Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    11/02/2022    1 recensioni
Cap 1) Si toglie il cappotto e glielo posa sulle spalle, prima di far scattare la serratura dell'anello che gli blocca il polso.
Cap 2) “Non durerò a lungo...” lo avvisa con un filo di voce.
“Nemmeno io” gli risponde Marco in un soffio.

Cap 3)“Quel bambino rannicchiato sul marciapiede...” mormora Jean, il cappello calato sugli occhi e la fascia eldiana in bella mostra sul braccio sinistro. “Dove sono i suoi genitori?”
Cap 4)“Adesso sei qui, ragazzo” l'aiuta Onyankopon, aprendo per loro la porta di una cabina. “Ci hai fatti preoccupare.”
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Autore: Joy Inblue

Fandom: Attack on Titan

Personaggi: Jean/Marco.

Tag: Ambientata a Marley.

 

Scritta per la The Conception Challenge, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia.

 

Prompt: Regalo inaspettato

 

 

3.

 

 

 

“Quel bambino rannicchiato sul marciapiede...” mormora Jean, il cappello calato sugli occhi e la fascia eldiana in bella mostra sul braccio sinistro. “Dove sono i suoi genitori?”

Porge una manciata di monete alla proprietaria di uno dei banchi più scarni del mercato del ghetto, e quella gli rivolge uno sguardo mesto, prima di abbassare gli occhi sul cesto di provviste

“Morti” alita. “Sono stati giustiziati due settimane fa con l'accusa di aver cospirato contro Marley.”

Sposta lo sguardo inquieto da un lato all'altro della strada con fare guardingo: “Avrebbero fatto meglio a prendersi anche il bambino” aggiunge in un soffio. “Morirà lo stesso, solo più lentamente.”

Non può permettersi il brivido che mina la fermezza della sua mano mentre afferra il resto, ha già abusato anche troppo della fortuna, trascinando Marco fuori dal Palazzo di Giustizia, ma quel bambino sembra così piccolo, troppo persino per mendicare da solo, e Jean non riesce a ricordare un solo momento della sua infanzia in cui non fosse terrorizzato da qualcosa e aggrappato alla gonna di sua madre.

“C'è qualcuno che può occuparsene?” domanda, sforzandosi di deglutire anche se si sente la gola improvvisamente asciutta.

“È figlio di traditori, nessuno ha il coraggio di prenderlo con sé” replica la donna, abbassando ancor più il tono.

Jean non stenta a crederlo: ha letto sui volti della gente, come la sottomissione, nel ghetto di Marley, sia stata ottenuta con una spietata politica di terrore.

Si allontana dal banco per raggiungere il bambino.

Trema e ha le ginocchia nude e sbucciate.

“Ehi...” sussurra Jean, chinandosi su di lui e quello si ritira ancor più nel suo cantuccio.

“Non voglio farti male” tenta, di fronte a quella posa chiusa che non lascia spiragli, “ma solo darti questo” seguita porgendogli la bottiglia di latte che ha appena comprato. “Sarai affamato...”

Svita il tappo per lui e la tiene sollevata all'altezza del suo viso, finché il bambino non si decide a sbirciare da sopra le braccia incrociate.

“Prendilo” insiste Jean “serve più a te che ha me, e non voglio niente in cambio.”

Il bambino solleva su di lui uno sguardo spento, tanto che Jean si chiede se abbia capito una sola parola di ciò che gli ha detto, e gli mostra un musetto pallido e scavato, occhi scuri e una spruzzata di lentiggini.

Il cuore di Jean perde un battito.

Sbriciola un'imprecazione tra i denti, si scorda pure della bottiglia a cui il bambino ha d'istinto portato la bocca e realizza che non riuscirà mai a lasciarlo lì.

Una sirena suona sul margine della recinzione e Jean sa che quello è il miglior diversivo in cui possa sperare per lasciare inosservato il ghetto.

“Vieni” gli dice e sottolinea l'urgenza con un gesto della mano, ma il bambino si è già rintanato nel suo angolo, schiacciato contro la parete fin quasi a sparire nelle crepe del muro, le mani premute sulle orecchie e in viso l'espressione più terrorizzata che Jean abbia mai visto.

Intorno a lui esplode la frenesia, Jean sa che se perde il momento non riuscirà a uscire da lì e a tornare al rifugio, da Marco.

“Va bene” decide risoluto, inginocchiandosi di fronte a lui e aprendo i bottoni della giacca. “Vieni qui, ti porto io. Starai al caldo e non vedrai nulla.”

