Tutto
iniziò con un fazzoletto di raso color crema…
(Storie del passato che si ripetono nel futuro-Prima parte)
Oggi è una giornata molto calda, la tipica giornata
dall’afa massacrante in una metropoli con milioni di abitanti
e chilometri d’asfalto.
Fa così caldo che, secondo me, anche il freddo oceano non ce
la fa più e vuole un minimo di frescura.
Gli uccellini appoggiati sulle balaustre dei viali e sui pali del
telefono si stanno spennando da soli e tra un po’ si faranno
un bagnetto in qualche piscina privata, con la loro piccola mole non
danno di certo fastidio.
Mentre l’asfalto…L’asfalto rovente
ribolle e ai miei occhi sembra che si muova come un lungo fiume di Coca
Cola.
Gli alberi delle ville di fronte alla mia assomigliano a una cascata di
the verde, le case a budini multicolori che si agitano senza
sosta…
Ah, maledetto caldo, mi fa venire le allucinazioni, tra un
po’ mi mangio le tende del soggiorno scambiandole per
zucchero a velo!
Succede sempre così, quando mi metto ad aspettare mia figlia
che ritorna dalle sue scorribande con gli amici; seduta di fronte alla
finestra ammiro le case dei nababbi affacciate sull’oceano
come la mia e qualche volta mi lascio prendere
dall’immaginazione.
Stavolta però, lo devo ammettere, è stata colpa
del caldo e non della mia fervida inventiva; ed inoltre oggi
è un giorno troppo importante per me e lo sarà
anche per mia figlia: infatti sto per rivelarle un segreto che mi tengo
dentro da ventuno anni e scommetto che le piacerà, a patto
che lei non lo dica a nessuno.
Cavolo, non sto più nella pelle! Quasi quasi mi mangio anche
quella!
Non che mi dispiaccia: ha un colorito così
appetitoso…
Sono stata fortunata a nascere da uomo il cui Paese è
baciato dal sole ogni giorno dell’anno, dove la gente
è allegra e laboriosa, e ci sono chilometri e chilometri di
deserto in cui scorrazzare.
Adesso invece abito nella città che è la
più bella ma anche la più maledetta della costa
occidentale ovvero Los Angeles, la città delle stelle, un
luogo magico e ingannevole dove niente è vero e tutto
è falso.
Lo dico io, che amo le cose autentiche e i sentimenti veri e tutto
questo luccichio che serve a coprire la verità mi da la
nausea.
Ma è l’unico posto dove abbiamo trovato una casa
in vendita a un prezzo decente (una villetta a due piani con giardino e
piscina annessa a 235.000 dollari, un affarone!) ed inoltre mia figlia
ha insistito molto su questa scelta; col tempo quindi ho imparato ad
amare Los Angeles che, come tutte le città americane ha i
suoi pregi e i suoi difetti.
Mia figlia invece non sembra trovarci niente di negativo, a parte la
metropolitana, che non prende mai.
A proposito, la furbetta non è ancora tornata ed io ne
approfitto per prendere in prestito un suo 45 giri e il mangiadischi.
Faccio così tutte le volte che lei non
c’è e so che tornerà tardi, e finora
non mi ha mai scoperto!
Dovrebbe succedere il contrario, lei
dovrebbe rubare le mie cose ma noi siamo una famiglia un po’
particolare: capovolgiamo ogni cosa, perfino la più stupida,
ma ci piace, ci rende uniche e a prova di noia!
Salgo quindi in cameretta, frego il 45 giri e il mangiadischi e me ne
ritorno giù in soggiorno, dove metto il disco
nell’apparecchio e lo faccio partire sulla mia canzone
preferita.
La canzone è Billie Jean
e appena attacca mi metto a ondeggiare come la casa-budino delle mie
allucinazioni, cercando di essere il più naturale possibile.
Poi, appena lui comincia a cantare, io lo accompagno nel migliore dei
modi: però, c’è da dire che non sono
male come cantante, gli sto dietro tranquillamente e non sbaglio una
nota…
Sto al limite dello spasso quando sento il portone di casa che si apre
cigolando e dei passi che si avvicinano al soggiorno.
E una voce…
Anzi, un urlo.
“Mamma?”
“Ehm,
tesoro, sei tornata presto oggi, non me lo
aspettavo…”
Pessima bugia, è da stamattina alle nove che manca da casa e
sono le sei del pomeriggio.
C’è da ammetterlo, però, non sono mai
stata brava a raccontare bugie.
“Mamma, che cosa stai facendo con il mio Thriller
e il mio mangiadischi?”
