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Autore: BabaYagaIsBack    27/07/2019    1 recensioni
Jay ha diciotto anni e tutto ciò che ha imparato sulla vita le è stato insegnato da Jace, il fratello maggiore, e i suoi migliori amici. Cresciuta sotto la loro ala protettrice, ha vissuto gli ultimi anni tra la goffaggine dell'adolescenza, una cotta mai confessata e un istituto femminile di cui non si sente parte. E' ancora inesperta, ingenua e alle volte fin troppo superficiale, ma quando Jace decide di abbandonare Londra per Parigi, la sua quotidianità, insieme alle certezze, iniziano a sgretolarsi, schiacciandola sotto il peso di ciò che non sa
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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§ A Shadow §

Sul vagone della metro Jace mi tiene stretta, cerca di scaldarmi nella gelida sera dicembrina, mentre il freddo prova a penetrare gli strati di stoffa e carne. Tiene gli occhi chiusi e la testa all'indietro, godendosi la vaga sensazione di tranquillità che permea nel vagone.
Mi fa strano sentire il suo torace sotto al braccio, il suo respiro accanto all'orecchio; a tratti pare un sogno che temo possa finire - perché averlo qui accanto mi dà sicurezza, mi illude che le cose brutte non possano accadere.

Senza preavviso la sua voce spezza il mutismo tra di noi, riportandomi con i piedi per terra: «Parlami di come vanno le cose» sussurra, aprendo una palpebra e scrutandomi.

«Di cosa ti dovrei parlare, esattamente?»

Mio fratello fa spallucce, quasi cercando di far apparire il discorso meno importante, imbarazzante o altro, di quel che è. Nella sua espressione temo di poter trovare la risposta alla domanda appena posta, così evito di voltarmi nella sua direzione e continuo a seguire le linee bluastre che si nascondono sotto l'epidermide della sua mano.

«Stai uscendo con qualcuno? O hai fatto qualche amicizia particolare?» chiede, sistemandosi sul sedile. In un angolo oscuro della mente sento che dovrei essere a disagio di fronte a questa domanda, ma invece, ciò che realmente mi preoccupa, è il fatto che questa sua curiosità possa essere scaturita per via di ciò che è successo con Seth nelle settimane precedenti; dalla litigata nella macchina di Charlie, alla nottata spesa a casa sua.

Alzo gli occhi al cielo, sbuffando: «Cosa ti ha detto?»
«Chi?» la sua espressione prende una piega confusa, quasi non riesca realmente a capire di cosa sto parlando.

«Mi pare ovvio, Seth»

D'improvviso Jace corruga le sopracciglia, sporgendosi in avanti per riuscire a fissarmi in viso. Sembra seriamente non capire e, quasi, mi sorge il dubbio d'aver fatto l'ennesima gaffe. Possibile che il suo fosse un interesse fine a se stesso?

«Cosa c'entra lui?» vorrei davvero ignorare il fatto che dal tono che ha usato sia trapelato del nervosismo, ma non ci riesco e, involontariamente, mi ritrovo a chiedermi cosa lo stia irritando tanto. È successo qualcosa che dovrei sapere?
Finalmente mi ritrovo a ricambiare il suo sguardo e, armandomi di tutta l'innocenza possibile, cerco di scagionare entrambi dai possibili sospetti che hanno preso a riempire la mente del ragazzo accanto a me.

Gli sorrido mestamente: «Nulla, tranquillo! Ha solo messo in evidenza il fatto che ancora non ho avuto un fidanzato, quindi pensavo stessi indagando a riguardo, in modo d'avvertire i ragazzi di tenermi d'occhio» gli rispondo poi, afferrandogli la mano che pende alla fine del braccio con cui mi cinge a sé. Lui scruta la mia faccia, ne indaga ogni sfaccettatura finché, alla fine, si convince che ciò che sto dicendo è la verità.

Anche perché non posso certo dirgli che il suo migliore amico ha avuto il coraggio di lanciarmi umilianti frecciatine a sfondo sessuale!

***

Il giorno di Natale lo abbiamo fatto passare tra un pacchettino scartato, una mangiata salutare, seppur ricca, e una bevuta di vino bianco. Ci siamo concessi i classici cliché dell'occasione, amandoci un po' più del solito anche grazie all'etanolo in corpo.
Così, dopo lo strafogo del pranzo, il pisolino è d'obbligo, ma al posto di seguire Jace e Liz nella stanza di lui, per goderci un bel film e qualche sogno dalle sfumature dubbie, resto qualche minuto in più in salotto, lasciando che i vinili di mio padre coccolino le orecchie.

Lui, l'uomo da cui sono arrivata sottoforma di spermatozoo, se ne sta afflosciato sulla sua poltrona preferita, leggendo e canticchiando piano qualche brano di Bob Dylan.

