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Autore: Lady Warleggan    19/05/2022    1 recensioni
Trama:
(AU) Cornovaglia, giorni nostri.
Ross Poldark è un liceale che sta per cominciare il suo ultimo anno di liceo. Ma, dopo un’esperienza estiva in Italia, torna a casa in Cornovaglia e fa un’amara scoperta: suo cugino Francis, nonché il suo migliore amico, ha iniziato ad uscire assieme ad Elizabeth, la ragazza di cui è stato innamorato per tutto l’anno precedente.
Questa faccenda spezza un po’ gli equilibri del suo gruppo, composto da lui, Francis, e da George Warleggan e Dwight Enys, altri due compagni di scuola. Ma l’anno appena cominciato sembra riservare delle sorprese piuttosto piacevoli: la sua nuova e dolce compagna di banco Demelza Carne, la nuova cotta di George per una ragazza che fa parte come lui dell’orchestra scolastica, e l’incontro tra il tenero Dwight Enys e la sfavillante Caroline.
La storia vuole ripercorrere gli anni dell'adolescenza dei protagonisti di Poldark fino all’età adulta.
N.B.: Il titolo della storia prende il nome da un’omonima serie tv di successo, ma il mio intento non è quello di ripercorrere la storia di quella serie tv, bensì quello di collocare i protagonisti di Poldark in un contesto un po’ più contemporaneo.
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demelza Carne, Nuovo personaggio, Ross Poldark
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo due
 
"Sono a casa!" 
Joshua Poldark si ridestò di scatto dalla poltrona di fianco al camino, che in quel periodo dell’anno, era ancora troppo presto per essere acceso. Guardò l'orologio appeso alle pareti di casa e si accorse che erano le cinque del pomeriggio e che aveva dormito un'ora buona, ma non importava: quel giorno aveva deciso di prendersi una pausa, visto che si era svegliato con una terribile emicrania che non se n'era venuta via dopo due aspirine, così aveva saltato il lavoro e si era goduto del meritato riposo in casa propria. Nell'ultimo periodo era stato così stressato che gli era venuta anche una brutta gastrite, che aveva cercato di curare con un'alimentazione corretta e con le giuste medicine: tuttavia servivano soltanto a dargli un po' di sollievo, perché non riusciva a dare un freno ai pensieri che gli affollavano la testa.
Una manciata di secondi dopo, suo figlio Ross sbucò dall'ingresso del salotto. Era un giovanotto alto, riccioluto e bruno: c'era chi diceva che fosse la sua copia sputata da ragazzo, e Joshua voleva crederci, anche se aveva sempre saputo che quella somiglianza tra tutti e due potesse attenersi soltanto ad un legame di tipo fisico. 
Ross era tutto quello per cui un genitore sarebbe dovuto essere fiero: era intelligente, caparbio, si sapeva far valere, aveva un senso della giustizia innato, e anche se era spesso un po' attaccabrighe e fumantino, era consapevole che fossero lati del carattere che col tempo e l'esperienza necessaria avrebbe affinato. 
Joshua voleva che Ross avesse tutto quello che lui non aveva avuto da ragazzo: aveva fatto del proprio meglio per dargli una casa confortevole, un'istruzione rispettabile, e quando sua moglie Grace era in vita, aveva cercato di regalargli una famiglia che fosse più amorevole possibile. Tuttavia, lui aveva avuto un padre piuttosto severo e più accondiscendente verso suo fratello maggiore Charles, quindi Grace era sempre stata più brava di lui in quelle cose. Ross aveva preso gli occhi di sua madre e in fondo, anche la sua tenerezza. 
Da quando era morta, un paio di anni prima, Joshua si era chiuso nel proprio dolore e Ross si era caricato delle responsabilità della casa già a sedici anni; mentre lui si era buttato invece a capofitto nell'azienda agricola che aveva avviato all'età di venticinque anni.
Joshua non voleva che suo figlio si privasse delle opportunità più succulente, ed era per questo che lo aveva spinto a fare quell'esperienza all'estero durante l'estate per imparare una lingua diversa. In realtà, Ross era tornato a casa che sapeva a malapena formulare un discorso in italiano, ma con quel suo tipico savoir-faire, suo padre aveva capito all’istante che doveva essersela comunque cavata e che il suo viaggio era stato certamente utile ed istruttivo. 
Era anche certo che da adulto, dopo aver studiato all'università, Ross si sarebbe sicuramente sistemato nei dintorni: non avrebbe mai lasciato la Cornovaglia, attaccato com'era alle sue radici.
Ma se c'era una cosa che voleva assolutamente negargli era l'eredità di quella sua azienda che, negli ultimi mesi, non rendeva più come una volta. Ross adorava la sua impresa: era cresciuto in mezzo alla natura e lui non aveva fatto obiezioni quando aveva insistito per lavorare di tanto in tanto al suo fianco, e aveva capito immediatamente che quell'attività scorreva nelle vene di suo figlio sin dalla nascita.
"Ehi papà" lo salutò, e lui fece appena un sorriso per contraccambiare. "Già di ritorno?"
