte anche sbagliando, fino a colmare i
vuoti e arrivare a un soffio dalla soluzione. E poi avevano ceduto.
Adesso sperava soltanto che così non avessero rotto tutto,
di nuovo, con quel momento di debolezza o coraggio che li aveva
ghermiti entrambi per una notte.
Ormai si trovavano ben oltre il confine di una terra ignota, senza
sapere quanto ancora vi si sarebbero potuti addentrare. Non si pentiva
di averla voluta né di volerla ancora, qui ed ora e nella
sua vita, ma la sua mente andava ad urtare dei cocci aguzzi finora
nascosti nella sabbia: come si guarda al futuro, se non si sa neanche
quanto durerà? Come si porta avanti un progetto senza
conoscerne le variabili e con troppe incognite a punteggiarlo?
L’incudine nel suo petto era pesante quanto la sera prima,
nonostante lui sentisse elio leggero che gli riempiva i polmoni,
comunque troppo debole per permettergli di decollare.
Si sollevò sui gomiti, irrequieto, e Pepper seguì
quel movimento con gli occhi, senza rompere il contatto fisico e visivo
che li univa. Tony schiuse le labbra, ma di nuovo non riuscì
a trarne alcun suono. Le posò quindi su quelle di Pepper e
vi indugiò a lungo, fluttuando sulla superficie di quel
calore quasi potesse trarne ossigeno, e lei gli cinse il collo,
sostenendolo. Si scostò per prima, attirandolo poi a
sé con dolcezza, e Tony adagiò la testa sul suo
seno, con l’orecchio premuto all’altezza del cuore
e il naso inebriato dal suo profumo. Lei prese a districargli le
ciocche di capelli sulla nuca, mentre lui le accarezzava il braccio con
la punta delle dita, con una naturalezza che sembrava dettata da anni,
piuttosto che da una sola notte d’intimità.
Si lasciarono cullare da quei gesti per molti minuti, sprofondando le
angosce nel silenzio, finché non tornarono a guardarsi quasi
in sincrono. La cosa strappò loro un sorriso più
spontaneo, anche se Tony notò che gli occhi di Pepper erano
lucidi. Prima che potesse dar voce a qualunque domanda, per quanto
scontata, lei lo anticipò:
«Devo essere alle Industries tra un’ora,»
mormorò con disinvoltura, accorciando le vedute di entrambi
al presente ed escludendo ancora una volta l’orizzonte del
futuro.
«Io dovrei già essere in laboratorio,»
replicò Tony, imitando il suo esempio, sebbene con
sottintesi più cupi.
Nessuno dei due si mosse, se non per stringersi ancora un po’
in quell’abbraccio caldo, consapevoli che avrebbero solo
voluto prolungarlo per il resto della giornata. Ma così
sarebbe stato come darla vinta al tempo e rimanere davvero immobili,
vanificando tutti i passi avanti per semplice paura.
«Quando torni?» le chiese, scostandosi infine da
lei per permetterle di alzarsi.
Mascherò a stento una smorfia per i muscoli doloranti, e
Pepper si girò sulla pancia, seguendo con velata
circospezione i suoi movimenti. Tony notò che i suoi occhi
indugiarono sul suo torso scoperto fino all’inguine, e lui si
perse a sua volta a seguire la curva della sua schiena interrotta dal
lenzuolo. Quel gioco di sguardi fu interrotto da lei, che riprese
prontamente in mano le redini della situazione prima che potessero
finire a spendere la mattinata in modi più dinamici.
«Forse più tardi del solito…»
rispose, schiarendosi appena la voce. «Ho procrastinato un
po’ di impegni, ultimamente,» aggiunse poi, con un
sorriso sottile.
«Non è da lei, signorina Potts,» la
rimproverò Tony, aggrottando giocosamente le sopracciglia.
«Ha una pessima influenza su di me, signor Stark,»
ribatté lei senza scomporsi.
«Lo prendo come un complimento,»
commentò lui, con uno sbuffo divertito. «Mi
troverai sveglio, come sempre… ma non credo avrai
più problemi a portarmi a letto,» aggiunse,
aprendosi in uno dei suoi sorrisetti maliziosi.
«Per ora l’obbiettivo è farti
alzare,» lo rimbeccò lei, sospingendolo scherzosa
a sottolineare il suo intento e a troncare qualsiasi ulteriore deriva
dei loro piani.
Tony la assecondò brontolando tra sé e si
tirò su a sedere sulla sponda del letto, trascinandosi
dietro un lembo del lenzuolo a coprirsi, mentre Pepper si
alzò rapida per poi sparire subito nel bagno adiacente,
concedendogli solo un fugace scorcio della sua figura nuda e sottile
lambita dalla luce dorata del mattino.
Lui si mise in piedi con più calma, dopo aver recuperato i
boxer dispersi tra le lenzuola ed essersi imposto di non intraprendere
anche la ricerca della benda. Testò con una smorfia la
stabilità delle proprie gambe: precaria, come previsto, e
decisamente dolorosa da mantenere. Accantonò
l’idea di raggiungere Pepper nella doccia, per quanto
invitante, e decise di aspettare il suo turno facendo colazione: forse
dopo il suo mix di antidolorifici e clorofilla sarebbe stato in grado
di non collassare sotto il getto d’acqua calda.
Uscì zoppicando in salotto, riuscendo persino a raccogliere
il bastone abbandonato lì per terra senza rompersi
l’osso del collo nel chinarsi. Raccattò poi una
felpa dallo schienale del divano, e nonostante tutto si
sentì meglio non appena la stoffa spessa andò a
coprire il reattore e la sua cornice plumbea. Si sfregò il
petto indolenzito: adesso che si era alzato, sentiva il respiro corto e
un principio di nausea che gli premeva contro il diaframma contratto,
nonostante avesse assunto il dilitio appena il giorno prima. Storse
contrariato la bocca, ricacciandola indietro e detestando che il suo
corpo gli stesse facendo scontare amaramente la decisione avventata
della sera prima.
Scosse la testa, rimescolando quei pensieri senza riuscire a cacciarli
via, e si concentrò nel preparare un caffè per
lui e un tè per Pepper, dosando i propri movimenti doloranti
e sempre più difficili da controllare, tanto che quasi ruppe
la macchinetta e si lasciò cadere di mano una tazza.
Adocchiò il rilevatore di tossicità sul bancone
della cucina e lo lasciò dov’era, poggiandosi a
braccia incrociate sul piano cottura, in attesa che la sua dose di
caffeina si riversasse gorgogliando nella tazza. Inclinò il
mento verso il basso per fissare la luce del reattore che trapelava
dalla stoffa. Contrasse di riflesso le mani, avvertendo la stretta
più salda della destra, e si umettò le labbra
secche.
A tratti, gli sembrava di percepire ancora il calore delle mani di
Pepper sul petto, e la morbidezza delle sue labbra sul volto ferito e
sensibile; ogni volta si sentiva ondeggiare, instabile, come se quelle
sensazioni potessero strabordare e inglobarlo del tutto, in un
abbraccio vellutato che leniva le piaghe più dolorose. Si
lasciò avvolgere da quell’illusione, e
l’azzurro del suo nucleo sembrò farsi meno freddo.
Riuscì a distogliere lo sguardo dal reattore, riprendendo a
respirare.
***
Pepper
accolse la solitudine della doccia con un misto di sollievo e rammarico
a cui non seppe dare un nome, ma che le rimase addosso, come il profumo
e il sapore di Tony sulla pelle e sulle labbra.
Si era trattenuta dal proporglielo ad alta voce, ma non avrebbe avuto
nulla in contrario se lui avesse deciso di farle compagnia nella
doccia. Da una parte, però, sentiva che avevano bisogno
entrambi di un momento per se stessi, così da schiarire i
pensieri dopo una notte passata a non pensare, o a cercare di farlo il
meno possibile.
Anche adesso, un vuoto insolito le riempiva la testa, animandola
unicamente di stralci fugaci della notte appena trascorsa che ancora le
avvitavano piacevolmente lo stomaco, dandole però anche un
senso di vertigine nel rievocare le mani di Tony sul suo corpo. Non una
volta, neanche nei momenti di trasporto più intenso, aveva
perso il controllo delle protesi, e l’unico marchio visibile
sulla propria pelle era il soffuso segno rosso lasciato da un bacio
più passionale degli altri appena sotto la clavicola. Lo
sfiorò come in trance, quasi credendo di vederlo dissolversi
sotto le dita, riassorbito dalla sua pelle come un desiderio espresso
ma non esaudito. Quello rimase lì, muto testimone di un
qualcosa che ancora non aveva nome, e che forse non l’avrebbe
mai avuto, ma che era innegabilmente reale. Per quanto ancora, non
avrebbe saputo dirlo. Provò l’improvviso, illogico
impulso di cancellarselo di dosso, come se così potesse
cancellare anche tutto il resto, incluso il ricordo di quella notte.
Quella concatenazione di pensieri la turbò, inaspettata, e
la spinse a chiudere di colpo il getto d’acqua, uscendo quasi
a tentoni dalla doccia. Si accorse di non avere lì i suoi
vestiti, né gli accessori da bagno, e non seppe
perché si sentì così irritata nel
dover indossare l’accappatoio di Tony; d’altronde,
non riusciva neanche a capire il perché della
metà dei pensieri che le scorrevano in testa alla
velocità della luce, troppo fugaci per essere messi a fuoco,
ma abbastanza definiti da premerle fastidiosamente tra le tempie come
frecce acuminate.
