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Autore: deathkilledveronica    05/05/2021    0 recensioni
In questo caso c'è ben poco da ascoltare ed Alice lo sa bene. La sordità che l'accompagna l'ha circondata di silenzio, di rumori non sentiti e di parole non recepite. Alice vive nel suo paese delle meraviglie, dove i libri sono la sua casa, le poesie il suo tripudio d'amore.
Anche Marco sa bene che c'è ben poco da ascoltare: conta ogni passo che compie, vive sommerso dai suoi numeri. Nel suo mondo le pietanze non si toccano, tutte le sue camminate iniziano col piede destro ed i sentimenti non sono ingarbugliati tutti nel suo stomaco.
É seguendo il ritmo delle sue emozioni - e non il numero dei suoi passi - che Marco incappa in una coincidenza meravigliosa, casualità fortuita di un destino che non vuole dargli l'ordine che tanto brama: Alice è nascosta fra le fronde degli alberi dove l'unico raggio di sole illumina lei. Lei che non può sentire, lei che non può ascoltare, lei che si nasconde dietro un libro, vivendo dietro al suo silenzio che gli altri danno troppo per scontato.
La poesia non sarà più solo un lontano sogno d'amore: diventerà la chiave fondamentale di una tiepida e dolce corrispondenza epistolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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III. Tra gli Inferi e Peter Pan

Lunedì, 21 settembre 2015

Per Marco da Alice

  Colgo l’occasione, con questa lettera, per farti notare che oggi è il primo giorno d'autunno e ciò mi rende contenta. Ogni volta che arriva questo periodo mi sento in dovere di leggere qualche poesia di Ungaretti. Anche se, a dirla tutta, leggere Ungaretti dovrebbe essere un dovere e basta. Rettifico: dovrebbe esserlo nutrirsi di poesia.
 Bando alle ciance!

 La tua reazione alla mia risposta mi ha lasciata dubbiosa: come fai a scongiurare uno scherzo ma al contempo farlo sembrare così reale? Perdonami se nelle mie parole trovi una ragazza rude, ma d’altronde anche io necessito di salvaguardarmi. Questa tua anonimia ti protegge, ma il tuo scudo non è sufficiente per coprire entrambi; in tutta onestà, non è il momento adatto per essere vulnerabile agli occhi di un estraneo.
Eppure sono curiosa, tremendamente curiosa: cosa sai di me? Quanto mi conosci? Sei sicuro di non aver sbagliato persona?

 Nonostante tutto, non ho intenzione di negarlo. L’idea di dar vita a una corrispondenza – seppur anonima – è qualcosa che, con i suoi pregi e i suoi difetti, mi alletta. Più rileggo le tue parole, più perdo la testa. Sembri, in tutto e per tutto, uscito da uno dei miei romanzi preferiti. La tua personalità mi attrae, come se tu fossi miele ambrato che cola, ma da un alveare colmo di api. A quanto ammonta, oggi, il rischio di essere punta? Qual è la trappola in cui vuoi che resti invischiata senza via di fuga?

 Come ho già ribadito, non sono certa che continuerò a risponderti qualora mi sentissi in particolare disagio o pericolo. Nel frattempo, però, concedimi di approfittare ancora un po’ delle tue lettere. Vorrei porti una quantità di domande incommensurabile, una quantità che sta tra lo zero e l’infinito. Sappilo: sarò spietata, ma non banale. Rispondi a più quesiti possibili, te ne prego.

 Le tue risposte, attualmente, sono l’unica cosa che potrebbero salvare questa corrispondenza e protrarla nel tempo. Sono certa che ai tuoi occhi sia già risaltata una contraddizione: scrivo righe di rigide premesse e poi ho questa istintiva fiducia nei tuoi confronti. Carpe diem, giusto? Tieniti pronto, perché ora iniziano le domande, sperando non siano poi troppo scomode.

Perché scegliere una coincidenza – come quella del raggio di sole – per scegliere l'ultima fra le ultime? Cosa sai di me, di me come persona? Perché hai scelto di essere un intreccio di segreti? Qual è il tuo punto debole, la timidezza o la popolarità? Cosa ti impedisce di avvicinarti e parlarmi?

