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Autore: Looney    05/09/2009    7 recensioni
Voi credete agli angeli? Bene, se avete risposto sì a questa domanda allora non poteva essere meglio. La storia in questione narra appunto di un angelo meraviglioso, costretto a sopportare la vita, che viene salvato per caso da una ragazzina umana dal cuore d'oro nella sua stessa identica situazione, diventandone così il migliore amico. Lei non sa però che il piccolo angelo da quel momento in poi ha un grande debito da saldare ed a distanza di ventuno anni dal loro primo incontro si presenta di fronte a lei con una misteriosa sorpresa, la quale ricompenserà la donna della sua fedeltà nei confronti dell'angelo. E allora voi chiederete, cosa c'è di strano in tutta questa storia? Gli angeli non possono fare regali agli esseri umani? Certo che possono. Ma i regali degli angeli non sono come i nostri... Bene, dopo questa breve presentazione spero di aver infuso un po' di suspense in tutti voi, questa storia sarà abbastanza lunghetta e coloro che si impegneranno nel leggerla lo devono sapere per non cadere in uno stato di trance nervoso!!XD è robetta leggera, non preoccupatevi per questo, ma mooolto interessante, fidatevi!!;) Come titolo ho usato una canzone meravigliosa che amo moltissimo, Will You Be There appunto, ma non c'è un legame preciso con ciò che andrò a raccontare nella FanFiction, mi ispirava la canzone tutto qui!!^^ E naturalmente il co-protagonista indiscusso sarà il nostro splendido Michael, attorniato da personaggi bizzarri ed una ambientazione decisamente particolare... Curiosi, eh??^^ Se avete coraggio iniziate a leggere il primo capitolo!!**
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Will You Be There '
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              Tutto iniziò con un fazzoletto di raso color crema…

        (Storie del passato che si ripetono nel futuro-Prima parte)

                              
Oggi è una giornata molto calda, la tipica giornata dall’afa massacrante in una metropoli con milioni di abitanti e chilometri d’asfalto.
Fa così caldo che, secondo me, anche il freddo oceano non ce la fa più e vuole un minimo di frescura.
Gli uccellini appoggiati sulle balaustre dei viali e sui pali del telefono si stanno spennando da soli e tra un po’ si faranno un bagnetto in qualche piscina privata, con la loro piccola mole non danno di certo fastidio.
Mentre l’asfalto…L’asfalto rovente ribolle e ai miei occhi sembra che si muova come un lungo fiume di Coca Cola.
Gli alberi delle ville di fronte alla mia assomigliano a una cascata di the verde, le case a budini multicolori che si agitano senza sosta…
Ah, maledetto caldo, mi fa venire le allucinazioni, tra un po’ mi mangio le tende del soggiorno scambiandole per zucchero a velo!
Succede sempre così, quando mi metto ad aspettare mia figlia che ritorna dalle sue scorribande con gli amici; seduta di fronte alla finestra ammiro le case dei nababbi affacciate sull’oceano come la mia e qualche volta mi lascio prendere dall’immaginazione.
Stavolta però, lo devo ammettere, è stata colpa del caldo e non della mia fervida inventiva; ed inoltre oggi è un giorno troppo importante per me e lo sarà anche per mia figlia: infatti sto per rivelarle un segreto che mi tengo dentro da ventuno anni e scommetto che le piacerà, a patto che lei non lo dica a nessuno.
Cavolo, non sto più nella pelle! Quasi quasi mi mangio anche quella!
Non che mi dispiaccia: ha un colorito così appetitoso…
Sono stata fortunata a nascere da uomo il cui Paese è baciato dal sole ogni giorno dell’anno, dove la gente è allegra e laboriosa, e ci sono chilometri e chilometri di deserto in cui scorrazzare.
Adesso invece abito nella città che è la più bella ma anche la più maledetta della costa occidentale ovvero Los Angeles, la città delle stelle, un luogo magico e ingannevole dove niente è vero e tutto è falso.
Lo dico io, che amo le cose autentiche e i sentimenti veri e tutto questo luccichio che serve a coprire la verità mi da la nausea.
Ma è l’unico posto dove abbiamo trovato una casa in vendita a un prezzo decente (una villetta a due piani con giardino e piscina annessa a 235.000 dollari, un affarone!) ed inoltre mia figlia ha insistito molto su questa scelta; col tempo quindi ho imparato ad amare Los Angeles che, come tutte le città americane ha i suoi pregi e i suoi difetti.
Mia figlia invece non sembra trovarci niente di negativo, a parte la metropolitana, che non prende mai.
A proposito, la furbetta non è ancora tornata ed io ne approfitto per prendere in prestito un suo 45 giri e il mangiadischi.
Faccio così tutte le volte che lei non c’è e so che tornerà tardi, e finora non mi ha mai scoperto!
Dovrebbe succedere il contrario, lei dovrebbe rubare le mie cose ma noi siamo una famiglia un po’ particolare: capovolgiamo ogni cosa, perfino la più stupida, ma ci piace, ci rende uniche e a prova di noia!
Salgo quindi in cameretta, frego il 45 giri e il mangiadischi e me ne ritorno giù in soggiorno, dove metto il disco nell’apparecchio e lo faccio partire sulla mia canzone preferita.
La canzone è Billie Jean e appena attacca mi metto a ondeggiare come la casa-budino delle mie allucinazioni, cercando di essere il più naturale possibile.
Poi, appena lui comincia a cantare, io lo accompagno nel migliore dei modi: però, c’è da dire che non sono male come cantante, gli sto dietro tranquillamente e non sbaglio una nota…
Sto al limite dello spasso quando sento il portone di casa che si apre cigolando e dei passi che si avvicinano al soggiorno.
E una voce…
Anzi, un urlo.