Uscì nella stanza e poi in salone in modo quasi precipitoso,
legandosi strettamente l’accappatoio in vita e cogliendo la
figura di Tony intento a bere una tazza di caffè oltre la
penisola della cucina. Sollevò la testa con un mezzo sorriso
nel vederla, ma questo si spense rapidamente; Pepper divenne
improvvisamente consapevole di quanto dovesse apparire turbata rispetto
ad appena venti minuti prima, e ogni tentativo di camuffare quel
cambiamento le morì sul volto. Si immobilizzò un
passo dopo la soglia, con le braccia a cingerle il corpo e una marea
che le montava nel petto offuscandole sempre più la vista,
dandole l’impressione di essere sul punto di annegare con le
parole incastrate in gola come bolle d’aria pronte a
sfuggirle.
«Pepper?»
La voce di Tony le arrivò ovattata, e si costrinse a
riscuotersi. Si guardò brevemente intorno, come cercando le
proprie parole disperse nell’atrio della villa, ma non
riuscì a muovere un passo, pur vedendo con la coda
dell’occhio Tony che posava la tazza e si alzava per
avvicinarsi cautamente.
«Vieni qui,» la incitò poi, tendendole
con dolcezza la mano.
Lei esitò appena, prima di accettare l’invito e
stringersi a lui. Sentì le sue labbra che le sfioravano la
tempia, solleticandola col pizzetto, e socchiuse gli occhi nel
tentativo di mettere ordine tra le sue emozioni.
«Come ti senti?» riuscì a mormorare,
senza guardarlo.
Sentì il sussulto di una risatina inaspettata scuotere il
suo petto.
«Stanco, ma non lo riterrei un fatto negativo,»
rispose poi, e Pepper si trovò a sorridere oltre le lacrime
che le erano salite di nuovo agli occhi, per ora invisibili a lui.
«Tu, invece?» continuò poi,
più serio.
Anche senza guardarlo, poté immaginare le sue sopracciglia
aggrottate.
«Confusa,» si risolse a rispondere sinceramente,
dopo un istante di esitazione.
Tony a quel punto la scostò un poco da sé per
guardarla in volto, con un’espressione a metà tra
il contrariato e l’interdetto.
«Avevamo deciso che non fosse… strano,
giusto?» chiese conferma con una traballante nota di dubbio,
facendo scattare ripetutamente l’indice meccanico tra loro
due con fare un po’ agitato.
Pepper
scosse la testa, scacciando quell’interrogativo dallo sguardo
di lui, e il velo umido diluiva il proprio.
«No, non è strano,» lo
rassicurò, aumentando un poco la stretta su di lui a
sottolineare quelle parole e, assieme ad esse, la propria scelta,
ancora immutata. «Ma se possibile ho ancora più
paura di prima, e non sono sicura di… di riuscire a
gestirla,» si costrinse a confessare infine, tornando a
posare la fronte contro il suo collo e fissando di sfuggita il brillio
azzurrino e ai suoi occhi minaccioso oltre il suo colletto.
Sentì Tony che le cingeva i fianchi in silenzio. Nonostante
la breve esitazione iniziale, lo fece saldamente e con entrambe le
braccia, scacciando le molte paure che Pepper ancora intuiva dietro
ogni gesto. Lo sentì vacillare appena, forse scosso da una
fitta, e lo sorresse prontamente, offrendogli un appoggio per
recuperare l’equilibrio.
«Pepper Potts,» esordì poi lui,
inclinando la testa per catturare il suo sguardo.
««Tu sei la persona più forte che
conosca, e conosco super-soldati, dèi asgardiani e mostri
verdi rabbiosi,» specificò, strappandole una
smorfia imbarazzata. «E io ti ho fatto una
promessa,» aggiunse, più serio, racchiudendole una
guancia nel palmo sano.
Pepper notò la mano artificiale ferma a mezz’aria,
titubante a un centimetro dal suo volto, e la accompagnò
contro l’altra guancia, suscitando nello sguardo di Tony quel
misto di confusione e incredulità che gli tingeva
l’iride di sfumature più dense. Pepper socchiuse
gli occhi e si adagiò nella sua stretta, sentendo la cortina
liquida che le appannava la vista dissolversi a poco a poco, mentre le
parole di Tony sembravano raddrizzare i suoi pensieri uno ad uno,
impedendo loro di annodarsi in grovigli cupi.
«C’è un’unica cosa che mi fa
davvero paura…» riprese d’un tratto lui,
interrompendosi, e Pepper si irrigidì, fissandolo con
rinnovata preoccupazione. «Ovvero: cosa dovrei fare adesso?
Nel senso… per ora
ti
ho fatto un tè, ma come ci si… Dovrei comprarti
dei cioccolatini? O un mazzo di fiori? Oppure ti preparo una cena coi
fiocchi, ma conoscendo la mia discutibile abilità culinaria
non… insomma, non voglio risultare banale, ma neanche
esagerare e… sono impreparato a…»
«Tony.»
Pepper sollevò lo sguardo e lo mise a tacere con due dita
sulle labbra, che si curvarono in una linea vagamente impacciata
mettendo fine al suo flusso inarrestabile, ed ebbe l’onore di
vederlo arrossire
per
forse la terza volta in dieci anni.
«Te
la stai cavando bene, finora,» stabilì poi
scherzosa, facendo scivolare la mano sulla nuca e affondandola nei suoi
capelli, lieta che fosse riuscito a dirottare il discorso.
«Imparo in fretta,» si vantò lui, per
poi ammiccare compiaciuto. «E a te piacciono proprio i miei
vestiti,» la canzonò poi, tendendo con un dito la
cinta del suo accappatoio, allentandola un poco senza però
scioglierla.
Pepper nascose un sorriso, senza contraddirlo, ma la strinse di nuovo,
suscitando uno sbuffo di finto rammarico da parte sua.
«Sono già in ritardo,» gli disse, in
tono non troppo convincente.
«In teoria lavori per
me,» osservò lui, assottigliando lo
sguardo con aria furba.
«In
teoria adesso sono io
il
tuo capo,» lo rimbeccò lei, puntandogli un dito
contro il petto, poco sopra il reattore.
Tony
schiuse la bocca a metà tra il sorpreso e
l’indignato, in un’espressione decisamente comica.
«Questo fatto ha delle potenziali e interessanti implicazioni
che
ci impegneremo ad esplorare insieme nel dettaglio stasera,»
stabilì infine con fare malizioso, pur mantenendo una
facciata offesa.
Pepper
sbuffò trattenendo al contempo una risata, e
riuscì a strapparla anche a lui con un ultimo bacio,
facendola risuonare sulle labbra di entrambi.
***
18 Maggio, Villa
Stark
Nonostante
l’allenamento decennale a cui aveva sottoposto i propri
timpani, Tony era sicuro che, al prossimo riff esplosivo degli AC/DC,
avrebbe corso il serio rischio di farsi venire un cardiopalma da
infarto per il nervoso. Data la natura del progetto a cui stava
lavorando, la cosa sarebbe stata quantomeno ironica.
Così mise in pausa Whole
Lotta Rosie e
avviò una più calma, almeno per i suoi standard,
Rock
The Casbah, tornando poi a concentrarsi sul lavoro di
saldatura che stava lentamente portando a termine a dispetto del
braccio meccanico poco collaborativo e martoriato dalle fitte.
Soffiò sul saldatore, disperdendo i filamenti fumosi che lo
avvolgevano, e controllò che il prisma davanti a lui fosse
ben fissato alla propria base girevole. Gli rimase impressa sul volto
un’espressione critica e non del tutto soddisfatta, e fu
tentato dallo smantellare anche quel terzo modello. Soppresse il suo
lato pignolo e perfezionista e decise di rimandare a dopo il giudizio
definitivo, quando avrebbe avuto almeno più di un decimo
dell’acceleratore di particelle pronto. Aveva una certa
fretta, a detta del 70% riportato dal rilevatore e dai sintomi
spiacevoli in vertiginoso aumento… ma ormai era a un passo
dalla verità, anche se doveva spronarsi costantemente per
non rimandare ulteriormente il momento in cui avrebbe saputo se sarebbe
stata anche una
soluzione.
Un
groppo amaro gli si bloccò in gola nel ripensare a tutto
ciò che lui e Pepper avevano affrontato in quegli ultimi
giorni, ai momenti di quotidianità che riempivano le loro
giornate di una spensieratezza nuova, e dei discorsi più
cupi che invece trovavano sbocco solo nel cuore della notte, sussurrati
a mezze parole tra le lenzuola, con solo la luce fioca e sinistra del
reattore a dissipare il buio. Discorsi costellati di
“se” e di “ma”, di affermazioni
certe fatte poche ore prima che diventavano ipotesi, di “non
lo so” e “non ancora”, di dubbi che
finivano spesso per venir soffocati nei sospiri, che per ora erano una
soluzione sufficiente.
Tony
deglutì a fatica e sollevò bruscamente gli
occhiali protettivi, strappandosi a quei pensieri dolceamari e
lanciò un’occhiata all’ologramma sospeso
dello…
“Starkium,” ribadì tra sé,
dopo aver passato le ultime due ore a rimuginare in sottofondo sul nome
del nuovo elemento ed essersi infine deciso a scartare il decisamente
discutibile “Howardium”.
«JARVIS, hai ricontrollato quei calcoli?» chiese
poi, sfregandosi il mento pensieroso e prendendo a sorseggiare con poca
convinzione un po' di clorofilla.
«Sì, signore. La lunghezza ottimale
dell’acceleratore è 87,4 metri,» gli
confermò, come temeva, anche se in effetti ne aveva
già avuto la certezza la prima volta.