“Beh, non si vede, lo sto ascoltando…
Perché, adesso tua madre non può prendere in
prestito i tuoi dischi?”
“No, va bene? Sono miei, e sai che sono molto gelosa delle
mie cose, quindi spegni il mangiadischi e dammi Thriller!”
“Ai suoi ordini, capitano Katie” Sbuffai io, e dopo
aver fatto quello che mi aveva ordinato
“Hai giocato a baseball dopo essere andata in spiaggia,
eh?”
Smascherata, lo si legge dall’espressione del suo viso.
Rassegnata e colpevole.
“Sì, Kevin ha tanto insistito perché io
facessi una partita con gli altri che alla fine non ho resistito e mi
sono buttata”
Attimo imbarazzante di silenzio.
“Sei arrabbiata?” mi chiede.
“Ma che stai dicendo Katie, certo che no! È
normale per una ragazzina della tua età giocare con gli
amici a una salutare partita di baseball, no?”
“Sì, è normale per un ragazzo. Ma per
una ragazza no”
“Adesso non metterti in testa che il baseball è
uno sport per soli maschi, perché non è vero,
capito? Anzi, scommetto che tu sei molto più brava di tutti
i tuoi amici messi insieme, non è così?”
Le sorrisi e le feci l’occhiolino.
“Beh…Sì” Anche lei mi
sorrise, con finta modestia.
“Ecco, quindi la prossima volta stendili tutti quei
maschietti e fagli vedere che noi donne non siamo solo capaci a badare
ai bimbi e a far svolazzare le gonnelle,va bene?”
“Sì, mamma. Te lo giuro su tutti i miei dischi, e
soprattutto su Thriller!” Aveva una faccia convinta, per
fortuna, ed era tornata
E poi se giurava su Thriller potevo star certa che non mi avrebbe
delusa!
“Ah, allora okay, tesoro, ci conto! Comunque sarai stanca
adesso, ti va un po’ di the fatto dalla tua
mammina?”
“Va bene, prova pure ma scommetto che non sarà mai
buono come quello che fa Fernando!”
Fernando è il nostro fidato maggiordomo, nonché
il mio migliore amico sin da quando abitavo in Messico. Dire che fosse
un maggiordomo era piuttosto esagerato, ma lui amava definirsi
così, e non gli davamo torto, anche se non voleva da me
nessun versamento in denaro.
Dice che l’unica ricompensa per lui è vederci
felici. Che uomo generoso!
“Beh, l’unica differenza tra me e lui è
che lui prepara il the per mestiere, mentre io lo faccio
perché voglio bene alla mia adorata figliola, tutto
qui!”
“Anche lui mi vuole bene ma è un dato di fatto che
tu non sai fare un buon the!” Mi voleva stuzzicare, la
viperetta, sapeva che io non ero una brava cuoca, e lo usava ogni volta
come pretesto per sfidare la mia pazienza, ma Fiordaliso non ci casca,
nossignore!
“Bene signorinella, visto che sei stata tanto gentile con tua
madre, puoi dire addio ai tutti i tuoi dischi, compresi tutti quelli di
Michael Jackson e dei Jackson Five”
Il viso di Katie da rilassato si contrasse, la sua bocca si
spalancò in una enorme O e gli occhi si sbarrarono.
“Tu… Tu non faresti mai una cosa del genere! Anche
a te piace Michael, non butteresti mai i suoi album fuori dalla
finestra né nella pattumiera, ci scommetto un occhio nella
testa!” Ormai era diventata furiosa, e dire che io stavo solo
scherzando!
“Uffa calmati, non dico sul serio! Hai ragione, non farei mai
una cosa del genere, né tanto meno a un ragazzo bello e
bravo come Mike. Ma per chi mi hai preso?” Le mie parole
davano l’aria di averla calmata, almeno in superficie.
“Va bene, adesso basta litigare, facciamoci questo the, che
è quasi ora di cena!” In effetti abbiamo perso
più di tre quarti d’ora a parlare di emancipazione
femminile, piccoli furti casalinghi, miti afro americani e giustamente
Katie voleva il suo the.
Oh santo cielo, il segreto che dovevo rivelarle, mi ero completamente
dimenticata! I litigi mi fanno sempre questo effetto!
Vabbè, glielo dirò con calma dopo cena.
A proposito di cena…Dove diamine si è cacciato
Fernando?
Oh, accidenti, non dirmi che devo preparare la cena da sola, non sono
capace!
Ah, sento fischiettare, è lui finalmente! Sia ringraziato il
cielo, che paura che ho avuto in nemmeno un attimo!
Ripresa dallo spavento e assistita dal fidato Fernando, preparai il the
a Katie e a me, annunciandole di tenersi pronta dopo cena
perché le avrei rivelato uno dei miei più grandi
segreti.
