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Autore: Gaia Bessie    09/03/2021    3 recensioni
In un mondo in cui Bellatrix Lestrange è sopravvissuta alla battaglia di Hogwarts e si appresta a ricevere il Bacio del Dissennatore, dopo ventidue anni di fuga, sua figlia Delphini prova a salvarla.
[Bellatrix/Voldemort | Delphini | Possibile OOC | Seconda classificata e vincitrice del premio per la storia preferita della giudice al contest “Sing A(ngst) Song!” indetto da kiddoB sul forum di Efp]
È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Delphini respira a fatica, il volto nascosto da una mascherina chirurgica, mentre le mani le tremano celate dall’aria così umida da apparire quasi tangibile. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Delphini Riddle, Voldemort | Coppie: Bellatrix/Voldemort
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione, Più contesti
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Cieli in plastica

Parte terza: Plastica che è plastica

 
E un bacio sporco sa
Spogliarmi il cuore dai demoni
E c'è qualcosa che è dentro di noi
Che è sbagliato e ci rende simili

 
È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Delphini respira a fatica, il volto nascosto da una mascherina chirurgica, mentre le mani le tremano celate dall’aria così umida da apparire quasi tangibile. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
***
 
Nove ore prima, Villa Black.
 
Il ritratto di sua nonna le restituisce uno sguardo insoddisfatto, insofferente, che non le risparmia una delusione che Delphi aveva già presofferto. Druella Black osserva la propria nipote più piccola, quella che non ha fatto in tempo a conoscere, e il viso delicato d’una poesia strana, innaturale, mentre sparisce dietro la cornice con aria offesa.
«Lasciala perdere» commenta una voce, dal dipinto di fianco. Pensava che fosse vuoto, quel quadro, quand’invece Cygnus Black è sempre stato lì. «Ha sempre avuto un pessimo carattere».
Delphini l’osserva, quell’uomo rimasto intrappolato in una cornice crepata: c’era sempre stata, quella crepa, o è comparsa improvvisamente?
Suo nonno ride, amaramente, alzando lo sguardo verso la propria cornice. «Tua madre» commenta, senza amore, senza sentimento. «Il giorno che le ho proibito di prestarsi a lui per avere te, mi ha lanciato contro una sedia».
«Avresti potuto essere più convincente» commenta Delphini, atona. «Mio padre… è stato lui, a rovinarla, non è vero?».
Il sorriso di Cygnus è di vetro, è di carta. Pelle tesa sopra i denti leggermente accavallati, rughe che coprono gli occhi come una tenda di palpebre pesanti. Azzurrissimi, quegli occhi, così che di Black non ha poi molto.
«Bellatrix era già rovinata» commenta, con severità. «Folli, quei suoi pensieri. È sempre stata troppo simile all’Oscuro Signore».
«Ma i tuoi genitori erano maledettamente simili, fatti della medesima sostanza. C’era qualcosa di sbagliato, in loro, ed era questo che li rendeva tali».
La voce di Rodolphus Lestrange le spacca i pensieri, rendendoli taglienti come carta e vetro, e costringendola a sedersi sul letto di sua madre tenendosi la testa striata di blu. Blu, i pensieri, un po’ annacquati di mareggiata.
Blu, la notte fuori dalla finestra, e lei è stanca. Vorrebbe semplicemente mollare quella missione che silenziosamente s’è autoimposta, e tornare in Provenza: pregare, sì pregare, Rodolphus di farle da mentore. Anche se, padre, non lo chiamerà mai. Ma le insegnerebbe ciò che sa sulle Arti Oscure, che è comunque meglio di una madre che non riesce a salvare da sé stessa.
«Aveva qualcosa di sbagliato, dentro di sé» borbotta Cygnus, pensieroso. «Qualcosa di rotto. Non era… tutti noi genitori abbiamo una preferenza, e chi dice di non averla mente».
Pensa ancora ad Andromeda, quel padre che ha abbandonato in maniere diverse tutte e tre le figlie, ma solamente una gli ha crepato il cuore come una cornice. Pensa ad Andromeda il giorno che se n’è andata, ed era solamente febbraio e il cuore doleva di un gelo perenne, e Narcissa ha pianto per i mesi che sono seguiti.
Bellatrix, una lacrima, non l’ha versata mai. Torna, le ha detto, e ucciderò te e il tuo Babbano.
Andromeda ne ha retto lo sguardo con determinazione, troppo Grifondoro per una ragazzina che ha pregato il Cappello Parlante d’essere smistata a Serpeverde, e ha sorriso. Da te non mi aspettavo altro, le ha risposto, certo che non torno.
Cygnus è rimasto sulla soglia per vedere se non fosse solamente un sogno, Druella ha appiccato l’incendio. Andromeda è scomparsa per sempre, ma mai dal cuore gelido di suo padre.
«Tu pensi che io non possa salvarla» commenta Delphini, sfiorando la crepa nella cornice con la punta delle dita. «Che finirebbe comunque per scegliere mio padre».
Cygnus china il capo. Pensa ancora ad Andromeda, ma non ha il coraggio di domandare alla nipote di riportarla da lui in quel giorno di febbraio in cui se n’è andata via, senza nemmeno voltarsi indietro per dirgli qualcosa che non fosse addio, padre.
Non le avrebbe personato il matrimonio con un Sanguesporco, questo no, ma non l’avrebbe mai cacciata via – e, da qualche parte dentro di lui, Meda Black è ancora la sua figlia preferita.
«Sì» risponde suo nonno, senza traccia d’alcuna incertezza nella voce. «Puoi rigirare un oggetto, dargli fuoco, rimodellarlo. Ma l’essenza è sempre quella e, quella di tua madre, è marcia come acqua in un vaso di fiori vecchi».
Lo sguardo di Delphini è aria che si condensa su quelle parole, facendo scendere gocce di brina sciolta. «Posso continuare a provare» sussurra, ma non ci crede nemmeno lei. «Ci deve essere un mondo possibile in cui posso evitarle tutto questo».
Cygnus scuote il capo. Tornare indietro, riportare una figlia a suo nonno, cercare Rodolphus Lestrange dirgli. L’ho lasciata andare, padre.
«Lascia andare tua madre» le sussurra, osservando Druella far capolino dalla propria cornice. «Non tornare più indietro, Delphini, prova ad andare avanti».
«La festa di compleanno di Andromeda» Druella pronuncia quel nome come un’elemosina schifata. «Bellatrix si Smaterializzò con lui a fine serata. Il giorno dopo ci comunicò che dovevamo combinarle un fidanzamento con i Lestrange».
«Ogni genitore ha le sue preferenze, anche se lo nega» ripete Cygnus. «Ma le tue, Druella, sono sempre state quelle sbagliate».
Narcissa che piange in un angolo e nessuno che la consola, le ombre di Andromeda ancora fresche sui muri. Bellatrix che si volta e in una lacrima di sua madre si ripiega come un origami e poi scompare.
Delphini s’affaccia dalla finestra, la notte incombe e le ombre sono ancora tutte lì.
 