Seguì con lo sguardo il perimetro del laboratorio,
fissandosi poi su una parete mentre tamburellava le dita sui bicipiti.
Emise un sonoro sospiro, per poi rivolgersi di nuovo al computer:
«JARVIS, avvisa Pepper di non… allarmarsi
quando
tornerà,» elaborò, mordendosi
impensierito le labbra.
Si
decise finalmente a mettersi in piedi un po’ barcollante,
calandosi di nuovo gli occhiali sul volto, e si avviò con
decisione verso le cassette degli attrezzi pesanti.
Dopotutto, non era la prima volta che buttava giù una parete
a Villa Stark.
***
23 Maggio, Villa
Stark
Pepper
sollevò di scatto il capo dalle pratiche che stava
visionando sul tavolo del salotto, in un soffuso stato
d’agitazione di cui non riuscì a identificare
subito l’origine.
Capì dopo qualche secondo che era stato
l’improvviso silenzio ad allertarla, visto che le sue
orecchie si erano abituate da giorni al continuo fracasso proveniente
dal piano inferiore, che passava dallo stridio assordante della sega
circolare, al battere incessante delle martellate, a un indefinito
tramestio di metallo e calcinacci. Il tutto inframezzato da qualche
occasionale e colorita imprecazione da parte di Tony.
L’insonorizzazione del laboratorio era stata decisamente
compromessa, da quando il proprietario aveva realizzato un cratere di
circa due metri di diametro nel bel mezzo dell’atrio, e
Pepper scoccò un’occhiata verso il groviglio di
fili, tubi e cavi che emergevano dai suoi bordi come serpenti
stanchi sparsi sul marmo impolverato.
Stava giusto per affacciarsi al piano di sotto – visto che,
l’ultima volta che si era creato quel silenzio sospetto, era
seguita una piccola esplosione che aveva provocato qualche scottatura a
Tony e un infarto del miocardio a lei – ma il suono di un
qualcosa di pesante e metallico che veniva trascinato per terra,
seguito dallo sfrigolare della saldatrice, la convinse a desistere.
Tornò ad occuparsi del bilancio della Expo, che la
attorniava in pile di documenti pronti a collassare, ma la sua mente
rimase impigliata sul sottofondo di traffici e armeggi che Tony stava
portando avanti da giorni, a dispetto del fatto che a detta di Ian
avrebbe dovuto osservare un riposo quasi assoluto.
Avevano vissuto una settimana di pace irreale, da quando Tony aveva
svelato l’enigma lasciatogli da suo padre, e da quando
avevano deciso di lasciar crollare del tutto le loro difese. Quello
slancio ottimistico aveva causato a entrambi un vuoto allo stomaco,
consapevoli di avanzare su una sottile lastra di vetro pronta a cedere,
ma avevano continuato a guardare avanti, e non dove mettevano i piedi.
Si erano trovati a seguire una routine scaturita in modo spontaneo,
come se l’unico effettivo cambiamento rispetto a prima fosse
la possibilità e libertà di cercarsi a vicenda
senza timori, che fosse per un bacio fugace tra un impegno o
l’altro o per una notte intera.
Tony, che aveva continuato ad oscillare per mesi in un limbo di
tensione e rigetto verso il proprio corpo, sembrava aver finalmente
ritrovato un equilibrio, seppur precario. Esitava ancora nel mostrarsi
nudo, si impensieriva quando lei era a contatto con le protesi e
sembrava combattere a giorni alterni con la necessità della
benda sull’occhio, ma aveva smesso di fuggire. Le faceva
capire tra le righe come ciò fosse merito suo, anche se
Pepper era convinta che quel cambiamento non sarebbe potuto partire che
da lui: era orgogliosa nel vederlo più sicuro di
sé, e nel realizzare che stava disperdendo uno ad uno i
demoni che l’avevano assillato per più di un anno
– tranne quello più pressante ancorato al suo
petto e indipendente dalla sua volontà. Si sentiva riempire
di felicità nel rivedere il vecchio Tony, coi suoi sorrisi
scanzonati e le sue battute impertinenti, unite a una
serietà e dedizione di fondo che le erano invece nuove.
Poi, tre giorni prima, l'idillio si era incrinato. Tony si era
svegliato con un’emicrania devastante che l’aveva
costretto a letto per mezza giornata; si era poi messo in piedi a forza
per riprendere il lavoro sull’acceleratore di particelle,
cercando di minimizzare la cosa. La sera stessa aveva avuto un accesso
di tosse preoccupante che l’aveva lasciato senza fiato, e
prima che Pepper potesse chiedergli come stesse, lui aveva sgranato
l’occhio fissandosi il palmo con cui si era coperto la bocca.
L’aveva poi inclinato muto verso di lei, a rivelare le
inequivocabili tracce di sangue che lo macchiavano. Erano rimasti in
silenzio a lungo, come se quel marchio rosso avesse messo a tacere i
loro pensieri.
Non era nulla di inaspettato, ma avevano sentito la cupola di falsa
serenità che li avvolgeva disintegrarsi in un coro di
cristalli infranti attorno a loro.
Ian li aveva avvertiti già da tempo che, quando la
situazione avrebbe cominciato a degenerare, l’avrebbe fatto
rapidamente, ma Pepper non credeva di vederla precipitare a quel modo.
Tony era visibilmente più debilitato con ogni giorno che
passava, e quella notte l’aveva sentito alzarsi per dare di
stomaco. Aveva concentrato ogni energia nel trattenere
l’impulso di seguirlo per stargli accanto, sapendo quanto
ciò lo facesse sentire umiliato, pronta però a
scattare in piedi al minimo accenno di vera necessità.
Quando era tornato a letto un’ora dopo, spossato, si era
accorto di averla svegliata, ma non era neanche riuscito a stemperare
la situazione con una battuta, come faceva di solito. Si era limitato a
coricarsi di peso rivolgendole la schiena, senza proferir parola,
ripiegato su se stesso quasi ad occupare meno spazio possibile. Pepper
aveva taciuto a sua volta, ma l’aveva stretto a sé
con delicatezza, posandogli un bacio rassicurante dietro al collo.
L’aveva sentito tremare, non sapeva se per il dolore, la
stanchezza o la paura. Gli aveva poggiato una mano sul reattore tiepido
come a infondergli forza, a scacciargli dal petto il veleno che lo
infestava. Lui si era rannicchiato ancor di più contro di
lei, cercando le sue mani alla cieca e rifiutando di
mostrarle il volto.
Pepper si obbligò a concentrarsi di nuovo su ciò
che stava leggendo – che non le interessava minimamente, e le
cui lettere stampate sembravano galleggiare in una distesa acquosa
– mordendosi con forza le labbra per non lasciarsi sopraffare.
Tony non era l’unico ad avere una promessa da mantenere. Si
rifiutava di cedere di nuovo al dolore come si era trovata a fare
più volte nell’ultimo periodo. Ma era riuscita a
trovare proprio in lui la forza per non lasciarsi crollare a terra; lui
che ormai faceva fatica anche a stare in piedi o a respirare, e che
passava le giornate in laboratorio a combattere contro
un’ingiustizia beffarda, per evitare che tutti i traguardi
raggiunti venissero vanificati.
Doveva solo raggiungere l’ultimo e, qualunque fosse stato,
Pepper giurò a se stessa che sarebbe rimasta al suo fianco.
***
23 Maggio, Villa
Stark
L’ennesimo
silenzio prolungato e sospetto che avvolse il salone la fece rimanere
col cuore in gola, in un riflesso condizionato. Sperò che
Tony non avesse di nuovo rischiato di tagliare a metà il
laboratorio per un fascio di particelle indirizzato male, e
sussultò nel sentire una sonora esclamazione che
riecheggiò fin lì, inquietantemente ambigua.
Subito dopo, dei passi pesanti risuonarono sulle scale, convincendola
ad alzarsi in piedi.
«Signorina Potts!» esordì Tony, non
appena mise piede nell’atrio, e già quel preambolo
la mise sul chi vive.
Si arrestò affannato sul primo gradino, evidentemente
stremato per lo sforzo, ma si raddrizzò subito, avanzando
con passo un po’ sbilenco, ma deciso.
«Posso chiederle un favore che le farà quasi
sicuramente dare di matto?» continuò, sempre in
quel finto tono formale.
Pepper batté le palpebre e prese atto di come Tony,
contrariamente alle sue aspettative dopo l'ennesima notte travagliata
che aveva trascorso, sembrava sprizzare energia da tutti i pori, e poco
mancava che iniziasse a fare il giocoliere col bastone da passeggio,
che faceva volteggiare qua e là mentre teneva
l’altra mano dietro la schiena.
«Non è una… premessa
incoraggiante,» si forzò a dire, sentendo una
contrazione più violenta del cuore che quasi le
fermò il respiro.
Guardò Tony negli occhi e vide, dopo giorni di sguardi
spenti e opachi, quel brillio vivace che portava alla luce le pagliuzze
dorate nella sua iride, e che la rendeva specchio di ogni singola
variazione d’umore che lo sfiorava. E in quel momento era
raggiante, anche se si sforzava di mascherarlo.
«Tony?» riuscì a dire soltanto, e il suo
cuore si contrasse per la seconda volta in modo doloroso, quasi se
volesse trattenere qualunque emozione positiva tentasse di farlo
battere più forte.
Lui sorrise senza più remore, fermandosi di fronte a lei.
«Mi servirebbe una mano con questo,»
proferì infine, con la voce che traballò appena,
scossa da emozioni che neanche lui riusciva del tutto a contenere.