Lei era al settimo cielo, mi disse che non vedeva l’ora di
scoprirlo ma mi promise che non avrebbe detto a nessuno ancor prima che
glielo ricordassi io… Che mi avesse letto nel pensiero?
Fatto
sta che dopo cena si lavò, si asciugò, si
pettinò i capelli e si mise la camicia da notte delle grandi
occasioni, (per quante ce ne siano state in tutta la sua carriera di
dormigliona) tutto a tempo di record e si mise seduta sul letto con le
mani incrociate in grembo e i piedi che picchiettavano sul parquet,
impazienti.
Io afferrai il segnale in codice e mi misi seduta di fronte a lei sul
letto, tirai un bel sospiro e le chiesi:
“Sei pronta?”
“Non lo sono mai stata tanto” Mi rispose
solennemente come se stesse decidendo le sorti di un malato in fin di
vita.
“Beh, ecco…” cominciai, un po’
insicura.
“Non è facile, ma se avrai un po’ di
pazienza ti racconterò tutto per filo e per segno”
“Okay, avrò pazienza, ma arriva subito al
punto”
Si vedeva a un miglio di distanza che fremeva dalla voglia di sapere, e
quindi decisi di accontentarla una volta per tutte.
“Allora…”
Tirai un altro lungo sospiro e le feci una domanda a bruciapelo, ma
sapevo già cosa mia avrebbe risposto.
“Katie, a te piace Michael Jackson, vero?”
Mia figlia mi guardò con occhi sgranati e sbottò:
“Ma che razza di domande mi fai, mamma? Lo dovresti sapere
che io ho occhi solo per lui: lo seguo da quando uscì Off
The Wall e da allora non faccio altro che ascoltare la sua musica! Per
me gli altri cantanti non sarebbero nulla senza Michael, io lo amo e
penso che sia il cantante più bravo e più bello
in assoluto! Anzi secondo me non è neanche umano,
è un angelo sceso dal cielo per deliziarci con la sua
magnifica voce e la sua innaturale bellezza…”
I suoi occhi sognanti erano rivolti al cielo e le mani erano giunte in
segno di devozione come se stesse parlando di un dio.
Sempre esagerata, mia figlia, quando si tratta di Mike.
Poi all’improvviso il suo viso si rilassò e mi
guardò come se avesse già capito.
“Perché, il segreto riguarda forse lui?”
mi chiese quasi sussurrando.
Io tirai l’ormai famoso sospiro e dalle labbra mi
uscì un fievole “Sì”
Non vidi direttamente in faccia mia figlia perché io stavo
con le spalle girate rispetto a lei ma credo che con il suo silenzio e
la sua compostezza stava aspettando il mio racconto con pazienza, come
le avevo raccomandato.
Quindi, senza nulla che mi fermasse e spinta dal solo desiderio di
togliermi quel peso cominciai a raccontare.
“Ti ho detto di avere pazienza, se mi metti fretta rovini
tutta l’atmosfera”
“Ah, scusa mamma, continua pure”
“Bene, allora, eravamo rimaste al fazzoletto color
crema…”
A me sinceramente non interessava nulla di quello che passava di mente
a mia sorella, anche perché nell’anno del suo
matrimonio avevo solo dodici anni e non pensavo minimamente a sposarmi.
Per me le donne dovevano essere libere di esercitare ogni tipo di
lavoro, anche quelli che secondo i rappresentanti dell’altro
sesso erano lavori destinati ai soli uomini come il medico,
l’avvocato, l’imprenditore, il docente
universitario e molti altri.
Ma eravamo nel 1963, e il Messico, rispetto ai vicini Stati Uniti
d’America, era molto arretrato, sia economicamente che
socialmente.
E tuttora non è che sia uno dei migliori Paesi in cui
viverci.
Comunque fatto sta che mia sorella quel torrido giorno di maggio mi
chiamò dal piano di sotto ( io stavo in camera mia, al primo
piano) e mi chiese se potevo venire da lei un attimo.
Io l’accontentai seppur di malavoglia, perché
stavo ascoltando uno dei miei LP preferiti del mio cantante preferito
dell’epoca, Elvis Presley…”
“Sì, qualcosa in contrario?”
“No figurati, stavo pensando che Elvis è il
cantante preferito di Michael…”
“…E quindi anche il mio, tutti amano Elvis, ma
c’è da dirlo, Michael è molto
più bello di lui, sei d’accordo?”
“Non dovresti farmi domande del genere, risponderei sempre di
sì”
“Infatti la mia era una domanda retorica, tesoro.