Joshua si fece leva sugli avambracci della poltrona e si mise più dritto in poltrona. Si guardò attorno alla ricerca di Jud e Prudie, i due domestici, ma come immaginava non li trovò. Chissà dov'erano andati a cacciarsi...
"A dire il vero non sono andato a lavoro, quest'oggi" spiegò al figlio. "Non mi sentivo molto bene e ho preferito restare a casa e riposare."
Ross aveva raggiunto la poltrona di fronte a lui e si era seduto gettando lo zaino della scuola ai suoi piedi.
"Ti fa male ancora lo stomaco?" domandò preoccupato. "Forse dovremmo chiamare il dottore e chiedergli di prescriverti qualche nuova medicina..."
"No, tranquillo. Avevo un po' di mal di testa, ma con del riposo è passato. Avevo solo bisogno di passare una giornata a casa" cercò di rassicurarlo Joshua. "Allora, raccontami. Com'è stato il tuo primo ultimo giorno di scuola?"
Ross iniziò a raccontare la propria giornata: gli spiegò dell'arrivo della professoressa Tegue, del cambio di posti, di Demelza, di George che si arrabbiava con Keren Smith e poi dell'inaspettata cotta dell'amico per una ragazza dell'orchestra. Joshua ascoltò con un sorriso in volto, ma si accorse anche di come suo figlio evitasse accuratamente di parlare di Francis.
Un po', doveva ammettere, Joshua si sentiva in colpa. Aveva insistito lui che Ross facesse quel viaggio in Italia che aveva poi portato i cugini ad allontanarsi, ma doveva anche ammettere che, per quanto gli dispiacesse che i due ragazzi si fossero allontanati, Francis non si era affatto comportato bene. Era suo nipote, e figlio di suo fratello maggiore Charles, ma quel ragazzo aveva ben poco in comune con l'irruenza del padre.
Francis non sognava certo di ereditare l'attività del padre. I Poldark erano sempre stati abbastanza famosi in zona per la raffinazione dei materiali minerari, fatta eccezione per Joshua che aveva deciso di intraprendere una carriera differente e incanalare i propri sforzi in un'attività più salutare all'aria aperta. Una volta Francis gli aveva confidato di voler iscriversi alla facoltà di scrittura creativa al Cornwall College: Joshua aveva provato ad intercedere a favore del nipote e in risposta dal fratello aveva ricevuto una sonora risata. 
Sperava soltanto che il nipote avesse abbastanza fegato, un giorno, per imporsi al volere degli altri.
"E Francis?" chiese a Ross. "Sei riuscito a parlarci?"
Suo figlio sospirò. "No. Ci siamo ignorati tutto il giorno."
Ed era vero. A parte quel breve momento all'ingresso dai cancelli, Ross aveva visto Francis soltanto in classe. In mensa si erano persi di vista e anche all'uscita dalle classi, così non si era nemmeno sforzato di avere un confronto con lui.
"Capisco."
Joshua non replicò altro. Aveva lasciato parlare Ross, ma quella non sarebbe stata la sede e il momento giusto per parlare dell'improvvisa "rivalità" tra i due cugini. Si era preparato quel discorso tutto il giorno, ma ancora gli sudavano le mani e non sapeva come affrontarlo.
"Ross, devo parlarti" cominciò. "È importante."
"Che succede?"
Joshua ingoiò il groppo in gola e si prese qualche istante di pausa prima di confessare.
"L'attività non sta andando bene, per niente" tirò fuori velocemente. "Purtroppo le vendite del nostro raccolto non hanno reso come gli anni precedenti e ora mi vedo costretto a prendere delle misure necessarie."
Ross reagì esattamente come si aspettava: non si fece prendere dallo sconforto e lo invitò ad andare avanti.
"Una delle cose più ovvie da fare, sarebbe quella di licenziare Jud e Prudie, ma non me la sento" ammise. "In casa, pur collaborando a modo loro, sono ormai della famiglia. E hanno accettato di restare anche alla metà dello stipendio precedente, avendo a disposizione una camera tutta loro qui a Nampara."
Jud e Prudie erano i due domestici di casa, anche se definirli tali sarebbe stato un parolone. Erano entrambi sulla cinquantina e sin da quando Ross aveva ricordi di loro, era certo che non avessero mai davvero faticato in tutta la vita. Sicuramente ai loro occhi cercavano di sembrare il più affaccendati possibili, ma quei due, che erano una coppia, sfruttavano ogni occasione disponibile per oziare più che potevano. Suo padre li considerava amici e visto che lavoravano poco era giusto che ora, il loro stipendio, si adeguasse alle nuove finanze della famiglia.
Ross annuì comprensivo. "Potrei chiedere al signor Pascoe di riprendermi a lavorare part-time."
Joshua sorrise. Sapeva che suo figlio non sarebbe riuscito a restarsene con le mani in mano. L'anno scorso aveva cominciato a lavorare presso lo studio di un commercialista locale, il signor Pascoe, occupandosi di registrare le scartoffie al computer o di tenere in ordine gli appuntamenti con i clienti. Tuttavia, era ovvio che la sua paga non avrebbe di certo contribuito di molto a salvare la situazione.