Tolse la mano da dietro la schiena e a Pepper quasi cedettero le gambe
nel cogliere la sfumatura azzurrina di ciò che stringeva nel
palmo. Un reattore, poco più piccolo di quello incastonato
nel suo petto, con la forma di un triangolo incastonato nel nucleo
ancora spento. Pepper porto le mani a coprirsi la bocca e dovette
ordinare ai propri polmoni di riprendere a respirare, o sarebbe svenuta
per l’asfissia. Tony continuava ad osservarla sornione,
godendosi ogni singolo mutamento che attraversò il suo
volto, dalla perplessità, alla meraviglia, allo sconcerto
più totale, fino al sorriso di pura gioia che la
illuminò quando realizzò ciò che stava
guardando.
«È… insomma... vuol dire...»
cercò di formulare, senza successo.
«Sì,» rispose semplicemente lui.
«È la soluzione,» completò
poi, con voce di nuovo malferma.
Prima che potesse aggiungere altro, Pepper lo avvolse abbraccio
impetuoso, tanto stretto da togliere il fiato a entrambi, e a quel
punto il cuore di Pepper volle recuperare tutti i battiti persi e ne
mandò uno che sembrò assordarla completamente,
lasciandola con gli occhi lucidi.
«Cosa dovevi chiedermi?» realizzò poi,
sollevando lo sguardo.
L’espressione di Tony si tese in una smorfia che rasentava il
colpevole.
«Ecco, dovrei sostituire il reattore vecchio e… ho
bisogno del suo aiuto,» disse in fretta, scrutando a fondo la
sua reazione.
Pepper rimase interdetta per un istante, col pensiero che corse alle
implicazioni di quella richiesta prima che potesse fermarlo, gli occhi
fissi sul circoletto azzurrino in mezzo al petto di Tony.
Avrebbe dovuto togliersi il reattore. Più precisamente,
avrebbe dovuto rimuoverlo lei.
L’aria
che la circondava sembrò solidificarsi, diventando
impossibile da respirare, e strinse di riflesso la stoffa della
maglietta di Tony, che di rimando serrò la mascella,
incupendosi. Non disse nulla, e Pepper percepì la
rigidità dei suoi muscoli: sapeva che la mente di entrambi
era corsa allo stesso giorno, quello di cui si impegnavano a ignorare
l’esistenza, spesso fallendo.
«Sei sicuro che…»
«Al 95% circa,» la anticipò lui, e la
mancanza di una certezza assoluta si materializzò,
così imponente da schiacciarla. «È
più di quanto potessi sperare. Molto di
più,» sottolineò nel vedere la sua
dubbiosità, stringendole le braccia a dare ancor
più forza a quel concetto.
Pepper prese un respiro, che fu più un’immissione
forzata di qualche particella d’aria nei polmoni. Le
sembrò di aver inalato degli spilli.
«Avevi detto che non mi avresti più obbligata a
compiere operazioni chirurgiche poco ortodosse,» disse,
costruendo un tono disinvolto minato dalla sua gola costretta.
Tony soffiò aria dal naso fissandola combattuto, con le
labbra compresse in una linea bianca e sottile. Rimase serio, senza
cavalcare la flebile onda d’ironia che gli aveva offerto.
«Non te lo chiederei mai,
se potessi chiederlo a qualcun altro,» disse poi, sfuggendo
il suo sguardo.
«Ian
è sicuramente più qualificato
per…»
«Pepper, vorrei che fossi tu
a
farlo,» la interruppe Tony, agitandosi d’un tratto,
e lei avvertì il fugace tremito delle sue mani.
Attese
un continuo sapendo che sarebbe arrivato, seppur coi suoi tempi, e Tony
sembrò cambiare idea tre o quattro volte circa alle parole
da pronunciare, prima di dar loro voce.
«È molto probabile…» la frase
scemò nel vuoto, e ricominciò: «Potrei
avere un… un attacco di panico quando…»
fece un gesto verso il reattore incastonato nel suo petto, per poi
premersi il palmo sull’occhio come se gli fosse venuto mal di
testa, nascondendosi al contempo.
Pepper gli scostò la mano, stringendola e vincendo la sua
lieve resistenza, così da guardarlo di nuovo direttamente.
«Che succede se non funziona?» chiese, domando
l’instabilità della propria voce.
Lui scosse appena la testa. Per un momento sembrò sul punto
di non rispondere, per poi scrollare le spalle:
«Nulla,» esalò, stirando di nuovo la
bocca. «Assolutamente nulla. Mi rimetti il reattore vecchio
prima che io vada in fibrillazione… e siamo punto e a
capo,» concluse, più piano, quasi a non voler
concretizzare quella possibilità.
Pepper lo osservò, cercando di determinare se quella fosse o
meno una bugia, per poi realizzare che, a quel punto, non era
più importante: non c’erano altre strade da
percorrere. E lo sguardo di Tony era sincero, fedele alla promessa di
non mentirle.
Si portò la sua mano alle labbra, sfiorando la sua pelle
segnata da piccole cicatrici e inspirandone il tenue sentore di ferro
bruciato. Poi annuì, stringendo le palpebre.
«D’accordo,» esalò contro le
sue nocche, prendendogli in un guizzo di coraggio il reattore di mano.
Era più leggero di quanto si aspettasse, e freddo contro il
suo palmo, in contrasto con il tepore che aveva imparato ad associarvi.
Tony la fissò per un lungo istante da sotto le ciglia scure,
in modo indecifrabile, per poi scostarsi da lei e farle strada senza
una parola verso le scale del laboratorio. Pepper scollegò
il cervello, lasciandolo a galleggiare nel buio nel tentativo di
estraniarsi almeno per quel breve tragitto ancora doloroso, reso meno
arduo dalla guida di Tony.
Non appena furono entrati, lui si sedette cautamente sulla sua solita
sedia, iniziando a trafficare con alcune schermate. Pepper tenne gli
occhi appuntati sul nuovo reattore stretto tra le sue mani –
il cuore di Tony, che gliel’aveva affidato di nuovo
– e cercando di escludere dal proprio campo visivo il
laboratorio e il vecchio reattore. Riusciva a sentire la tensione che
le pizzicava la pelle, come se volesse strappargliela di dosso, e
aumentò la presa sul cilindro metallico tra le sue mani.
Si accostò a Tony mentre si toglieva la maglietta, rivelando
il torace invaso di viticci gonfi e violacei e ormai impossibili da
contrastare, anche con la clorofilla e il dilitio; lo aiutò
ad assicurare gli elettrodi sul petto, proiettando il suo battito
cardiaco su uno schermo olografico. Anche ai suoi occhi inesperti
sembrava irregolare, e più debole di quanto avrebbe dovuto,
ma forse era solo suggestione.
«Ok, stavolta sarà più
facile,» esordì Tony, guardando ovunque tranne che
nei suoi occhi. «Niente allegro chirurgo, è
più come… come Tetris: io lo tolgo, tu lo
incastri, ed è fatta,» spiegò,
sforzandosi di mantenere un atteggiamento spigliato a dispetto della
pupilla dilatata nella quale si scorgeva chiaramente la sua profonda
apprensione.
Pepper annuì appena, incapace di elaborare una risposta che
potesse essere rassicurante. Tony si umettò le labbra,
sfregandosi nervoso il pizzetto, e fece presa sul bordo del reattore
nel suo petto con la punta delle dita, congelandosi nel gesto di
sbloccarlo. Lasciò ricadere la mano, inspirando a fondo dal
naso in un moto frustrato, e Pepper gli sfiorò la spalla,
non seppe se per dare sostegno a lui o per trovarlo lei.
Realizzò in quel momento, ripensando alla spiegazione di
Tony, che avrebbe potuto sostituirlo anche da solo. Eppure,
l’aveva voluta lì, come sempre. E anche lei voleva
esserci, a dispetto di tutte le proprie paure.
«Sei… sei pronta?» le chiese in quel
mentre, accennando al nuovo reattore nella sua mano e cercando di
spacciare quell’esitazione come qualcosa di voluto.
Pepper si riscosse e incrociò il suo sguardo, sentendosi
colma di una determinazione nuova che quasi la fece tremare.
«Sì,» rispose, con una voce chiara e
salda che sembrò cogliere di sorpresa Tony.
Era pronta davvero, qualunque sarebbe stato l’esito. Non a
perdere lui, quello mai – le mozzava il respiro il solo
pensiero – ma era pronta a rimanere, così come lui
era pronto a non arrendersi.
Un po’ di quel vigore sembrò trasmettersi a Tony,
che annuì con un unico cenno del capo e afferrò
di nuovo il reattore, più saldamente stavolta. Lo
ruotò fino a udire un lieve click,
per poi tentennare una singola frazione di secondo prima di estrarlo
con delicatezza dal suo alloggio. Lo vide trattenere il fiato come se
fosse in apnea. Il suo volto si fece subito cereo e la
cavità vuota sembrava occhieggiare maligna, quasi volesse
risucchiare entrambi, rievocandole ricordi vividi che era riuscita a
seppellire quasi del tutto. Ma quello non era un ricordo, e quella non
era una fine; non adesso, non stavolta.
Posò
con mani molli ma ferme la base del nuovo reattore sul bordo metallico
dell’alloggio, allineando le scanalature di aggancio; la mano
di Tony si posò allora sulla sua, accompagnandola nel
movimento e inserendo insieme il nuovo cuore al suo posto. Vi fu un
ultimo click metallico
che echeggiò definitivo nel laboratorio.
Tony
riprese a respirare appena, stringendo ancora la sua mano poggiata sul
reattore spento. Aveva funzionato? La domanda aleggiava inespressa tra
loro, entrambi con gli occhi puntati sul dischetto metallico inerte che
racchiudeva le loro speranze.