Vabbè, continuiamo…”
Ma mia sorella non sapeva neanche chi fosse, il povero Elvis,e quindi
non poteva capirmi.
Quando scesi giù la vidi tutta indaffarata, ma sempre molto
elegante e ben pettinata, che reggeva per ciascuna mano un fazzoletto
di raso color crema e un altro dello stesso tessuto, ma pervinca.
Mi era ovvio che avrei dovuto scegliere tra i due fazzoletti ed io
scelsi quello color crema, perché mi sembrava quello
più adatto per un matrimonio.
Non l’avessi mai fatto!
L’arpia cominciò a sbraitare contro di me,
offendendo il mio modo di vestire, i miei gusti musicali, ma
soprattutto, offese la cosa che per ogni uomo è motivo
d’orgoglio.
Mi disse che io ero una “sporca negra figlia di qualche
sgualdrina da quattro soldi“ e che “in questa casa
stavo meglio come serva che come figlia del proprietario”.
Io non seppi cosa dirle, dopotutto era mia sorella, non si sarebbe mai
arrabbiata sul serio con me definendomi una
“negra”.
Anche se in fondo aveva ragione.
Io e mia
sorella eravamo completamente diverse, in tutto.
Lei, alta, bionda, occhi chiari, sorriso smagliante, spendacciona,
frivola, superficiale.
E bianca.
Io, bassina, capelli ondulati e scuri, come gli occhi, sempre
imbronciata, studiosa, matura, consapevole dei miei pregi e difetti,
orgogliosa.
E nera.
Ecco quello che ci distingueva di più, il colore della pelle.
Quand’ero piccola pensavo che fosse del tutto normale che mia
sorella fosse diversa da me, perché io ero la copia di
papà e lei la copia di mamma.
Ma non era così.
Non lo era mai stato.
Cominciai a sospettare delle mie origini.
Era impossibile, io non potevo essere figlia di Margaret Kinzner,
affermata pianista austriaca, che non aveva quindi assolutamente niente
di esotico.
Ma adesso che ci penso…
Mia sorella non poteva essere figlia di mio padre.
Troppo delicata, troppo bianca, per
essere figlia di un messicano.
Mentre io qualcosa di messicano avevo, come il colore della pelle,
oppure i capelli, o gli occhi…”
“Se stai pensando la stessa cosa che sto per dirti, allora
sì. Io non ero la sorella di mia sorella.
“Va bene, è che la notizia mi hai un po’
sconvolta…”
“Anche a me, è dura da accettare, specialmente se
hai solo dodici anni”
Non sapevo a chi rivolgermi per trovare un po’ di calma per
le mie meningi surriscaldate, avevo pensato che nessuno era a
conoscenza di segreti così intimi.
O almeno una c’era, solo
che mi vergognavo profondamente nell’andare da lei.
Quella persona era mio padre.
Era rischioso ma volli tentare lo stesso, quindi aspettai il suo
ritorno la settimana appresso e dopo i saluti di circostanza, lo
scambio dei doni che ci aveva portato dal suo ennesimo viaggio in
Europa, presi il coraggio a due mani e mi incamminai verso il suo
studio.
Arrivata davanti alla porta bussai con educazione e sentii la voce
baritonale di mio padre che mi chiedeva di entrare.
Io entrai, col cuore in pezzi e il cervello…
Il cervello pensavo si fosse già decomposto,
perché non sentivo più i miei pensieri.
Mio padre si accorse della mia condizione interiore, ma non disse
niente.
Si limitò a fissarmi immobile, mentre cercavo di far uscire
dalla bocca una piccola richiesta:
“Papà, posso farti una domanda, una domanda
importante?”
“Sì tesoro, dimmi pure”
“Ma mi prometti che non mi giudicherai né lo dirai
a nessuno, neanche alla mamma?”
Ero terrorizzata da quello che sarebbe potuto succedere se avessi
proferito la fatidica domanda, e anche da cosa mi avrebbe detto mio
padre.
Lui rispose con un “Sì” deciso e sincero
ed io trattenei il respiro per un po’, poi parlai:
"Papà,
Margaret non è mia madre, vero?”
Quello
che seguì fu come non me lo sarei mai aspettato.
Invece di inveire contro di me e di cacciarmi fuori
dall’ufficio, mio padre mi guardò con dolcezza ma
non rispose direttamente alla mia domanda. Anzi, adesso che ci penso,
non mi rispose.
Ma in compenso mi disse che mi avrebbe fatto un regalo molto speciale.
Un regalo che nessun altro avrebbe potuto donarmi.