Lo fisso di sottecchi, mentre di tanto in tanto allontano gli occhi dal puzzle a metà a cui sto lavorando. Ci rivedo tanto di mio fratello nei suoi tratti, così come mi pare, anche se di sfuggita, di scorgere un po' di me nel modo in cui muove le labbra o si gode "Mr Tambourine Man" - forse è proprio da lui che è nata la voglia di Jace di fare musica che, poi, ha influenzato anche me.

«Allora Jane, piani per questi giorni di vacanza?» domanda Jakob alzando gli occhi dal quotidiano che tiene tra le mani e sovrastando la voce di Bob.

Faccio finta di non prestargli grande attenzione, ma sotto sotto avverto un certo piacere nel saperlo interessato a ciò che faccio o che vorrei fare. Passando quasi cinque giorni alla settimana fuori città non può essere sempre presente, eppure quando torna cerca di essere il classico papà che tutti vorrebbero e dovrebbero avere.
Domanda, si tiene aggiornato. Ci coinvolge in discussioni di varia natura o ci porta fuori per il brunch; ogni tanto organizza serate al cinema o piccole gite in cui scoprire le bellezze della Gran Bretagna - insomma, lui c'è e, se non fisicamente, quantomeno con lo spirito.

Alzo le spalle e scuoto la testa: «Non proprio. Sto cercando di stare al passo con Jace» confesso, sapendo che infondo, per il capostipite dei Raven, il legame che c'è tra me e mio fratello è fonte d'orgoglio, soprattutto perché lui non ha mai potuto condividere nulla di simile con qualcuno.

Papà si sistema gli occhiali sul naso, ora più incuriosito di prima: «E basta?»
«Dovrebbe esserci dell'altro?» confusa, lascio perdere il pezzo di puzzle che tengo tra le mani e non so dove collocare, sollevando lo sguardo sull'uomo sedutomi di fronte. Pare quasi che mi stia sfuggendo qualcosa che a lui invece è chiarissima.

Per un attimo restiamo sospesi in uno strano silenzio, tempo che l'uomo volontariamente mi sta lasciando per giungere da sola alle conclusioni più appropriate. Nonostante questo, però, nella mia mente non si può trovare nulla, nemmeno materia grigia in eccesso.

Forse l'alcol mi ha stordita più del dovuto.
O forse è arrivato il momento che vada a pisolare anche io.

«Supponiamo che ancora tu non sia riuscita a farti delle amiche» inizia, chiudendo il giornale: «cosa che ormai credo sia un vero e proprio deficit... ma un ragazzo? Sei sempre circondata da uomini, possibile che nessuno ti abbia chiesto di uscire?»

Ma in questa casa si stanno coalizzando tutti contro di me?

Dalla nonna a papà, da Jace a mia madre, sembra che qui si preoccupino più della mia vita sentimentale che dei problemi reali della famiglia - anche se sono davvero pochi. Perché nessuno si domanda il motivo per cui mio fratello è ancora single? Non dovremmo preoccuparci prima di lui, visto che è più vecchio e più piacente?
D'un tratto mi ritrovo a non sapere se arrossire o sbraitare.

Sbatto le palpebre in un gesto d'evidente incredulità: «Tu non dovresti tifare a favore della mia castità?» mi vien naturale domandare, incapace di elaborare del tutto ciò che sta accadendo.

Di norma, secondo quanto riportato da film, show televisivi, libri e quant'altro, un padre dovrebbe considerare la propria bambina come la cosa più sacra al mondo, diventando persino geloso dell'uomo con cui lei decide di passare il tempo: perché nel mio caso non è così?

Jakob soffoca una risata, perché a differenza della moglie riesce a carpire il velo sottile di umorismo presente nelle risposte che do, ma poi cerca subito di ritornare serio e affrontare un discorso che non son certa volere che mi faccia.
«Per l'amor del cielo, Jane! Credi davvero che sia così facile per me dirti cose come questa? No tesoro, no... Ciò che mi preoccupa non è certo la tua vita sentimentale. Più tardi arriveranno gli spasimanti, più io ne sarò felice» ora il giornale viene abbandonato sul tavolino accanto alla poltrona, mentre papà si sporge in avanti per vedermi meglio - ormai la vista non è più quella d'un tempo.

Con le mani si tocca gli angoli della bocca, portandosi via gli ultimi resti del sorriso.

Adesso le cose sembrano davvero farsi serie.

«Quando è stata l'ultima volta che ti sei fatta degli amici?»

«Io ho degli amici... Seth e Charlie cos'hanno di sbagliato?» la confusione si fa sempre più intensa e temo di non capir proprio dove voglia andare a parare il suo discorso.

