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Autore: Dama_del_Labirinto    22/11/2021    0 recensioni
Era successo di nuovo. Se c’era una cosa che Minami sentiva, era che la sua esistenza fosse in bilico, ancora tutta da scrivere, un punto tremolante su una pagina bianca, ed era bastato un bacio per far crollare il castello di carte delle sue scarse certezze.
Non ne parlano, ma Minami e Kishimoto stanno vivendo una trasformazione. Da una semplice amicizia, il loro legame si è tinto di desiderio, ma la difficoltà di parlarne e radicati pregiudizi fanno soffrire Minami, portandolo sempre più a fondo nella sua fragilità
Kishimoto/Minami
Sequel di "Testimone è solo la notte"
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'In bilico'
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Erano quattordici giorni che Minami non usciva più con Kishimoto il pomeriggio o la sera. Sì, Minami li aveva contati. Spesso Reika gli lasciava un bigliettino tra le mani con richieste di appuntamento o lo chiamava a casa. Da quando aveva cominciato a uscire con lei, si era sempre lasciato trascinare. Non gli importava di lei. Gli dava fastidio che i suoi compagni di scuola gli chiedessero se l’avesse portata a casa sua, mentre Kishimoto gli aveva fatto i complimenti per la sua conquista e poi se n’era andato. Da allora non lo vedeva tanto spesso.
Raggiunse questa dolorosa consapevolezza mentre era a casa. Il libro di inglese stava aperto a ricordargli che era il suo ultimo anno e che avrebbe dovuto impegnarsi. Le giornate senza il basket apparivano semplicemente vuote. Minami fumava alla finestra della camera, tranquillo, sapendo i suoi erano entrambi in farmacia. Ormai il tocco dell’amico stava solo nei suoi ricordi, quando doveva consolarsi la notte con la sua stessa mano, dato che le effusioni di Reika non gli davano alcuna soddisfazione. Proprio quella mattina, prima delle lezioni, aveva chiesto a Kishimoto di tornare sul tetto dopo la scuola e la risposta era stata: “Scusa se non usciamo, devo aiutare la mia famiglia.”
Il divario tra loro si stava allargando sempre di più. Per alcuni giorni Minami aveva deciso di ignorare la questione, di non farne un dramma, ma ora si stava stufando di aspettare qualcosa che non arrivava mai. Così, quando ebbe finito la sigaretta, andò all’ingresso e afferrò la cornetta. Digitò il numero di casa di Kishimoto. Gli squilli si succedettero dilatati in un’attesa che gli sembrava intollerabile.
“Pronto?” La voce della madre di Kishimoto si affacciò dall’altro capo del telefono, constatò Minami con una punta di delusione.
“Ciao, sono Minami,” mormorò.
“Oh, ciao,” esclamò la donna. “Se cerchi Minori, è uscito. Credevo che foste insieme.”
“No, non usciamo insieme da giorni,” dovette ammettere.
“Bah, chissà dove è andato quello,” commentò la signora Kishimoto. “Ti faccio richiamare quando torna. Va bene?”
“Certo, grazie mille.”
Minami mise giù e sbatté una mano contro il muro. Ci appoggiò la fronte, nel tentativo di calmarsi. Fece un lungo respiro.
“Kishimoto, dove cazzo sei, perché mi eviti?” pensò. “Mi manchi, porca puttana.”
Gli mancavano i loro baci, tutto, e gli bruciava il fatto che fosse stato lui il primo ad allontanarsi, uscendo con Reika. Uscì d’impulso. Andò a piedi fino a casa sua, correndo per mezz’ora. Arrivato lì, lanciò un sassolino alla finestra di Kishimoto. Nessuna risposta. Appoggiò la schiena contro il muro e si trascinò giù. Attese che accadesse qualcosa, qualsiasi cosa, poi lo vide. Scendeva dalla moto.  
Di sbieco, l’amico lo notò.
“Dovevi dare una mano a casa, mh?” lo anticipò Minami.
“Che ci fai qui?” domandò Kishimoto.
Minami si alzò. “Sono venuto perché non ti trovo mai,” disse lentamente, poi alzò la voce, “Perché cazzo non usciamo più insieme?”
Kishimoto gli rise in faccia. “Ma sentiti. Dovresti usare questo tempo per studiare invece di fare domande stupide.”
“Fatti i cazzi tuoi.”
“Detto da uno che viene a spiare le persone.”