Mi stavo pian piano riprendendo dallo shock della mia audacia su un
argomento così delicato come la mia vera madre, e la notizia
che mi diede mio padre non poté farmi più che
bene!”
“Un attimo, dolcezza, non essere impaziente, ci siamo
quasi”
“Uffa, va bene, ma smettila di fare così la
misteriosa, non sto più nella pelle!”
“Perché, il fatto che io sia figlia di mio padre
ma non della donna con cui è sposato non ti ha
sconvolto?”
“Beh sì, in effetti mi hai lasciato decisamente di
sasso e mi sto ancora riprendendo. Ma il segreto riguardava Mike, no?
Non le tue origini”
“Sì, hai ragione, ma se salto questo pezzo poi non
capisci il resto, comprende moi?”
“Oui, ma continua per piacere!”
“Okay, Miss Impazienza, andiamo avanti…”
Non sapevo minimamente cosa fosse, né quando
l’avrei ricevuto. Mi aveva solo detto di aver pazienza,
quella che tu non hai, e di star pronta a partire.
“Partire?”
“E per dove?” gli chiesi io.
“Lo saprai molto presto, amore, molto presto”
In quel momento mi sentii la ragazzina più felice di tutto
il Messico: stavo per andare in qualche posto che non avevo mai
visitato, in compagnia di mio padre.
Chissà dove saremmo andati?
La risposta non si fece attendere.
Dopo il fastoso e noioso matrimonio di mia sorella, o dovrei dire, sorellastra, qualche mese dopo
l’inizio della scuola, mio padre mi fece trovare le valigie
pronte davanti alla sua automobile nera privata sulla quale non faceva
salire nessuno, nemmeno sua moglie.
Mi diede il buongiorno, e mi disse che non saremmo stati soli: infatti
con noi sarebbe venuto il mitico Fernando, il figlio
dell’ancor più mitico maggiordomo di casa Villa,
che era al nostro servizio da più di trent’anni.
Era tutto così irreale che non potevo crederci, o meglio,
non volevo crederci.
Mio padre era sempre stato gentile e premuroso con me, al contrario di
mia madre e mia sorella, che mi trattavano peggio di un pianoforte
scordato.
“Sei inutile” Mi dicevano.
“Non farai mai nulla di importante, sei solo
un’adolescente sognatrice che rincorre le sue fantasie e
costruisce castelli in aria. Dammi retta, le donne non sono fatte per
pensare come degli uomini”
Papà invece sosteneva le mie idee e i miei principi, mi
stava sempre accanto e non si lasciava abbindolare dai pregiudizi.
Davvero un grande uomo.
Perché mio padre non solo mi portò con
sé in uno dei suoi grandiosi viaggi ma mi portò
nello Stato più ricco, più inarrivabile,
più agognato, più desiderato da ogni persona
sulla faccia della terra.
L’America.
Il sogno di una vita stava per avverarsi.
Avrei passeggiato per le vie di Broadway, percorso
Ma soprattutto sarei andata a Los Angeles,
Tutto si stava materializzando di fronte a me, era impossibile ma con
mio padre niente era impossibile”.
“No tesoro, a quei tempi non era ancora famoso, cantava nelle
recite scolastiche e nei localetti insieme ai fratelli, ma non posso
rivelarti tutto adesso, sennò sparisce la magia”
“Okay, okay, non fare la permalosa”
“Senti chi parla,
“No, no! L’ultima volta che ho fatto una scommessa
con te mi sono ritrovata tutti i miei peluche appesi al lampadario del
soggiorno con tutte le orecchie tagliate, quindi no!”
“Vedi che con le buone maniere sai ragionare, cara?
Complimenti! Allora, ricominciamo…”
Un quartiere dove nessuno, e dico, nessun
uomo, aveva la pelle bianca.
Erano tutti scuri, come me, e tutti in un solo quartiere!
Per la prima volta, dopo dodici anni, mi sentii veramente a casa: ero
commossa da quello che mio padre stava facendo per me, aveva capito il
disagio che provavo dentro casa sua e stava cercando di farmi ricordare
da dove venivo.
Durante il viaggio per raggiungere la metropoli mi aveva raccontato
molte cose sulla mia vera madre: mi disse che si chiamava Rose e
l’aveva conosciuta quattordici anni fa, proprio in quel
quartiere di New York dove mi stava portando.
Lei cantava in un locale insieme a un’orchestra jazz ed era
la stella della banda. Mi disse anche che era molto bella, una bellezza
esotica e pungente, che una volta individuato il bersaglio, non gli
lasciava scampo.
Mio padre si innamorò di lei sin dal primo momento.
Tutte le sere andava al locale solo per sentire la sua magnifica voce,
per contemplare la sua immagine, così elegante e sinuosa.