Un flebile guizzo azzurrino lo attraversò, per poi spegnarsi
con un sibilo.
Tony quasi boccheggiò e sembrò mancare un colpo,
ma i monitor non mandarono alcun segnale d’allarme, mostrando
solo il suo battito innaturalmente accelerato.
Poi, un lumicino stabile si accese nel nucleo, espandendosi pian piano
come un sole in miniatura, andando a riempire l’intera
circonferenza del reattore e illuminandola di un azzurro vivo e
limpido, pulsante di energia.
Tony, a quel punto, le stava quasi stritolando la mano. Alzò
di scatto lo sguardo su di lei, con un sorriso che titubava agli angoli
delle sue labbra, incerto se realizzarsi o meno, esattamente come
quello che Pepper sentiva sulle sue.
Lanciarono in sincrono un’occhiata agli schermi olografici,
leggendo con rapidità i dati in cerca di
un’anomalia, di una discrepanza, in attesa di un annuncio
negativo di JARVIS o di una reazione inaspettata del corpo di Tony. Non
accadde nulla. L’unico movimento era il 100% di un verde
brillante che lampeggiò infine in un angolo, a indicare la
compatibilità completa del reattore e del nuovo elemento.
Tony si coprì la bocca con la mano metallica, le
sopracciglia strettamentecontratte in un’espressione
incredula, e cercò il suo sguardo, rivelando
l’iride lucida e vinta dall’emozione.
«Funziona,» riuscì a esalare, con un
filo di voce.
Pepper percepì quella parola scrosciare come acqua nel
deserto, salvifica, fonte di sollievo e a lungo attesa, come le lacrime
che le sgorgarono all’istante lungo le guance, frenate solo
dal sorriso che si aprì sul suo volto. Tony
liberò una risata leggera e commossa, soffocata dal suo
palmo che trattenne forse anche un singulto, e le sfiorò la
guancia bagnata.
«Queste sono di nuovo lacrime di gioia?» le fece
notare, con dolce ironia.
«Direi di sì,» rispose lei, chinandosi
per abbracciarlo e trovando rifugio contro il suo petto irrorato di un
azzurro di nuovo accogliente. «Le tue?» lo
stuzzicò poi, strappandogli uno sbuffo.
«Può darsi,» le concesse con un sorriso
un po’ umido, prima di baciarla con inaspettata tenerezza.
«E adesso?» mormorò Pepper non appena si
furono separati, accarezzandogli il dorso della mano col pollice.
Quella domanda riecheggiò tra loro, come molto tempo prima,
e stavolta spalancò la porta sul futuro che aveva tenuto
chiusa fino ad allora.
«Adesso ricominciamo,» replicò Tony, con
un sorrisetto scaltro e un brillio nuovo nello sguardo.
Pepper poggiò la fronte contro la sua, annuendo tra le
lacrime, con la luce azzurrina e rassicurante del reattore che danzava
sui loro volti e sulle loro dita intrecciate.
"If
I
fall, get knocked out
Pick myself
right off the ground
When they turn
down the lights
I hear my
battle symphony
All the world in front of me
If my armor breaks
I'll fuse it back together"
27
Maggio, Stark Industries, Los Angeles
«Quindi
rifiuta?»
«Rifiuto?»
«Lo
chiede a me?»
«E
a
chi, sennò?»
«Si
decida.»
«Uh,
ok… sì.»
«Sì,
accetta, o sì, rifiuta?»
«No, io
non… rifiuto!
Rifiuto.»
Tony
alzò le mani in un gesto perentorio, a sottolineare le sue
parole definitive.
«Ok,»
replicò Ian, annuendo meditabondo.
«Posso… chiederle perché?»
Tony si
grattò la nuca, sfuggendo il suo sguardo per puntarlo al di
fuori della
vetrata, concentrandosi sul viavai metodico delle macchine sulla vicina
tangenziale.
Quello era esattamente il tipo di discussione che avrebbe voluto
evitare. Non
aveva resistito alla tentazione di presentarsi senza preavviso al
dipartimento
di Ian alle Industries, e si era compiaciuto della sua reazione di
stupefatta
meraviglia del medico nel vederlo lì, in condizioni fisiche
decisamente migliori del
previsto – anche se il bastone era un appoggio ancora
irrinunciabile. Era
sicuro di aver colto un brillio lucido negli occhi di Ian, che prima
ancora
di chiedere lumi sul perché e il percome fosse ora in ottima
forma, gli aveva
stretto la mano con raro calore, del tipo che Tony avrebbe giurato di
poter
sentire anche con l’arto metallico.
Dopo le
dovute spiegazioni, non sapeva bene come, erano finiti a parlare di
occhi e
congegni oculari; un argomento che, con sua stessa sorpresa, avrebbe
preferito
liquidare al più presto.
«Ormai
non mi sembra… così necessario,»
sbuffò infine, sempre senza guardarlo.
Ian
incrociò le braccia, inclinando il mento per scrutarlo da
oltre le lenti degli
occhiali, con le iridi acquamarina che lo stavano probabilmente
scannerizzando
dall’interno.
«È
buffo,» commentò infine, con un verso
indecifrabile a coronare
quell’affermazione.
Tony
alzò un sopracciglio mentre sprofondava un po’ di
più nella poltroncina.
«Io
sarei buffo?» nel dirlo si
puntò un indice sul petto, senza sapere se
dovesse sentirsi offeso o meno. «Questa mi mancava.»
«La
sua
risposta è buffa, perché è esattamente
quella che mi ha dato lui,» aggiunse
quindi il medico, scrollando le spalle. «Dice che ormai non
è più necessario,
che ha trovato un suo equilibrio.»
«Il
suo
amico è veramente strambo,» commentò
Tony, circospetto.
«Non
immagina quanto,» sorrise Ian. «Ma è
sicuramente più sincero di lei,»
osservò
pungente.
Tony
incassò la stoccata, facendo schioccare nervoso la lingua.
«La
verità, Doc?» esordì retorico,
inclinando appena la testa di lato. «Non so se
ho davvero trovato un equilibrio, anche perché mi sento
ancora un funambolo in
un circo, ma… non voglio rischiare,»
proferì infine, sbuffando aria dal naso.
«Potrei provarci, ideare qualcosa – i progetti ci
sono – operarmi…» esitò,
tamburellando con le dita sul reattore. «E se poi qualcosa
andasse storto?»
Scosse
la testa, a sottolineare la sua reticenza, e Ian annuì di
rimando, accettando
in silenzio quella decisione.
«Stephen
ha detto che, andando lì, potrebbe sistemare anche i difetti
“residui”, e non
si aspetta nulla in cambio,» aggiunse, spostando gli occhi
sulla sua gamba.
Tony
abbassò a sua volta lo sguardo, fissandolo sulle giunture
meccaniche della
caviglia che facevano capolino sotto l’orlo dei pantaloni.
«Non
so, Doc,» tentennò, arricciando le labbra.
«Sono un uomo di scienza, non mi ci
vedo a fare il guru della montagna. A ciascuno il suo,»
concluse in tono
deciso.
«Come
vuole, ma ci pensi. E glielo dico da scettico,»
specificò Ian, trattenendosi
visibilmente dall’aggiungere altro.
«Kathmandu
non va da nessuna parte,» commentò Tony, in cuor
suo piacevolmente sorpreso
dalla premura del medico, che appariva più allegro di quanto
l’avesse mai
visto. «Comunque, c’è un certo pirata di
mia conoscenza che potrebbe darmi una
mano a reperire almeno un occhio del colore giusto. Me lo
deve,» continuò,
scrocchiandosi con indolenza le dita e godendosi il sibilo delle
giunture ben
funzionanti.
«E per
il resto?» continuò Ian, facendo un cenno al suo
volto.
Tony
alzò le spalle, sfiorando di riflesso la benda e percependo
i bordi spessi e conosciuti della cicatrice
sottostante.
«Gliel’ho
detto, Doc: il sinistro è sempre stato il mio profilo
peggiore,» concluse dopo
una pausa studiata, sollevando l’angolo delle labbra in un
sorrisetto.
Ian
scosse la testa, ma il suo sbuffo esasperato sfumò in una
risata.
***
29
Maggio, Villa Stark
L’oceano
scintillava vivace, irrorato dalla luce di un intenso tramonto, e i
riflessi
parevano ammiccare dalla cresta delle onde verso la terrazza a picco
sulla
scogliera e addobbata a festa, con una lunga tavolata a occuparla.
Tony,
da sotto il ridicolo cappellino dorato con un “40”
rosso-fluo che gli era stato
calcato in testa a forza da Rhodey, esibiva un cipiglio contrariato e
ben poco
in accordo col clima goliardico che lo circondava.
«Questo
è tradimento,» sibilò per la terza
volta all’orecchio di Pepper, seduta
accanto a lui a capotavola.
Lei per
la terza volta alzò gli occhi al cielo, che adesso iniziava
a scurirsi
lasciando intravedere le prime stelle, per poi fissarlo col mento
poggiato
sulla mano e un sorrisetto saputo a distenderle le labbra.
«Ti ha
fatto piacere, adesso puoi ammetterlo,» sentenziò,
battendo le ciglia con deliberata
lentezza a sottintendere quella sua affermazione.
Tony
non rispose, s’impegnò a non lasciar ricadere la
mandibola nel vederla
ammiccare in quel modo languido, e addentò la sua pizza con
espressione un po’
imbronciata, minata però dal lieve assottigliarsi del suo
sguardo, che gli mise
in risalto le rughe del sorriso.