Perciò scosse il capo.
"No. Se vorrai lavorare per il signor Pascoe, voglio che lo faccia per conto tuo. Non mi interessano i soldi che guadagnerai."
Ross annuì ancora. "Allora per l'università tenterò di vincere una borsa di studio. Mi impegnerò di più. Sono sicuro che potrei riuscire ad ottenerne una con il calcio. Che ne pensi?"
Joshua lo invitò a prendere un respiro. "Ross, figliolo, ti prego di calmarti. Ho avuto un'altra idea. Come potrai vedere... Nampara è diventata un po' troppo grande per noi due."
Nampara era stata la casa di Ross sin da quando era bambino. In realtà, era proprio nato in quella dimora: Grace aveva insistito per un parto in casa e il figlio era venuto fuori dopo un infinito travaglio notturno. Era stata la notte più lunga di tutta la vita di Joshua.
Aveva ereditato quella proprietà dal padre, mentre a Charles era spettato il pezzo di terra più grande, quello a Trenwith, eppure non avrebbe fatto a cambio con nessun'altra casa al mondo. 
Si trattava di un cottage di mattoni scuri di media grandezza, con l'edera rampicante che vi cresceva attorno, e che donava alla casa un non so che di selvaggio. Senza contare che, durante la notte, si poteva ascoltare il suono del mare in lontananza. Aveva lasciato scegliere a Grace l'arredamento e la sua amata moglie lo aveva adeguato allo stile della casa: per questo, da anni, mantenevano un mobilio che oscillava tra il rustico e il moderno senza cozzare con tutto il resto.
"Non intenderai mica vendere la casa!" esclamò Ross, punto sul vivo.
Joshua si affrettò a scuotere vigorosamente il capo.
"Ovviamente no! Dico solo che... ci sono alcune stanze vuote. Non abbiamo spesso molti ospiti e quindi... pensavo che potremmo affittarle."
Ross si bloccò, come se quella rivelazione lo avesse lasciato di sasso. Nampara aveva ben quattro camere da letto: una era di Ross, l'altra era di Joshua e le altre due erano destinate agli ospiti. In realtà, molti anni prima, Joshua e Grace le avevano fatte costruire perché speravano di avere una famiglia numerosa. 
Purtroppo, però, quel sogno non si era mai avverato.
"Abbiamo anche il mio studio. La mia camera da letto è molto grande: se spostassi la scrivania e i miei documenti lì, potremmo usare quello spazio come un'altra camera da affittare. C'è poi uno spazio in cucina dove i coinquilini potrebbero farsi da sé i pasti senza darci fastidio. Che ne pensi? So che l'idea di condividere la casa non ti fa impazzire, ma mi sembra una buona idea per arrangiare."
Ross continuò a restare zitto.
"Ma se a te non andasse bene, non lo farò."
Il ragazzo sembrò riscuotersi dal torpore e si decise a rispondergli.
"No, va bene. In fondo potrebbe trattarsi di una soluzione temporanea, giusto?"
"Esatto" replicò subito Joshua. "Al massimo un annetto, dopodiché credo che potremmo anche smettere di affittare le camere se le cose ruotassero per il verso giusto." 
Ross annuì, e da quel momento, si occupò personalmente di aiutare il padre in alcuni lavoretti per sistemare dei difettucci tecnici di Nampara. Sgomberarono il vecchio ufficio e comprarono un nuovo letto, poi riverniciarono e piazzarono dei mobili che in realtà erano inutilizzati e in casa stavano facendo soltanto polvere. In questo modo, potevano mettere in affitto ancora un’altra stanza.
Nella settimana che seguì, si occuparono anche di scattare diverse foto della proprietà, dei giardini e delle stanze che avrebbero ovviamente messo in affitto, a cui Prudie, la domestica, aveva voluto aggiungere della biancheria nuova per fare bella impressione.
Dalle foto sul sito di affittacamere, ecco come Nampara doveva apparire: come un antico e adorabile cottage di mattoni scuri in una zona un po’ periferica di Truro, da cui però si poteva raggiungere facilmente il centro in macchina o con una linea di autobus, la cui fermata era proprio a pochi passi dall’abitazione. Joshua insistette per aggiungere che da quel punto della casa, il mare si trovava a pochi passi e che, sia di giorno che di notte, ci si poteva lasciar cullare dal suono delle onde.
Un paio di giorni dopo, all’insaputa di Ross, Joshua prese contatti con una signora di nome Annie Berry e la invitò, su sua richiesta, a visitare il cottage. Non aveva detto niente a Ross perché, impegnato già con la scuola e con gli allenamenti di calcio, non voleva caricarlo di qualche aspettativa che sarebbe andata vana.
Annie Berry arrivò puntuale davanti al vialetto di Nampara, all’interno di una jeep blu, come se conoscesse da sempre la strada. Era una donna della sua stessa età, sulla cinquantina, ma si portava benissimo i suoi anni: anzi, avrebbe giurato che ne dimostrasse anche qualcuno in meno.