“Mamma?”
“Ehm, tesoro, sei tornata presto oggi, non me lo aspettavo…”
Pessima bugia, è da stamattina alle nove che manca da casa e sono le sei del pomeriggio.
C’è da ammetterlo, però, non sono mai stata brava a raccontare bugie.
“Mamma, che cosa stai facendo con il mio Thriller e il mio mangiadischi?”
“Beh, non si vede, lo sto ascoltando… Perché, adesso tua madre non può prendere in prestito i tuoi dischi?”
“No, va bene? Sono miei, e sai che sono molto gelosa delle mie cose, quindi spegni il mangiadischi e dammi Thriller!”
“Ai suoi ordini, capitano Katie” Sbuffai io, e dopo aver fatto quello che mi aveva ordinato la Boss, le feci notare le condizioni deplorevoli dei suoi vestiti, che da bianchi erano diventati color cioccolato al latte, come la sua pelle.
“Hai giocato a baseball dopo essere andata in spiaggia, eh?”
Smascherata, lo si legge dall’espressione del suo viso. Rassegnata e colpevole.
“Sì, Kevin ha tanto insistito perché io facessi una partita con gli altri che alla fine non ho resistito e mi sono buttata”
Attimo imbarazzante di silenzio.
“Sei arrabbiata?” mi chiede.
“Ma che stai dicendo Katie, certo che no! È normale per una ragazzina della tua età giocare con gli amici a una salutare partita di baseball, no?”
“Sì, è normale per un ragazzo. Ma per una ragazza no”
“Adesso non metterti in testa che il baseball è uno sport per soli maschi, perché non è vero, capito? Anzi, scommetto che tu sei molto più brava di tutti i tuoi amici messi insieme, non è così?”
Le sorrisi e le feci l’occhiolino.
“Beh…Sì” Anche lei mi sorrise, con finta modestia.
“Ecco, quindi la prossima volta stendili tutti quei maschietti e fagli vedere che noi donne non siamo solo capaci a badare ai bimbi e a far svolazzare le gonnelle,va bene?”
“Sì, mamma. Te lo giuro su tutti i miei dischi, e soprattutto su Thriller!” Aveva una faccia convinta, per fortuna, ed era tornata la Katie di prima.
E poi se giurava su Thriller potevo star certa che non mi avrebbe delusa!
“Ah, allora okay, tesoro, ci conto! Comunque sarai stanca adesso, ti va un po’ di the fatto dalla tua mammina?”
“Va bene, prova pure ma scommetto che non sarà mai buono come quello che fa Fernando!”
Fernando è il nostro fidato maggiordomo, nonché il mio migliore amico sin da quando abitavo in Messico. Dire che fosse un maggiordomo era piuttosto esagerato, ma lui amava definirsi così, e non gli davamo torto, anche se non voleva da me nessun versamento in denaro.
Dice che l’unica ricompensa per lui è vederci felici. Che uomo generoso!
“Beh, l’unica differenza tra me e lui è che lui prepara il the per mestiere, mentre io lo faccio perché voglio bene alla mia adorata figliola, tutto qui!”
“Anche lui mi vuole bene ma è un dato di fatto che tu non sai fare un buon the!” Mi voleva stuzzicare, la viperetta, sapeva che io non ero una brava cuoca, e lo usava ogni volta come pretesto per sfidare la mia pazienza, ma Fiordaliso non ci casca, nossignore!
“Bene signorinella, visto che sei stata tanto gentile con tua madre, puoi dire addio ai tutti i tuoi dischi, compresi tutti quelli di Michael Jackson e dei Jackson Five”
Il viso di Katie da rilassato si contrasse, la sua bocca si spalancò in una enorme O e gli occhi si sbarrarono.
“Tu… Tu non faresti mai una cosa del genere! Anche a te piace Michael, non butteresti mai i suoi album fuori dalla finestra né nella pattumiera, ci scommetto un occhio nella testa!” Ormai era diventata furiosa, e dire che io stavo solo scherzando!
“Uffa calmati, non dico sul serio! Hai ragione, non farei mai una cosa del genere, né tanto meno a un ragazzo bello e bravo come Mike. Ma per chi mi hai preso?” Le mie parole davano l’aria di averla calmata, almeno in superficie.
“Va bene, adesso basta litigare, facciamoci questo the, che è quasi ora di cena!” In effetti abbiamo perso più di tre quarti d’ora a parlare di emancipazione femminile, piccoli furti casalinghi, miti afro americani e giustamente Katie voleva il suo the.
Oh santo cielo, il segreto che dovevo rivelarle, mi ero completamente dimenticata! I litigi mi fanno sempre questo effetto!
Vabbè, glielo dirò con calma dopo cena.
A proposito di cena…Dove diamine si è cacciato Fernando?
Oh, accidenti, non dirmi che devo preparare la cena da sola, non sono capace!
Ah, sento fischiettare, è lui finalmente! Sia ringraziato il cielo, che paura che ho avuto in nemmeno un attimo!
Ripresa dallo spavento e assistita dal fidato Fernando, preparai il the a Katie e a me, annunciandole di tenersi pronta dopo cena perché le avrei rivelato uno dei miei più grandi segreti.
Lei era al settimo cielo, mi disse che non vedeva l’ora di scoprirlo ma mi promise che non avrebbe detto a nessuno ancor prima che glielo ricordassi io… Che mi avesse letto nel pensiero?

