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Autore: AlsoSprachVelociraptor    06/05/2022    1 recensioni
Un'anima in pena che torna nel suo paese natìo, la selvaggia, misteriosa e futuristica Unova, e la trova per sempre cambiata.
Doyle, imprenditore dagli affari loschi e il cuore spezzato e pieno di rancore, è tornato a casa nel deserto dei suoi antenati, ma la tranquillità che stava cercando di ottenere viene interrotta da un ritrovamento fuori dal tempo e dalla logica.
Emmet, capometrò di Nimbasa, è da cinque anni alla ricerca disperata di suo fratello gemello Ingo, scomparso nel nulla. Ancora non sa che Ingo l’ha già trovato.
Grimsley, ex membro dei SuperQuattro di Unova, è tornato controvoglia nel paese che l’aveva fatto soffrire così tanto, ricascando un’ultima volta nella tela del ragno velenoso che l’aveva fatto scappare tanti anni prima, ma si sa, al cuore non si comanda…
*
Contiene temi delicati (morte, incesto, relazioni tossiche, violenza fisica e psicologica).
I nomi di personaggi e luoghi sono quelli della localizzazione inglese.
Potrebbe contenere vaghi spoiler per i giochi Bianco & Nero, Sole & Luna/Ultrasole & Ultraluna, e Leggende: Arceus.
Coppie: Doyle(OC)/Grimsley, Emmet/Ingo (blankshipping)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Mirton, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incest, Spoiler!, Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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Alla stazione provvisoria del Deserto il treno si fermava ogni ora, una linea diretta che portava da Nimbasa a Nacrene nel minor tempo possibile, utile ai lavoratori del cantiere per muoversi velocemente di città in città senza dover passare per la trafficata Castelia. Era una linea temporanea, mentre i lavori continuavano per permettere al futuro museo del castello di avere una stazione propria, accordo che Doyle aveva preso con il capometrò di Nimbasa- un tempo erano due, ma ora…

"Oh, ma lei è Doyle, il famoso imprenditore!" pigolò una donna sul treno, pomposa e dai capelli talmente gonfi da non riuscire ad appoggiare la testa al confortevole sedile di prima classe, seduta poco lontana dal posto di lusso di Doyle.

Lui si voltò a guardarla, disinteressato. Si rigirò la fede tra le dita, i polpastrelli a tastare il metallo ora caldo, qualche granello di sabbia rimasto attaccato alla sua superficie liscia. Annuì.

"Oh, ho sentito parlare così tanto di lei!" Continuò la donna.

Appeso al suo fianco, un foglio fotocopiato, un viso familiare nella foto.

SCOMPARSO CAPOMETRÒ INGO DI NIMBASA. SE AVVISTATO, CONTATTATEMI. CAPOMETRÒ EMMET.

Doyle rimase a fissare quegli occhi nella foto, ignorando la ricca signora, che continuava a blaterare.

La donna scese alla fermata del casinò di Nimbasa, ma non era lì che Doyle si stava dirigendo. Passò la fermata davanti all'hotel a cinque stelle in cui pernottava mentre la sua casa veniva ristrutturata, saltò la fermata per il luna park.

Capolinea.

La stazione di Nimbasa.

Doyle si alzò in piedi, e con l'uncino che sostituiva la mano destra arpionò il volantino di scomparsa. 

Lo strappò, appallottolò, e buttò nel cestino mentre scendeva dal vagone di prima classe.

*

Toc toc.

"Chi è?" rispose brusco il capometrò, affrettandosi ad afferrare la bottiglia di whiskey galariano mezza vuota appoggiata sulla sua scrivania, e a nasconderla sotto essa. Un cerchio bagnato di whiskey era rimasto dove prima c'era la bottiglia. Non era tipo da usare poggiabicchieri.

Si sistemò i capelli sulla testa spingendoseli in avanti, verso la fronte- da giovane era solito tenere la frangetta spettinata, ma ormai la linea dei capelli si era spostata così indietro… 

Afferrò il cappello bianco e se lo calò in testa, a coprire la calvizie e gli occhi stanchi e rossi.

