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Autore: Stria93    10/12/2020    1 recensioni
Zoom introspettivo in due parti sui pensieri di Kakashi rispetto alla formazione della nuova Squadra 7.
Dal testo del primo capitolo: "L'indomani li avrebbe messi alla prova e solo a quel punto avrebbe capito se quei tre si sarebbero rivelati l'ennesimo fallimento o piuttosto una preziosa opportunità di tramandare l'eredità del Quarto Hokage e di Obito a una nuova generazione di shinobi.
Il Terzo Hokage gli aveva assegnato quel compito e Kakashi avrebbe fatto il suo dovere, come sempre... ma alle sue condizioni. Non gli importava che gli altri lo considerassero troppo duro con le nuove reclute fresche di diploma, né che i maestri dell'accademia scuotessero la testa ogni volta che gli aspiranti Genin sottoposti al suo giudizio facevano ritorno in aula delusi e imbronciati: non avrebbe mai permesso che qualcuno incapace di collaborare con i propri compagni e di comprendere l'importanza dello spirito di squadra diventasse shinobi. Mai."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kakashi Hatake
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto prima serie
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cap 1

The day before...





Kakashi Hatake sedette sul bordo del letto esalando un lento sospiro che gli si riversò fuori dalle labbra come una benedizione dopo quella lunga giornata. Il materasso accolse docile il suo peso, cigolando impercettibilmente.
La luce calda del tramonto che stava calando come un velo dorato sui tetti di Konoha imporporava il cielo e filtrava dalla finestra, rivelando le impalpabili particelle di pulviscolo che fluttuavano senza schema davanti a lui, ora agitate dal flusso d'aria provocato dai suoi movimenti nella stanza.
La schiena curva, le braccia abbandonate inermi sulle gambe con le mani penzoloni, lo sguardo rivolto al labirinto di piccole crepe che si rincorrevano intersecandosi nel pavimento... tutto nel suo modo di sedere su quel letto raccontava di un uomo stanco, scoraggiato.
Non era certo quella l'immagine che il mondo degli shinobi aveva di lui: Kakashi dello Sharingan, il formidabile Ninja-Copia di Konoha, il prodigio che, appena dodicenne, si era guadagnato il titolo di Jonin e che di lì a poco era diventato un eccezionale capitano delle Forze Speciali ANBU, veterano della Terza Grande Guerra.
Il suo nome era rispettato e temuto; sinonimo di talento, valore, e genialità in tutte le cinque Grandi Terre. Ma sulle sue spalle gravava il fardello di un vissuto travagliato segnato da una sequela di eventi tragici che, uno ad uno, avevano concorso a scavare un solco sempre più profondo nella sua anima, inaridendola fino a trasformarla in uno sterile deserto dove l'unica cosa che cresceva era il rovo infestante e velenoso del lutto. Durante il suo ultimo periodo al comando degli ANBU, chi avesse provato a guardare oltre quella corazza di gelida indifferenza, avrebbe scorto solo la triste visione di un giovane uomo che aveva fretta di morire. Una persona intossicata dal rimpianto, che si trascinava giorno dopo giorno alla stregua di un fantasma lungo un infinito sentiero di espiazione privo di una meta, sordo al richiamo di qualunque piacere potesse offrirgli la vita ancora nel pieno della sua primavera.
Il suicidio di suo padre Sakumo aveva messo precocemente fine alla spensieratezza dell'infanzia, sostituita da una maturità non comune per la sua età nonché da una ferrea e quasi ossessiva dedizione verso le regole, tutto ciò affiancato da una ricerca spasmodica della perfezione nelle arti ninja, nelle quali peraltro eccelleva senza alcuna fatica. I suoi superiori e gli abitanti del villaggio si profondevano in lodi ed elogi ammirati rivolti a quel bambino straordinario e così serio che stava rapidamente scalando le vette della rigida gerarchia degli shinobi, sorpassando non solo i suoi coetanei ma perfino guerrieri adulti, forti di molti anni di esperienza. Nel giro di un lustro, Kakashi aveva collezionato una folta serie di successi, bruciando traguardi su traguardi fino alla promozione a Jonin a soli dodici anni.