Fatto sta che dopo cena si lavò, si asciugò, si pettinò i capelli e si mise la camicia da notte delle grandi occasioni, (per quante ce ne siano state in tutta la sua carriera di dormigliona) tutto a tempo di record e si mise seduta sul letto con le mani incrociate in grembo e i piedi che picchiettavano sul parquet, impazienti.
Io afferrai il segnale in codice e mi misi seduta di fronte a lei sul letto, tirai un bel sospiro e le chiesi:
“Sei pronta?”
“Non lo sono mai stata tanto” Mi rispose solennemente come se stesse decidendo le sorti di un malato in fin di vita.
“Beh, ecco…” cominciai, un po’ insicura.
“Non è facile, ma se avrai un po’ di pazienza ti racconterò tutto per filo e per segno”
“Okay, avrò pazienza, ma arriva subito al punto”
Si vedeva a un miglio di distanza che fremeva dalla voglia di sapere, e quindi decisi di accontentarla una volta per tutte.
“Allora…”
Tirai un altro lungo sospiro e le feci una domanda a bruciapelo, ma sapevo già cosa mia avrebbe risposto.
“Katie, a te piace Michael Jackson, vero?”
Mia figlia mi guardò con occhi sgranati e sbottò:
“Ma che razza di domande mi fai, mamma? Lo dovresti sapere che io ho occhi solo per lui: lo seguo da quando uscì Off The Wall e da allora non faccio altro che ascoltare la sua musica! Per me gli altri cantanti non sarebbero nulla senza Michael, io lo amo e penso che sia il cantante più bravo e più bello in assoluto! Anzi secondo me non è neanche umano, è un angelo sceso dal cielo per deliziarci con la sua magnifica voce e la sua innaturale bellezza…”
I suoi occhi sognanti erano rivolti al cielo e le mani erano giunte in segno di devozione come se stesse parlando di un dio.
Sempre esagerata, mia figlia, quando si tratta di Mike.
Poi all’improvviso il suo viso si rilassò e mi guardò come se avesse già capito.
“Perché, il segreto riguarda forse lui?” mi chiese quasi sussurrando.
Io tirai l’ormai famoso sospiro e dalle labbra mi uscì un fievole “Sì”
Non vidi direttamente in faccia mia figlia perché io stavo con le spalle girate rispetto a lei ma credo che con il suo silenzio e la sua compostezza stava aspettando il mio racconto con pazienza, come le avevo raccomandato.
Quindi, senza nulla che mi fermasse e spinta dal solo desiderio di togliermi quel peso cominciai a raccontare.

 “Mi ricordo che faceva caldo quel giorno, come oggi, solo che invece di essere luglio era maggio, e mi ricordo anche che tutto iniziò con un fazzoletto di raso color crema…”

 “Un fazzoletto di raso color crema? E adesso che centra con Michael?”
“Ti ho detto di avere pazienza, se mi metti fretta rovini tutta l’atmosfera”
“Ah, scusa mamma, continua pure”
“Bene, allora, eravamo rimaste al fazzoletto color crema…”

 “Mia sorella, ovvero la tua adorabile zietta, doveva sposarsi entro due mesi, solo che ancora non aveva deciso il servizio da tavola né quali tovaglie e quali tovaglioli  mettere al ricevimento. E secondo lei era un vero guaio, perché il matrimonio della figlia dell’imprenditore più ricco di Città del Messico doveva essere un evento memorabile e molto lussuoso, qualcosa che anche i posteri avrebbero dovuto ricordare come “l’evento del secolo”.
A me sinceramente non interessava nulla di quello che passava di mente a mia sorella, anche perché nell’anno del suo matrimonio avevo solo dodici anni e non pensavo minimamente a sposarmi.
Per me le donne dovevano essere libere di esercitare ogni tipo di lavoro, anche quelli che secondo i rappresentanti dell’altro sesso erano lavori destinati ai soli uomini come il medico, l’avvocato, l’imprenditore, il docente universitario e molti altri.
Ma eravamo nel 1963, e il Messico, rispetto ai vicini Stati Uniti d’America, era molto arretrato, sia economicamente che socialmente.
E tuttora non è che sia uno dei migliori Paesi in cui viverci.
Comunque fatto sta che mia sorella quel torrido giorno di maggio mi chiamò dal piano di sotto ( io stavo in camera mia, al primo piano) e mi chiese se potevo venire da lei un attimo.
Io l’accontentai seppur di malavoglia, perché stavo ascoltando uno dei miei LP preferiti del mio cantante preferito dell’epoca, Elvis Presley…”