Minami lo afferrò per un lembo della giacca. “Mi stai evitando?”
Kishimoto alzò le sopracciglia, poi lo fissò con sfida. “Certo che no.”
Minami provò a baciarlo, ma non ci riuscì. Kishimoto lo afferrò in malo modo e lo spinse via.
“Smettila, sei fidanzato,” disse con voce dura.
“Non dirmi che t’importa davvero…o forse non vuoi che lo facciamo qua fuori.”
“Vattene a casa, vattene a fare in culo!” gli urlò Kishimoto.
Minami sbatté il pugno contro il muro e se ne andò.
____

Reika parlava. Minami sentiva la sua voce ininterrotta, lontana. Non aveva la minima idea di cosa gli stesse raccontando, ma la sua voce allegra lo infastidiva. Gli sembrava più interessante il prato su cui erano seduti, al lato della strada. Strappava un ciuffo alla volta, con rabbia, mentre il diverbio con Kishimoto gli tornava alla mente come un nastro di una videocassetta portato indietro ancora e ancora. Il giorno successivo alla litigata aveva incontrato Kishimoto nei corridoi della scuola e si erano scambiati giusto uno sguardo. Poi l’altro se n’era andato con i suoi compagni di classe.
Reika lo toccò sulla spalla. “Tsuyoshi…va tutto bene?” chiese. “Non mi sembri molto interessato.”
“Non lo sono, infatti,” scattò Minami.
Lei rimase a bocca mezza aperta. “Come non lo sei? E me lo dici così?”
Minami gettò via dei ciuffi d’erba. “Stare con te mi ha stancato.” Neanche la guardò quando glielo disse.
Reika non fece uscire neanche un respiro, infine si alzò di scatto. Si allontanò a grandi passi, poi si girò. “Beh, allora mi sono stancata anch’io. Non avrei mai dovuto chiederti di uscire. Da quando hai lasciato il basket, non vali niente,” gli urlò prima di correre via.
Tirava un forte vento. Sin da quando si era fermato a sedersi con lei, il cielo era coperto di nuvole scure. Il freddo cominciò a insinuarsi dentro la sua felpa e tirò su la zip fino al collo, era come se gli entrasse fin dentro le ossa. Lentamente, si alzò anche lui, di Reika non c’era più traccia.
Cominciò a camminare verso casa. Sulla strada incontrò un campetto da basket. Non c’era nessuno a giocare, Minami pensò che molti fossero rimasti scoraggiati dalle nuvole gonfie di pioggia. Qualcuno aveva lasciato abbandonato sul cemento un pallone da basket tutto consumato. Lo prese e fece canestro. Il pallone cadde; un tonfo, due tonfi. Cominciò a piovere e Minami scoppiò in lacrime.
Gocce salate gli sgorgarono dagli occhi e non alzò la mano per raccoglierle. Si trascinò giù con le ginocchia nel cemento umido e gli occhi fissi sulla palla da basket. Pioveva forte ormai, l’acqua gli colava giù sulle guance dalla frangetta corta, mentre le spalle sussultavano al ritmo dei singhiozzi.
Reika aveva ragione.
Non sapeva neanche se la squadra di basket sarebbe riuscita a partecipare alla Winter cup, senza coach, dopo tutto il casino che era successo, senza di lui. E non sapeva neanche che cosa ne sarebbe stato di lui senza il basket.
Si era sempre allenato tanto, era andato al campionato nazionale con la sua squadra tutti gli anni e da titolare, il Toyotama, una squadra di classe A! Ma nessuno dei reclutatori delle università lo aveva contattato. Poteva immaginare il motivo. Perché c’erano stati troppi infortuni sospetti durante le sue partite, nei confronti di giocatori eccezionali che lui aveva volontariamente colpito, facendo passare l’atto per un incidente, ma questi fatti non potevano ingannare occhi esperti se si ripetevano spesso. Per tutto quello che aveva combinato, se l’era cercata. Allora a cosa era servito allenarsi così tanto?
Alle porte della vita adulta, sentiva ogni giorno l’inquietudine sgretolare il cemento sotto i suoi piedi, ora che era senza migliore amico, senza la persona che amava e che amava quello che lui adorava di più al mondo: il basket. Più basso di così non poteva andare.
Senza bene un’idea chiara, camminò ancora e trovò riparo sotto le tende di una pasticceria. Fu allora che sentì un forte istinto.