***
 
Il cuore di Bellatrix è vestito d’ombre, rivestito del risentimento che come un burattino la muove attraverso il giardino tanto amato da sua madre.
Delphini la osserva entrare in casa, a grandi passi, e ha gli occhi vuoti e aspetta solamente di vedere lui per riempirli. Braccia esili, ha sua madre, che s’aggrappano ai muri come se avesse bisogno d’esser sorretta, come se qualcosa dentro di sé stesse ancora tremando.
«Che ti succede, Bella?» domanda Andromeda, appoggiata a un cassettone con aria perplessa. «Fatichi a reggerti in piedi. Hai forse la febbre?».
Bellatrix osserva sua sorella, che giocherella sovrappensiero con una collanina che non le ha mai visto. «Chi te l’ha data, quella?» le domanda, ritrovando improvvisamente quel disprezzo che le scaglia contro come frecce di vetro o di carta, ferendola. «Il tuo Sanguesporco?».
Andromeda china il capo ma, quando si risolve a guardare la sorella maggiore negli occhi, ha solamente determinazione a sanguinarle dalle palpebre. «Non sono affari tuoi» risponde, calma. «Un giorno me ne andrò via di qui, Bella. Cerchiamo di andare d’accordo fino a quel momento, ti va?».
Bellatrix ride, e ombre le scivolano via dalle labbra, attraverso i denti e scivolano sul pavimento in una pozzanghera nell’ennesimo posto dove non piove mai. E, casa Black, per lei è esattamente al pari di Azkaban: una prigione.
«Vattene, Andromeda, e non tornare più» sibila Bellatrix, con astio. «Sei la vergogna di tutta la famiglia».
Andromeda alza il mento con aria fiera, gli occhi che lampeggiano e la collanina – con un pezzetto d’ambra tagliato male – che riflette la luce giallastra del soffitto, urlando Ted Tonks. Tutto in lei grida appartenenza, possesso, sebbene la mezzana delle Black manifesti un orgoglio che ha Bellatrix, che ha Sirius.
«Me ne vado e non torno, Bellatrix, stanne certa» risponde, calma. «Mi dispiace che dobbiate essere così estremi, tutti quanti. Che ne capirai mai, tu, dell’amore?».
Bellatrix ride, facendo crepare l’aria in sussurri. «L’amore non esiste» risponde, senza alcuna inflessione. «E sei sciocca tu a continuare a cercarlo. Io non sarò mai come te, o come Cissy, due sciocche bastano in una sola famiglia».
Ma Andromeda ricambia la risata, gemella, scuotendo i capelli di quel castano troppo chiaro per esser nero. Nera, l’anima della sorella, almeno quanto la sua che è scolorata dal grigio al bianco.
«E allora perché hai bisogno di aggrapparti al muro dopo averlo visto?» le domanda, calmo. «Sei patetica, Bella, e nemmeno lo sai».
«Pensa allo stato della tua reputazione, Andromeda» le risponde Bellatrix, con tono acido. «Non è amore, è devozione».
A Delphini, seduta su una poltrona a pochi passi da loro, si ferma il cuore in quel secondo e rischia di non ripartire più. Imprigionato in una gabbia di ombre, il battito si schianta su un muro di silenzio e trema dolorosamente. Vorrebbe parlare, dire lascialo andare, madre.
«Devozione» commenta Andromeda, con sarcasmo. «Difendi il sangue puro, Bella, ma chi difenderà te da lui?».
Bellatrix non risponde, ha il fuoco negli occhi e la bacchetta puntata sopra il collo dolce, indifeso, di sua sorella. Andromeda non si muove, ma si scioglie in una risata amara, stanca.
«Fallo» la incita. «Non pentirtene, però. Fallo e basta».
Perché Bellatrix non lo sa, che sua sorella è spaccata in due: che deve scegliere tra amore e fedeltà, e sporcarsi nelle consapevolezze che ha sempre portato avanti con sicurezza. Deludere il padre, la madre e le proprie convinzioni – sono sbagliate? O è sbagliato amare?
Bellatrix non lo sa, ma Andromeda è stanca. Stanca, di quella collanina che ne riflette gli occhi pieni di dubbi – ma, almeno, a lei non hanno messo un collare – e stanca anche delle suppliche di Cygnus, tacite e inutili. Sposa Lestrange, le dice il padre, sposa Dolohov, non sposarti mai ma resta con me.
Onora il padre, pensa Andromeda, onora la madre. Ma onora anche il sentimento che scuote il petto e le crepa il cuore, se onori tutti quanti finirai per non onorare più nessuno?
Onora te stessa, si dice, prima di ogni altra cosa. Onore, onore, onore: che ne sapranno mai, i Serpeverde, dell’onore?
Cosa ne saprà una Serpeverde che ha pregato di non esser Grifondoro, perché una Black non ha bisogno di coraggio: ha bisogno di certezze, è il sangue puro lo è. Che ne sarà mai d’una Serpeverde che è scivolata nello sguardo dolcissimo di un Tassorosso, che ne sarà di lei?
Diseredata, disonorata, privata di quel padre che l’ha sempre amata anche se, ad amare qualcuno, non era mai riuscito prima.
Chiude gli occhi.
«Aspetta!» Delphini ha le orecchie piene delle suppliche di Cygnus, quando s’alza e si frappone tra sua madre e sua zia. «Non lo fare».
Bellatrix sbuffa, senza abbassare la bacchetta. «E tu chi saresti?» le domanda. «Ci sono troppi Black, non posso ricordarmeli tutti».
«Delphini» risponde la ragazza, calma. «Io… sono la nipote di vostra madre, dal lato dei Rosier».
Sua madre annuisce con aria distratta, sta fissando la vena sul collo di Andromeda che pulsa: chissà se riuscirà a farla smettere. «E cosa vorresti?» le domanda, aggressiva. «Non mi ricordo di aver chiesto a qualcuno d’intervenire».
«Lasciala andare» madre, pensa, ma non riesce a pronunciare quella parola. «Io… vorrei parlare con te, mi ha detto tua madre che avresti potuto aiutarmi con un problema».
Bellatrix la scruta, con aria curiosa. «Io non aiuto nessuno» sibila. «Non sei una principessa da salvare: o ti salvi da sola o non ti salvi1».
«Per favore» sussurra Delphini, osservandola con speranza tacita. «Io voglio diventare come te».
Sua madre sorride, improvvisamente, scoprendo i denti come un lupo. «Come me» ripete, in una risata ch’è vetro e carta. «Tu non sarai mai come me, ragazzina».
«Lasciala perdere, Delphini» commenta Andromeda, con dolcezza. «Non ci guadagneresti assolutamente niente a diventare come lei, te lo assicuro».
Delphi osserva sua madre con lo sguardo liquido di speranze e, per un momento soltanto, si domanda se riuscirà a farle vedere la parte di suo padre che vive in lei – quella che è sbagliata e le rende simili.
«Bellatrix, ci rincontriamo» una voce fredda congela l’aria in frammenti vetrosi e insensati. «Non mi presenti tua sorella?».
«Mio Signore» sussurra sua madre, con passione. «Lei è Andromeda, mia sorella minore. E lei è una delle cugine Rosier, Delphini».
Il Signore Oscuro non sembra minimamente far caso a sua figlia, puntando invece gli occhi – ancora scuri e privi di quella luce sanguinolenta che li avrebbe caratterizzati in futuro – su Andromeda Black. La ragazza ne sostiene lo sguardo, con fierezza, facendolo produrre in una risata che ha il sapore del ghiaccio.
«Avete qualcosa che vi rende simili, voi due» commenta. «Lo stesso fuoco. Ho accettato di introdurre Bellatrix alla Magia Oscura, mi piacerebbe che anche tu ti unissi a noi, Andromeda».
«Temo di non potere» risponde la mezzana delle Black, atona. «Non c’è purezza che valga la pena di macchiar l’anima in questa maniera, signore».
Lord Voldemort scuote il capo, divertito. «Nessuna macchia, nessun disonore» commenta lui, calmo. «Un’occasione per ripulirsi, Andromeda, per scoprire che non è l’amore che serve a rendere grande una Strega».
Andromeda ride, scuotendo il capo. «Meglio il disonore che essere serva delle tenebre» risponde, con un velo di acidità nella voce. «Mio padre non mi perdonerà mai ma, se seguissi mia sorella in questo percorso scellerato, come farei io a perdonarmi?».
«Confondi il perdono con l’onore, Andromeda» sibila Bellatrix, alzando il mento. «Servire è onorevole, ma cosa ne puoi sapere tu? Sei più sciocca di Narcissa, e pensare che nutrivo qualche speranza per te».
Lord Voldemort sorride, si passa una mano tra i capelli scuri, con un sorriso affascinante che fa sorridere Bellatrix, ma Andromeda mai. Lei sospira con aria stremata e s’allontana a grandi passi.
«La bruceremo sull’arazzo di famiglia» sibila sua sorella, la sua amata sorella, stringendo le mani tra di loro. «Non si può cambiare l’essenza di una persona, e quella di Andromeda è marcita da quando ha compiuto sedici anni».
«Pace, Bellatrix» commenta l’Oscuro Signore, calmo. «Bisogna potare i rami secchi, per far rifiorire l’albero, non credi?».
Lei sorride, la bocca tinta di rosso pare sporca di sangue secco. «Insegnatemi» sussurra con passione. «Sarò la vostra allieva migliore, mio signore».
Lord Voldemort ride, freddo, ma i suoi occhi sono sulla pelle di lei. «T’insegnerò cose che il mondo non è pronto ad apprendere» sibila, suadente. «Sarò il tuo maestro e tu diventerai la mia allieva, Bellatrix Black. E la mia volontà sarà la tua».
Lei china il capo, con espressione adorante. «Non avrò altra volontà che la vostra» annuisce, infervorandosi. «Insegnatemi».
Lo ripete come una preghiera, le mani giunte in preghiera a sfiorare il naso e le labbra. A Delphini si stringe il cuore nell’osservare come suo padre abbia gli occhi liquidi d’umanità, in un desiderio che probabilmente non si spiega. Non lo farà mai.
Qualcuno gli fa segno d’unirsi a una conversazione, così che l’Oscuro Signore china il capo in un cenno di saluto, ma i suoi occhi sono sempre nel fondo degli occhi di lei. Bellatrix osserva i suoi passi che le s’imprimono nel cuore, con un ritmo di ballata.
«Devo parlarti» sussurra Delphini, tirandola per la manica del vestito. «Ti prego. Io ho bisogno di te».
Bellatrix sospira, ma finalmente chiude gli occhi e cede. «Va bene» pesanti le palpebre su quegli occhi che sanno ancora di lui. «Vieni con me, andiamo in camera mia».
Delphini la segue nelle viscere della casa, passo dopo passo, e su una rampa di scale che collega il piano inferiore a una di quelle camerte che lei conosce bene. S’è stesa in quel letto, ha parlato con i quadri. E, soprattutto, ha pianto d’impotenza di fronte alla prospettiva dell’inevitabilità di quel fato.
È prigione, casa Black, è prigione peggio di Azkaban perché tiene al suo interno l’impossibilità di una fuga.
Delphini sospira, sulla soglia della porta. «Tu sei già innamorata di lui, non è vero?» le domanda, in un sussurro. «Lo desideri e per questo vuoi seguirlo».
Bellatrix ha lo sguardo duro come antracite, crepato di una scintilla di speranza che non sa come nascondere. «L’amore non esiste» risponde, ripetendo le parole che ha scagliato contro sua sorella pochi minuti prima. «Esiste il desiderio, i piani, le coincidenze e persino i compromessi» commenta, decisa. «Io voglio essere sua, ma non nel senso che intendi tu. Impara queste cose e andrai avanti, Delphini».
Lei sospira. È più madre in quel momento che in tutte le altre volte che l’ha incontrata, e lei vorrebbe solamente chiederle e supplicarla di. Abbracciami, madre, non lasciarmi andare.
«C’è un modo per convincerti a lasciarlo andare?» domanda, invece. «Io lo so, credimi lo so, che sarà la tua rovina».
Bellatrix ride. «Io sono già rovinata» risponde Bellatrix, pensando al proprio cuore ombroso che inevitabilmente si rischiara nell’oscurità. «Sono sua per sempre, e lo sa, sarò la migliore e lo sarò per renderlo orgoglioso del mio lavoro».
«Ti prego» sussurra Delphini, con sguardo triste. «Non mi crederesti, se dicessi perché ti sto pregando, ma ti farai spezzare da lui».
Guarda cosa sei diventata, guarda cosa ti sei fatta fare. Tre sorelle Black e, alla fine, le più felici son quelle che non hanno rischiato: che hanno scelto casa, forse l’amore, la famiglia. E Bellatrix, che non ha mai desiderato niente di tutto questo, s’è sciolta come un’ombra senza il sole.
«Non so chi tu sia, Delphini, ma ti sbagli» sibila Bellatrix. «Forse faresti meglio a tornare di sotto».
Delphini sospira, nella tasca il ticchettio della Giratempo è solamente l’ennesimo coccio di vetro che non taglia, ma affonda soltanto.
 