 “Wow, mamma, ti piace Elvis Presley?”
“Sì, qualcosa in contrario?”
“No figurati, stavo pensando che Elvis è il cantante preferito di Michael…”
“…E quindi anche il mio, tutti amano Elvis, ma c’è da dirlo, Michael è molto più bello di lui, sei d’accordo?”
“Non dovresti farmi domande del genere, risponderei sempre di sì”
“Infatti la mia era una domanda retorica, tesoro. Vabbè, continuiamo…”

 “Devi sapere che all’epoca io ero identica a te per quanto riguardava il carattere, e quindi non sopportavo il fatto che qualcuno mi disturbasse quando ascoltavo il mio mito.
Ma mia sorella non sapeva neanche chi fosse, il povero Elvis,e quindi non poteva capirmi.
Quando scesi giù la vidi tutta indaffarata, ma sempre molto elegante e ben pettinata, che reggeva per ciascuna mano un fazzoletto di raso color crema e un altro dello stesso tessuto, ma pervinca.
Mi era ovvio che avrei dovuto scegliere tra i due fazzoletti ed io scelsi quello color crema, perché mi sembrava quello più adatto per un matrimonio.
Non l’avessi mai fatto!
L’arpia cominciò a sbraitare contro di me, offendendo il mio modo di vestire, i miei gusti musicali, ma soprattutto, offese la cosa che per ogni uomo è motivo d’orgoglio.
Mi disse che io ero una “sporca negra figlia di qualche sgualdrina da quattro soldi“ e che “in questa casa stavo meglio come serva che come figlia del proprietario”.
Io non seppi cosa dirle, dopotutto era mia sorella, non si sarebbe mai arrabbiata sul serio con me definendomi una “negra”.
Anche se in fondo aveva ragione. 

Io e mia sorella eravamo completamente diverse, in tutto.
Lei, alta, bionda, occhi chiari, sorriso smagliante, spendacciona, frivola, superficiale.
E bianca.
Io, bassina, capelli ondulati e scuri, come gli occhi, sempre imbronciata, studiosa, matura, consapevole dei miei pregi e difetti, orgogliosa.
E nera.
Ecco quello che ci distingueva di più, il colore della pelle.
Quand’ero piccola pensavo che fosse del tutto normale che mia sorella fosse diversa da me, perché io ero la copia di papà e lei la copia di mamma.
Ma non era così.
Non lo era mai stato.
Cominciai a sospettare delle mie origini.
Era impossibile, io non potevo essere figlia di Margaret Kinzner, affermata pianista austriaca, che non aveva quindi assolutamente niente di esotico.
Ma adesso che ci penso…
Mia sorella non poteva essere figlia di mio padre.
Troppo delicata, troppo bianca, per essere figlia di un messicano.
Mentre io qualcosa di messicano avevo, come il colore della pelle, oppure i capelli, o gli occhi…”

 “Oh mamma, ma allora questo significa che…”
“Se stai pensando la stessa cosa che sto per dirti, allora sì. Io non ero la sorella di mia sorella. E non ero neanche figlia di Margaret. Se avrai un po’ di pazienza ti racconterò tutto, te lo prometto”
“Va bene, è che la notizia mi hai un po’ sconvolta…”
“Anche a me, è dura da accettare, specialmente se hai solo dodici anni”

“Il mio cervello non sapeva più cosa pensare, era un vortice di pensieri dolorosi, di segreti svelati implicitamente, di senso di non appartenenza.
Non sapevo a chi rivolgermi per trovare un po’ di calma per le mie meningi surriscaldate, avevo pensato che nessuno era a conoscenza di segreti così intimi.
O almeno una c’era, solo che mi vergognavo profondamente nell’andare da lei.
Quella persona era mio padre.
Era rischioso ma volli tentare lo stesso, quindi aspettai il suo ritorno la settimana appresso e dopo i saluti di circostanza, lo scambio dei doni che ci aveva portato dal suo ennesimo viaggio in Europa, presi il coraggio a due mani e mi incamminai verso il suo studio.

Mi aveva sempre fatto paura quel posto, con i pesanti mobili di mogano, i quadri appesi alle pareti che richiamavano alle origini della nostra famiglia, i rapaci imbalsamati sugli scaffali, ma soprattutto la grande scrivania che si ergeva imponente al centro della stanza.
Arrivata davanti alla porta bussai con educazione e sentii la voce baritonale di mio padre che mi chiedeva di entrare.
Io entrai, col cuore in pezzi e il cervello…
Il cervello pensavo si fosse già decomposto, perché non sentivo più i miei pensieri.
Mio padre si accorse della mia condizione interiore, ma non disse niente.
Si limitò a fissarmi immobile, mentre cercavo di far uscire dalla bocca una piccola richiesta:
“Papà, posso farti una domanda, una domanda importante?”
“Sì tesoro, dimmi pure”
“Ma mi prometti che non mi giudicherai né lo dirai a nessuno, neanche alla mamma?”
Ero terrorizzata da quello che sarebbe potuto succedere se avessi proferito la fatidica domanda, e anche da cosa mi avrebbe detto mio padre.
Lui rispose con un “Sì” deciso e sincero ed io trattenei il respiro per un po’, poi parlai:

"Papà, Margaret non è mia madre, vero?”
Quello che seguì fu come non me lo sarei mai aspettato.
Invece di inveire contro di me e di cacciarmi fuori dall’ufficio, mio padre mi guardò con dolcezza ma non rispose direttamente alla mia domanda. Anzi, adesso che ci penso, non mi rispose.
Ma in compenso mi disse che mi avrebbe fatto un regalo molto speciale.
Un regalo che nessun altro avrebbe potuto donarmi.
Mi stavo pian piano riprendendo dallo shock della mia audacia su un argomento così delicato come la mia vera madre, e la notizia che mi diede mio padre non poté farmi più che bene!”