Non ha tempo di convincerlo, lo guida direttamente contro il suo petto, chiude le falde sostenendolo e si alza senza esitare un istante di più.

Pesa meno di una piuma e se non fosse la ciocca di capelli scuri che ti tanto in tanto gli solletica il mento, non si noterebbe neanche sotto l'indumento largo, piccolo com'è e schiacciato contro il suo petto.

Però è caldo.

E quel piccolo pugno che sente appoggiarsi al lato sinistro del petto, sembra implorare la stessa dedizione che ha dedicato alla causa molti anni prima, sotto giuramento, dall'altra parte del mare.

Sembra quasi un segno.

Ma destino o meno, Jean deve ammettere -con un pragmatismo di cui, è sicuro, Marco sarebbe fiero-, che in definitiva quella piccola mano sta meglio aggrappata alla sua camicia piuttosto che premuta a forza sulle orecchie in un angolo sudicio di marciapiede.

 

***

 

Quando varca la soglia del rifugio, Marco è seduto al tavolo intendo a medicarsi le bruciature sul petto.

Solleva la testa al cigolio dei cardini e il suo sguardo intercetta subito l'anomala sporgenza del giaccone che ha indossato quella mattina per confondersi alla folla ed entrare nel ghetto.

“Jean, cosa...”

“Ho parlato con l'informatore” tenta di sviare la sua attenzione. “C'è una nave in partenza domani mattina all'alba. Forse.”

“Forse...?” il sopracciglio di Marco si inarca, Jean finge di non notare come il suo sguardo si sia concentrato sul ciuffo di capelli scuri che spunta dalla sua giacca.

Si avvicina al letto, con movimenti delicati sfila i bottoni dalle asole e scosta le falde dal bambino pesantemente addormentato contro il suo petto.

“Non sanno se il porto sarà sicuro all'alba” spiega, adagiandolo lentamente sul materasso e coprendolo con una coperta. “E partire in piena notte è rischioso.”

Quando trova il coraggio di sollevare lo sguardo, il volto di Marco è chino sul bambino, perfettamente impassibile.

“Bene” commenta semplicemente, “e sembra che questo non sia nemmeno l'unico dei nostri problemi.”

 

***

 

Il Marco che ha conosciuto il giorno in cui si è arruolato nel corpo dei cadetti e che riceveva ogni settimana l'immancabile plico di corrispondenza, timbrata da impronte digitali di marmellata e inchiostro da parte dei suoi fratelli e sorelle minori, si sarebbe precipitato al fianco del bambino, pienamente consapevole di cosa fare, di dove mettere le mani e una volta ascoltato il resoconto di come era finito nascosto sotto il suo giaccone, avrebbe valutato ogni ipotesi e scovato la soluzione migliore per tutti.

Invece adesso Jean lo vede esitare, spostare lo sguardo triste sulla sagoma addormentata, senza sfiorarla e non ha idea di cosa gli passi per la mente.

L'unica cosa che sospetta non gli piace per niente.

“Jean, la vita che conduciamo non è adatta ad un bambino, lo sai...” conferma la voce soffusa di Marco.

Lo sa.

Ma non riesce a dirgli che forse è il momento che lo diventi.

Non riesce a parlare e basta.

Lo fa il bambino al posto suo, mormorando un flebile mamma e rannicchiandosi sotto la coperta in cerca di calore.

Marco sospira e si china sul letto, allunga la mano per scostargli le ciocche scure dalla fronte, poi passa il dito sulle lentiggini che gli punteggiano gli zigomi e solleva su di lui uno sguardo indecifrabile.

Forse vorrebbe essere un rimprovero, ma la sua espressione dolce lo smorza un po'.

“Jean...” mormora piano.

E c'è qualcosa di grave adesso nella linea decisa e serrata delle labbra: non commenta, lo osserva serio mentre torna con la mano sulla fronte del bambino.

“Non è solo per la somiglianza” sputa fuori sulla difensiva .

“Jean...”

“So quello che stai per dirmi” lo blocca. “È una follia. Non siamo ancora riusciti a trovare un imbarco sicuro per tornare a Paradise, abbiamo la milizia marleana alle costole e questo bambino complica ancor di più la situazione” prende un respiro profondo. “Ma credimi, credimi Marco, sarebbe morto e io non potevo, non p-”

“Jean.”

“Ti chiedo di avere pazien-”

“Jean.”

“Lo so che no-”

“Ha la febbre.”

La voce di Marco è limpida e decisa. Si volta con le ultime -inutili- giustificazioni ancora in bilico sulle labbra.

“Cosa...?” chiede scioccamente.