E lei se ne accorse, eccome!
Alcune volte quando cantava si avvicinava a lui e gli dedicava canzoni
d’amore, di desiderio, di divertimento sfrenato.
La passione non tardò a sbocciare, e quando mia madre seppe
di esser rimasta incinta, mio padre doveva ritornare in Messico; era
chiaro che non voleva lasciare la ragazza, in quelle condizioni poi, ma
aveva una moglie e una figlia a cui badare e non poteva portarsi la
bella cantante con sé.
Che cosa avrebbe detto a sua moglie? E a sua figlia?
Che scusa si sarebbe dovuto inventare per giustificare la gravidanza
della ragazza?
Che cosa avrebbero sospettato nel vedere il bambino della donna che
somigliava anche a lui?
Non c’era scelta purtroppo e mio padre, seppur a malincuore,
lasciò New York e la ragazza con quel dolce ma pericoloso
segreto da custodire.
Quel segreto ero io.”
“Tanto l’hai già fatto, cosa
c’è?”
“Hai una foto della nonna, volevo vedere se era bella come
dici”
“Perché, secondo te non sono bella come
lei?”
“Non ho detto questo, sono solo curiosa di vedere
com’era!”
“Okay aspettami qui, torno subito”
Interrompo il racconto per andar a prendere una vecchia foto di mia
madre che tengo gelosamente nascosta nel cassetto della mia stanza, e
ritorno da mia figlia.
“Eccola, che te ne pare?”
“Ma mamma è bellissima! Non pensavo che fosse
così, è sconvolgente, assomiglia a Whitney
Houston!”
“Dai, non esagerare, a quei tempi Whitney non era ancora
nata, non si può paragonare a lei!”
“Beh, allora…Si può paragonare a Diana
Ross?”
“Hm, sì, assomiglia a Diana, anche se a quei tempi
lei non era molto famosa… Ma si può
fare”
“Perfetto, se avrò una figlia la
chiamerò Diana!”
“In onore della Ross?”
“Sì, e poi Diana è molto amica con
Michael, no?”
“Sì, moltissimo, ci manca poco che le dedica una
canzone!”
“Secondo me l’ha già fatto”
“Può darsi. Ma fammi andare avanti, adesso
viene il bello!”
“Sì, vai, sono tutta orecchi!”
“Bene, eravamo rimasti al segreto di mio padre, che poi ero
io…”
Che Dio vi benedica.”
Il padrone era sconvolto dal fagottino che il suo fedele maggiordomo
teneva in braccio: quella era la figlia sua e di Rose, quella ero io.
Mi guardò con tenerezza, e rivelò al mitico
maggiordomo che quella era sua figlia, ma si raccomandò di
non dirlo a nessuno.
Il povero maggiordomo, sconvolto anche lui dalla rivelazione del
padrone, gli promise solennemente che se si fosse fatto sfuggire il
segreto dalle labbra se ne sarebbe andato via da quella casa
immediatamente.
Il padrone gli sorrise, compiaciuto della sua fedeltà.
Ma non sembra particolarmente stupita o spaventata o disgustata, no, la
bambina è anzi felice perché finalmente ha
scoperto le sue vere origini.
Origini che affondano in un locale di New York ed una lussuosa villa di
Città del Messico.
Il mitico Fernando ha ragione ad essere stanco, è da tutto
il giorno che mio padre ci guida per le vie di New York alla ricerca
del locale dove è nato l’amore tra lui e Rose e
dove, secondo lui, sono nata anch’io!
Però dovevo ammettere che era davvero un locale molto carino.
Era piccolo ma accogliente, il pavimento era in granito rosa, i
tendaggi e i sipari del palco erano di un caldo rosso scarlatto, come
le rose nei vasi disseminati sui tavolini, che invece erano di ferro
battuto e avevano le tovaglie di un bel rosa antico. Alle pareti
c’erano manifesti, articoli di giornale, souvenir, vecchi
strumenti musicali d’ottone che ricordavano l’epoca
d’oro del jazz e l’antica fama del locale.
Infatti adesso non si suona solo jazz ma anche
rock’n’roll, musica beat e altro che sicuramente
non è jazz.
Tutto questo sinceramente a me non interessava, l’importante
è che ci fosse stata la musica!
La prima sera mi ricordo che non fecero niente di interessante.
Sì, il cantante era bravo, ma ero talmente stanca che non
avevo nemmeno la forza di applaudire.
Fernando e mio padre furono quindi costretti a farmi dormire
lì, negli alloggi del padrone, che non ci disse nulla (dopo
che mio padre sborsò quasi 500 dollari per convincerlo,
naturalmente!).