“La notizia in questione riguarda Michael, vero?”
“Un attimo, dolcezza, non essere impaziente, ci siamo quasi”
“Uffa, va bene, ma smettila di fare così la misteriosa, non sto più nella pelle!”
“Perché, il fatto che io sia figlia di mio padre ma non della donna con cui è sposato non ti ha sconvolto?”
“Beh sì, in effetti mi hai lasciato decisamente di sasso e mi sto ancora riprendendo. Ma il segreto riguardava Mike, no? Non le tue origini”
“Sì, hai ragione, ma se salto questo pezzo poi non capisci il resto, comprende moi?”
“Oui, ma continua per piacere!”
“Okay, Miss Impazienza, andiamo avanti…”

“Dove ero rimasta? Ah sì, al regalo che doveva farmi mio padre!
Non sapevo minimamente cosa fosse, né quando l’avrei ricevuto. Mi aveva solo detto di aver pazienza, quella che tu non hai, e di star pronta a partire.
“Partire?”
“E per dove?” gli chiesi io.
“Lo saprai molto presto, amore, molto presto”
In quel momento mi sentii la ragazzina più felice di tutto il Messico: stavo per andare in qualche posto che non avevo mai visitato, in compagnia di mio padre.
Chissà dove saremmo andati?
La risposta non si fece attendere.
Dopo il fastoso e noioso matrimonio di mia sorella, o dovrei dire, sorellastra, qualche mese dopo l’inizio della scuola, mio padre mi fece trovare le valigie pronte davanti alla sua automobile nera privata sulla quale non faceva salire nessuno, nemmeno sua moglie.
Mi diede il buongiorno, e mi disse che non saremmo stati soli: infatti con noi sarebbe venuto il mitico Fernando, il figlio dell’ancor più mitico maggiordomo di casa Villa, che era al nostro servizio da più di trent’anni.

In quel momento non seppi cosa dire.
Era tutto così irreale che non potevo crederci, o meglio, non volevo crederci.
Mio padre era sempre stato gentile e premuroso con me, al contrario di mia madre e mia sorella, che mi trattavano peggio di un pianoforte scordato.
“Sei inutile” Mi dicevano.
“Non farai mai nulla di importante, sei solo un’adolescente sognatrice che rincorre le sue fantasie e costruisce castelli in aria. Dammi retta, le donne non sono fatte per pensare come degli uomini”
Papà invece sosteneva le mie idee e i miei principi, mi stava sempre accanto e non si lasciava abbindolare dai pregiudizi. Davvero un grande uomo.

Ma ritorniamo al nostro viaggio segreto, che si stava svelando pian piano ai miei occhi, increduli di fronte a tanta meraviglia.
Perché mio padre non solo mi portò con sé in uno dei suoi grandiosi viaggi ma mi portò nello Stato più ricco, più inarrivabile, più agognato, più desiderato da ogni persona sulla faccia della terra.
L’America.

La Grande America.
Il sogno di una vita stava per avverarsi.
Avrei passeggiato per le vie di Broadway, percorso la Route 66, visitato la casa di Elvis a Memphis, scorrazzato per le strade trafficate e in discesa di San Francisco ma soprattutto…
Ma soprattutto sarei andata a Los Angeles, la Città delle Stelle.

Hollywood, Santa Monica, Long Beach, Malibu, Beverly Hills, Santa Barbara.
Tutto si stava materializzando di fronte a me, era impossibile ma con mio padre niente era impossibile”.

“Mamma, questo racconto mi sta piacendo un sacco! Ma tu hai incontrato Mike a Hollywood?”
“No tesoro, a quei tempi non era ancora famoso, cantava nelle recite scolastiche e nei localetti insieme ai fratelli, ma non posso rivelarti tutto adesso, sennò sparisce la magia”
“Okay, okay, non fare la permalosa”
“Senti chi parla, la Regina Delle Smorfiosette. Guarda che ti spacco veramente tutti i dischi di Michael in due minuti, scommettiamo?”
“No, no! L’ultima volta che ho fatto una scommessa con te mi sono ritrovata tutti i miei peluche appesi al lampadario del soggiorno con tutte le orecchie tagliate, quindi no!”
“Vedi che con le buone maniere sai ragionare, cara? Complimenti! Allora, ricominciamo…”