Aveva un abbigliamento che avrebbe definito nella norma – un jeans, una giacca di jeans scura e una borsa grigia – se non fosse stato per un fermacapelli piuttosto bizzarro, a forma di cigno, che le teneva ordinati i ciuffi dei suoi capelli castani ad un lato della testa: probabilmente, fu la prima cosa che saltò all’occhio di Joshua, perché Annie si accorse che il suo sguardo era immediatamente finito lì.
“Le piace? Lo so, è un po’ bizzarro come accessorio per capelli per una donna della mia età. Ma sa, uno dei miei figli, me lo ha fatto con le sue mani alla festa della mamma e qualche volta non riesco ad uscire senza, altrimenti si offenderebbe!” spiegò velocemente. Aveva una voce molto melodiosa, ma anche pratica, come se non si perdesse in convenevoli.
“La capisco. Ho un figlio anche io e so che bisogna stare attenti a tutto con loro, soprattutto quando sono adolescenti” disse Joshua. “Prego, entri pure. Le faccio strada dentro, e le mostro le stanze.”
Come già gli aveva accennato al telefono, Annie stava in realtà cercando una casa in cui stabilirsi con i propri figli, - tre per la precisione, due maschi e una femmina – ma il centro di Truro sparava spesso prezzi astronomici anche per un appartamentino 3x4 e il proprietario dell’attuale casa in cui viveva aveva deciso di vendere l’immobile ad un’impresa straniera, che, a sua volta, voleva sfruttare lo spazio in cui si trovava il suo condominio per costruirvi un albergo.
Joshua non ebbe cuore di dirle che in realtà quella soluzione delle camere per lui sarebbe stata temporanea, soprattutto dopo aver visitato l’intera casa e aver notato, con suo sommo piacere, che Annie fosse rimasta sinceramente colpita dalla condizione delle stanze. Ognuna di loro aveva una bella disposizione, una di esse aveva anche un bagno privato; anche se Joshua spiegò che non c’erano problemi a condividere quello principale.
“Non ho grandi problemi di soldi, non sono in bancarotta, insomma” ammise, con una nonchalance che stupì lo stesso Joshua. “Ma ho bisogno che i miei figli abbiano una sistemazione confortevole. In realtà, non sono proprio i miei figli, ma io li considero tali. Sono la loro tutrice legale, al momento.”
Joshua rimase estremamente sorpreso. Dopo averle fatto fare il giro della seconda stanza che avrebbe potuto lasciare ai figli maschi di Annie, la invitò a sedersi nel salotto di Nampara. Prudie preparò un paio di tazze di tè e poi servì un vassoio con alcuni cookies che certamente non erano stati preparati dalle sue mani tozze, ma provenivano direttamente da una confezione del supermercato.
Annie così raccontò tutta la sua storia a Joshua Poldark. Si erano piaciuti sin dal primo momento: le era parso un uomo buono e gentile, incapace di approfittarsi di lei o di altri clienti, lo capiva anche dal fatto che le condizioni della sua casa fossero esattamente come le aveva descritte sul sito di affitta-camere. Era un cottage antico e l’arredamento forse necessitava di una svecchiata, ma sembrava abbastanza grande e confortevole, e l’ideale per sé e per i suoi ragazzi.
Raccontò al proprietario di Nampara una piccola, ma fondamentale parte della sua vita, forse la più importante di tutte: era un’avvocatessa di successo che un paio di anni prima aveva ricevuto una promozione e si era trasferita per iniziare a lavorare in uno studio legale di Londra. Aveva trovato un appartamento in centro, proprio a pochi passi dal Big Ben, e il caso aveva voluto che diventasse la salvezza di tre ragazzi: una ragazza di sedici anni e due maschi di undici e nove anni. Spesso, di sera, sentiva la ragazza urlare contro un uomo, uno sicuramente più grande di lei, ma Annie non arrivava mai a capire cosa si dicessero per quanto le grida fossero incomprensibili.
Un giorno l’aveva incontrata finalmente sul pianerottolo di casa propria: era una ragazzina alta, magrissima – come se non mangiasse da giorni – e rabbiosa, con i capelli rossi sparati dappertutto e con gli abiti più sgualciti e rovinati che avesse mai visto, come se qualcuno non si prendesse cura di lei da molto tempo.
Ci era voluto del tempo per conquistarsi la sua fiducia, quella ragazza sembrava avercela con tutto il mondo e francamente, non la biasimava. Annie, per il suo fiuto di avvocato, aveva capito immediatamente cosa succedesse dietro le mura di quella casa e cosa i suoi vicini avessero sempre finto di non vedere e sentire.
Il padre di quei tre ragazzi era violento e tornava spesso ubriaco e scaricava la propria vita pietosa sui figli: Demelza, così si chiamava la ragazza, era la maggiore. Soltanto dopo aver compreso di potersi fidare di Annie, mesi dopo, le confessò che era rimasta orfana di madre da piccola e che già molti assistenti sociali erano passati a casa sua e che nessuno aveva mai fatto abbastanza per loro. Che spesso, quando sbraitava contro suo padre, era per spostare l’attenzione su di sé ed impedire che si accanisse sui suoi fratelli più piccoli, Sam e Drake. Così, molto spesso, la maggior parte degli schiaffi e delle botte le prendeva lei.