***
 
Otto ore prima, Azkaban.
 
È tornata dove ha perso le parole. Qualcuno ha detto, una volta, che la vita è un cerchio, un anello. L’avrebbe mai dato, lui, un anello e un cerchio a sua madre? Si sarebbe mai piegato ad amare controvoglia, perché controvoglia avrebbe amato, per non spezzarle la sanità mentale?
È impazzita poco a poco, Bellatrix Black, o tutto insieme come un bicchiere d’acqua che si versa in una pozza di sole?
Delphini questo non lo sa, né ha parole per domandarlo – guarda come ti sei ridotta, guarda cosa ti sei fatta fare – e ha troppe voci che s’affollano in mente. Stanno urlando tutte quante, mentre lei sorride agli Auror di guardia e alza un paniere contenente un banana bread. Ne offre un pezzo a quegli uomini, rifiutano.
Lei stessa si sente rifiutata da quella madre che la guarda e non sorride, ma scuote il capo con aria esasperata. «Hai fallito anche questa volta» constata Bellatrix, con durezza. «Cosa c’è di sbagliato in te?».
Delphini si siede sul pavimento, calma. «La stessa cosa che è sbagliata in te» risponde, calma. «Ed è questo che ci rende simili».
Bellatrix ride, scoprendo i denti mancanti, e mancante è la stessa anima che Delphi pensa di non avere più. L’ha venduta a suo padre quand’è nata, per salvarlo da una vita che non è eterna e nemmeno giusta, ma che è vita e allora va vissuta. Anche se lei non vorrebbe più.
Silenziosa, le allunga il paniere, e la osserva scrutare la torta con aria pensierosa, come se dentro potesse trovarvi delle risposte. Delphini sospira, nasconde il volto tra le ginocchia e si rende conto che vorrebbe solamente piangere.
«Tu, simile a me, non lo sarai mai» commenta Bellatrix, con cattiveria. «Potrai provarci, Delphini, ma non raggiungerai mai tutto questo. Lo splendore a cui tuo padre mi ha elevata… non lo conoscerai mai, ma lui era un Dio».
Bellatrix ha lo sguardo perso nel vuoto e sembra quasi faticare a riconoscere il senso delle parole che pronuncia, la lingua muove le frasi senza senso e Delphini vorrebbe fare quel che fanno le voci dentro di lei. Urlare fino a squarciare la trachea, morire in un lago di sangue e risorgere dopo tre giorni.
«Guarda cosa sei diventata» le sibila, sistemando una ciocca di capelli striati di blu dietro l’orecchio. «Guarda cosa ti sei fatta fare».
Ma Bellatrix ride, ride e ride. Ride finché non le fa male il petto e allora tossisce, ma l’aria sembra quasi rifiutare di lasciarle il petto senza dolore, senza fatica.
«Mi sono fatta fare te» risponde, con astio. «Che è uno dei compiti peggiori cui Lui mi ha sottoposta».
Ed anche l’unico in cui hai fallito, pensa Delphini, l’unico in cui ti sei mostrata inadeguata: io sarò anche stata una bambina inutile, ma tu sei stata ben più inutile di me. Pace, madre – è un pensiero doloroso, ma inevitabile – io ci ho provato.
«Io ci ho provato, a portarti via da qui» e da te stessa, ma questo non riuscirà mai a dirlo. «Cos’altro potevo fare?».
«La Battaglia di Hogwarts, adesso la chiamano così» sussurra Bellatrix, socchiudendo gli occhi con il viso rivolto verso la luna splendente. Riscalda quasi come fosse sole, nella sua mente contorta, e anche di più. «La Foresta Proibita. Quando sei nata tu, a casa di Narcissa. Quand’ha scoperto che l’avevo deluso».
«Madre» sibila Delphini, con aria stanca. «Sono date che vogliono dire tutto e niente. Come posso fare, come posso salvarti, se non mi dici come cambiare il passato?».
Bellatrix ride, si china in avanti e glielo dice così. «Non si può sempre cambiare il passato» risponde. «Io ho sempre scelto Lui. Sceglierlo significa avere tutto».
A Delphi si gela il sangue nelle vene, mentre la voce di Narcissa Malfoy grida più forte delle altre.
«Perché esiste il destino, Delphini» commenta l’altra, sistemando con una mano i capelli biondi, che ormai iniziano a esser bianchi per davvero. «E il destino di tuo padre era essere sconfitto: tutti noi dobbiamo morire, prima o poi».
«Tu lo sapevi» mormora, tenendosi la testa tra le mani, con una tale forza che le unghie potrebbero persino bucare il cuoio capelluto. «Hai sempre saputo che non potevo riuscirci».
Bellatrix sorride, con aria sornione. «Solo Lui poteva vivere per sempre» risponde, calma. «Io che speranze potrò mai avere, d’eguagliarlo?».
«Devi vivere» le risponde sua figlia, con determinazione del tutto nuova. «Ti dimostrerò che puoi farlo».
Ma sua madre ride così forte da spaccarle i pensieri a metà e Delphini, che ha la speranza già incrinata, si domanda come potrà fare a contraddire il principale assioma della vita di suo padre, e della sua morte.
«Ti servirebbe la fortuna di Potter» sibila Bellatrix, la lingua tra i denti come un rettile. «Hai fallito, Delphini, hai deluso me e il Mio Signore oltre ogni aspettativa».
Solo io posso vivere per sempre.
La sua voce è un sibilo tra le urla, ma lei lo sente comunque.
La fortuna di Potter, hai fallito.
Ma poi il tono calmo di Rodolphus Lestrange sovrasta le voci dei suoi genitori, dandole il suggerimento che le serve. La fortuna liquida.
 
***
 
Sette ore prima, Foresta Proibita.
 
I passi sono fangosi, sporca è anche l’anima come un bacio insanguinato, come una schiena graffiata dai rovi in un momento di distrazione. Squallidi, i suoi pensieri, mentre s’addentra in quel labirinto d’alberi contorti, di dolore ramificato.
Squallido: vada come vada, tra sette ore sarà tutto finito. Delphini inciampa in un ramo, finendo con le ginocchia sul terreno umido di pioggia, pietre e fango che si uniscono per insozzarla di sangue e lividi. Si puntella con le mani sul terreno per rialzarsi, scoprendo il palmo ferito da una pietra insolitamente aguzza. La osserva, alzandosi in piedi, la rigira tra le mani cercando – con gli occhi feriti dal buio – un albero contro cui lanciarla.
Sciocco, si dice, prendersela con una pietra: ma pietrosi, duri e insensati i sentimenti che prova in quel momento.
«Fossi in te non lo farei» sibila una voce, facendola sobbalzare. «Delphini Lestrange, finalmente ne sei venuta a capo».