“Ha la febbre, Jean” ribadisce quello calmo, spostando la mano sul collo del bambino. “Ed è alta.”

Si avvicina e non deve neanche posare la mano sulla fronte del bambino per rendersi conto che sì, Marco ha ragione, brucia come il fuoco.

“Pensi che potremmo usare l'antifebbrile di Hange?” domanda.

Marco posa lo sguardo pensieroso sulle boccette poggiate sul tavolo e annuisce: “Dovremmo però ricalcolare il dosaggio in base al peso.”

Non impiega molto tempo a prelevare dal flacone quella che reputa la giusta dose e a versarla in un bicchiere; Jean a stento la vede, il liquido copre a malapena il fondo.

“Il calcolo è approssimativo” si giustifica Marco, mentre glielo porge. “Preferisco dargli un quantitativo minore, siamo sempre in tempo ad aumentare se la febbre non scende. Pensi di riuscire a farglielo bere?”

Non lo sa. Non ha mai avuto tra le mani un bambino di cui occuparsi.

Lo solleva, ancora avvolto nella coperta e se lo porta in grembo mentre si siede sul letto.

Non apre gli occhi, ma un mugolio gli sfugge dalle labbra, poco prima che la sua bocca s'imbronci in un principio di pianto.

Jean lo stringe a sé d'istinto, lo preme contro il suo petto come ha fatto quando lo ha portato via dal mercato del ghetto, nascosto sotto il suo giaccone e sente di nuovo la familiare stretta delle sue piccole dita sulla stoffa della sua camicia.

“Non piangere, ti prego” mormora più vicino al panico di quanto vorrebbe ammettere. “Va tutto bene.”

E non sa se sta dondolando sul bordo del materasso per cullare lui o per rassicurare se stesso.

Va avanti così finché la mano di Marco sul suo ginocchio lo costringe ad alzare lo sguardo.

“Proviamo prima con questo” gli dice, recuperando una tazza di latte caldo e avvicinandola alle labbra del bambino. “Tienigli la schiena ben sollevata.”

Non apre gli occhi nemmeno questa volta, ma beve e Jean non riesce a credere che sia stato così facile. Marco gli rivolge un sorriso incoraggiante, poi cambia il bicchiere e gli avvicina alla bocca l'antifebbrile: le sue labbra questa volta rimangono chiuse.

Jean sospira deluso, ma Marco non ritira il bicchiere.

“Toccagli la guancia” gli dice piano.

“Cos-”

Ma Marco evidentemente sa qualcosa che a lui sfugge, perché non si scompone davanti al suo sguardo perplesso, non alza neanche lo sguardo.

“Toccalo sulla guancia, delicatamente” replica.

E Jean lo fa, picchietta la guancia morbida e bollente con la punta del dito e lo osserva stringere gli occhi e schiudere le labbra: due sorsi che ingoia d'istinto prima di crollare di nuovo, sono sufficienti a assumere tutto l'antifebbrile.

Marco si alza soddisfatto e Jean non riesce a trattenere lo stupore.

“Come lo sapevi?” chiede.

“Ho visto mia madre farlo con i miei fratelli” risponde. Poi si lascia cadere sulla sedia di fianco al letto: “Sono passati molti anni, ormai.”

E l' adesso è tutto diverso, rimane sospeso in mezzo a loro.

 

***

 

“J..Jean...”

Le nocche che gli scorrono lievi sulla guancia lo ridestano prima delle parole.

Apre gli occhi e la sagoma in controluce di Marco riempie il suo campo visivo.

“C'è il segnale” gli dice.

E Jean impiega qualche istante prima di realizzare che sì, è ancora buio, ma verso oriente il blu del cielo è un po' annacquato e il segnale gli fa sapere che la nave dei volontari, alle prime luci dell'alba, lascerà il porto.

“Sei sicuro che sia quello?” mormora, scostandosi lentamente dal bambino rannicchiato al suo fianco e afferrando i calzoni dalla sedia vicina al letto.

“Vieni a vedere tu stesso.”

Marco lo precede varcando la soglia del rifugio e quando lo vede sparire, nella penombra che anticipa l'alba, Jean sente la paura attanagliarli lo stomaco: non vuole vederlo inghiottito dalle tenebre quasi fossero le fauci di un gigante, come nei suoi incubi peggiori. Ma Marco non si allontana, raggiunge la piccola altura sgombra dalla vegetazione e indica il porto.

Il segnale luminoso alterna due accensioni rapide e una lunga, prima di rimanere spento per due minuti esatti e ripetere la sequenza.

Annuisce.

“Da quanto sei sveglio?” gli chiede, cercando un profilo che nell'oscurità rimane perfettamente immobile. “Non sei mai andato a letto, vero?”