Quando Demelza glielo confidò, aveva un’occhiaia violacea che non lasciava molto spazio all’immaginazione e che aveva tentato, piuttosto goffamente, di nascondere con tonnellate di correttore: a quel punto, Annie si era immediatamente attivata e, in un momento di assenza di Tom Carne, il padre dei ragazzi, aveva spostato il necessario e i tre fratelli in casa propria.
La notte stessa era venuto giù il finimondo: Tom Carne aveva iniziato ad inveire contro la porta di casa sua, accusandola di aver rapito i suoi figli; e Demelza, Drake e Sam avevano cominciato a tremare di paura, ma per quanto Annie fosse impaurita da quella voce grossa e violenta dall’altra parte, non si azzardò mai ad aprire la porta, ma si mobilitò senza pensarci due volte a far venire degli agenti sul posto. Fu quella notte ad unire per sempre Annie ai tre fratelli Carne: la donna capì che non sarebbe mai più riuscita a separarsi da loro.
Tom Carne invece, ebbe la presunzione di credere che se la sarebbe cavata come al solito, che avrebbe passato la notte al fresco e tutto sarebbe tornato come prima, ma in realtà non poteva sapere di essersi messo contro la persona sbagliata.
I suoi ragazzi furono spediti in orfanotrofio, ma la loro permanenza lì dentro durò poche settimane: grazie alle sue conoscenze, Annie riuscì ad ottenerne la custodia affidataria e si occupò personalmente del loro processo. Tom Carne non rivide mai più i suoi figli e fu spedito in carcere, e quel giorno, in tribunale, lei, Demelza e i suoi fratelli scoppiarono a piangere tutti insieme.  
Un paio di mesi dopo, Annie decise di accettare un lavoro più lontano in un altro studio legale in Cornovaglia, a Truro: in questo modo sperava che, lasciandosi alle spalle Londra e Tom Carne, potesse regalare una nuova esistenza ai suoi ragazzi. Con l’aiuto di medici professionisti, di amore e di cura, riuscì nel suo intento: Demelza si era ormai integrata abbastanza bene alla Truro High School; mentre Drake e Sam avevano ancora gli incubi di notte, ma lentamente, sembrava che gli episodi stessero diminuendo.
Certamente, una vita intera passata a subire violenze e soprusi da un uomo che invece avrebbe dovuto prendersi cura di loro, non poteva essere cancellata con un colpo di spugna. Annie però stava facendo del suo meglio, visto che aveva amato quei ragazzi sin dal primo giorno come se fossero propri.
Al termine di quel racconto così assurdo, Joshua Poldark capì che avrebbero potuto presentarsi alla sua porta tutte le persone più perbene della Cornovaglia, ma lui non sarebbe riuscito a trovare nessuno che ne avesse più bisogno di Annie Berry e dei suoi ragazzi. Per questo le annunciò che, una volta parlato anche con suo figlio Ross, l’accordo sarebbe divenuto una pura formalità e che avrebbero potuto presto trasferirsi a Nampara.
* * *
Nella settimana in cui Ross e suo padre si erano preoccupati di apportare piccole migliorie alla casa, il suo nuovo gruppo si era andato rafforzando. Lui, George, Dwight, Demelza ed Isla ormai sedevano sempre allo stesso tavolo in mensa e avevano creato anche una chat di gruppo in cui non mancavano di chiacchierare sulle ultime novità a scuola, ma anche di inviarsi semplicemente stickers e meme divertenti.
Anche la sua amicizia con Demelza era già diventata più stretta, e passare le giornate accanto a lei era davvero piacevole; tant’è vero che aveva persino voluto condividere una loro fotografia su Instagram, a cui George aveva lasciato un commento talmente tanto divertente che aveva però scatenato l’ira della sua nuova compagna di banco, Keren Smith, e la sua ennesima scenata isterica:

- Mi fareste un po’ di spazio, per piacere? Sono sicuro che in tre riusciamo ad entrare in quel banco.

In maniera un po’ egoista, Ross aveva anche sperato che Elizabeth vedesse quello scatto e si ingelosisse, ma poi si era sentito uno schifezza nei riguardi di Demelza e aveva cercato di dare immediatamente un taglio a quei pensieri. Senza contare che, sicuramente, Elizabeth non aveva la più pallida idea di chi fosse Demelza.
Lui e Francis, nel frattempo, continuavano ad ignorarsi bellamente e non facevano troppa fatica a nasconderlo: l’unico che avesse mantenuto una parvenza di rapporto con lui era stato Dwight, ma era una persona talmente dolce e gentile che era l’unico a cui suo cugino potesse appigliarsi per mantenere un contatto col suo vecchio gruppo.
