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Autore: lo_strano_libraio    23/09/2022    1 recensioni
Cosa successe nei mesi tra la morte di Billy e l’attacco di Vecna, nella vita di Maxine Mayfield? Scopritelo in questa storia angst, ricca di emozioni forti, misteri e colpi di scena!
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dustin Henderson, Lucas Sinclair, Maxine Mayfield, Mike Wheeler, Undici/Jane
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 2-ricordi soleggiati ed esaurimenti nervosi

 

Max era da sola in camera sua. Buio d’ovunque, spifferi d’aria e un freddo terribile, che oltrepassava le pareti e le entrava fin dentro le ossa. Avevano staccato il riscaldamento una settimana prima per bollette arretrate, proprio quando il gelo stava arrivando; in una casa poi, che non aveva muri troppo spessi. Per fortuna avevano almeno l’acqua calda. Un oretta prima era in cucina a cercare di mettere qualcosa sotto i denti, aveva trovato solo cereali ai muesli, con latte in via di scadenza e due carote bollite dal giorno prima, con qualche fagiolo rosso in mezzo. Aveva fatto quindi una sorta di pasticcio tra colazione e pranzo, che di certo non l’aveva riempita e non poteva farle bene alla salute. Guardando il colore delle carote, si rese conto che erano ormai più arancioni dei suoi capelli, facendole ricordare dello scolorimento che avevano progressivamente subito dalle scorse settimane. Il suo deperimento fisico era iniziato, facendole percepire ancora più acutamente il freddo. Indossava un triste pigiama grigio, e pantofole con disegnati occhi da coniglio e con tanto di orecchie in peluche che uscivano ai lati. Ma fuori dal letto, doveva girare con un plaid addosso per sopportare il freddo, e non dover sbattere i denti costantemente. La casa era immersa nel buio: il cielo era grigio, ma anche se ci fosse stato il sole, non ne sarebbe arrivato molto dentro le finestre, schermato dalla fitta vegetazione che circondava la radura del parcheggio caravan. Non potevano neanche usare per troppo tempo l’illuminazione, se volevano mangiare almeno quel poco che si potevano permettere. Accendevano quindi le luci, soltanto quando dovevano fare qualcosa di potenzialmente pericoloso al buio, come scendere le scale; ma soltanto quando erano sicure di non poter vedere niente, e la paura del buio aumentava.

Mentre era seduta a tavola, sua madre rientrò, sbattendo la porta come suo solito, in quello stato tra il rincretinimento e l’incazzatura. Entrò in cucina; madre e figlia si scambiarono un occhiata, e si salutarono brevemente e a bassa voce, come se si vergognassero nel farlo. La madre prese qualcosa da un cassetto, lo mise in una busta che aveva in mano. Lasciò una manciata di dollari sul tavolo e si incamminò all’uscita.

“Starò via un po’ di giorni, vedi di farteli bastare”. 

La figlia finí di sgranocchiare velocemente la manciata di cereali che aveva in bocca, per chiederle:

“Aspetta, ma dove vai?”

“A guadagnare qualcosa in più”. Le rispose aprendo la porta.

“Ma quando torni? Non so se basteranno per una settimana intera, ho fame! Non vedi a cosa mi sto riducendo a mangiare?! Questa dovrebbe essere la mia cena?!” 

Le urlò, aumentando il tono col fluire delle parole, e sbattendo la scodella sul tavolo per farsi sentire in segno di protesta. Schizzi di latte e pezzi di cereali rimasti attaccati, le volarono addosso al pigiama e per terra. L’indifferenza e la superficialità con cui le aveva lanciato quella “mancetta”, avevano fatto ribollire dentro di lei il risentimento verso quell’ostilità che percepiva provenire dalla genitrice: non era una mendicante a cui lasciare l’elemosina, o un cagnolino a cui schiaffare un giocattolino per farlo stare contento. La signora di casa però non rispose, e uscì come se non avesse sentito niente. Così Maxine rimase sola ancora una volta. Guardò fissa la porta per un minuto buono, sfidando l’entrata, come se tenere lo sguardo fisso su di lei, fosse un tiro alla corda, una sfida per vedere se si sarebbe arresa ad avercela con lei, e tenerlo abbastanza a lungo, potesse far tornare sua madre indietro per chiederle scusa per come l’aveva trattata.

A un certo punto però si arrese. Abbassó lo sguardo e concluse la faccenda con un sussurrato, energico:

“Ti odio anch’io sai...”

Finito di consumare il “magro pasto”, gettó la scodella nella pila di stoviglie sporche del lavandino, e copertasi bene col plaid, si rintanò in camera sua su per le scale.