Marco sospira e si passa un paio di volte la mano tra i capelli, indeciso

“Avevo bisogno di pensare” ammette infine.

C'è qualcosa che stringe la presa dentro il suo petto, Jean ne sente ogni artiglio che affonda crudele nella sua carne e non si ferma alla prima stilla di sangue. Oh no, quel senso di colpa lo dilania fino a renderlo incapace persino di respirare.

“Non ti ho dato la possibilità di scegliere, è per questo vero?”

Riesce a dirlo, a volte migliora, se da voce alle sue colpe, ma Marco scuote la testa.

“Non siamo mai stati nella posizione di scegliere alcunché, lo sai” chiarisce semplicemente. “Gli imprevisti fanno parte del nostro lavoro, possiamo solo sperare che non siano troppo crudeli.”

Jean lo osserva chinare lo sguardo sull'unica mano che gli resta: lui ne sa qualcosa.

“E questo lo è?” domanda incerto.

Glielo chiede lo stesso, anche se ha paura della risposta.

Sente ancora sul petto il peso del bambino.

“No” risponde Marco deciso. “Questo è un regalo inaspettato” e volge la testa verso la porta del rifugio, rimasta socchiusa. “Un regalo che probabilmente non meritiamo.”

Perché nella sua esperienza le mani dei soldati portano morte, non vita.

Jean vorrebbe potergli dire che non è così, che ognuno di loro si è arruolato per servire e proteggere, ma la verità è che nel profondo anche lui pensa la stessa cosa.

Ingoiare quelle giustificazioni, rinunciando al loro blando conforto, fa più male di quanto si aspettasse; la mano di Marco che si posa calda al centro della sua schiena non riesce a scacciare del tutto il dolore.

“Dobbiamo andare” gli rammenta Marco dopo un istante. “Da qui al porto c'è almeno un'ora di cammino.”

Non aggiunge che devono anche riuscire a gestire le esigenze un bimbo malato, ma Jean può vederle nella piccolo ruga di concentrazione che gli attraversa la fronte, mentre rientrano nel rifugio.

Quella stessa che si trasforma in un'increspatura marcata, nel momento in cui una nuovo fitta di dolore gli coglie il costato.

Jean lo vede irrigidirsi e portarsi la mano al fianco, lasciando addito a pochi dubbi.

“Da quanto tempo li hai così frequenti?” gli chiede, mentre lo guida sulla sedia più vicina.

Prende un panno di lana dagli alari davanti al caminetto, gli solleva la maglia e glielo posa sul lato del petto ricoperto di cicatrici.

Marco soffia un sibilo doloroso tra i denti, prima che il calore riesca a sciogliere i nodi contratti dai crampi. Sospira, prende fiato e posa la mano sul suo polso quasi avesse bisogno di un appiglio.

“Da quando ho ricominciato a fare il soldato” mormora con un filo di voce.

“Hange lo sa?”

Aspetta di sentire i muscoli rilassarsi sotto il suo palmo, prima di cambiare il panno e azzardare un lieve massaggio in punta di dita.

Marco annuisce, dopo un primo sussulto, e Jean finge di non sentirsi di nuovo tanto inadeguato

“Tieni qui” gli dice, guidando la sua mano nel punto più contratto prima di allontanarsi brevemente per recuperare l'unguento dalle loro scorte.

“E cosa ne pensa?” gli chiede una volta tornato, esercitando una breve pressione sulla sua spalla per farlo adagiare contro la spalliera della sedia.

Marco si lascia guidare, docile come creta nelle sue mani. Sospira di nuovo.

“Pensa che i miei muscoli, sotto sforzo, non reagiscano come dovrebbero.”

Doveva aspettarselo, Jean lascia scivolare le dita su quella pelle segnata e rimane in silenzio: non riesce a trovare parole adatte. Forse non ce ne sono.

“Avresti dovuto dirmelo” sussurra infine chinando la testa.

“Sai che non potevo” ribatte quello in un sussurro. “Non mi avresti lasciato combattere.”

“È vero.” Gli costa ammetterlo, ma glielo deve. Ha le sue colpe e Marco merita la verità.

“Forse è qui che dovevamo arrivare” constata d'un tratto Marco, lo sguardo ancora arrossato dal dolore, dritto dentro il suo. “In quel mercato, al momento giusto.” Getta un breve sguardo al letto, alla piccola sagoma addormentata sotto le coperte e poi torna a guardare lui. “Forse dovremmo davvero appendere le divise ad un chiodo” conclude.

 

 

  
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