Ogni tanto Ross doveva ammettere che riguardava la vecchia chat di gruppo, quella che aveva con Francis, Dwight e George ed era assalito dalla nostalgia. Era inattiva da agosto: nessuno trovava ovviamente il senso di tornare a scrivere al suo interno.
E poi era difficile ritrovare un rapporto con il suo ex migliore amico quando, in mensa, gli capitava di veder arrivare Elizabeth mano nella mano con lui; o quando, con occhi innamorati, Francis le scoccava dei bacetti sul naso e sulla bocca.
“Potrei vomitare” aveva commentato una volta George al suo orecchio, quando lo aveva beccato a fissarli più del dovuto al tavolo della mensa: fu grato che in quel momento Dwight, Isla e Demelza non li avessero ancora raggiunti, perché era certo che sarebbe morto di vergogna a trovare una motivazione plausibile che lo giustificasse per aver fissato così intensamente Elizabeth.
Ross aveva riso, il suo rapporto con George era così, senza filtri. Ma in realtà aveva anche capito che, a modo suo, il suo amico stesse tentando di riportare la sua attenzione da un’altra parte. George, a differenza di Dwight, si era schierato dalla sua parte, anche se non lo aveva detto esplicitamente.
Anche per lui si preannunciava un anno piuttosto particolare ed intenso. Aveva ripreso le prove dell’orchestra ed era consapevole che sin dalle prime battute si sarebbe già parlato dello spettacolo di Natale. Solitamente, ogni anno, orchestra e coro si preparavano senza sosta per due grandi occasioni: il concerto natalizio e lo show di fine anno, ma generalmente lo spettacolo invernale restava quello più importante tra i due.
Il professor Henshawe dirigeva l’orchestra da molti anni e teneva ai suoi ragazzi più di qualunque altra cosa al mondo. Si vedeva che svolgesse il suo lavoro con passione: era sempre a disposizione di tutti e cercava di intervenire qualora uno studente avesse delle difficoltà e il suo aiuto poteva essere anche in minima parte decisivo.
George e gli altri ragazzi del coro, sapevano anche che, grazie alle sue conoscenze, poteva permettersi di segnalare gli allievi più promettenti dell’orchestra per importanti borse di studio in scuole di musica del territorio o anche più lontane. Generalmente si rivolgeva a quegli studenti che, entro un anno o due, si sarebbero diplomati.
George non si aspettava certo di sentire il suo nome, tra le file di prediletti di Henshawe. Sapeva di essere un bravo violoncellista e che quello strumento sarebbe rimasto la sua passione per molto altro tempo ancora, ma aveva ben altri progetti dopo la scuola superiore: desiderava studiare economia all’università e poi prendere tra le redini la direzione della banca Warleggan, proprio come suo padre.
Il signor Warleggan era morto quando George aveva solo dodici anni, ma aveva fatto abbastanza in tempo a trasmettergli l’amore per il suo lavoro e per i numeri, e sin da quando era ragazzino, suo figlio non aveva mai desiderato fare nient’altro nella propria vita. Per ora, a gestire la direzione della banca, c’era sua madre Lily, una donna molto attiva nella comunità di Truro, intraprendente e caparbia, che non aveva niente da invidiare al marito. George aveva un buon rapporto con lei, se non fosse che era spesso fin troppo appiccicosa e affettuosa.
Quando aveva iniziato le prove quell’anno, era completamente sicuro che Isla sarebbe stata scelta da Henshawe come una delle allieve da segnalare agli esaminatori di importanti università di musica. Era certo che nella sua vita, quella ragazza, non potesse far altro che vivere di quello: suonava ogni brano come ne andasse della sua stessa esistenza e ormai si muoveva praticamente in simbiosi col proprio violino.
George aveva capito di essersi innamorato di lei quando, l’anno scorso, aveva suonato un assolo allo spettacolo di Natale. Subito dopo lo show, era dovuto correre nei camerini per asciugarsi gli occhi visto che si era commosso. Aveva sempre avuto una cotta per lei, forse già da prima, ma quell’evento lo aveva reso soltanto più consapevole.
Se non altro, doveva ammettere che da quando sedeva al tavolo con lei e Demelza in mensa, questo li aveva aiutati ad avvicinarsi. L’anno precedente erano sempre andati d’accordo e sembrava che Isla gradisse davvero chiacchierare con lui.
Una settimana dall’inizio della scuola, Henshawe fece il suo nome e quello di Isla e chiese che restassero anche dopo la fine delle prove per poter parlare. Di solito, quando diceva così, poteva significare due cose: o che avessero combinato qualche guaio e George ne dubitava; oppure che rientrassero, per così dire, tra i prescelti. Era questa la nomea che si appiccicavano addosso gli studenti che riuscivano ad ottenere delle raccomandazioni da parte di Henshawe.
Sia lui, che Isla, rientravano tra i pochi allievi dell’orchestra che si sarebbero diplomati alla fine dell’anno: la ragazza gli lanciò uno sguardo emozionato e felice e George rimase invece distratto per quasi la maggior parte del tempo, pur suonando abbastanza bene la sua parte in White Christmas.