«È la seconda?» gli chiese vagamente
minaccioso Ian, due
posti più in là, con un cenno al cartone vuoto.
«La
prima,» mentì bofonchiando Tony, mandando
giù
l’ultimo boccone della sua terza fetta di pizza con
un’espressione angelica non
molto convincente.
Ian assottigliò lo sguardo, rendendolo abbastanza
appuntito da perforare il titanio, ma non commentò, e Tony
accolse di buon grado
il richiamo provvidenziale di Bruce, che, dopo essersi trattenuto fino
ad allora, si sporse infine verso di lui chiedendogli con fare
noncurante i
dettagli tecnici dello Starkium.
Doveva ammettere che, in fondo, molto in fondo, la
serata non gli stava dispiacendo. Si era quasi dato alla fuga quando,
di
ritorno da Los Angeles dopo aver sistemato con Kyle i suoi ultimi
inconvenienti
legali, si era ritrovato mezzo quartier generale dei Vendicatori in
casa –
oltre a una quantità esagerata di festoni rosso-oro, una
mole di cibo in
grado di sfamare un esercito, e una pioggia di coriandoli che
l’aveva
investito non appena varcata la porta della villa.
Ma, dopotutto, non gli stava dispiacendo così tanto,
nonostante l’astio malcelato per il proprio compleanno
– o forse proprio perché
per una volta sentiva di aver più di un valido motivo per
festeggiarlo. Per
esempio, la possibilità di poterlo
festeggiare.
E tra un
brindisi, un applauso, un finto singolar
tenzone con Nat, una gara di bevuta – persa – con
Thor, un letterale braccio di
ferro – in pareggio – con Cap, un bacio
sovrappensiero a Pepper che aveva
scatenato un’ovazione collettiva, e un quasi-infarto nel
ritrovarsi persino
Fury e Coulson alla porta, il pomeriggio era trascorso rapido,
accompagnato dalla parabola variopinta del
sole calante che si tuffava nell’oceano.
Adesso, anche se teneva per principio il broncio con Pepper, avrebbe
voluto prolungare quei momenti, col timore nascosto che potessero
sfuggirgli, o che fossero solo un sogno un po' troppo vivido; erano
dubbi che gli covavano nel cuore, ma che per
quella sera tenne a bada, soffocandoli nelle loro braci.
Rischiò seriamente di perdere la sua dignità
superstite
quando, verso le undici, gli fu piazzata sotto il naso una torta panna
e fragole
di dimensioni mastodontiche – con gioia sua e disperazione
completa di Pepper – sommersa
di candeline e accompagnata da un pacchetto rosso-oro sospetto,
consegnato da Nataša “da parte della
boy-band”. Cercò di rimandare il
momento di scartarlo, meditando di farlo in privato, ma lo sguardo
intimidatorio della donna lo convinse a cedere per evitare gravi
contusioni. Mascherare
l’emozione che gli avviluppò la gola
nell’aprirlo si rivelò uno dei compiti
più
ardui che avesse mai dovuto affrontare, ma mantenne un aplomb
impeccabile nel rivelare una cornice dello stesso rosso
dell’armatura, firmata
con un pennarello dorato dai Vendicatori. Racchiudeva la foto che aveva
mandato allo SHIELD, quella che sembrava ormai una vita fa, quando si
era messo in piedi per la
prima volta, sorridente e vittorioso. Era riuscito a ringraziare solo
con un
cenno del capo, rimanendo immobile per quasi un minuto intero, per poi
decidersi a stringere la mano a Steve e Clint, dare una vigorosa pacca
sulla
schiena a Bruce e rifilare un abbraccio a tradimento a Nat, per poi
negare
strenuamente ogni suo coinvolgimento emotivo.
Fu verso
mezzanotte che si decise infine a
mettere in atto il piano incompleto che aveva provveduto ad
architettare in
quei giorni, spronato anche da quel regalo imprevisto.
Reclamò l’attenzione di tutti
battendo una forchetta contro il proprio bicchiere e tutti rivolsero la
testa verso di lui, in un misto di
curiosità e sorpresa. L'euforia ormai quasi
dimenticata di trovarsi sotto i riflettori lo investì di
nuovo, piacevolmente. Si esibì in un sorriso placido,
attendendo che il chiacchiericcio sfumasse, per poi schiarirsi la voce
e
iniziare a parlare:
«Dunque, tenendo conto del fatto che mi avete sequestrato
contro la mia volontà, e che avete occupato illegalmente la
mia villa…»
Un coro di proteste indignate si levò dai suoi ospiti, e
si affrettò a continuare:
«… ritengo doveroso dirvi che tutto ciò
è uh… dirvi che è
stato… inaspettato e sorprendentemente piacevole,»
disse in fretta, decidendosi
a togliersi quel ridicolo cappellino sotto lo sguardo truce di Rhodey.
«Bastava un grazie, Stark!» gli gridò
Steve dal fondo del
tavolo.
«Non è un “grazie”!»
protestò lui, sentendosi d’un tratto
accaldato. «È un… un semplice
riconoscimento per…»
Tony s’interruppe in un secco sospiro, rimediandosi
qualche occhiata divertita, e notando quelle pungenti di Pepper che
sembravano
pungolarlo metaforicamente.
«È un grazie,» disse infine, con un
sorriso incerto.
Fu un bene che la maggior parte dei presenti avesse un
udito superiore alla norma, o quella frase pronunciata a mezza voce si
sarebbe
potuta perdere nello scroscio della risacca.
«Dobbiamo segnarlo sul calendario come “il giorno
in cui
Tony Stark disse grazie”?» ironizzò Nat,
impassibile se non per l’angolo delle
labbra inclinato furbescamente.
Tony alzò l’occhio al cielo, mangiandosi una
decina di
risposte sagaci e allargando le braccia con fare sconfitto, a dire di
procedere
come meglio credevano, per poi riprendere:
«Comunque… tutto ciò è stato
piuttosto… inaspettato, e
non mi piace molto dover rivedere i miei piani, ma in questo caso
farò
un’eccezione, visto che sono bravo a improvvisare,»
sogghignò, attivando uno
dei proiettori olografici esterni tramite JARVIS. «Chi si
offre volontario?» li
invitò poi, godendosi le loro espressioni perplesse, in
particolare quella di
Pepper, anche lei all’oscuro di tutto. «Nessuno?
Bene, allora scelgo io,»
dichiarò fermamente. «Partiamo da lei,
Agente.»
Si alzò in piedi e indicò col bastone da
passeggio
Coulson, che quasi sbarrò gli occhi.
«Io?»
«Visto che ho il sospetto che Audrey ce l’abbia
ancora
con me per la faccenda delle uh… vacanze interrotte,
ho pensato che
magari potevate aver voglia di farvene una… che so, alle
Bahamas?» buttò lì,
suscitando un’espressione basita sul suo volto quando il file
digitale di due
biglietti aerei si materializzò nell’ologramma.
Prima
che lui potesse replicare, e vedendo che lampi di
comprensione iniziavano a balenare sui volti dei presenti, si
affrettò a
continuare, stavolta sorridendo apertamente:
«Miss Russia,» chiamò, indicando Nat,
«per te ho qualcosa
di più pratico. Non ho avuto il tempo di ultimarla
fisicamente, ma…» l’ologramma
cambiò, mostrando il modello di una tuta stealth su misura,
completa di
accessori letali, e la spia rimase a metà tra
un’esternazione di stupore e una
di vivo interesse per quel regalo che incontrava decisamente i suoi
gusti.
«Carina, ha anche lo spray al peperoncino
incorporato?»
commentò infine, sorridendo maligna.
«Possiamo aggiungerlo,» le accordò Tony
con un occhiolino, spostando poi il
bastone in direzione di Barton. «Guglielmo Tell, ti ho
rifatto il corredo,
prego, non c’è di che,»
annunciò, mostrando un altro progetto, stavolta di un
arco hi-tech con frecce abbinate, e quasi poté vedere gli
occhi di Clint che
sbrilluccicavano, con un cenno d’assenso soddisfatto e grato
nella sua direzione.
A quel punto, la cosa sembrava essersi trasformata in uno
spettacolo di varietà, con Tony che faceva da conduttore e
loro che attendevano
trepidanti il proprio turno in quel gioco a premi improvvisato.
«Brucie,» continuò Tony con voce
più acuta del normale,
pescando il “partecipante” successivo, che quasi
rimpicciolì nel sentirsi
chiamare. «Devi sapere che sono rimasto traumatizzato dalla
tua totale
mancanza di pudore quando il tuo amichetto verde decide di arrabbiarsi,
quindi…» L’ologramma
sfarfallò, e mostrò quello che a prima vista
sembrava un normalissimo
paio di pantaloni. «Sono in fibra di titanio elastica, e
dovrebbero resistere a
Hulk e preservare la tua dignità in ogni
circostanza,» lo punzecchiò, mentre
lui assumeva un colorito fortunatamente porpora e non verdastro, poi
sbottare
in una risatina imbarazzata.
«Tony,
sei il peggiore,» commentò infine, con un
sospirò
bonario, mentre lui già proseguiva con un ghigno:
«Point Break, non ho idea di cosa si regali a un dio
asgardiano,» esordì, e il dio in questione lo
scrutò interessato, per poi
accigliarsi profondamente nello scorgere la proiezione di quella che
sembrava,
e indubbiamente era, una tavola da surf. «Quindi…
uh, mi perdonerai la poca
fantasia,» concluse, trattenendo
l’ilarità nel vedere il cipiglio perplesso di
Thor, che come sospettava non aveva ben colto l’utilizzo di
quell’aggeggio
midgardiano.