Al mattino mi svegliai ben riposata: il letto era molto comodo, e la
stanza era a prova di rumore, quindi non sentii nessuno schiamazzo per
tutta la notte.
Ma alla mattina udii qualcosa.
Un vociare improvviso e un scalpiccio incessante accompagnati da strani
rumori secchi mi distolse dalla quiete mattutina e attirò la
mia attenzione.
Guardai la sveglia sul comodino: erano le sette di mattina in punto.
Chi poteva mai fare tanto casino alle sette di mattina e per giunta
quando gli inquilini vicini stanno ancora dormendo dopo una notte in
bianco?
La mia risposta non si fece attendere.
Sentii dei passi abbastanza pesanti che stavano salendo le scale e un
attimo dopo qualcuno bussa alla mia porta.
“Si può?” mi chiese una voce che non era
di mio padre né di Fernando.
La mia mente cominciò a pensare le idee più
assurde: scappare dalla finestra come un ladro sorpreso a frugare in
casa altrui; barricarsi dentro la stanza ostruendo la porta col
comò e il letto; nascondersi nell’armadio; fare la
bambina indifesa e innocente per commuovere lo sconosciuto dietro la
porta; farlo entrare e poi stordirlo tirandogli la sveglia…
La soluzione più efficace sarebbe stata l’ultima,
ma alla fine optai per quella più semplice e meno
aggressiva.
Risposi alla voce e la feci entrare.
In fondo dal tono non sembrava così cattiva.
“Avanti”
La porta si apre cigolando e finalmente vedo il proprietario della
voce: un ragazzo afro americano, anzi un ragazzino, avrà
avuto sì e no la mia età.
Era vestito in modo davvero molto particolare: sembrava un astronauta,
i capelli ricci erano tagliati corti e mi guardava come se io fossi
stata un alieno!
“Oh scusa, non pensavo ci fosse una ragazza così
giovane qui dentro, perdona la mia maleducazione!”
Sembrava veramente un bravo ragazzo, ma non mi piace essere trattata
come la classica fanciulla indifesa.
“Ma che maleducazione, anzi, sei stato molto gentile a
bussare prima di entrare, tanta gente non lo fa! E poi quanto anni
pensi che io abbia, non sono molto giovane”
“Beh, dodici anni li hai sicuramente, poi magari ne hai di
più e non li dimostri!”
Anche spiritoso il ragazzo, cominciava a piacermi.
“Bravo, hai indovinato! Ho dodici anni, ma ne farò
tredici il 23 aprile!”
“Ah, guarda che caso, io ne faccio tredici il 4
maggio!”
“Ah, un altro Toro come me. Vedi di non farmi arrabbiare,
sennò ti carico contro!”
“Sarebbe impossibile, non ho molta paura dei Tori. I Leoni,
piuttosto, non li sopporto, sono troppo permalosi”
“Hai pienamente ragione!”
Scoppiammo tutti e due a ridere. Le risate si sentivano pure dalla
strada per quanto erano forti!
“Ah, ma non mi sono ancora presentata: mi chiamo
Fiordaliso”
“Che nome originale! Io invece sono Sigmund, ma tu puoi
chiamarmi solo Jackie, molto piacere”
“Beh, anche il tuo è un nome originale”
Azzardo io.
Lui mi guarda sorpreso.
“Beh, da noi è comunissimo”
“Davvero?” faccio io, con gli occhi sgranati e
un’espressione stupita dipinta sul volto.
“Sì” fa lui, come se fosse la cosa
più ovvia del mondo. Poi il suo sguardo cambia, da stupito
diventa curioso.
“Tu non sei di qui, vero?” Più che una
domanda a me suonava come un’accusa.
“Beh, ho appena saputo che mia madre faceva la cantante qui
ed era di colore, ma ho sempre vissuto in Messico con mio
padre”
“Ah capisco… Infatti mi sembrava strano che non
avessi niente di americano. Abbiamo quasi lo stesso colore della
pelle!” Sorrise e mi fece sentire stranamente bene.
“Già, chi non si sbaglierebbe? Comunque che
facciamo, scendiamo a far colazione, oppure rimaniamo qui a
fissarci?”
“Per me va bene la prima, abbiamo viaggiato tutta la notte ed
ho una fame terribile”
“Anche io!” Gli confessai e lui mi sorrise ancora.
Mentre scendevamo le scale, chiesi a Jackie da dove venisse per aver
viaggiato di notte ed essere arrivato solo di mattina, e lui mi rispose
che veniva da Gary.
“Da Gary?” Gli chiesi io. Non avevo mai sentito una
città che si chiamasse così.