“La nostra prima meta però non fu Los Angeles, bensì New York, la Grande Mela, dove mio padre mi portò in un posto del tutto inaspettato.
Un quartiere dove nessuno, e dico, nessun uomo, aveva la pelle bianca.
Erano tutti scuri, come me, e tutti in un solo quartiere!
Per la prima volta, dopo dodici anni, mi sentii veramente a casa: ero commossa da quello che mio padre stava facendo per me, aveva capito il disagio che provavo dentro casa sua e stava cercando di farmi ricordare da dove venivo.
Durante il viaggio per raggiungere la metropoli mi aveva raccontato molte cose sulla mia vera madre: mi disse che si chiamava Rose e l’aveva conosciuta quattordici anni fa, proprio in quel quartiere di New York dove mi stava portando.
Lei cantava in un locale insieme a un’orchestra jazz ed era la stella della banda. Mi disse anche che era molto bella, una bellezza esotica e pungente, che una volta individuato il bersaglio, non gli lasciava scampo.
Mio padre si innamorò di lei sin dal primo momento.
Tutte le sere andava al locale solo per sentire la sua magnifica voce, per contemplare la sua immagine, così elegante e sinuosa.
E lei se ne accorse, eccome!
Alcune volte quando cantava si avvicinava a lui e gli dedicava canzoni d’amore, di desiderio, di divertimento sfrenato.
La passione non tardò a sbocciare, e quando mia madre seppe di esser rimasta incinta, mio padre doveva ritornare in Messico; era chiaro che non voleva lasciare la ragazza, in quelle condizioni poi, ma aveva una moglie e una figlia a cui badare e non poteva portarsi la bella cantante con sé.
Che cosa avrebbe detto a sua moglie? E a sua figlia?
Che scusa si sarebbe dovuto inventare per giustificare la gravidanza della ragazza?
Che cosa avrebbero sospettato nel vedere il bambino della donna che somigliava anche a lui?
Non c’era scelta purtroppo e mio padre, seppur a malincuore, lasciò New York e la ragazza con quel dolce ma pericoloso segreto da custodire.
Quel segreto ero io.”

“Mamma, posso interromperti un attimo?”
“Tanto l’hai già fatto, cosa c’è?”
“Hai una foto della nonna, volevo vedere se era bella come dici”
“Perché, secondo te non sono bella come lei?”
“Non ho detto questo, sono solo curiosa di vedere com’era!”
“Okay aspettami qui, torno subito”
Interrompo il racconto per andar a prendere una vecchia foto di mia madre che tengo gelosamente nascosta nel cassetto della mia stanza, e ritorno da mia figlia.
“Eccola, che te ne pare?”
“Ma mamma è bellissima! Non pensavo che fosse così, è sconvolgente, assomiglia a Whitney Houston!”
“Dai, non esagerare, a quei tempi Whitney non era ancora nata, non si può paragonare a lei!”
“Beh, allora…Si può paragonare a Diana Ross?”
“Hm, sì, assomiglia a Diana, anche se a quei tempi lei non era molto famosa… Ma si può fare”
“Perfetto, se avrò una figlia la chiamerò Diana!”
“In onore della Ross?”
“Sì, e poi Diana è molto amica con Michael, no?”
“Sì, moltissimo, ci manca poco che le dedica una canzone!”
“Secondo me l’ha già fatto”
“Può darsi. Ma fammi andare avanti, adesso viene il bello!”
“Sì, vai, sono tutta orecchi!”
“Bene, eravamo rimasti al segreto di mio padre, che poi ero io…”

“Nove mesi dopo il “fattaccio” qualcuno bussò al portone di casa Villa. Il mitico maggiordomo andò ad aprire, ma non vi trovò nessuno ad attenderlo… Solo una cesta con dentro un bambino dalla pelle scura vestito di bianco. Sulla culla era adagiato un biglietto che diceva:

     Questa bambina si chiama Fiordaliso, è orfana di entrambi i genitori e non ha nessuno al mondo. La prego quindi di prendersene cura e di trattarla come vostra figlia.

                                                                            Che Dio vi benedica.”

Il mitico maggiordomo non ci pensò due volte: prese il bambino, che era una bambina, in braccio e il biglietto, mostrando tutti e due al padrone di casa.
Il padrone era sconvolto dal fagottino che il suo fedele maggiordomo teneva in braccio: quella era la figlia sua e di Rose, quella ero io.
Mi guardò con tenerezza, e rivelò al mitico maggiordomo che quella era sua figlia, ma si raccomandò di non dirlo a nessuno.
Il povero maggiordomo, sconvolto anche lui dalla rivelazione del padrone, gli promise solennemente che se si fosse fatto sfuggire il segreto dalle labbra se ne sarebbe andato via da quella casa immediatamente.
Il padrone gli sorrise, compiaciuto della sua fedeltà.

Sono passati tredici anni da quel ritrovamento e la bambina in questione ne è venuta finalmente a coscienza.
Ma non sembra particolarmente stupita o spaventata o disgustata, no, la bambina è anzi felice perché finalmente ha scoperto le sue vere origini.
Origini che affondano in un locale di New York ed una lussuosa villa di Città del Messico.