Un’ora più tardi era di fronte alla casa del signor Kitano. Suonò al cancello e attese con il fiato sospeso. Non udendo risposta, stava per andarsene, ma l’uomo venne ad aprire con l’ombrello.
Minami era già stato un paio di volte a casa sua, dopo la sconfitta ai nazionali. Un po’ a disagio, lasciò le scarpe bagnate all’ingresso e si infilò le ciabatte, offrendo il sacchetto con il pacchetto di dolci che aveva comprato.
“Sono daifuku alla fragola.”
“Che bontà, grazie. Minami, sei tutto bagnato. Dammi la tua felpa, te la metto a scaldare. Vieni, andiamo in salotto che c’è caldo.”
Kitano gli offrì del tè davanti al tavolino, seduti uno di fronte all’altro sui cuscini.
“Minami, ma cosa hai combinato?” gli domandò il vecchio, facendo un cenno verso di lui. Minami sapeva di non avere l’aspetto migliore, gli occhi gli facevano male e aveva i vestiti umidi.
“Sono caduto,” mentì a bassa voce.
“Sì, capisco. Sei caduto.”
Minami annuì, abbassando lo sguardo.
“Capita a tutti di cadere. Non c’è nulla di male.”
“Lo so, è che mi sembra di cadere troppo spesso.” Rimase in silenzio a lungo, pensieroso. Infine, proseguì, “Vorrei capire cosa non va.”
“C’è qualcosa che non va ultimamente di cui mi vuoi parlare?”
Minami rise amaramente. “È melodrammatico dire che è un disastro? Ho perso il basket, ho perso una persona a cui tengo, ho bruciato delle occasioni, mi sono rovinato con le mie mani. Mi capita di odiare tutto e tutti, anche me stesso.”
Kitano aveva un sorriso così buono. I suoi piccoli occhi circondati dalle rughe lo osservavano in modo comprensivo, un balsamo che valeva più di mille parole. “Minami, tu sei un ragazzo in gamba. Hai tante qualità, perciò non essere troppo severo con te stesso.”
“Giocavo bene a basket, ma l’ho perso. Sono al terzo anno e mi hanno praticamente sbattuto fuori dalla squadra.”
Il vecchio chiuse gli occhi per un istante. “Non puoi perdere il basket. So come funziona qui in Giappone, giochi in un club scolastico e poi il basket te lo puoi scordare. Eppure io continuo a pensare che, se ami veramente qualcosa, te lo porterai dietro tutta la vita, in un modo o nell’altro. Un giorno ti ho chiesto se ti piace il basket e tu mi hai risposto di sì. Se lo ami devi continuare a batterti per lui ed essere sincero con te stesso. Devi seguire il cuore e non quello che dice la gente.”
Minami restò a bocca aperta.
Il signor Kitano sorrise. “Forse le mie sono solo le parole idealiste di un vecchio.”
“No, ho capito che cosa intende,” ribatté Minami.
“Ti andrebbe di darmi una mano con i ragazzi del minibasket, Minami? A loro piaci tanto, da quando ti hanno visto giocare al campionato nazionale. Vuol dire che tanto male non sei, vero?”
Disse di sì, e mentre usciva si sentiva più leggero. Non pioveva neanche più ed era uscito il sole.
____

Minami avrebbe voluto raccontare a Kishimoto dell’incontro con Kitano, ma il giorno seguente la situazione non era cambiata. Uscì dal cancello della scuola da solo, com’era ormai solito a fare, fece qualche metro, quando si accorse di essere seguito. Qualcuno gli posò una mano sulla spalla, mettendolo immediatamente in tensione. Un ragazzo alto e muscoloso dalle folte sopracciglia lo squadrò male. Un altro ragazzo gli si mise di fianco. Avevano il gakuran nero, segno che non erano del Toyotama.
“Chi cazzo sei?” domandò piatto a quello che gli aveva messo le mani addosso.
“Otsuna. Ti dice qualcosa?”
Minami spalancò gli occhi.
“Sì, sono il fratello di Reika. E ora vieni con noi.”
Minami fu costretto a seguirli. Lo portarono fino a un parco vicino, poi Otsuna gli si piantò davanti, mentre l’altro lo teneva fermo per le spalle da dietro.