Infine, avrei tanto voluto chiederti il tuo nome, ma vista l'idea sciocca, ho deciso di sceglierlo io per te: Caronte. Ti ci vedrei bene, anche se non come un vigoroso e anziano traghettatore; non scorgo in te l’impeto con cui lui stesso impreca contro le anime condannate all’erranza. Sento del fuoco, però, nei tuoi occhi. Vicina è anche la disperazione che trapela dalle tue parole. Sento il tuo dolore.
Anche se con molto rammarico, devo comunicarti che al momento non ho oboli da offrirti.

 Se me lo concedi, però, vorrei poterti guardare da lontano, anche se preda delle acque dell’Acheronte. Lasciami naufragare almeno un po' in questo tuo terrificante fiume fatto di urla.

P.S. Sappi che mentre ti scrivo, sono seduta proprio dove mi hai vista per la prima volta.

 

 «Ciao Marco, vieni pure», sorride la mia psicologa, «oggi ci aspetta un bel po’ di lavoro.»

Non riesco ad emettere alcun suono. Trascino il mio corpo dentro il suo studio, sedendomi sulla sedia da ufficio di stoffa ruvida imbottita. Questo primo incontro dopo la pausa estiva rischia più di infrangermi che di ricongiungere i frammenti sparsi di me. Aspetto che Francesca si accomodi dall’altra parte della scrivania prima di sospirare pesantemente.

 «Non credo ci sia più molto da fare, ormai», mormoro sottovoce temendo le mie stesse parole, «mi sento di non valerne più la pena.»
 «Quanto tempo gli hanno dato i medici?»
 «Non l’ho voluto sapere. E, in tutta onestà, preferisco non saperlo.»
 «Parlami del rientro a scuola. Come ti sei sentito?» chiede, gentile come non lo è nessuno con me. Mi spiego meglio: la gentilezza di Francesca non è falsa cortesia; è curiosità sincera espressa con un tatto da maestri.
 «Solo, esattamente come mi aspettavo. Una solitudine più feroce di quel che avevo programmato. Eppure, qualcosa di buono ne è saltato fuori», ammetto arrossendo pensando alle lettere di Alice, «qualcosa che nemmeno io avrei immaginato».
 Francesca mi guarda, in attesa, e con sempre più timidezza proseguo: «Ho scritto a una ragazza».
 «Durante le vacanze estive? Vi siete scambiati i numeri?»
 «No», affermo svelto, «quando dico che le ho scritto, intendo dire che le ho scritto.» Lo sguardo di Francesca è confuso, si sposta i corti ricci biondi dalla fronte e ci pensa qualche secondo.
 «Evidentemente sono dura di comprendonio. Continuo a non capire cosa intendi.»
 Ho estrema fiducia nei confronti di questa donna, ed è per questo che prendo il plico di lettere dallo zaino e lo poso sul legno scuro della scrivania che ci separa. Ho tenuto anche le brutte copie delle mie lettere, perché non voglio dimenticare una sola parola di questa corrispondenza. I suoi occhi ora sono sorpresi come lo sarebbero quelli di un bambino, così non mi faccio scrupoli: inizio a raccontarle di come io abbia colto un attimo inaspettato e di come Alice, dopotutto, abbia deciso di rispondere a un folle come me.

 La mia psicologa non si perde a indorare la pillola, anzi, fa osservazioni di una certa rilevanza: «Il fatto che tu ti sia messo in gioco, Marco, è senza ombra di dubbio un buon segno. Soprattutto se prendiamo in considerazione il rifiuto che hai per i farmaci in questo ultimo periodo.»
 «Ma?» chiedo, perché le sue parole hanno il gusto di qualcosa lasciato a metà.
 «Goditi il momento, è giusto che tu lo faccia. Se tutto filasse liscio, sarebbe la tua prima esperienza in campo sentimentale e questo comporterebbe molte cose che ancora ti causano grandi sofferenze», Francesca mi guarda negli occhi con tutta la sua genuinità, «vorrebbe dire aprirsi, Marco, confidarsi. Condividere gioie e soprattutto dolori. Sei sicuro di esserne pronto?»
 «E se invece non andasse a buon fine?» domando, rigirando il coltello nella piaga delle mie emozioni troppo vivide.
 «Il dolore è un pezzo che già conosci, non credi? Sarebbe un dolore diverso dal solito, ma pur sempre dolore. Sei sicuro di volerti mettere in gioco proprio ora che sei più fragile?»
 «Sono nato pronto.»

 

 

Giovedì 24 settembre 2015

Per Alice da Marco

 Spero che le urla del mio corso di anime non ti siano di troppo disturbo. Posso offrirti qualcosa? Magari un mucchio di parole inutili? Qualche fugace risposta alle tue impetuose domande? Iniziamo con ordine.