«Grazie, Stark, farò buon uso di questa nobile
arma!»
dichiarò poi, con voce roboante e senza esitazione, e
stavolta anche gli altri soppressero una
risata.
«Rhodey,»
riprese Tony, voltandosi verso l’amico senza celare del tutto
l’affetto che gli
illuminò lo sguardo, e lui incrociò le braccia in
attesa, sforzandosi di
mantenersi impassibile. «Il tuo non è un vero e
proprio regalo,» esordì,
facendogli aggrottare le sopracciglia. «E diciamo che non
c’è più bisogno di
sostituire Iron Man, perché, beh...»
Tentennò appena e tamburellò soddisfatto le dita
sul
nuovo reattore. «Perché sono un genio e ho
risolto il problema. Ma, magari, non ti
dispiacerà tenere War Machine e farmi da stuntman mentre mi
rimetto in sesto,»
concluse in fretta, lasciandolo a bocca aperta, esterrefatto.
Tony gli rivolse un sorriso raggiante, prima di rivolgersi verso il
successivo "vincitore":
«Happy, non mi sono dimenticato: per te c'è quella
Rolls Royce d'epoca che mi chiedi di poter guidare da circa quindici
anni, fanne ciò che vuoi,» lo invitò,
lanciandogli le chiavi dall'altra parte del tavolo.
Il suo autista le agguantò al volo per un pelo, con un
sorriso estasiato a illuminargli il volto arrossato da un paio di
bicchieri di troppo.
«E tu,
Barbanera,» Tony
girò sui tacchi, piantando l'indice verso di lui con fare
minaccioso. «Ce
l’hai davanti, il tuo regalo!» esclamò
poi, indicandosi con un sogghigno
compiaciuto e suscitando l’ilarità generale.
Fury
alzò l’occhio al cielo, ma soffocò un
accenno di sorriso che distese il suo volto costantemente corrucciato.
«E con
questo, direi che abbiamo… oh,un momento!» Tony
s’interruppe, frugando nella tasca
interna della giacca ed estraendo ciò che aveva recuperato
di soppiatto assieme alle chiavi, in uno
dei rari attimi in cui era riuscito a svicolare via.
Si
avvicinò a Rogers, che lo fissò perplesso,
evidentemente non aspettandosi di
venire incluso nei ringraziamenti. Quando fu a portata di braccio, gli
tese la
foto con suo padre e Peggy che aveva trovato nello scatolone dello
SHIELD. Vide i suoi occhi
chiari dilatarsi per lo stupore, e poi farsi un po’ lucidi
mentre prendeva con
delicatezza la foto tra pollice e indice, quasi avesse potuto
sgretolarsi sotto il suo tocco.
«Ce ne
sono altre, circa una ventina… magari uno di questi giorni
vieni a darci
un’occhiata,» buttò lì Tony
con un sorriso gentile, tentando di trarlo
d’impaccio.
Steve
annuì, deglutendo un po’ rumorosamente.
«Grazie,
Stark,» gracchiò, incontrando brevemente il suo
sguardo per poi fissarlo di
nuovo, annebbiato, sulla foto.
Tony
gli rivolse un cenno del capo, poi si discostò da lui
tornando a capotavola, ma
rimase in piedi, imbastendo un’aria pensosa.
«Dicevo
che adesso abbiamo finito coi ringraziamenti…»
Fece una pausa a effetto. «Quindi,
direi di passare ai ringraziamenti speciali,»
concluse, guardando in
successione Ian, Kyle e infine Pepper, che prevedibilmente
arrossì nel sentirsi
tirare in causa.
«Dottor
Ian Mitchell,» iniziò, con fare un po’
pomposo stemperato da un timbro faceto.
Questi
si raddrizzò sulla sua sedia, quasi sull’attenti.
«Per la
dedizione, la professionalità e l’impegno che ha
avuto come mio medico, per l’umanità, la
disponibilità e la pazienza dimostrati come amico, e per
essersi impegnato
attivamente nell’impedirmi di fare stronzate per
più di un anno e mezzo…» Ian scosse
la testa con fare imbarazzato, agitandosi sul posto,
«… le comunico
personalmente la sua promozione a consulente generale del dipartimento
biomedico delle
Stark Industries e a capo ricercatore del Progetto Phoenix,»
concluse, avviando
lui stesso l’applauso, che risuonò subito corposo
sulla terrazza illuminata, riecheggiando sulle onde festose dell'oceano.
Osservò
l’espressione basita del medico, che si stava sforzando
inutilmente di
elaborare una risposta sensata, finendo solo per boccheggiare a vuoto,
vinto
dall’emozione che lo costrinse a togliersi gli occhiali
appannati mentre Kyle
gli dava una vigorose pacche di congratulazioni sulla spalla.
«Oh, la smetta con la pantomima,» lo riprese
bonario Tony, quando lo vide addirittura voltare le spalle agli altri
per ricomporsi. «Lo
sanno tutti che, sotto sotto, ha un cuore d'oro,» concluse
ammiccando.
«Non lo dica troppo in giro,» replicò
Ian, burbero come sempre, ma con occhi luminosi e caldi.
Tony
spostò il peso da un piede all’altro,
picchiettando a terra col bastone e
tirando un grosso respiro per prepararsi all’annuncio
successivo, che gli
avrebbe probabilmente fatto perdere il poco contegno che era ancora
riuscito a
mantenere.
«Avvocato
Kyle Andrews,» lo richiamò, con voce piena, e lui
lasciò perdere Ian voltandosi di scatto, con un
respiro visibilmente bloccato in gola.
Tony
fece un sorriso scaltro, passandosi il bastone da una mano
all’altra ad
aumentare la suspense, e prima ancora di iniziare a parlare, lo vide
sgranare
gli occhi in un moto di comprensione.
«So che
ci ho messo più tempo del previsto…»
«Oddio,»
esalò subito Kyle, portandosi le mani a coprire bocca e
naso, e Tony sorrise,
avvicinandosi di un paio di passi.
«… e
che ci sono stati un paio di imprevisti strada
facendo…» continuò, con fare
vago.
«Oddio,»
ripeté Kyle, stavolta con voce udibilmente spezzata.
«… ma
una promessa è una promessa,» concluse Tony,
mentre l’ologramma dietro di lui
cambiava a un suo cenno.
Kyle
liberò un’acuta esclamazione di pura
felicità che quasi lo assordò nel vedere il
progetto completo dei suoi tutori galleggiare a mezz’aria,
accompagnati dalla
foto del prototipo che Tony aveva testato in quella settimana, quando
era finalmente riuscito a sfruttare le
potenzialità dello Starkium a lavorare a mente libera su
quel progetto.
«Stark,»
singhiozzò Kyle, tra le lacrime di gioia che non si stava
neanche curando di
trattenere o nascondere. «Vieni subito
qua,» gli intimò, facendogli un
cenno con la mano e riuscendo a formare un sorriso sbilenco con le
labbra
tremanti.
Tony
eseguì, mentre attorno a loro partiva un altro applauso
avviato da Ian, che a
questo punto aveva a sua volta due scie umide a solcargli le guance e
si stava
di nuovo stropicciando gli occhi da sotto le lenti, mandando all'aria
ogni presunto tentativo di compostezza.
«Grazie,
Stark,» disse il ragazzo, con un altro singhiozzo.
«Grazie, grazie, grazie,»
continuò a ripetere, aumentando ancora la stretta, e Tony
ricambiò, lieto che
stesse dando le spalle agli altri così da camuffare la
propria emozione.
«Grazie
a te, K,» replicò, dandogli
una lieve pacca sulla schiena.
Si
separarono con fare impacciato, Kyle paonazzo come non mai e Tony con
una
maschera molto poco convincente stampata in faccia. Incontrò
di sfuggita lo
sguardo di Pepper, anch'esso luminoso e irradiato di gioia come quello
dei presenti, ma le parole che per una volta si era preparato si
rifiutarono di uscire, troppo intime e sentite per essere pronunciate
in
pubblico come aveva programmato. Le rivolse un sorrisetto di scuse, e
lei si
limitò ad annuire discretamente, capendo come sempre senza
bisogno di parole.
«Direi
che un brindisi è d’obbligo!»
esclamò invece, riempiendo il silenzio, e si
allungò a
recuperare il proprio bicchiere, indirizzandolo verso Kyle, Ian, e poi
il resto
degli ospiti, senza però staccare gli occhi da Pepper.
Prima
di poter dire altro, fu Thor ad alzare il proprio bicchiere,
rivolgendolo verso
di lui con un gesto solenne.
«All’uomo
di ferro!» tuonò, subito imitato dagli altri, e
Tony sussultò sul posto,
guardandosi attorno quasi spaesato, con quel calore appena sbocciato
nel petto
che prendeva a fiorire, più intenso, nel vedere i bicchieri
di tutti che si levavano
verso di lui.
Si
ancorò agli occhi di Pepper, in cerca di un punto fermo che
permettesse ai suoi
pensieri in tumulto di ritrovare un ormeggio e un ordine logico, per
poi
scoprire di non volerlo fare, di volersi abbandonare a quella giostra
di
emozioni che lo rintronava piacevolmente, a quelle ondate di gioia ed
esaltazione che gli si abbattevano nel petto mozzandogli il respiro e
donandogli poi ossigeno, soffocando del tutto le voci maligne e deboli
in sottofondo.
Non si
riconosceva quasi più, ma allo stesso tempo non si era mai
sentito così
puramente se stesso da più anni di quanti riuscisse a
contare. Era cambiato, o
forse era solo riuscito a dare risposta alle mille domande che avevano
continuato ad affollarsi nella sua testa e che aveva sempre scelto di
ignorare.