L’aula per le prove si svuotò intorno alle cinque e mentre raccoglieva con calma i suoi spartiti, non si accorse che Isla gli si era avvicinata. Aveva già riposto velocemente le sue cose nel suo zaino e il violino all’interno della sua custodia.
“Non sei nervoso?” gli domandò fremente. Era chiaro che entrambi fossero consapevoli che il loro insegnante di musica volesse proporre ad entrambi una prospettiva post-diploma in ambito musicale.  
“A dire il vero non me lo aspettavo.” ammise George, ancora sotto shock.
Henshawe dava ad entrambi le spalle e le sue mani emettevano tutto un fruscio di fogli, segno che stesse cercando qualcosa all’interno della sua valigetta di lavoro.
“No? Davvero?” fece Isla incuriosita. Quel giorno indossava una maglietta a righe bianche e blu e una gonna scozzese, ed era così carina che a starci troppo vicino George correva il rischio di arrossire come quella volta che in mensa, una settimana prima, Ross aveva scoperto della sua cotta per lei.
In realtà non fece in tempo a risponderle perché Henshawe si voltò in quell’istante verso di loro e li raggiunse. Aveva un viso rotondo e gentile, capelli ricci e scuri e delle labbra abbastanza sottili che si aprivano quasi sempre in un sorriso cordiale. George lo conosceva dal suo primo anno di superiori, e non l’aveva mai visto davvero arrabbiarsi con qualcuno.
“George, Isla. Immagino sappiate perché vi ho fatto restare qui dopo la fine delle prove. Quest’anno vi diplomate, giusto?”
Entrambi annuirono, incapaci di aggiungere altro. George perché era sconvolto, Isla perché era nervosa ed emozionata.
“Bene. Sono riuscito ad ottenere un’opportunità incredibile per entrambi. Credo siate quelli che possano davvero ambire a questa borsa di studio, almeno voi dell’orchestra. Ho deciso di segnalare anche una persona del coro.”
“Una... borsa di studio?” domandò George, incerto.
Henshawe fece un cenno positivo con la testa e il suo sguardo si spostò da lui ad Isla.
“Vedila come una prima opportunità, Isla. Questa però è più diretta. Potresti dire a George dove ti sarebbe piaciuto iscriverti dopo il liceo?”
Isla rimase a bocca aperta, come se non potesse credere che avrebbe pronunciato quella parola ad alta voce.
“La... la Juilliard?”
George sgranò gli occhi. La Juilliard era una delle scuole statunitensi più importanti per le arti, la musica e lo spettacolo. Pochi eletti avevano l’onore di essere ammessi alle selezioni e certamente non dei ragazzi che abitavano addirittura in Cornovaglia.
“Sul serio? La Juilliard?!” sbottò George.
Henshawe annuì, stupito da quella reazione tanto inaspettata da parte di un suo allievo. Un altro, probabilmente, sarebbe esploso di gioia a quell’opportunità. Lui invece ne sembrava terrorizzato.
“Sì, la Juilliard, George. Ho dovuto faticare un po’, ma sono riuscito a mettermi in contatto con alcuni esaminatori e si sono resi disponibili per venire allo spettacolo di Natale e, se resteranno colpiti, offriranno una borsa di studio ad uno dei tre allievi che ho segnalato.”
George dovette sedersi di nuovo al suo posto, perché la notizia rischiava quasi di fargli perdere i sensi. Isla invece, eccitata, aveva iniziato a muovere freneticamente i piedi sul posto.
“Non ci credo professore, grazie! Che opportunità pazzesca! La Juilliard è il mio sogno sin da bambina.”
George lanciò uno sguardo ad Isla. Vederla quasi commossa, fino alle lacrime, smosse qualcosa in lui: eppure, nonostante l’incredibile occasione, non riusciva a reagire alla stessa maniera. Si sentiva invece profondamente confuso e sperava che Henshawe lo comprendesse e che non pensasse che fosse un ingrato. Non capiva perché il professore avesse fatto il suo nome, ma sicuramente doveva esserci una spiegazione.
“Perché io?” chiese, con una voce così bassa che quasi non si sentì.
“Perché?” ripeté l’insegnante, confuso a sua volta. “Perché sei bravo e te lo meriti. E questa è un’opportunità che non voglio che tu ti precluda.”
George fece per rispondere, per dirgli che non aveva mai sognato questo, ma fu grato che il professore lo interrompesse. Perché quello che disse successivamente, lo sconvolse ancora di più.
“Isla, George. Vorrei che portaste un brano assieme per lo spettacolo di Natale. Siamo un po’ tirati sulla scaletta, e la vostra audizione alla Juilliard si baserà su un vostro duetto musicale. Vorrei che foste voi a scegliere una canzone natalizia su cui lavorare e ad assegnarvi a vicenda le parti. Siete bravissimi e sono sicuro che saprete lavorare assieme perfettamente.”