Lui mi disse che era una città dell’Indiana a
confine con l’Illinois, era abbastanza grande e si affacciava
sul lago Michigan.
Gli dissi che avevo capito dove si trovava Gary, per farlo contento, ma
a dir la verità, non avevo capito un bel niente!”
“A quei tempi non era ancora famosa, quindi avevo tutte le
buone ragioni del mondo per non saperlo!”
“Beh in effetti hai ragione, scusa. E quindi, mamma, tu hai
conosciuto i Jackson Five al completo?”
“Sì. Anzi, tutta la famiglia Jackson, Michael
compreso”
“Oh mamma, ti prego va avanti, non ce la faccio
più ad aspettare! Quando entra in scena Michael?”
“Tra un po’ tesoro, è questione di poche
parole…”
I ragazzi invece sembravano tutti simpatici. Anche loro stavano
discutendo, e intanto facevano colazione con latte e brioches.
Si somigliavano tutti, compreso Jackie, e quindi io sospettai che
fossero fratelli, ed erano tutti vestiti allo stesso modo: pantaloni e
giacca argentati, i capelli corti
come quelli di Jackie.
Erano tutti più piccoli di me, avranno avuto tra gli undici
e i sei anni. Forse il più grande era proprio Jackie.
Appena mi vide, Fernando alzò un braccio per salutarmi e mi
disse:”Ah, allora sono riusciti a svegliarti eh? Penso che
dovresti usare il giovanotto come sveglia!”
“Spiritoso, quando lui ha bussato io ero già
sveglia, e poi non ho bisogno di nessuno per svegliarmi”
“Beh, se lo dici tu” Fernando era presuntuoso e
rompiscatole anche di mattina, incredibile!
Anche mio padre si accorse di me, mi diede il buongiorno e mi chiese di
venire da lui perché doveva presentarmi una persona.
Io intuii fosse l’uomo di colore dalla brutta faccia, e mi
avvicinai cauta senza scompormi.
“Fiordaliso, ti presento un mio amico, Joseph Jackson. Si
esibirà stasera insieme ai suoi figli, i ragazzi con cui sta
parlando Fernando”
Io annuii e mi presentai al signor Jackson.
“Molto piacere signor Jackson, sono Fiordaliso
Villa”
“Joseph Jackson, signorina, ma tu puoi chiamarmi
semplicemente Joe”
Poi si girò verso i suoi figli e mi disse:”Vedo
che hai già conosciuto Jackie, è stato sgarbato
con te, ti ha offeso?”
“No, no, signor Jackson! Anzi, è stato
gentilissimo, non se la deve prendere con suo figlio”
“Ah bene…” Disse rassicurato, e la sua
espressione si addolcì anche se mi faceva comunque paura!
“Che ne dici, vuoi conoscere anche gli altri miei ragazzi?
Non preoccuparti, se non vuoi non fa niente”
Cercava di essere gentile con me, ma non avrebbe mai comprato la mia
simpatia con dei modi così falsi. Accettai lo stesso,
però, volevo conoscere veramente i fratelli di Jackie, al
contrario del padre sembravano simpatici.
Sentii quindi uno schioccare di dita e Jackson ordinò ai
suoi figli di disporsi in fila dal più grande al
più piccolo; i figli, con le facce terrorizzate, obbedirono.
Oltre a Jackie c’erano altri quattro bambini che educatamente
si presentarono.
Il primo aveva un nome stranissimo, Toriano Adaryll, soprannominato
però Tito, e aveva undici anni.
Il secondo si chiamava Jermaine, anche questo mai sentito, ma almeno
aveva una faccia simpatica, dieci anni.
Il terzo aveva un nome più semplice, Marlon David, sette
anni.
Il quarto aveva il nome più semplice di tutti, era facile
ricordarselo, almeno.
Appena lo vidi fui colta da una strana sensazione che
attraversò come un’onda il mio corpo: qualcosa di
elettrico c’era nell’aria, qualcosa di particolare
che leggevo negli occhi del bambino più piccolo, e che lui
leggeva nei miei.
Mi tese la manina e mi disse:”Piacere, io sono Michael Joseph
e ho sei anni”
Mi fecero una tale tenerezza, una tale compassione, quegli occhi, che
per un attimo mi dimenticai di presentarmi.
“Il piacere è tutto mio Michael, io sono
Fiordaliso”
Presi la sua mano e nel stringerla, la sensazione ritornò
più forte di prima.
Mentre i suoi figli si presentavano, il signor Jackson, non aveva
smesso di guardare neanche per un secondo la schiena del piccolo
Michael.
E questo non mi piacque per niente.