“Mia sorella mi ha raccontato come ti sei comportato con lei. Tu non la tratti così, hai capito?” Gli tirò un pugno sulla guancia e poi lo afferrò per il bavero della divisa aperta. Minami sentì il gusto del sangue in bocca, l’osso dello zigomo pulsava dolorosamente. Chiuse gli occhi e pensò di meritarsi quel trattamento, ormai faceva schifo a tutti.
“Otsuna, lascialo anche a me,” si intromise l’altro.
Ma nonostante tutto, Minami non aveva voglia di farsi picchiare così facilmente. Diede un calcio sul ginocchio di Otsuna e si liberò dall’altro con uno strattone, facendolo cadere a terra e dandogli infine una forte pestata sullo stomaco.
Erano in due contro uno, da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Mentre cercava di sistemare l’amico di Otsuna, sentì un grido e si girò. Otsuna stava barcollando privo di equilibrio. Era stato Kishimoto a colpirlo. Kishimoto si gettò nuovamente su Otsuna con un pugno e Otsuna gridò, “Pezzo di merda, che cazzo vuoi?”
“Che cazzo vuoi tu al mio amico? Prova a mettergli le mani addosso e te la faccio vedere io, stronzo.” Lo scrollò, lanciandolo per terra.
Nel frattempo l’altro teppista si tirò su con un’imprecazione indefinita stretta tra i denti, mentre Kishimoto e Otsuna si menavano. Minami scorse il luccichio di un coltello nella sua mano, pericolosamente vicino alla schiena di Kishimoto. Il suo piede scivolò su qualcosa, ma Minami riprese subito l’equilibrio: una pietra. Il ragazzo si abbassò velocemente. Non appena la ebbe in mano, scattò in avanti e una furia cieca si impossessò di lui. La piantò sulla mascella del tizio con decisione. Due denti volarono insieme a uno sputo di sangue. Il ragazzo cadde a terra, privo di sensi.
Tutti si fermarono. Minami fece cadere la pietra non appena si rese conto che era macchiata di sangue, con le dita che gli tremavano ancora. Otsuna si piegò sul suo compagno. Sembrava svenuto, ma poi dalla sua bocca uscì un leggero lamento.
“Portalo via e non farti vedere più qui,” mormorò calmo Kishimoto, mentre ancora il suo petto si abbassava e alzava per lo sforzo della lotta. “Fra poco questo posto si riempirà di studenti del Toyotama e allora voglio vedere come ve la caverete.”
Otsuna aiutò il compagno ad alzarsi, se lo caricò addosso di peso e dopo un’occhiataccia sparì in fretta.
“Non ci daranno più fastidio,” disse Kishimoto. “Certo, hai rischiato di ammazzare quel tipo, Minami.”
“Non avrei voluto,” mormorò Minami.
“Lo so. Minami…” lo chiamò Kishimoto.
Minami non rispose, invaso dai rumori del suo forte fiato e il battito forsennato del cuore, mentre la voce dell’amico era distante.
Kishimoto lo afferrò per le spalle. “Minami, oh! Ci senti?” disse brusco, poi però gli prese il viso dolcemente e Minami affondò nei suoi occhi. Lo voleva così tanto, gli era mancato così tanto. Gli era mancato il suo sguardo, il suo tocco, la sua presenza, il suo profumo.
“Respira con me, scemo” lo spronò Kishimoto. Fecero un paio di respiri insieme, poi Kishimoto appoggiò la fronte alla sua. Dopo un po’ a Minami venne da sorridere e pure l’altro sorrise, così Minami allungò le mani e fece qualcosa che non aveva mai fatto. Lo abbracciò perché era contento che fosse lì, dopo giorni che non si parlavano.
“Andiamo via di qua,” disse, lasciandolo andare a malincuore.
Kishimoto annuì.
“Andiamo sul tetto come quella notte,” continuò Minami.
Tornare dove si erano baciati per la prima volta gli sembrava giusto. Quel luogo era stato sicuro, tanto che aveva potuto sfogare i suoi desideri, protetto dal buio. Ma ora quella protezione gli stava stretta…era ora di parlare alla luce del sole.
I due giovani salirono sulla scala esterna del palazzo e si misero seduti nello stesso punto alto che avevano scelto quella sera, senza parlare, con una sigaretta in mano e assaporando la sensazione di deja-vu.
“Conoscevi quei tizi che ti hanno aggredito?” domandò Kishimoto. “Cosa volevano da te?”
“Era il fratello di Reika. Voleva farmela pagare perché l’ho lasciata,” rivelò Minami, guardando l’orizzonte al tramonto.