Lei si volta lentamente, con l’ansia che le preme sulla nuca in una spiacevole morsa, e gli occhi ormai abituati al buio che pesante l’attanaglia. Lord Voldemort, grigio come uno spettro e altrettanto intangibile, la scruta con noia, con ovvietà.
Somiglia all’uomo che Delphi aveva incontrato alla festa per i diciassette anni di Andromeda Black, il viso affascinante mai toccato e mai sfregiato dalla Magia Oscura. Non v’è traccia, in lui, dell’aria serpentina che avrebbe assunto con l’incedere intollerabile degli anni.
«Ne sono venuta a capo?» domanda Delphi, osservando la pietra persa sul proprio palmo. «Padre, io non comprendo».
Lord Voldemort ride, in un suono spiacevolmente sibilante che le entra nell’anima, dilaniandola. Sporco e sbagliato, quel suono e quello sguardo, sporco e sbagliato il movimento con cui suo padre le tocca il braccio facendola rabbrividire. È intangibile, ma le causa comunque una sensazione spiacevole che le fa tremare i nervi come la sua voce.
«Penso che sappia anche tu cos’hai trovato» commenta Voldemort, atono. «Conosci almeno la storia, Delphini?».
«La Pietra della resurrezione» sussurra Delphini, spalancando gli occhi. «Com’è possibile?».
Lord Voldemort la guarda, con aria disgustata, e scuote il capo pieno di capelli scuri. «Che fallimento che sei stata» sussurra. «Bellatrix non mi aveva mai deluso, prima di te».
«Padre» lo chiama sua figlia, con aria sgomentata. «Ditemi come posso fare a salvarla».
Lui ride nuovamente, facendo tremare persino l’aria e le foglie scurissime degli alberi, facendole bloccare l’aria in gola con un risucchio sbagliato, innaturale.
«Io non sono tuo padre» sibila Voldemort. «Sono il tuo creatore, forse, colui che ti ha pensata. E tu mi hai deluso molto, Delphini, sei il fallimento dei miei piani e delle Arti Oscure».
«Pensavo che la Felix Felicis servisse a essere fortunati» commenta Delphi, grondante di sarcasmo. «L’ho rubata dallo studio di Draco Malfoy per questo. Non pensavo che sarei finita per resuscitare te».
Suo padre ride. «Pensavo che lo scopo della tua vita fosse permettermi di vivere per sempre» sibila. «Servirmi, come ha fatto Bellatrix prima di te. Sei una delusione ancora maggiore, Delphini Lestrange».
«Non chiamarmi così» risponde lei, stringendo la pietra tra le mani. «Come posso aiutarti, se nessuno mi dice cosa devo fare? Pensavo mi avresti aiutata, padre».
«Io aiutare te?» domanda Lord Voldemort. «Pensavo di aver creato un essere abbastanza forte, abbastanza intelligente da somigliarmi».
Delphini sospira, è scivolata a sedere sul terreno fangoso e nemmeno se n’è resa conto. «Vai via» sussurra, rigirando la pietra tra le mani. «Lasciami stare».
Sta piangendo e a malapena sa il perché. Quando alza lo sguardo, Lord Voldemort è scomparso nel buio pressante della foresta e lei è di nuovo sola.
Non sa perché, proprio non ne ha idea, ma la Felix Felicis le muove la mano, facendole girare la pietra sul palmo per un’ultima volta. Una donna rischiara le tenebre, guardandosi attorno nel silenzio, e scuotendo il capo con aria malinconica.
«Delphi» la chiama. «Fermati qui. Non andare oltre».
«Chi sei?» sussurra Delphini, seduta sul terreno fangoso, le gambe cinte dalle braccia. «Io non ti conosco».
«Chiamami Tonks» sussurra la donna, con un sorriso caldo, dolce. «Sono tua cugina, anche se non mi conosci».
Delphini la osserva, inquieta, mentre Ninfadora Tonks si siede sul terreno, di fronte a lei. Sebbene sia del colore degli spettri, sembra quasi possibile intuire il colore dei suoi capelli: un caldo rosso, forse, magari fucsia, rosa, viola? Sua cugina sorride, con un calore che sconcerta, e goffamente tenta di darle una pacca sulla spalla.
«Perché sei qui?» le domanda Delphi, incerta. «Pensavo che sarebbe apparsa Druella, o Cygnus».
«Perché desideravi non essere sola e avere qualcuno che ti dicesse cosa fare» commenta Tonks, piano. «Io non sono brava a obbligare la gente a fare qualcosa, ma… potresti semplicemente arrenderti, no?».
La bionda scuote il capo, con aria stanca. La Giratempo le giace sulle mani come il cadavere di tutte le sue speranze rotte, ticchettando in un requiem impallidito in una notte priva di luna. Lei non ha dormito, in attesa dell’alba che arriverà tra qualche ora, ma la stanchezza non le cammina sulle palpebre nemmeno dietro preghiera.
«Chi mi insegnerà a essere ciò che ci si aspetta da me?» domanda Delphini, con fierezza. «C’è un destino per tutti, e il mio è consentire di mio padre di vivere per sempre».
«Potresti sempre cambiare idea» suggerisce Tonks, piano. «Riportare la Giratempo al Ministero e andare via. Da Rodolphus Lestrange, forse, o magari da Narcissa, persino da mia madre».
In quel momento, Delphini comprende. «Andromeda» sussurra, piano. «Sei sua figlia».
Ninfadora sorride, malinconicamente, e annuisce. «Lei ti accoglierebbe, se tu le dicessi che hai bisogno di una guida» sussurra. «Ti insegnerebbe tutto quel che vuoi, e ti darebbe quell’amore che pensi di non meritare».
«Io sono un piano» risponde Delphini, con una sicurezza che non prova. «Un incontro di Arti Oscure. E, probabilmente, una speranza».
«Tu sei tu» risponde Tonks, con fervore. «I tuoi genitori erano assassini, ma tu puoi fare di meglio, vivere una vita che ne valga la pena. L’Amore, Delphi…».
«L’amore non esiste» sibila lei, piano. «Mi dispiace averti fatta venire qui, ma io devo salvare mia madre dal Bacio. E tu non mi servi».
Ninfadora Tonks sospira, alzandosi in piedi e preparandosi a svanire nel nulla. «Abbi cura di te, Delphi» sussurra, sorridendo dolcemente. «Pensaci. Puoi ancora avere una famiglia, un destino diverso».
Fa male forzarsi a rigirarsi la pietra sul palmo, costringendo sua cugina a sparire in un sospiro rassegnato. Delphini chiude gli occhi, seppellendo il viso tra le mani.
Stanca, lascia scivolare il braccio verso il terreno. La Pietra della risurrezione cade nel fango, lei a malapena se ne rende conto.
 