Henshawe disse qualcos’altro, ma qualunque cosa fosse, George non riuscì ad ascoltare più niente. Uscì da quell’aula in fretta non appena il professore glielo permise, forse Isla lo stava persino chiamando, ma lui non la sentì. Quando rientrò in casa, sua madre non era ancora rientrata dal lavoro e tutto era silenzioso. Persino il suo respiro divenne rumoroso in quella enorme villa.
Salì al piano superiore, gettò lo zaino in un angolo della sua camera e si buttò sul letto a faccia in giù, come se non riuscisse a fare altro. Sarebbe riuscito a nascondersi tra le pieghe del suo cuscino?
Henshawe aveva appena spazzato via tutte le sue certezze, tutto quello in cui aveva sempre creduto. La sua proposta in effetti lo aveva spiazzato, ma come poteva rifiutare un’occasione simile?
Mentre mugugnava con la faccia nella federa, un miagolio lo costrinse a voltarsi dietro di sé. Ai suoi piedi, dopo essersi arrampicato sul letto, si era appollaiato il suo gattino dal pelo nero, Sirius. Era ancora un cucciolo e lui e sua madre lo avevano adottato appena due mesi prima.
“Ciao, Sirius” disse imbronciato, alzandosi quel tanto che bastava per lasciargli una dolce carezza sulla testolina. Il micino sembrò accorgersi del suo umore perché si rannicchiò di più a lui come a volerlo coccolare e consolare.
“Che casino questa giornata” sospirò.
Restò su quel letto per un buon quarto d’ora, accarezzando Sirius e riflettendo se trovare o meno un’occasione per chiacchierare con Henshawe di quella situazione, per vederci più chiaro, come se la situazione non lo fosse già abbastanza. Ma i compiti iniziarono a reclamarlo dal fondo del suo zaino, e anche il suo cellulare prese a vibrare in una delle tasche dei suoi jeans. George lo sfilò, pensando che fosse sua madre che volesse assicurarsi che fosse a casa, ma il suo cuore invece, per la cinquantesima volta in quella giornata, gli arrivò in gola.
Era un messaggio da parte di Isla.

- Ehi George, scusami se ti disturbo
- Possiamo parlare?


George sospirò.
Guardò per un attimo la foto profilo di quel mittente. Aveva già visitato tante volte il profilo Instagram di Isla e aveva scoperto delle passioni che avevano in comune: la lettura, gli anime, i fumetti e anche i cosplay. Nella sua foto profilo, però, Isla indossava soltanto una semplice camicetta azzurra, i suoi capelli erano stirati alla perfezione e le ricadevano morbidi dietro la schiena.
Era una vecchia foto perché ora, li portava più corti.
Ma lui non smetteva di trovarla comunque incantevole.

- Ehi, Isla.
- Certo che possiamo parlare.



 


 



Angolo dell’autrice
Ehilà! Eccomi di ritorno con questo secondo capitolo. Ho un po’ di tempo libero in questi giorni, quindi ne sto approfittando; e dato che sono ispirata, scrivo ogni volta che posso.
Devo sottolineare un po’ di cose, quindi me le appunterò per non scordarle:
  • Vi ho lasciato due collage: uno è con l’attrice che mi sono immaginata nel ruolo di Annie. Si tratta di Olivia Coleman, e quando l’ho vista recitare nella serie tv di Heartstopper, mentre mi frullava già in testa l’idea di questa ff mi sono detta... no, è proprio lei il prestavolto che sto cercando per Annie! Il secondo collage invece riguarda Isla, altro personaggio inventato da me (come vi ho già detto, si tratta della mia protagonista della ff L’istitutrice e mi era piaciuta talmente tanto che ho voluto inserirla anche in questa storia) e come prestavolto ho scelto invece la bellissima Jenna Coleman, attrice di punta della serie tv Victoria. Anche nell’altra ff me la sono immaginata con il suo volto. Vi annuncio che troverete spesso collage all’interno delle mie storie, mi piace proprio realizzarli!
  • In questa storia saranno presenti un po’ di personaggi inventati, ovviamente necessari ai fini della trama. Annie era fondamentale perché, al di là del passato tragico dei fratelli Carne, volevo che Demelza, Drake e Sam avessero finalmente la loro pace e la loro famiglia.
  • Ho voluto che in questa storia George avesse una mamma: ho un’idea ben precisa di lei, e vi assicuro che ci sarà da ridere, quando comparirà sulla scena!
  • Per quanto riguarda il post-diploma che ho immaginato per i personaggi, so bene che alcune borse di studio nella realtà coprono soltanto una parte delle spese, ma qui ovviamente, essendo una ff, possiamo anche cambiare un po’ le cose.
Sto cercando di fare del mio meglio per restare IC con i personaggi, soprattutto con George, che in questa mia ff non poteva essere malvagio come nella serie principale. Quindi ho cercato di mantenere il più possibile alcune peculiarità del suo carattere, e spero che non sia risultato troppo OOC nella seconda parte in cui risulta scioccato dalla prospettiva della borsa di studio o quando ammette a se stesso il suo ammmmore per Isla.
Vi abbraccio e aspetto i vostri pareri,
Lady Warleggan
   
 
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