"Signor capometrò…" mugolò Molly, la nuova segretaria. Non doveva avere più di vent'anni anni, una ragazzina. Meno della metà degli anni suoi e del suo gemello, di… di…

"Capometrò Emmet. Specifica, siamo due capometrò!" la corresse lui. Molly si lasciò sfuggire una smorfia. 

Lei non l'aveva mai visto, Ingo, se non nei volantini. Era arrivata a lavorare da poco alla stazione, quando la segretaria di prima aveva dato le dimissioni.

Non ce la faceva più. Non sopportava più Emmet, e lui lo sapeva benissimo.

I capometrò erano pur sempre due, e presto sarebbero tornati due. Ingo sarebbe presto tornato, Emmet non ne aveva nessun dubbio.

Certo, erano già passati più di cinque anni da quando era sparito, ma non voleva dire nulla.

Chi lo sapeva, che il giorno in cui avrebbe visto quel fratello non sarebbe stato proprio oggi?

“C-capometrò Emmet,” riprese Molly, pallida come un cencio in viso. “ha un ospite. Qualcuno vuole vederla. È ancora l’imprenditore delle Toxicofera Industries…”

Emmet sbuffò a voce alta, le mani guantate strette a pugno. “Con Doyle devo vedermi questa domenica. Non oggi! Digli di tornare domenica.”

Doyle, quel ragazzino che viveva nel deserto e spacciava nella metropolitana, quando lui e Ingo erano ancora solo assistenti al traffico ferroviario, trent’anni non ancora compiuti. Emmet ancora se lo ricordava così, capelli rossi e bianchi a spazzola, alto e nodoso come un alberello di baccaliegia appena piantato.

Emmet voleva mandarlo via, con la forza se era necessario- quel ragazzino sarebbe stato così facile da spezzare in due come un rametto!- ma Ingo non aveva voluto. Il suo Ingo, così gentile e pronto a dare una possibilità a tutti.

Il suo Ingo, chissà dov’era ora…

“No, signor Emmet.” continuò Molly, che stringeva la porta tra le dita tremanti. “La vuole vedere ora. È urgente.”

Urgente, per il capostazione della più grande linea ferroviaria dell’intero continente di Unova, non voleva dire nulla. Nulla era urgente, da quando Ingo era scomparso. Tutto era secondario, indistinguibile.

Ma la stazione doveva continuare a funzionare, no? La vita di tutti gli altri andava avanti, giusto?

Metà dell’anima di Emmet, ora, mancava. Ma non importava.

Seguire le regole. Sorridere sempre! La sicurezza prima di tutto. Tutto deve andare liscio come l’olio! Puntare sempre alla vittoria!

Si strinse l’anulare tra indice e pollice dell’altra mano, nervoso, ma continuando a sorridere. “Oh. Va bene! Fallo accomodare. Non ci vediamo da tanti anni! Ma che faccia in fretta.”

Sapeva che Doyle aveva avuto un brutto incidente, e da allora non l’aveva più visto nella stazione. Ingo voleva sapere come stesse, ma Emmet non aveva dato segno di importarsene troppo, né a lui, né alle parole del gemello.

Un nodo allo stomaco costrinse Emmet a smettere di sorridere. Si piegò su sé stesso dal dolore e dal rimorso, com’era ormai abituato. Se solo avesse ascoltato più il suo Ingo, se solo avesse passato più tempo con lui, se solo quel giorno non l’avesse lasciato andare… 

Il ricordo di Ingo che si districava dall’abbraccio in cui si erano addormentati la notte prima, che lascia il posto tra le braccia di Emmet con un mezzo sorriso. Ho il primo turno oggi, tu rimani a letto, ci vediamo dopo aveva sussurrato, e Emmet aveva sorriso, chiuso gli occhi, e lasciato andare per sempre. 

Non ricordava se gli aveva detto che lo amava. Non ricordava le ultime parole che aveva detto a Ingo.

La mano di Emmet cercò sotto la scrivania, quella bottiglia mezza bevuta di whiskey, e premette le labbra al collo freddo della bottiglia, il whiskey che scendeva a fiotti giù per la sua gola, bruciando e alleviando il dolore nel suo petto.