L'uomo stirò la bocca in un sorriso amaro ripensando al ragazzino borioso che era stato a quel tempo. Fin troppo consapevole delle sue doti, non aveva mai tenuto in gran considerazione i sentimenti di amicizia, solidarietà e fiducia reciproca che univano i compagni di una stessa squadra; la missione aveva la priorità su tutto, sempre. Se in un frangente si fosse reso necessario sacrificare la vita di un membro del suo team per evitare di compromettere il successo della missione, non avrebbe esitato un secondo. Avrebbe fatto ciò che doveva; nientemeno di ciò che ci si aspettava da un vero shinobi.
Per quanto gli avesse voluto bene, aveva giurato a se stesso che non sarebbe finito come suo padre Sakumo, il quale aveva scelto di mettere al primo posto la sorte dei propri compagni decretando così il fallimento della missione della quale era stato messo a capo: un gesto altruistico in apparenza nobile ma che si scontrava con le dure leggi sulle quali si reggevano le fondamenta dell'intero sistema ninja e che gli era valso il biasimo di tutto il villaggio finché, disonorato e caduto in disgrazia, aveva scelto di farla finita piuttosto che continuare a vivere nella vergogna.
Kakashi aveva eletto il rigoroso rispetto delle leggi a vera e propria filosofia di vita. Ma la sua visione delle cose era mutata radicalmente grazie a Obito.
Nel nostro mondo chi infrange le regole viene considerato feccia di bassa lega. Ma chi abbandona i propri compagni al loro destino è anche peggio della feccia.
Non aveva mai dimenticato quelle parole che l'avevano colpito con la violenza di uno schiaffo in pieno volto. Dal giorno in cui l'amico aveva dato la sua vita per proteggere lui e Rin le aveva fatte sue, ripetendosele come un mantra, custodendole nel tempio del proprio cuore come una formula ammantata di sacralità.
Prima di morire, Obito gli aveva fatto dono del suo occhio sinistro e del potere che vi era contenuto, ma c'era di più: era come se insieme all'abilità oculare dello Sharingan fosse stato trapiantato in Kakashi anche il modo in cui l'amico guardava la realtà intorno a sé. E allora il paradigma secondo il quale aveva impostato la sua esistenza fino a quel momento si era capovolto al punto che il comportamento di Sakumo aveva lentamente iniziato ad acquistare un senso e la disapprovazione del figlio nei confronti del padre era mutata in orgoglio.
Quel triste giorno, mentre le lacrime di Kakashi cadevano sul suo viso per metà sepolto dalle rocce, Obito gli aveva rivolto una sola richiesta. Prenditi cura di Rin.
Ci aveva provato. Kakashi si era davvero impegnato con tutte le sue forze per mantenere la promessa fatta all'amico morente... eppure non era bastato. Non solo Rin Nohara era morta ma, per una crudele ironia della sorte, era stata proprio la sua mano a squarciare il petto della ragazza con il Chidori.
Per mesi ogni notte aveva rivissuto in sogno lo strazio di quegli istanti. Gli occhi sbarrati e colmi di orrore della sua compagna lo perseguitavano ogni volta che, sfinito dalla stanchezza e dal tormento, osava abbandonarsi al sonno; il flebile rantolo della sua voce spezzata mentre, ormai senza fiato, articolava stentatamente le tre sillabe del suo nome prima di spirare gli rimbombava nelle orecchie come amplificato di cento volte insieme allo sfrigolio del fascio di fulmini prodotto dal suo stesso attacco. Riusciva ancora a sentire il calore del suo sangue vischioso che gli colava lungo il braccio e gocciolava ai suoi piedi formando una pozza densa e scura che si allargava sempre di più sotto di lui, come a volerlo inghiottire. L'odore acre di carne bruciata e l'effluvio dolciastro e ferroso che emanava dal terreno intriso di sangue e dal corpo straziato della ragazza pervadevano l'aria e gli saturavano le narici, lasciandolo nauseato anche per diverse ore dopo il risveglio.