“Finalmente siamo arrivati a questo stramaledetto locale, non pensavo fosse così lontano rispetto al centro della città!”
Il mitico Fernando ha ragione ad essere stanco, è da tutto il giorno che mio padre ci guida per le vie di New York alla ricerca del locale dove è nato l’amore tra lui e Rose e dove, secondo lui, sono nata anch’io!
Però dovevo ammettere che era davvero un locale molto carino.
Era piccolo ma accogliente, il pavimento era in granito rosa, i tendaggi e i sipari del palco erano di un caldo rosso scarlatto, come le rose nei vasi disseminati sui tavolini, che invece erano di ferro battuto e avevano le tovaglie di un bel rosa antico. Alle pareti c’erano manifesti, articoli di giornale, souvenir, vecchi strumenti musicali d’ottone che ricordavano l’epoca d’oro del jazz e l’antica fama del locale.
Infatti adesso non si suona solo jazz ma anche rock’n’roll, musica beat e altro che sicuramente non è jazz.
Tutto questo sinceramente a me non interessava, l’importante è che ci fosse stata la musica!

In un certo senso il mio desiderio venne esaudito in un modo molto inaspettato.
La prima sera mi ricordo che non fecero niente di interessante. Sì, il cantante era bravo, ma ero talmente stanca che non avevo nemmeno la forza di applaudire.
Fernando e mio padre furono quindi costretti a farmi dormire lì, negli alloggi del padrone, che non ci disse nulla (dopo che mio padre sborsò quasi 500 dollari per convincerlo, naturalmente!).
Al mattino mi svegliai ben riposata: il letto era molto comodo, e la stanza era a prova di rumore, quindi non sentii nessuno schiamazzo per tutta la notte.
Ma alla mattina udii qualcosa.
Un vociare improvviso e un scalpiccio incessante accompagnati da strani rumori secchi mi distolse dalla quiete mattutina e attirò la mia attenzione.
Guardai la sveglia sul comodino: erano le sette di mattina in punto.
Chi poteva mai fare tanto casino alle sette di mattina e per giunta quando gli inquilini vicini stanno ancora dormendo dopo una notte in bianco?
La mia risposta non si fece attendere.
Sentii dei passi abbastanza pesanti che stavano salendo le scale e un attimo dopo qualcuno bussa alla mia porta.
“Si può?” mi chiese una voce che non era di mio padre né di Fernando.
La mia mente cominciò a pensare le idee più assurde: scappare dalla finestra come un ladro sorpreso a frugare in casa altrui; barricarsi dentro la stanza ostruendo la porta col comò e il letto; nascondersi nell’armadio; fare la bambina indifesa e innocente per commuovere lo sconosciuto dietro la porta; farlo entrare e poi stordirlo tirandogli la sveglia…
La soluzione più efficace sarebbe stata l’ultima, ma alla fine optai per quella più semplice e meno aggressiva.
Risposi alla voce e la feci entrare.
In fondo dal tono non sembrava così cattiva.
“Avanti”
La porta si apre cigolando e finalmente vedo il proprietario della voce: un ragazzo afro americano, anzi un ragazzino, avrà avuto sì e no la mia età.
Era vestito in modo davvero molto particolare: sembrava un astronauta, i capelli ricci erano tagliati corti e mi guardava come se io fossi stata un alieno!
“Oh scusa, non pensavo ci fosse una ragazza così giovane qui dentro, perdona la mia maleducazione!”
Sembrava veramente un bravo ragazzo, ma non mi piace essere trattata come la classica fanciulla indifesa.
“Ma che maleducazione, anzi, sei stato molto gentile a bussare prima di entrare, tanta gente non lo fa! E poi quanto anni pensi che io abbia, non sono molto giovane”
“Beh, dodici anni li hai sicuramente, poi magari ne hai di più e non li dimostri!”
Anche spiritoso il ragazzo, cominciava a piacermi.
“Bravo, hai indovinato! Ho dodici anni, ma ne farò tredici il 23 aprile!”
“Ah, guarda che caso, io ne faccio tredici il 4 maggio!”
“Ah, un altro Toro come me. Vedi di non farmi arrabbiare, sennò ti carico contro!”
“Sarebbe impossibile, non ho molta paura dei Tori. I Leoni, piuttosto, non li sopporto, sono troppo permalosi”
“Hai pienamente ragione!”
Scoppiammo tutti e due a ridere. Le risate si sentivano pure dalla strada per quanto erano forti!
“Ah, ma non mi sono ancora presentata: mi chiamo Fiordaliso”
“Che nome originale! Io invece sono Sigmund, ma tu puoi chiamarmi solo Jackie, molto piacere”
“Beh, anche il tuo è un nome originale” Azzardo io.
Lui mi guarda sorpreso.
“Beh, da noi è comunissimo”
“Davvero?” faccio io, con gli occhi sgranati e un’espressione stupita dipinta sul volto.
“Sì” fa lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Poi il suo sguardo cambia, da stupito diventa curioso.
“Tu non sei di qui, vero?” Più che una domanda a me suonava come un’accusa.
“Beh, ho appena saputo che mia madre faceva la cantante qui ed era di colore, ma ho sempre vissuto in Messico con mio padre”
“Ah capisco… Infatti mi sembrava strano che non avessi niente di americano. Abbiamo quasi lo stesso colore della pelle!” Sorrise e mi fece sentire stranamente bene.
“Già, chi non si sbaglierebbe? Comunque che facciamo, scendiamo a far colazione, oppure rimaniamo qui a fissarci?”
“Per me va bene la prima, abbiamo viaggiato tutta la notte ed ho una fame terribile”
“Anche io!” Gli confessai e lui mi sorrise ancora.
Mentre scendevamo le scale, chiesi a Jackie da dove venisse per aver viaggiato di notte ed essere arrivato solo di mattina, e lui mi rispose che veniva da Gary.
“Da Gary?” Gli chiesi io. Non avevo mai sentito una città che si chiamasse così.
Lui mi disse che era una città dell’Indiana a confine con l’Illinois, era abbastanza grande e si affacciava sul lago Michigan.
Gli dissi che avevo capito dove si trovava Gary, per farlo contento, ma a dir la verità, non avevo capito un bel niente!”