***
 
Sei ore prima, Foresta Proibita.
 
Delphini ha perso il conto dei minuti passata seduta in mezzo al niente, vicino alla radura dove Harry Potter si era consegnato a Lord Voldemort, aprendosi alla chiusura. Il tempo le è scivolato via dalle mani, imprigionandola tra quegli alberi e quel silenzio, costringendola a pregare il buio di trovare la forza.
La Giratempo ha ticchettato, scandendo il tempo, finché lei si è risolta a prenderla tra le mani, che si sono mosse contro la sua volontà. Ha inserito la data, stupendosi perché era diversa da quella Battaglia di Hogwarts.
Il cielo ha cominciato a scolorarsi in un blu più chiaro, punteggiato di stelle come lentiggini. È che quella sera il cielo non sembra né vetro né carta, pensa. Sembra plastica trasparente che si piega contro la luna, concava, dove l’aria sibila sussurri.
Il cuore duole di ticchettii, ma ormai non importa più.
 
***
 
«Mio Signore?» la voce di Bellatrix ne tradisce l’emozione, le raschia la gola. «Dove mi state portando?».
Lord Voldemort avanza a grandi passi nella foresta, seguito dalla sua migliore Luogotenente, i capelli castani scossi dal vento. La Magia Oscura ne ha distorto i tratti, scavando gli zigomi e rendendo sporchi di sangue gli occhi. Quando si volta, ha il gelo nello sguardo.
«Ho studiato e cercato in ogni libro conosciuto dall’uomo» esordisce, calmo. «Non c’è soluzione, temo».
«Mio Signore?» ripete la donna, con sguardo perplesso. «Temo di non essere a conoscenza dei vostri piani, io… non sono degna, ma sarei onorata se voi voleste informarmi di essi».
«Il mio destino è quello di vivere per sempre» osserva Voldemort, atono. «Si tratta del mio piano, Bellatrix, del massimo utilizzo delle Arti Oscure».
Lei spalanca gli occhi scuri, resi liquidi dall’emozione, e china il capo con aria silenziosamente emozionata. «Sono la vostra umile serva, Mio Signore» sussurra lei, appassionatamente. «Ditemi cosa devo fare, e per voi lo farò».
«Ho bisogno di un erede, Bellatrix» commenta lui, senza alcuna emozione apparente. «Qualcuno che possa garantire la mia sopravvivenza nel tempo, in eterno».
A lei manca il fiato, le tremano le mani e Delphini, nascosta nell’ombra della sera che avanza, trema fino all’anima stracciata, ignuda, infreddolita. È dicembre e Bellatrix, al pari della figlia, trema così tanto che la voce diviene un vapore inafferrabile.
«Voi mi onorate» sussurra, infine. «Sono ai vostri ordini».
Lo sei sempre stata, pensa Delphini con rammarico, lo sarai per tutta la vita che ti rimane da vivere. Chiude gli occhi, di fronte al sibilo di suo padre. Stenditi. Ma la Felix Felicis le dice anche che non è tempo di tornare indietro, ma nemmeno di andare avanti.
Per quello, forse il tempo non è mai contato, non è mai stato possibile: qualcuno la prende per il polso, silenziandola con un movimento preciso della bacchetta. Delphi non apre nemmeno gli occhi, mentre un gemito sommesso di sua madre squarcia l’aria (e l’anima) come carta che apre la pelle, infida, e vetro che punge fino a far sanguinare.
Ma quando viene svegliato dal ticchettio di una Giratempo e finalmente si decide ad aprire gli occhi e a puntarli sul cielo, scopre che esso è diverso da quel che s’era immaginata. Non v’è carta, né vetro, e alla fine è rimasta solamente la plastica – e non vi sono sogni, in quel cielo, non vi sono speranze: pare d’essere dentro una bolla che si piega ma non si rompe mai.
Le mani di Harry Potter sono gentili, nonostante tutto, e lei vorrebbe solamente urlargli di non fare così che le si spezza il cuore.
 