 Fortunatamente, mi trovi concorde su due cose: Ungaretti e la poesia. I lettori, se già tuttora possono considerarsi quasi figure mitologiche, sono ancora più rari quando sono voraci di poesia. In un certo qual modo, sono ancora più contento di averti scoperta.

 Prima di tutto, vorrei contestare la vulnerabilità di cui pensi di essere in balìa: ne abbiamo la medesima quantità. So che può risultare paradossale, ma quel che so di te – oltre al tuo aspetto, la tua classe e quel che mi hai scritto – è anch’esso misero.
Anche, e soprattutto per questo vorrei proseguire la nostra corrispondenza: benché non lo faccia trapelare, nel petto ho la stessa bramosia di saperti che hai tu. Tu che sei sfuggevole, tu che eludi le mie domande e ti prendi con forza la facoltà di porne a tua volta. Lo trovo adorabile.

 Dunque, come puoi continuare a credere che mi stia prendendo gioco di te? Non ne avrei motivo: io sono fortunato, perché di te, che tu scelga o meno di dar lunga vita a tutto questo, preserverò per sempre la tua autenticità. Quest’ultima, se mi è concesso dirlo, dubito sia privilegio di tutti.

 Ah, e per quanto riguarda il punto debole, direi che non è né timidezza né questione di popolarità. È che ora preferisco averti così, senza obblighi o doveri, senza che tu ti senta costretta a lasciarmi entrare a gamba tesa nella tua vita. Lo spazio che se mai mi spetterà, preferisco prendermelo parola dopo parola, lettera dopo lettera. In fondo, sento di dovermi guadagnare la tua attenzione e, perché no, un piccolo spazio dentro di te.

 I tuoi dubbi mi lasciano comunque un po’ perplesso: siamo nel 2015 e la tecnologia ha la meglio sulla carta e sul cervello degli uomini. A quale scopo farti uno scherzo di cattivo gusto quando, tutto sommato, sarebbe sufficiente postare una foto ridicola di te online? Siamo anacronistici e io ne sono entusiasta.
Entrambi non facciamo altro che divagare. Stimoli positivamente la mia rara parlantina. Posso chiamarla “parlantina” anche se sto scrivendo? Insomma, mi sono perso di nuovo dentro i miei soli pensieri.

 Ho bisogno della tua compagnia per far sì che i miei spettri non fuggano da me, per tenere incollato quel poco che ho di buono: ti va di essere la mia Wendy armata di ago? Saresti disposta ad acciuffare la mia ombra per poi cucirmela sulla pelle?

 Voglio sentire la libertà delle tue parole imprimersi sulla carta, le tue emozioni vibrare sul foglio. Riesco a percepire la tua dolce tenacia, la tua diffidenza, la tua curiosità. Almeno quest’ultima spero di poterla soddisfare, prima o poi.

 Sei stata il mio raggio di sole quella mattina e a ogni tua parola, che sia estate o autunno, penso solo:

“Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.”

(Giuseppe Ungaretti, Veglia)

P.S. In quel vestito color rosso tramonto-che-spero-non-tramonti-mai, non trovarti meravigliosa è stata cosa ardua.

 

Alice

 I miei occhi continuano a scorrere sulla lettera che ho tra le dita. La brezza autunnale mi coglie di sorpresa, facendomi rabbrividire: è ormai passata un’ora da quando mi sono seduta qui. Sono in stazione, su una banchina, a lasciarmi cullare dal vociare dei passeggeri che vanno e vengono. Solitamente resto qui, con l’apparecchio acustico spento, perché quando sono sommersa dal silenzio e guardo gli abbracci di chi finalmente si incontra, mi sembrano tutti più carichi d’amore. Sono momenti magici, per me, anche se non ne sono la diretta protagonista. Mi piace stare sullo sfondo, forse perché adoro il mondo o forse perché ne ho una gigantesca paura. Non mi è ancora ben chiaro.
Quando vedo la mia amica in lontananza, torno a sentire il rumore del mondo e ho quasi un capogiro.

 «Stai nuovamente facendo la carta da parati?» la voce di Bea mi giunge forte e chiara.
 «Così sembra», mormoro alzandomi, «mi sei mancata!»