Kishimoto abbassò la testa. “Bella grana. Che c’è, ti eri stufato di lei?
Se lo ami devi continuare a batterti per lui ed essere sincero con te stesso. Devi seguire il cuore e non quello che dice la gente. Le parole del signor Kitano tornarono in mente a Minami. Riguardavano il basket, eppure gli sembravano giuste anche riguardo ciò che provava per Kishimoto. Era stato con Reika per paura. Paura di quei sentimenti che avevano cambiato il rapporto con il suo migliore amico per sempre, perché non aveva mai saputo che i baci di un uomo potessero sconvolgerlo o volere molto di più. Perché le battute che aveva fatto o sentito fare da qualcuno che conosceva, come dare della femminuccia o peggio, potevano ora rivolgerle a lui. Si era esposto troppo, ed era come stare in equilibrio sul bordo di un vetro affilato: poteva cadere nel vuoto o poteva scivolare ed essere ferito in un bagno di sangue, ma in ogni caso era più probabile fallire che restare in piedi. Parlarne con Kishimoto era un rischio, perché Kishimoto non parlava mai veramente, era sfuggente…e se lo avesse rifiutato? Ma ci doveva provare. Era riuscito a riprendersi nei momenti peggiori, dai suoi errori. Trovò la forza.
“È tutto un casino. E non posso più nasconderlo,” ammise. “Se stavo con Reika, non me ne fregava niente, ma se tu non mi parli, mi sento uno schifo perché penso ogni cazzo di giorno alle cose che abbiamo fatto e a quanto le vorrei fare ancora. Sono stato uno stronzo con lei, sono uno stronzo con tutti. Vorrei…vorrei solo un cazzo di appiglio in questo momento.”
“Sapevo che Reika non era il tuo tipo,” commentò Kishimoto con tono grave.
Minami girò la testa verso di lui. “Che vuol dire?” Buttò il mozzicone a terra, sprezzante. “Eri con Itakura e gli altri quando lei è venuta a dichiararsi. So che siete stati voi a spingere Reika ad avvicinarmi.”
Kishimoto alzò le mani. “Ma io non mica detto niente. Pensavo che tu l’avresti scaricata lì, non pensavo ci saresti stato.”
“Kishimoto…noi ci siamo baciati, dannazione.”
“Ci siamo baciati, e vorrei scopare con te…ah, che cazzo. Ultimamente eri strano, nervoso, pensavo fosse colpa mia. Non credere che tu sia l’unico con un casino in testa. Ero incazzato, incazzato con me stesso.”
Minami abbassò la testa. “Ti chiedo scusa.”
“Di che di scusi. L’hai detto tu, è un bel casino…non è come quando esci con una un paio di volte e poi la molli e tanti saluti. È seria, insomma…siamo tu ed io.”
Minami si sfregò le mani, sentendole tremare leggermente, anche se non era per il freddo. “È una faccenda seria…sì.”
“Quando le cose si fanno dure, possiamo contare sull’uno sull’altro. Fanculo il resto,” mormorò Kishimoto.
Minami sorrise lievemente. “L’ho detto io…al primo anno.”
I tratti duri del volto di Kishimoto si ammorbidirono. “Eravamo andati dal preside a lamentarci perché aveva licenziato il signor Kitano, e io ti ho risposto che non ti avrei mai mollato,” gli tirò un pugno leggero sulla spalla. “È ancora così per me. Io non voglio andare da nessuna parte. Non so che diavolo sia questa cosa che ci lega, ma conosco te. E mi basta per volerla far funzionare.”
Minami spalancò gli occhi, poi rise, rise per prima volta liberamente, sentendo il peso che gli opprimeva il petto dissiparsi come vapore. Appoggiò la fronte sulla sua spalla. Sentiva che Kishimoto gli aveva passato un braccio sulla schiena, tenendolo vicino a sé.
“Minami.”
“Eh.”
Si avvicinarono e si baciarono. Le labbra di Minami erano fredde, ma si scaldarono immediatamente al contatto con quelle morbide dell’altro.
“Ce la faremo,” disse Minami.
“Senza dubbio,” sostenne Kishimoto.

Grazie per aver letto fino a qui. Mi sembrava giusto, dopo la prima one-shot, dare una fine degna a questi due scemi. Fatemi sapere cosa ne pensate. Alla prossima!
   
 
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