***
 
Cinque ore prima, Ufficio del Ministro della Magia.
 
Il Ministro della Magia è visibilmente provato, e continua a massaggiarsi le tempie con aria distratta, mentre è Harry Potter a condurre l’interrogatorio di Delphini. Le ha chiesto il suo nome e lei, per un momento non ha saputo cosa rispondere.
«Sono tante cose» mormora, infine. «Un piano, una convergenza di Arti Oscure, forse una figlia, non lo so. Mi chiamo Delphini Lestrange e…».
«Riddle» la corregge Draco Malfoy, seduto sulla scrivania della Granger. «Mio padre ha confessato, Delphini. Sappiamo chi sei veramente».
Ma lei lo guarda, e c’è una rassegnazione nel suo sguardo che fa male, malissimo, e per un momento persino Malfoy riesce a provare pietà per quell’esistenza nata per l’infelicità. Ma dura solo un attimo, perché Delphi alza il mento con aria fiera e, per un momento che fa rabbrividire Harry Potter fin dentro le ossa, Bellatrix Lestrange risorge.
«Lestrange» risponde, sicura. «Il nome che mi hanno voluto dare e, adesso, il nome che scelgo di tenere».
«Parlaci del tuo piano» suggerisce il Ministro, con calma. «Non sarà un nome a cambiare il significato di un’azione, Harry. Preferirei sentire di più su cosa intendeva fare».
«Mi sembra ovvio, Granger» constata Draco, l’ironia che gli sfregia la voce come l’ennesimo Marchio che è costretto a portare addosso. «Voleva riportare indietro chi l’ha generata, non pensi anche tu?».
Lei sospira, tornando a massaggiarsi le tempie. «Potresti lasciarla rispondere, Draco?» sibila, alterata. «Non mi interessa sentire le tue ipotesi, se permetti».
Delphini li guarda e, per un momento, vorrebbe solamente fare come sua madre e ridere, ridere, ridere. Ma le manca la voce.
«Volevo salvarla» sussurra, piano. «L’avete condannata e io ho bisogno di lei, e non so lasciarla andare».
«Tua madre ha commesso crimini contro il Mondo Magico» commenta il Ministro, in maniera diplomatica. «Ha subito un regolare processo ed è risultata colpevole».
«Sua madre era un’assassina» sbotta Potter, cercando il consenso negli occhi degli altri due. «Ti sei dimenticata di Sirius, Hermione?».
La Granger vorrebbe rispondere, ma viene interrotta da Delphini, che si schiarisce la voce, a disagio. «Pensavo che il Ministero volesse abolire il Bacio come condanna» sussurra. «Pensavo che il Prescelto volesse concedere il perdono a chi lo richiedeva».
Harry vorrebbe semplicemente mettersi a urlare, ma un’occhiata di Hermione, piena di ammonizioni, lo mette a tacere.
«Si tratta pur sempre di sua madre, Harry» conviene, con luminosa comprensione. «D’accordo, ha sbagliato, ma vogliamo davvero punirla perché ha cercato di salvare sua madre?».
«Sua madre è Bellatrix Lestrange, Hermione» sibila Draco. «E non posso credere che sto seriamente dando ragione a Potter2».
«Sua madre sarà anche Bellatrix Lestrange, ma noi ci occupiamo di salvaguardare i giovani» risponde Hermione, gesticolando animatamente. «Io non ci sto a processare una ragazza di quanto, vent’anni?».
«E cosa intende fare, Ministro?» domanda Malfoy, con la voce grondante di sarcasmo. «Sospendere la condanna della mia cara zia e lasciarle vivere insieme felici e contente?».
Hermione sbuffa, pronta a ribattere ma, ancora una volta, è Delphini a replicare. «Non m’importa più di lei» sussurra, piena di rancore. «L’ha detto anche lei, che è come se non fossi sua figlia. Io ho provato a salvarla, ma lei… lei vuole raggiungerlo».
«Delphini, ascoltami» comincia il Ministro, calmo. «Le cose che hai fatto varrebbero a un adulto una condanna a vita ad Azkaban: cercare di resuscitare Lord Voldemort, rubare nel mio ufficio…».
«Rubare dal mio studio» aggiunge Draco, in un sibilo. «Obliviare Scorpius e Albus. E, soprattutto, farmi svegliare in piena notte per venirti a prendere».
Hermione lo mette a tacere con un gesto scocciato della mano e uno sbuffo d’avvertimento, tornando a concentrarsi su Delphini.
«Non voglio sottoporti a un processo» dichiara. «Andrai a vivere da un tutore, per un periodo di rieducazione e reinserimento nella comunità magica».
«E chi vorresti nominare come tutore?» sibila Draco, incrociando le braccia sul petto. «Sono il suo unico parente, te lo assicuro, non ho intenzione di badare alla figlia di Voldemort».
«Draco, non puoi prendertela con lei solamente perché…» comincia Hermione, calma.
«Ha cercato di resuscitare Voldemort» completa Harry, sarcastico. «Io penso che dovresti essere più obiettiva, Hermione, la ragazza non può andare a vivere con Lucius Malfoy».
«Troveremo una soluzione» risponde il Ministro, piano. «Fatemici riflettere».
«Rodolphus Lestrange» sussurra Delphini, piano. «Vive in Provenza e mi prenderebbe con lui, se me lo permetteste».
Lo sguardo di Draco Malfoy è d’acciaio, mentre pronuncia quelle parole – altrettanto dure, altrettanto insensate – e taglia l’aria in un sussurro.
«Rodolphus Lestrange è deceduto tre ore fa» risponde, calmo. «Lo hanno trovato morto in casa sua».
A Delphini si ferma il fiato in gola.
 
***
 
Quattro ore prima, Ufficio del Ministro della Magia.
 