Avevo sempre creduto che Morgestern e Benton fossero, tutto sommato, simpatici all'intera famiglia Raven, ma ora mi vien quasi da credere che non sia così, che mio padre non li trovi adatti per la sua piccina.

«Nulla tesoro, figurati! Sono come dei nipoti per me» si affretta a dire.

E allora dove è il problema?

«Solo che sono gli amici di Jace» sottolinea poi in un sussurro.

Sì, sono gli amici di Jace, ma anche i miei.
Lui li ha conosciuti prima grazie alle lezioni di musica e alla scuola, però loro si sono affezionati anche a me e viceversa.

Piego la testa da un lato, sforzandomi davvero di leggere tra i pensieri di Jakob - ma lui sembra indossare un elmo capace di impedirmi di scoprire ciò che nasconde.

«Jane, vedi... ho paura che tu stia vivendo nella sua ombra. Tutto ciò che fai è scandito dal ritmo di tuo fratello» prova ad abbozzare un sorriso, cosa che appare terribilmente stupida ora: non è di un contentino che ho bisogno.

«I suoi amici. I suoi interessi. I suoi passatempi. Lo senti più di chiunque altro lo conosca e sei quella che più di tutti ne soffre l'assenza. Mamma ed io...» picchiando il palmo della mano sul tavolo interrompo il suo discorso, sopraffatta improvvisamente dalla consapevolezza di ciò che è stato detto fin ora e ciò che ancora è da dire.

Mi mordo forte la lingua, provando a trattenere l'infinita malinconia che pare volermi aggredire di sorpresa.
So benissimo di aver vissuto inseguendo la schiena sempre più grande di Jace, ma ciò che ho ora me lo sono guadagnato - se non fossi simpatica a Charlie e Seth non mi farebbero star con loro, men che meno mi cercherebbero.

Ma loro lo fanno, costantemente.
Mi coinvolgono.
Mi insegnano ciò che sanno tra un sorso di qualche bibita e l'altro.
Mi fanno sentire protetta e ben voluta.

Non ho bisogno di altre persone.

«Per favore, non roviniamo la giornata» gli chiedo, visibilmente turbata.
«È una questione d'affrontare, Jane» prova a insistere, a persuadermi.

D'un tratto mi alzo, in testa ho il chiaro intento di sgattaiolare via il prima possibile per riuscire ad andare a cercare conforto proprio da colui che è origine di tutta questa storia: «Non adesso» soffio, sapendo che se dovessi alzare troppo il tono si sentirebbe il tremore nella voce. Abbasso lo sguardo sul puzzle, faticando a sorreggere quello di papà: «Io sto bene dove sono e finché sarà così non avrò bisogno di cambiare» affermo con una certa convenzione, un atteggiamento che non mi sta bene addosso. 
Prendo coraggio e scivolo lungo il lato del tavolo, passando accanto all'albero addobbato e arrivando alla soglia del salotto.

Il vecchio non demorde e, per non lasciarmi andar via con l'amaro in bocca, ci concede un po' di dolcezza: «Sto solo pensando al tuo bene, al tuo futuro e alla donna che potresti diventare se prendessi la tua vita tra le mani».

Già, si usa sempre questa scusa. Il mio bene però è davvero qualcosa di diverso da ciò che ho?

Faccio per imboccare la rampa delle scale quando, come una tempesta, i passi di Jace prendono a riempire l'atrio.
Cammina svelto sul pianerottolo per poi mettersi a scendere i gradini a due a due, ottimizzando i tempi e diminuendo le possibilità che qualcuno possa interromperlo.
Compie falcate sicure, a tratti rabbiose, esattamente come la sua espressione.

«J-» provo a chiamarlo, ma lui mi passa davanti lanciandomi un'occhiata bieca, tanto severa da bloccare il suo nome a metà gola. È un nodo che blocca la salivazione e fa aumentare le domande, ma non riesco più a parlare.

Sfila il cappotto dall'attaccapanni, incurante del macello che si viene a creare mentre gli altri cadono a terra insieme a sciarpe e borse. Non si preoccupa di nulla, nemmeno di quanto strano sia il suo atteggiamento e, infilandosi anche le scarpe, se ne esce sbattendo con violenza la porta.

Che sta succedendo?

Alle mie spalle tuona la voce di Jakob: «Ma lo sapete quanto costa quella porta?!» ma a nessuno importa; né a Jace che ormai è sparito oltre l'anta e l'angolo della via, né a me, che resto interdetta a fissare il fantasma della sua sagoma.

Vederlo arrabbiato, seriamente turbato, è forse una delle cose più rare che possa ricordarmi.
Eppure oggi è così.

   
 
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