“Hai
una famiglia?”
Con una
traccia di malinconia a inclinargli le labbra, considerò uno
ad uno i presenti,
lasciando che i suoi occhi includessero ognuno di loro, venuti a
festeggiarlo
mentre sorridevano a lui, per lui. Sorrise
loro di rimando e alzò a sua volta il bicchiere, accettando
il brindisi,
accettando la vittoria, accettando se stesso.
Mentre
beveva, spostò
fugacemente lo sguardo al cielo ormai indaco, punteggiato dalle prime,
timide stelle affacciate
sul mare, e sorrise.
Forse ci aveva messo un po’ più del previsto, ma
aveva
finalmente una risposta a quella domanda.
***
30
Maggio, Villa Stark
Era
l’una e mezza passata quando anche Nataša, Steve e
Bruce si congedarono dalla
villa, dopo aver aiutato lui e Pepper aiutati a rimettere un
po’ d’ordine e
aver strappato loro la promessa di farsi rivedere presto al quartier
generale.
Tony rimase
ancora in terrazza, godendosi l’aria fresca della sera e il
mormorio quieto delle
onde. Aspettava Pepper poggiato di schiena sul parapetto, sapendo che
lei non
avrebbe tardato a raggiungerlo; e infatti, dopo pochi minuti
uscì a sua volta,
ancora col vestito verde addosso.
Si
avvicinò a lui, cingendogli poi la vita, e gli
posò un bacio sulla guancia.
«Ammetto
che un po’ mi è piaciuta,» disse lui,
con un piccolo sogghigno.
«Non
l’avrei mai detto,» replicò Pepper, con
aria saputa e chiaro compiacimento.
«Non
montarti la testa,» la riprese lui, con uno sbuffo divertito.
«Da che
pulpito…» lo mise a tacere lei, alzando gli occhi
al cielo e poggiandosi contro
di lui. «Alla fine, sei stato tu a sorprendere
noi,» commentò dopo qualche secondo, con voce
serena.
«Sì, di solito ci riesco bene,»
replicò lui, sornione, chiedendosi se ci sarebbe riuscito
anche con lei.
«Girati,»
le disse, a bassa voce.
Lei
corrugò le sopracciglia, con gli occhi accesi di
curiosità, ma eseguì,
porgendogli le spalle lasciate scoperte dal vestito e punteggiate di
delicate efelidi.
Lei trasalì appena nel sentire il metallo
freddo contro la pelle. Voltò appena il capo con fare
sorpreso, per poi puntare
lo sguardo sul ciondolo, una piccola goccia azzurrina adagiata tra le
sue
clavicole, e sfiorarlo con la punta delle dita.
Tony le
si accostò, poggiando il mento sulla sua spalla e sollevando
a sua volta il
ciondolo tenendolo tra pollice e indice.
«Quello
al centro,» spiegò, a un soffio dal suo orecchio,
indicando la parte centrale
della goccia, di un blu profondo e cangiante che ricordava un cielo
stellato.
«È vibranio grezzo. Era nello studio di mio padre
e… beh, ho pensato che,
simbolicamente parlando, sarebbe stato più elegante
di… di una semplice
chiave,» concluse, ringraziando il fatto che Pepper non
potesse vederlo in
faccia. «Quello attorno,» continuò,
stringendola un poco a sé e passando il
dito sulla cornice più chiara, dello stesso colore del
reattore arc, «è
Starkium e… sarebbe...insomma, non te lo devo
spiegare,» concluse, in fretta e
chiedendosi se non avesse esagerato coi simbolismi.
Pepper
rimase in silenzio, accarezzando la superficie del ciondolo che aveva
modellato
di nascosto in quei giorni, sfruttando la sua scarsa abilità
di orefice riuscendo a trarne qualcosa di almeno esteticamente
gradevole. Non era comunque
quella la parte più importante, e rimase col fiato sospeso
ad attendere la
reazione di Pepper.
Lei si
girò piano, quasi con cautela, e lo guardò con
occhi liquidi, messi in risalto
dal colore della collana. Gli posò una mano sul petto e
incontrò infine e sue
labbra in una carezza lenta, coinvolgendolo in un bacio delicato ma
intenso in
ogni movimento congiunto delle loro labbra, tanto che quando si
separarono
erano entrambi senza fiato.
«È
bellissimo,» sussurrò lei, con un filo di voce e
un sorriso pieno che le
illuminò gli occhi.
Tony
sorrise, mostrandosi compiaciuto e tirando internamente un sospiro di
sollievo,
osservando Pepper che stringeva di nuovo il ciondolo con dita quasi
tremanti.
«E non
è finita qui,» mormorò lui, sollevando
un sopracciglio con fare impertinente e attirando di nuovo la sua
attenzione.
«Il Cipriani ci aspetta,» rivelò poi,
suscitando un’espressione scioccata sul
volto di Pepper.
«Sul
serio?» riuscì a dire, incredula.
«A…»
«… a
Venezia, sì. Ho pensato che, per una volta, me lo sono
meritato,» scherzò poi, scostandole
una ciocca dal volto senza volersi addentrare in discussioni troppo
cupe.
Lei
però non lasciò correre e gli prese il viso tra
le mani, a sottolineare la sua
assoluta serietà con quel gesto che compiva ancora di rado.
«Ti sei
meritato tutto ciò che hai adesso,
Tony,» dichiarò perentoria, senza distogliere gli
occhi dai suoi. «E non voglio più tornare sulla
questione,»
concluse, a metà tra il serio e il faceto, lasciando
intendere che, se mai
avesse voluta, sarebbe sembra stata pronta ad ascoltarlo.
Lui
annuì appena, scoprendo che quelle parole non gli causavano
più un rifiuto
viscerale ma, anzi, un senso di soffusa contentezza, come di un lavoro
portato
a termine dopo molto tempo e molti sforzi. Abbassò lo
sguardo, confuso da
quella sensazione e dallo sguardo che gli stava rivolgendo Pepper.
Pensò
che era grazie a lei se era lì, ma che era per lei che voleva esserci, e
la
confusione che gli aleggiava in testa prese contorni più
morbidi e piacevoli,
conosciuti, legati a doppio filo a quel punto tra il reattore e il
cuore che
adesso lo scaldava più che mai. Forse, da qualche parte tra
l’accettare di
essere amato e il lasciarsi amare, aveva imparato ad amare lui stesso.
«Stai
bene?» mormorò Pepper nel vederlo pensoso,
accarezzandogli le spalle.
Tony
posò le labbra sulla sua guancia, sfiorandole le ciglia, e
inspirò a
fondo contro la sua pelle inalando il suo profumo. Lasciò
che gli solleticasse
i polmoni: brezza marina, un sentore primaverile, una nota floreale di
giglio.
Sapeva di casa, già da molti anni.
Le scostò la frangia dal volto con un dito
metallico, sorridendo a fior di labbra nei suoi occhi.
«Sì.»
***
Tre
mesi dopo, Malibu Beach
Il mare
era calmo, e si trascinava pigramente sulla spiaggia dorata di Malibu,
dipingendola di effimere pennellate più scure in un moto
continuo di spuma.
Soffiava un vento leggero, fresco e carico di salsedine che pizzicava i
polmoni.
Tony si
stiracchiò, allungando le mani verso il cielo terso, appena
tinteggiato dalle
dita rosate dell’alba, e si sollevò sulle punte
dei piedi sentendo i muscoli
che si contraevano piacevolmente nell’aria frizzante del
primo mattino.
Riportò
lo sguardo alla distesa di piccole dune dorata di fronte a lui,
individuando in
lontananza i piccoli dolmen di rocce che aveva eretto nei giorni
precedenti, a
segnare il traguardo raggiunto di volta in volta in
quell’esercizio mattutino.
Puntò l’ultimo, con le mani piantate sui fianchi
mentre prendeva un respiro
profondo, molleggiò un paio di volte sulle gambe e mosse il
primo passo,
dandosi la spinta per spiccare in una corsa leggera.
Si
sforzò di non pesare troppo sul lato destro, cercando di
equilibrare il
movimento più rigido della protesi con quello naturale dei
muscoli veri, e dopo
qualche decina di metri riuscì a renderlo più
fluido, sebbene non perfetto. Ma
la protesi rispondeva con prontezza, priva dei difetti che
l’avevano tormentato
fino a poco tempo prima, e lui riusciva a correre.
All’inizio era stato
solo per qualche metro, in palestra e sotto lo sguardo attento di
Nataša, e via
via in modo sempre più sciolto sul tapis roulant, fino al
giorno in cui aveva deciso che, perché
no, poteva anche correre in spiaggia, e aveva raggiunto il traguardo di
un
chilometro. Era allora che gli era venuta l’idea dei dolmen:
una sorta di mèta
fisica che lo spingeva a fare sempre meglio, con l’obiettivo
finale di Iron Man
che sembrava attenderlo a braccia aperte alla fine di quella gara
contro se
stesso.
Sentì
il solito indolenzimento che lo coglieva al moncherino, spia di quanto
a lungo
poteva correre prima di risentirne, e lo tenne sotto controllo senza
lasciarsi
fermare, cadenzando il respiro e lasciando che il proprio corpo si
abituasse a
poco a poco allo sforzo prolungato.
Aumentò
ancora la velocità e continuò a correre, col
vento in faccia, l’oceano che gli
lambiva le caviglie e lo sguardo puntato
all’orizzonte.
E anche senza armatura, sentì di poter spiccare il volo da
un momento all'altro.
~ Fine ~