L’hanno trovato morto al tavolo della cucina, la mano stesa a sfiorare una tazza sporca di cioccolato, e un sorriso un po’ amaro – cioccolata senza zucchero – sul volto. Le dicono che è morto con un calice di vino in mano, forse avvelenato, ciò che conta è che gli ha fermato il cuore e adesso non ha più spazio, il torace, per altri respiri.
L’hanno trovato morto nel cuore della notte, che è l’ultimo cuore che Rodolphus ha potuto toccar con mano (e trovarlo congelato da una mancanza), senza una spiegazione o un perché. E adesso, Delphi, (rim)piange.
Silenziosamente una lacrima le scava il volto, silenziosamente solamente perché le parole non escono e lei grida con il volume azzerato. Cresci così, si dice. Il giorno in cui ti devi costringere a lasciare andare i tuoi genitori per scoprirti cambiato nella loro assenza forzata e innaturale, che non ti piace ed è innecessaria, ma indubbiamente c’è.
Ti ho lasciato andare, padre, ma adesso torna indietro e portami via con te. Ti prego.
Sopra la sua testa, Harry Potter, Malfoy e il Ministro continuano a parlottare fitto in attesa di una soluzione, mentre lei dimentica com’è che si fa a tornare a respirare. Delphini li guarda e vorrebbe supplicarli, pregarli in ginocchio, di lasciarla andare.
«Ministro Granger» tossisce, così piano che è sicura di non esser stata udita, finché Hermione non si volta verso di lei. «Farò quello che deciderete. Ma posso passare le ultime ore di mia madre con lei?».
«Certo» sussurra il Ministro, con uno sguardo che sa troppo di pietà e troppo poco di comprensione. «Ti farò portare lì da un Auror. Harry, pensi che Clarke potrebbe…?».
«Granger, perdonami» la interrompe Malfoy. «Non abbiamo ancora deciso cosa fare di lei, e tu vuoi lasciarla andare da sua madre».
Disprezzo, in una parola che dovrebbe suonare dolcissima ma che, per Delphini, contiene un’estraneità inenarrabile. Disprezzo, nello sguardo che le lancia, disprezzo nella consapevolezza di aver perso una battaglia e tutte le guerre.
«Mia madre aveva due sorelle» borbotta Delphini, piena di vergogna. «Perché non chiedete ad Andromeda se è disposta a prendermi con sé?».
«Tu non andrai a vivere con Andromeda Tonks» sibila Harry Potter, con il viso sul punto di lacerarsi come carta per l’ira. «Non dovresti nemmeno permetterti di nominarla».
«Non è una cattiva idea, Harry» sussurra Hermione, posandogli una mano sul braccio. «Si tratta pur sempre di sua nipote, magari…».
Ma Harry Potter è irremovibile nel proprio no.
«Come fai a pensare che possa essere diversa dai suoi genitori, dopo tutto quello che ha fatto?» domanda Draco, calmo. «La sostanza di una persona non cambia, se la travasi in un altro contenitore».
«Non sapevo fossi diventato anche poeta, Malfoy» constata Hermione, con amarezza. «Vorrei comunque parlare con la signora Tonks, Harry, e sono irremovibile su questo punto».
Gli altri due chinano il capo, occhi di fuoco incendiano il pavimento.
Delphini ricambia l’occhiata del ministro, mentre un pensiero le infesta i pensieri: c’è qualcosa di sbagliato, dentro di me, ed è questo che mi rende simile a lui.
 
***
 
Due ore prima, Azkaban.
 
La pozzanghera s’è asciugata nell’alba nascente. Bellatrix ha smesso di guardarla, preferendo specchiarsi nei propri pensieri: non s’aspetta di rivedere sua figlia, la fine arriverà comunque.
Eppure, quando Delphini compare all’orizzonte scortata da un Auror, non riesce proprio a mostrarsi sorpresa. È che a volte le cose sono semplicemente uguali a ciò che sembrano, e la sostanza bagnata e fradicia di un vaso di fiori è quel che appare – muffa, acqua marcia, petali rinsecchiti. La sostanza di Bellatrix, che è quella di Voldemort, è marcia come un mazzo di fiori dimenticato in un vaso da decenni.
«Cosa ci fai, qui?» le domanda, quando l’Auror le permette d’avvicinarsi dopo averle confiscato la bacchetta. «Hai davvero il coraggio di presentarti davanti a me?».
Delphini pensa che non si tratti di coraggio, ma di quell’amore che non esiste, di quella traccia invisibile che una persona – Rodolphus Lestrange – le ha scavato nel cuore un po’ controvoglia. Ti lascio andare, madre.
«Il Ministro mi ha permesso di venire a dirti addio» risponde Delphi, calma. «Sconterò la mia punizione, madre, non ti cercherò mai più».
Bellatrix ride, squarciando l’aria. «Io non sono tua madre» ribadisce, con forza. «Né tu potresti mai essere mia figlia».
Delphini china il capo – ti lascio andare, madre – e non risponde: solamente un colpo di tosse la scolla da quei pensieri che vogliono rapirla con la forza, facendola piombare in quel mondo d’oscurità dove le pozzanghere non s’asciugano mai.
«Guarda cosa sei diventata» commenta Narcissa Malfoy, e per un momento sua nipote deve chiedersi a chi si stia riferendo. «Cosa ti sei fatta fare».
«Cissy!» strilla Bellatrix, con tono infantile. «Sei venuta a trovarmi? E perché non hai portato nostra sorella? Pensavo che fossi corsa a nasconderti sotto la sua gonna, dopo che ci hai traditi tutti quanti».
Narcissa osserva sua sorella, senza scomporsi: si è regine anche senza il bisogno d’indossare una corona, e la signora Malfoy è regale nel portamento e nell’espressione leggermente disgustata che rivolge a sua sorella. Immobile, la costringe a tacere con uno sguardo. La bambina che piangeva sulla scia di sua sorella Andromeda è cresciuta, inevitabilmente, s’è rafforzata fino a divenire l’ennesimo idolo d’acciaio, privo di doratura.
«Hai perso, Bella» commenta Narcissa, atona. «Non c’è speranza, e lo sai: permettimi di avere un bel ricordo di te, nonostante tutto».
Ma sua sorella ride istericamente, facendo sobbalzare Delphini. «Io non perdo mai» risponde Bellatrix, con voce acuta. «Abbiamo fatto cose grandi, che nessuno al mondo potrà replicare mai».
Cissy sospira, mentre un Auror le porta una sedia – un trono – su cui accomodarsi. Distante, rimane, perché mai più si farà toccare dentro l’anima da sua sorella.
«Cose grandi?» commenta Narcissa, con tono ironico. «Forse, Bella. Ma lo sapevamo tutti che eravate già morti».
Bellatrix vorrebbe risponderle – solo lui può vivere per sempre – ma un suono di passi la fa voltare di scatto, con gli occhi spalancati. Andromeda Tonks avanza a passi misurati, i capelli castani e striati di grigio legati in un severo chignon e il viso atteggiato in un’espressione ancora più severa.
«Non posso dire che mi faccia piacere vederti qui, Bella» commenta, rimanendo in piedi accanto a Narcissa. «O vederti, in generale».
Delphini la guarda – negli occhi: tiepida speranza – e aspetta che quella donna, così simile a sua madre nell’aspetto, si renda conto che lei aspetta solamente un suo cenno. Che Andromeda Tonks le concede, un sorriso minuscolo, forzato, che comunque l’illumina e la fa tornare giovane e piena di belle speranze.
«Perché l’hai portata qui?» domanda Bellatrix, con disprezzo, rivolta a Narcissa. «Vi siete ritrovate, adesso che tu e Lucius avete deciso da che parte stare?».
«Potevi scegliere anche tu, Bella» risponde Cissy, calma. «Ma mi sembra evidente che, io e te, abbiamo priorità diverse».
La vita, ad esempio, pensa Delphini con una malinconia appiccicosa che le rende faticoso respirare, la vita e l’amore.
«L’amore, Cissy?» domanda sua madre, come fosse in grado di leggerle i pensieri. «Cosa c’è di sbagliato in te?».
Narcissa sorride, in un lampo d’occhi azzurri. «No, Bella, cosa c’è di sbagliato in te?» sussurra. «Perché sei diventata così simile a lui?».
Andromeda non interviene, ma guarda verso il basso, dove Delphini è seduta a osservare con malinconia le ultime ore di sua madre.
«Delphini» la chiama, bisbigliando. «Ho parlato con il Ministro, e mi ha detto che ti piacerebbe che diventassi la tua tutrice, per il tempo della tua punizione».
La fa sembrare una marachella da bambina, pensa Delphi con un velo di vergogna, un tentativo sciocco e insensato di una figlia che ama la madre e non riesce a lasciarla andare. Annuisce, coprendosi il viso con i capelli.
«Dimmi perché» commenta Andromeda, con aria severa. «Perché dovrei accogliere in casa mia la figlia dell’assassino di mia figlia».
«Perché le ho parlato» sussurra Delphi, rossa di vergogna. «Con Tonks. Mi ha detto che lei mi avrebbe permesso di vivere con lei, se avessi scelto di non andare a vivere… non importa, mi scusi».
La signora Tonks sorride tristemente, sfiorandole il capo con il dorso della mano. «Triste, la fine di Rodolphus» commenta. «Dicono sempre di lasciare andare i morti, di permettere loro di andare oltre. Ma come fai a lasciare andare le persone che ami?».
Delphini spalanca gli occhi, con aria turbata: l’amore, urla suo padre nella sua mente, non esiste. Ma lei lo vuole, quell’amore, e una casa, una famiglia. Qualcuno che le insegni a essere qualunque cosa sia destinata ad essere.
«Come faccio a prenderti con me?» sussurra Andromeda, con aria dispiaciuta. «Draco l’ha detto bene: la sostanza delle persone non muta. E tu di che sostanza sei fatta, Delphini?».
«Temo di non saperlo» sussurra, con la voce strozzata. «Lei pensa che io abbia qualcosa di sbagliato? E che per questo sia simile a loro?».
«Hai visto mia figlia» commenta sua zia, e c’è una leggera incrinatura tra le parole. «Dora non sarebbe mai apparsa a qualcuno simile a mia sorella».
Delphini sorride leggermente, piena di speranza silenziosa, e le lancia un’occhiata piena di domande inespresse.
Andromeda ricambia il sorriso, silenziosa, e per un momento la somiglianza con Bellatrix si appiattisce per poi svanire.
 