Non importava quanto a lungo strofinasse le sue mani sotto il getto d'acqua del lavandino: il rosso cremisi del sangue di Rin non se ne andava mai. Era sempre lì a ricordargli la sua colpa, la sua promessa infranta, l'ennesima persona che non era stato in grado di salvare. Aveva oltrepassato l'epidermide, insediandosi sottopelle come un marchio d'infamia che era divenuto parte di lui e gli aveva fatto guadagnare un nuovo epiteto: Kakashi l'Ammazza-Compagni.
Era occorso molto tempo perché riuscisse a superare il trauma e trovasse il coraggio di tornare ad adoperare il Chidori. Se non fosse stato per Minato, che una volta nominato Hokage aveva avuto l'acume e la lungimiranza di proporre al suo allievo di unirsi alle Forze Speciali, forse non sarebbe mai riuscito a riprendersi.
Ma alla fine, dodici anni prima, quella maledetta notte del 10 ottobre in cui la Volpe a Nove Code si era liberata e aveva attaccato il villaggio, il fato inclemente si era portato via anche il suo maestro.
Da allora Kakashi non aveva mai smesso di servire Konoha al meglio delle sue capacità come capitano della Squadra Speciale, ma si era allontanato dagli affetti, estraniandosi dalla vita collettiva, fermamente deciso a negarsi qualsiasi possibilità di tornare a sperare nel futuro e di redimersi. Si era chiuso in se stesso, divenendo facile preda dell'oscurità vampirica che albergava in lui, dalla quale veniva divorato pezzo a pezzo, consumato. La volontà di opporre resistenza a quel processo inesorabile era ormai svanita e il Jonin si lasciava docilmente sprofondare nel suo inferno privato quasi fosse sotto l'effetto di un anestetico. Avanzava alla cieca come un automa: senza scopo, senza direzione, limitandosi a portare a termine una missione dopo l'altra.
La feroce tirannia dei ricordi non si era placata ma la presenza costante degli spettri del passato gli era ormai diventata famigliare, come se l'abitudine al dolore l'avesse reso meno acuto. Sofferenza e rimpianto erano divenuti suoi inseparabili compagni, senza i quali Kakashi si sarebbe sentito mancare della sua stessa essenza. E quasi senza accorgersene, aveva finito per affezionarsi a quel tormento onnipresente, a ritrovarsi incapace di lasciarlo andare, alimentandolo sempre di più. Perché era giusto così. Era la condanna che doveva scontare per essersi dimostrato incapace di proteggere coloro a cui teneva di più. Per essere ancora vivo, mentre loro erano morti.
Tuttavia, dopo dieci anni di militanza negli ANBU, il Terzo Hokage lo aveva infine dispensato dal suo incarico, ritenendo che quell'ambiente non fosse più compatibile con le sue condizioni psicologiche e delegandogli la supervisione dei giovani diplomati all'accademia, sebbene Kakashi stentasse a riconoscersi pienamente in quel ruolo.
Non che avesse mai avuto davvero l'opportunità di mettersi alla prova come Sensei: il suo esame preliminare si era sempre concluso a sfavore dei suoi aspiranti allievi, che erano stati prontamente rispediti in accademia senza tanti complimenti. Mai nessuno era stato promosso al grado di Genin.
E ora ci risiamo. Pensò Kakashi, lasciandosi sfuggire un altro sospiro. Il Terzo Hokage l'aveva informato che tre neodiplomati erano stati selezionati per far parte della nuova Squadra 7.
Doveva ammettere con se stesso che questa volta le circostanze rendevano la faccenda più intrigante del solito: si sarebbe ritrovato a fare da guida al figlio orfano del Maestro Minato, il Jinchuuriki della Volpe, e all'unico sopravvissuto allo sterminio degli Uchiha... sempre che, naturalmente, quei ragazzi si fossero dimostrati all'altezza della sua “esercitazione di sopravvivenza”, eventualità tutt'altro che scontata.