 Ci scambiamo un abbraccio nostalgico e, per un attimo, vorrei che la Alice-carta-da-parati ci vedesse. Sono anni che io e Beatrice adoriamo definirci carta da parati o tappezzeria, insomma, dipende. Lei ha un’innata abilità nel passare inosservata, nonostante il suo aspetto sia talvolta stravagante. A detta sua, non ci mette molto impegno, ma io credo che invece si sia abituata al silenzio per anni. E, ancor più che il silenzio, sono convinta che il dono dell’invisibilità le sia costato parecchio in alcune situazioni.
 Raramente ho visto Bea abbattersi, ma questo non la rende invincibile: ai miei occhi le sue debolezze appaiono comunque come punti di forza. Sono passati quattro anni da quando ci siamo conosciute e, inevitabilmente, legate. I suoi capelli tinti di rosa fluorescente e la sua abilità da tappezzeria sono l’ossimoro più bello che conosca.

 Quando penso a quest’ultima frase, riecheggia dentro me la lettera che ancora tengo in mano. L’occhio da aquila di Beatrice non se l’è certo lasciata sfuggire.
 «E quella?», chiede mentre sulle sue labbra si disegna un sorriso furbo.
Arrossisco istantaneamente: «Beh, questa… sì, ecco, questa…», balbetto.
 «È quello che credo?»
 Annuisco, sempre più rossa in viso. Bea sorride largamente e vedere i suoi occhi così curiosi e sereni mi fa sentire meglio: «Allora direi che è meglio sbrigarsi, L’angolo del goloso non resta aperto in eterno per noi!»

***

 «Ora che ho la pancia piena mi sento dieci volte meglio», afferma Bea tastandosi il ventre, come se la focaccia avesse preso forma nel suo grembo, «hai una vaga idea di chi potrebbe essere il tuo Romeo?»
 «Tu e mio padre siete in combutta, per caso?» chiedo, mentre Bea mi guarda perplessa.
 «In che senso?» chiede con cipiglio, i suoi occhi quasi verdi rilucono il sole autunnale.
 «Lo chiamate Romeo così spesso che ormai quando ci penso lo vedo in calzamaglia sotto al mio balcone», rispondo ironica, suscitando una grassa risata sulle labbra della mia amica, «comunque, no. Non ho idea di chi possa essere. Da quando sono diventata così non ho più rivolto la parola a nessuno lì dentro».
 «Può anche darsi che tu non abbia stretto amicizie, Ali, ma non sei davvero invisibile», mormora trangugiando quel che è rimasto della merenda, «almeno, non con quel cespuglio di ricci in testa».
  Le nostre risate si fanno compagnia, ma dentro me sento solo una gran confusione. La mia amica coglie al volo ogni mio stato d’animo, il suo sguardo resta fermo sul mio viso, e con un breve cenno del capo, mi sprona a dirle quello che penso.
 «Ecco, Bea…» mormoro. «Perché proprio me? Credi che sia a conoscenza di questo?» le chiedo, esponendo apertamente il mio apparecchio acustico retroauricolare. Beatrice raccoglie le briciole della focaccia rimaste sul tavolo, il movimento delle sue mani piccole e curate quasi mi ipnotizza mentre getta le malcapitate su un piattino.
 «A questo non so e non posso risponderti, ma ti ha già scelta», la mia amica sospira, poi incornicia la sua bocca con un sorriso, «magari sa a cosa sta andando incontro».
 «Come fai ad esserne così sicura? Io, a tratti, ancora temo che sia uno scherzo o un viscido uomo di mezza età!»
 Bea è esausta di cibo e inizia a sistemare le sue cose nella borsa argentata: «Non è impossibile ma resta molto improbabile. Né un viscido né un simpaticone si impegnerebbero a scriverti delle lettere. Che scherzo sarebbe, poi, se uno dovesse impegnarsi pure così tanto per farlo?»
 Annuisco piano, riflettendoci sopra. Beatrice non ha torto, eppure il mio cuore è ancora un po’ spaventato. Infilo una sigaretta tra le mie labbra, ho decisamente bisogno di una boccata di nicotina. Porgo i soldi della merenda alla mia amica, che con zelo si reca alla cassa e paga mentre io esalo la mia prima boccata di fumo.
Dopo pochi attimi mi raggiunge e, seppur tristemente, arriva il momento di congedarsi. Stringo forte tra le mie braccia il corpo di questa ragazza stravagante e adorabile, con i suoi pantaloni etnici a zampa di elefante e i capelli rosa.
 «Ti fidi di me, Ali?»
 «Ciecamente.»

 

   
 
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