***
 
Ora. Azkaban.
 
Andromeda Tonks non è fuggita: non ti preoccupare, non torno. Eppure sua sorella la guarda con una risata negli occhi che non lascia scampo e lei pensa solamente che, in tutta la sua vita, questo sarà sempre lo sgarbo peggiore che potrà riservarle.
Prendere sua figlia – il suo piano, le Arti Oscure – e insegnarle quei valori che Bellatrix stessa ha sempre ignorato: casa, amore, famiglia3.
«Vuoi dirmi qualcosa, prima di andare?» le domanda Narcissa, con forzata dolcezza, carezzandole il capo. «A me, a tua figlia?».
Bellatrix ride, guardandosi attorno con aria disinteressata. «Io non ho una figlia» ribadisce, con forza. «Ho un piano, che è fallito, e conosco le Arti Oscure. Che si sono rivelate inutili».
Senza farsi vedere dalla sorella, Andromeda lascia scivolare la propria mano in quella di Delphini e dolcemente la stringe.
«Dille addio, almeno» la incita Cissy, con una nota di esasperazione nella voce. «Ha infranto la legge, solamente per provare a salvarti».
Ma Bellatrix ride – aria infranta da quel suono – e rivolge uno sguardo divertito a sua figlia, facendola rabbrividire.
«E ha fallito» commenta, piano. «A cosa ti sei ridotta, Cissy?».
«Ho una famiglia, Bella, una casa» risponde Narcissa, calma. «Un figlio che mi ama. E tu, invece, cosa ti è rimasto?».
«Lui mi perdonerà per averlo deluso» risponde Bellatrix, con forza. «Riconoscerà la mia devozione».
«Lui è morto» interviene nuovamente sua sorella. «La devozione non ti servirà a niente, in questo momento. Pentiti, Bella, fammi sapere che almeno riesci a renderti conto di cosa sei diventata».
«Io non ho tradito» risponde Bellatrix, cominciando ad avvicinarsi agli Auror. «Io sono rimasta fedele a Lui, per tutta la mia vita: sarò lieta di morire per lui, lo sono sempre stata».
«Mi dispiace, madre» sussurra Delphini, interrompendo quella conversazione. «Io… non mi dimenticherò di te, te lo giuro».
Ma Bellatrix ride, raggiungendo gli Auror e cominciando ad avviarsi verso la propria fine – gloriosa, ingloriosa, giusta o ingiusta – e voltandosi indietro dopo qualche passo.
«Io non sono tua madre».
 
***
 
So che puoi gettarmi via
Ma ciò che vuoi
Lo voglio anch'io
È troppo, troppo presto, è male
Le tue labbra sono nude
Sai che è solo il tempo
A rivelare la stagione
 
Poi, ???
 
È come cadere.
Senza fiato, un colpo sulla schiena che ti spezza i pensieri in un sussurro, in un tempo che non è tempo ma non è nemmeno spazio, e allora è semplicemente un niente che si consuma sui bordi di una vita che si spegne alla luce di un tramonto infuocato. Come una lucciola agonizzante, una luce che d’improvviso si spegne, e il fiato muore nel tentativo di continuare a respirare: tu lo vedi il cielo?
Tu lo senti, il cielo, lo tocchi? Sa di un bacio – sporco e crudele – e di un’anima che si snuda, si toglie ogni orpello per essere mangiata, sentita e toccata.
Lei non è più, non sarà mai: in una stagione della sua vita che è dimenticata, che non sarà trascritta nel censimento di quel che ha compiuto nei suoi anni migliori, Bellatrix Lestrange è semplicemente caduta. Ai suoi piedi, che è il posto che le compete, che è il posto che le spetta ed è il posto che desidera.
È cieca, ma ne percepisce la presenza sulla pelle, nella mente e nel corpo che si ricorda l’impronta delle sue dita – lasciata controvoglia, l’ennesima macchia su una divinità caduta dal cielo, infranta in un milione di frammenti. Vetro.
Bellatrix si appiglia alla sua veste, ne sente il profumo, ne sente la mancanza che le ha annebbiato la mente per più di vent’anni. Un ticchettio ne scandisce i pensieri, ne corrompe le memorie. Ma a che serve, ricordare, se le mani di lui la percorrono a memoria e lei può reimpararlo d’accapo?
In un posto che è casa e prigione, che non ha pareti e non ha colori, non ha niente, Bellatrix è di nuovo sua. Senza parole, perché le corde vocali sono come stracciate, come accartocciate. Carta.
Volge il volto verso un cielo che non c’è: dentro la scatola, il cielo è una bolla di sapone che si piega sotto la luce di un sole freddo come la morte. Che tempo è? Perché non sente niente, che giorno è, che cosa è successo?
Una voce le sussurra all’orecchio – vieni qui – e lei muove passi incerti che portano ovunque e da nessuna parte, piccoli tocchi di luci la guidano a passi incerti.
Il ticchettio diviene sempre più insopportabile, così che è costretta a fermarsi nel suo eterno girovagare.
Mette una mano nella tasca del vestito, scoprendo l’origine di quel rumore. Bellatrix respira a fatica, le mani tremano in quell’aria così umida che sembra possibile poterla toccare.
Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore: è che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù.
 
C'è qualcosa di nuovo per te
È sbagliato perché non ha limiti
E anche tu hai qualcosa per me
È sbagliato, ma ci rende simili
 
(Afterhours, La vedova bianca)


1Alice Sebold, Lucky
2Piccola strizzata d'occhio a TCC con il famoso "Non posso credere che sto prendendo ordini dalla Granger!"
3Dal Cartone Animato "Anastasia"

Aggiorno di volata. Grazie per aver seguito questa storia, risponderò alle recensioni il prima possibile, ma sappiate che vi leggo sempre con immenso piacere.
L'ultimo paragrafo è interpretabile, ma io l'ho scritto pensando a una sorta di "paradiso", ma siate liberi di scrivermi la vostra interpretazione personale.
Un bacio,
Gaia
   
 
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