“Certo che se non sai dove si trova Gary, stai proprio messa male, cara mamma”
“A quei tempi non era ancora famosa, quindi avevo tutte le buone ragioni del mondo per non saperlo!”
“Beh in effetti hai ragione, scusa. E quindi, mamma, tu hai conosciuto i Jackson Five al completo?”
“Sì. Anzi, tutta la famiglia Jackson, Michael compreso”
“Oh mamma, ti prego va avanti, non ce la faccio più ad aspettare! Quando entra in scena Michael?”
“Tra un po’ tesoro, è questione di poche parole…”

“Quando scendemmo di sotto trovai nell’angolo bar un gruppetto di ragazzini, tra i quali c’era anche Fernando, e più lontano tre uomini che chiacchieravano animatamente. Tra questi riconobbi mio padre e il direttore del locale; il terzo uomo invece non lo conoscevo, era di colore e non mi piaceva, non aveva una bella faccia.
I ragazzi invece sembravano tutti simpatici. Anche loro stavano discutendo, e intanto facevano colazione con latte e brioches.
Si somigliavano tutti, compreso Jackie, e quindi io sospettai che fossero fratelli, ed erano tutti vestiti allo stesso modo: pantaloni e giacca argentati, i capelli  corti come quelli di Jackie.
Erano tutti più piccoli di me, avranno avuto tra gli undici e i sei anni. Forse il più grande era proprio Jackie.
Appena mi vide, Fernando alzò un braccio per salutarmi e mi disse:”Ah, allora sono riusciti a svegliarti eh? Penso che dovresti usare il giovanotto come sveglia!”
“Spiritoso, quando lui ha bussato io ero già sveglia, e poi non ho bisogno di nessuno per svegliarmi”
“Beh, se lo dici tu” Fernando era presuntuoso e rompiscatole anche di mattina, incredibile!
Anche mio padre si accorse di me, mi diede il buongiorno e mi chiese di venire da lui perché doveva presentarmi una persona.
Io intuii fosse l’uomo di colore dalla brutta faccia, e mi avvicinai cauta senza scompormi.
“Fiordaliso, ti presento un mio amico, Joseph Jackson. Si esibirà stasera insieme ai suoi figli, i ragazzi con cui sta parlando Fernando”
Io annuii e mi presentai al signor Jackson.
“Molto piacere signor Jackson, sono Fiordaliso Villa”
“Joseph Jackson, signorina, ma tu puoi chiamarmi semplicemente Joe”
Poi si girò verso i suoi figli e mi disse:”Vedo che hai già conosciuto Jackie, è stato sgarbato con te, ti ha offeso?”
“No, no, signor Jackson! Anzi, è stato gentilissimo, non se la deve prendere con suo figlio”
“Ah bene…” Disse rassicurato, e la sua espressione si addolcì anche se mi faceva comunque paura!
“Che ne dici, vuoi conoscere anche gli altri miei ragazzi? Non preoccuparti, se non vuoi non fa niente”
Cercava di essere gentile con me, ma non avrebbe mai comprato la mia simpatia con dei modi così falsi. Accettai lo stesso, però, volevo conoscere veramente i fratelli di Jackie, al contrario del padre sembravano simpatici.
Sentii quindi uno schioccare di dita e Jackson ordinò ai suoi figli di disporsi in fila dal più grande al più piccolo; i figli, con le facce terrorizzate, obbedirono.
Oltre a Jackie c’erano altri quattro bambini che educatamente si presentarono.
Il primo aveva un nome stranissimo, Toriano Adaryll, soprannominato però Tito, e aveva undici anni.
Il secondo si chiamava Jermaine, anche questo mai sentito, ma almeno aveva una faccia simpatica, dieci anni.
Il terzo aveva un nome più semplice, Marlon David, sette anni.
Il quarto aveva il nome più semplice di tutti, era facile ricordarselo, almeno.
Appena lo vidi fui colta da una strana sensazione che attraversò come un’onda il mio corpo: qualcosa di elettrico c’era nell’aria, qualcosa di particolare che leggevo negli occhi del bambino più piccolo, e che lui leggeva nei miei.
Mi tese la manina e mi disse:”Piacere, io sono Michael Joseph e ho sei anni”
Mi fecero una tale tenerezza, una tale compassione, quegli occhi, che per un attimo mi dimenticai di presentarmi.
“Il piacere è tutto mio Michael, io sono Fiordaliso”
Presi la sua mano e nel stringerla, la sensazione ritornò più forte di prima.
Mentre i suoi figli si presentavano, il signor Jackson, non aveva smesso di guardare neanche per un secondo la schiena del piccolo Michael.
E questo non mi piacque per niente.

   
 
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