Non si faceva troppe illusioni a riguardo. Aveva già assistito a quello scenario desolante negli anni precedenti: un trio di teppistelli arroganti che pensavano di potersi considerare ninja in virtù del fatto che era stato concesso loro di indossare il coprifronte della Foglia. Ormai conosceva il tipo: a quei bambocci spocchiosi interessava unicamente prevalere gli uni sugli altri, dimostrare di essere migliori dei propri compagni, talvolta arrivando perfino a scontrarsi tra loro per decretare chi fosse meritevole di divenire suo allievo. E quand'anche la prima parte della prova non si fosse risolta in un esito così disastroso, nessuna squadra era poi stata in grado di superare il trabocchetto del secondo test, notevolmente più insidioso.
Non era affatto sicuro che le cose si sarebbero concluse diversamente. Aveva trascorso la mattinata a spiare di nascosto i tre che gli erano stati affidati, cercando di farsi una prima idea delle loro personalità e del modo in cui interagivano per capire rispettivi punti di forza e di debolezza. Al momento di presentarsi a loro era stato accolto da quello scherzo idiota del cancellino sulla porta e gli era bastata un'occhiata per ottenere la conferma di ciò che già aveva dedotto dalla sua indagine in incognito: quei tre ragazzini erano tutto fuorché una squadra. Ciascuno era concentrato solo su se stesso e sulle proprie mire egoistiche, del tutto disinteressato a fare fronte comune.
Durante il giro di presentazioni aveva notato l'esuberanza dello scapestrato Naruto, maldestro, impulsivo, immaturo e alla costante ricerca di attenzioni; l'atteggiamento civettuolo e puerile di Sakura, tutta presa dalle sue fantasie romantiche nei confronti di Sasuke; e poi c'era la fredda supponenza del giovane Uchiha, interessato unicamente a vendicare il suo clan e a diventare abbastanza forte da uccidere il fratello maggiore.
Si trattava indubbiamente di tre soggetti che avevano ben poco da spartire, per non parlare della differenza abissale che poneva Naruto e Sasuke letteralmente agli antipodi. Riuscire a farne un vero team sarebbe stata un'impresa alquanto ardua.
Kakashi sollevò lo sguardo sulla fotografia un po' scolorita che ritraeva la sua vecchia squadra e si permise un sorriso nostalgico. Ma del resto, anche noi eravamo così, all'inizio.
Forse, dopotutto, quella poteva essere la volta buona. Chi poteva dirlo!
L'indomani li avrebbe messi alla prova e solo a quel punto avrebbe capito se quei tre si sarebbero rivelati l'ennesimo fallimento o piuttosto una preziosa opportunità di tramandare l'eredità del Quarto Hokage e di Obito a una nuova generazione di shinobi.
Il Terzo Hokage gli aveva assegnato quel compito e Kakashi avrebbe fatto il suo dovere, come sempre... ma alle sue condizioni. Non gli importava che gli altri lo considerassero troppo duro con le nuove reclute fresche di diploma, né che i maestri dell'accademia scuotessero la testa ogni volta che gli aspiranti Genin sottoposti al suo giudizio facevano ritorno in aula delusi e imbronciati: non avrebbe mai permesso che qualcuno incapace di collaborare con i propri compagni e di comprendere l'importanza dello spirito di squadra diventasse shinobi. Mai.
In quell'istante, un refolo di vento tiepido soffiò attraverso la finestra, sfiorando in una carezza gentile i capelli argentati dell'uomo e lambendo la coppia di campanellini appesi al muro. Un dolce tintinnio si levò alle spalle di Kakashi, come in risposta al pensiero appena formulato dal Jonin.




Spazio Autrice


Kon'nichiwa! :)
Vi rubo giusto altri due secondi. Innanzitutto voglio ringraziare chiunque abbia aperto questa storia e speso un po' del suo tempo per leggere. Non scrivevo da un bel po' e questo è solo il mio secondo lavoro nel fandom. Sinceramente non sono convintissima del risultato, ma è il meglio che sono riuscita a fare. Sono apertissima a suggerimenti e critiche costruttive.
Al prossimo e ultimo capitolo di questa mini-storia introspettiva (che, vi prometto, sarà un pochino meno angst).
Domo arigato!


P.S. Un ringraziamento speciale a Menade Danzante, senza la quale probabilmente questa storia non avrebbe mai visto la luce.
Grazie Menade del mio cuore!


  
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