La porta si aprì, un gigante dai capelli rossi che faceva capolino dalla porta del suo ufficio. Emmet si sbrigò ad abbassare la bottiglia di whiskey e a nasconderla sotto la scrivania, lo sguardo di Molly preoccupato, spaventato, terrorizzato.

Tutti sapevano che Emmet aveva problemi con l’alcol, ultimamente, alla stazione. Molly era solo arrivata da poco. Ci avrebbe fatto il callo, come l’avevano fatto tutti. Aveva un problema di dipendenze, lo sapeva, ma non era l'alcol quello di cui aveva follemente bisogno- quello era solo un diversivo momentaneo, aspettando che il suo gemello tornasse a casa.

“Doyle! Piacere di rivederti!” disse Emmet con un sorrisone finto, alzandosi in piedi, la testa più leggera, le suole delle scarpe più pesanti. Allungò la mano sinistra per stringere la mano all’uomo, che allungò l’unica mano che aveva, quella esatta per stringere la mano di Emmet.

Non si era accorto che il braccio sinistro di Doyle si interrompeva poco sotto il gomito. Aveva allungato la mano sinistra solo perchè era mancino- esattamente il contrario di Ingo.

Il viso di Doyle era rimasto scavato e magro, come anni fa, ma solo metà del suo viso era rimasta intatta. Gli occhiali gialli coprivano gli occhi, quasi a specchio, e vedeva solo l’iride dell’occhio sinistro, e nulla sotto la lente destra.

Il solito chiodo di pelle chiaro, pieno di spille e memorabilia di tempi andati lì ad Unova, il solito look da punketto da strapazzo, ma ora Doyle di anni ne doveva avere quasi quaranta, e il tempo lo aveva cambiato profondamente.

Anche Emmet era cambiato? E se fosse cambiato troppo, e se Ingo non fosse più riuscito a riconoscerlo, quando fosse tornato da lui?

"Accomodati."

Doyle non aveva ancora parlato. Non era un tizio di molte parole, mai stato. Forse per questo loro due non erano mai andati troppo d'accordo- il non essere logorroico era un tratto che contraddistingueva anche Emmet.

Ingo, lui sì che amava parlare… Ingo, così gentile, educato e disponibile, Ingo ora perso da qualche parte- da solo? Senza l'altra metà della sua anima, chissà dove-

"Sono qui per parlarti. Vengo dal Castello Sepolto."

La voce di Doyle, ruvida come carta vetrata, riscosse Emmet da quei pensieri nefasti.

Sorrise, e si sedette alla scrivania, osservando Doyle estrarre una scatola dorata dal chiodo e da essa un sigaro. Se lo mise tra i denti, sostituiti o coperti con una appuntita dentiera metallica, e con un accendino a forma di Reshiram- pacchiano e davvero di brutto gusto- se lo accese. Emmet rimase ad osservare il fumo uscire dalle labbra dell'uomo dai capelli rossi, pensando, ancora una volta, al suo gemello.

Ingo fumava, di tanto in tanto. Emmet era solito non sopportare l'odore del fumo, il sapore di nicotina sulle labbra di Ingo, ma da quando mancava da casa, non faceva altro che ricercare quel profumo. L'ufficio di Ingo ancora puzzava di fumo. Non aveva il coraggio di arieggiare la camera, non aveva il coraggio di perdere anche quell'ultimo appiglio all'uomo che amava più della sua stessa vita.

Così non disse nulla, e lasciò Doyle fumare.

"La costruzione della linea sta procedendo bene, no?" tentò Emmet, che non era bravo a parlare, e non aveva nessun interesse nel farlo. Ma doveva. Non aveva altra scelta.

Doyle lo fissava. Non gli interessava parlare.

Stringendo tra i denti il sigaro, si mise la mano in tasca, il gancio attaccato al moncherino appoggiato sulla scrivania con un tonfo metallico. Stava cercando qualcosa, ma il suo sguardo rimaneva fissato su Emmet, la bocca aperta, i denti appuntiti da cui usciva continuamente fumo, non dissimile a un drago.

Emmet riusciva a vederlo benissimo, Reshiram. Ora ce l’aveva davanti, in carne ed ossa e nel suo ufficio, quella semi-divinità rabbiosa fatta uomo, fiamme e violenza pronto a mangiarlo vivo, e lasciare di lui solo cenere.

Doyle estrasse la mano dalla tasca dei pantaloni di pelle, sbattendo il pugno sulla scrivania.

Emmet saltò sulla sua sedia, i nervi a fior di pelle. Non gli piaceva Doyle, non gli era mai piaciuto, ma… 

Doyle aprì la mano, e un anello cadde dal suo palmo guantato dal guanto da motociclista. Era nerastro, scurito dal tempo, rovinato dai secoli.

Il capometrò sentì la nuca andargli a fuoco, e poi la sensazione di bruciore si allargò a tutta la spina dorsale, le dita gelide, la fronte grondante di sudore.

No.

No. No. No. Non era assolutamente possibile. No. Non era vero.

Occhi sgranati, viso cereo, distolse lo sguardo dalla fede. Doyle la stava guardando, finto disinteresse nel suo sguardo da drago.

A Ingo. Da Emmet. La mia altra metà. È uguale al tuo, no?” lesse l’incisione all’interno dell’anello. Era diventato un ricco imprenditore per un motivo, e un motivo solo, ed era la capacità di prendere l’animo delle persone e schiacciarlo a suo piacimento.

Emmet era troppo debole per resistere, e una mano tremante si sfilò il guanto, e sull’anulare c’era la stessa identica fede, argentata, lucida e nuova di pacca. Emmet rileggeva l’incisione all’interno ogni notte, prima di andare a dormire. A Emmet. Da Ingo. La mia altra metà.

“Perchè- come-?!” riuscì a biascicare Emmet, saltando in piedi, quasi cadendo sulla scrivania. Era sicuro di aver colpito la bottiglia di whisky con un piede, e ora si stava rovesciando mollemente sul pavimento, ma non importava.

Ingo. Ingo. Doyle aveva l’anello di Ingo. Ingo. Ingo!

Doyle non si alzò dalla sua sedia, e richiuse la mano attorno all’anello di Ingo. “So dov’è tuo fratello. Sono qui per questo.”

Emmet era disposto a pagare qualsiasi cifra per rivedere il suo amato gemello, disposto a fare di tutto. “Cosa vuoi-?”
“Nulla.”

Il capometrò riuscì solo a fare il giro della scrivania, arrivare faccia a faccia con l’imprenditore. Sul suo viso c’era della tensione, e l’uncino al suo braccio tintinnava ritmicamente sulla scrivania. Emmet però non lo notò, perchè non gli interessava. 

A lui interessava solo di sapere di Ingo. Ingo. Il suo Ingo. Perchè quel bastardo non gli stava dicendo dov’era suo fratello!?

Afferrò Doyle per il bavero del chiodo, lo tirò verso di sé, il viso contorto in una smorfia disperata, quasi inumana. “E allora cosa vuoi! Perchè sei qui! Cos’è successo a Ingo!”

“È morto.”

Emmet aprì la bocca. Poi la richiuse. Sbattè le palpebre un paio di volte, il cervello che si rifiutava di capire cosa fosse uscito dalle labbra di Doyle. 

Era tutto fumo, era solo fumo, le sue parole erano fatte di fumo, acre e volatili.

“Posso portarti dal suo cadavere- o almeno, quello che ne è rimasto.” continuò Doyle, stranito dalla reazione di Emmet.

L’uomo vestito di bianco rimase fermo immobile, una statua di marmo e anche dello stesso colore. Poi i suoi occhi grigi si ribaltarono dietro le palpebre, e il suo corpo divenne di gelatina, e cadde sul pavimento di mattonelle.

Oh.

Doyle scosse l’uomo svenuto con uno stivale, e gli sembrò di spostare un sacco di spazzatura.

Si alzò in piedi, aprì la porta dell'ufficio e oltre ad essa la giovane segretaria stava leggendo un libro, seduta su una poltroncina di plastica dall'aspetto molto scomodo.

“Melody?”
“Ehm… no, mi chiamo Molly.”

Doyle annuì. “Molly. Dovresti chiamare un’ambulanza per il tuo capo.”

 
   
 
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