Le spesse coperte la abbracciarono in un caldo incontro, dandole un po’ di sollievo e riparo dal freddo, ma ben lungi dal non potersi dire più infreddolita. Prese il Walkman e le cuffie, per chiedere a Barbara Bush e i Rolling Stones di distrarla dalla sua miseria. Premuto il pulsante però, la musica non partí. Cercò di ripetere il processo più volte, anche togliendo la cassetta dall’alloggio; fino a quando non realizzò che il problema era un altro: le pile erano scariche. 

“Diamine...non ne ho altre” 

Ne era sicura, perché aveva rovesciato da cima a fondo tutta casa per trovare queste due. Iniziò a fare due calcoli: i soldi che le aveva lasciato sua madre sarebbero bastati a malapena per comprarsi da mangiare, se di cosa di cibava ora poteva essere considerato mangiare. Ma doveva anche prendere del detersivo per i piatti: stava finendo quel poco che era rimasto; e per quanto non gli andasse a genio fare la casalinga con quella montagna di stoviglie, ci mancava solo che dovesse anche mangiare nei piatti sporchi. 

Un sonoro e lungo sospiro uscì dalle sue narici e labbra:doveva rassegnarsi anche a questa privazione, chissà per quanto tempo poi. Meglio distrarsi con altro, e forse muovendosi un po’, avrebbe sentito meno freddo. Messasi il plaid a mo’ di poncho, prese a vagare per la camera per trovare qualcosa con cui passare il tempo. Giunse alla libreria dei fumetti: tutti della DC comics, la maggior parte, sulla Justice League, Lanterna Verde, ma soprattutto Wonder Woman, che per lei era una vera fonte d’ispirazione. Per l’ultimo suo compleanno Neil e mamma le avevano regalato anche un action figure, che ora svettava in cima alla libreria, come un templietto dedicato a lei. La mancanza di luce non la faceva risaltare particolarmente, ma su Max aveva comunque un effetto catartico vederla così dal basso in alto. Era così contenta quel giorno: prendeva sempre in giro il gruppo dei ragazzi dandogli dei nerd per la loro passione per il fantasy; ma in fondo l’amazzone dell’isola paradiso aveva lo stesso effetto su di lei. Dando un occhiata veloce agli scaffali ripieni di albi in formato giornalino, si rese conto di averli letti già tutti. I fumetti erano diventati la sua ultima preoccupazione recentemente. Facendo mente locale, si ricordò anche di aver messo da parte quell’estate un gruzzoletto di dollari, per comprare il formato graphic novel di “crisi sulle terre infinite” che sarebbe uscito quel mese.  Bob (il proprietario della fumetteria locale), le promise anche di metterle via una copia per lei, essendo una cliente abituale. Ma quando la situazione peggiorò, dovette usarli per i beni di prima necessità, come una ragazzina di un paese del terzo mondo; e finí per scordarsene proprio, non era neanche passata a dire a lui che non poteva più permetterselo. Questi pensieri le attaccarono ancora più tristezza addosso, facendole passare la voglia di storie di supereroi. 

Si accostò a un mobiletto, dove aprí un piccolo forziere di legno, di quelli dove tenere segreti e ricordi; e fu proprio un ricordo lì contenuto, che avrebbe fatto da capolinea emotivo della giornata. Una foto, tenuta con cura come una reliquia: un parco di skateboard, con sfondo sul blu del mare e del cielo californiano, intervallato da alte palme che svettano come torri. Tre ragazzini in primo piano: lei al centro e i due due migliori amici dell’epoca ai lati. Tommy, il biondino brizzolato alla sua destra e Arianna, con la sua abbronzatura messicana a sinistra. Tutti e tre con parastinchi, caschetto, skateboard sotto braccio e un sorrisone stampato in volto. La foto l’aveva fatta suo padre, che li aveva portati lì quel giorno: era la prima volta che andavano in un vero parco con così tanti altri skateboarder. Prima erano troppo piccoli: si esercitavano nel viale di casa sua, ma ora erano in prima media, stavano tra i “grandi” ed erano migliorati molto tutti e tre. Dopo uno dei pomeriggi più divertenti della loro vita, papà aveva preso il gelato per tutti al Cream King, il più buono di Los Angeles; il suo preferito era quelli vaniglia e fragola. Tornata a casa, raccontò a sua mamma di quanti salti e acrobazie aveva fatto e di quanto fosse diverso farlo sulle rampe del parco; e lei la abbracció e le disse quanto fosse orgogliosa di lei. Da quanto tempo non si abbracciavano o avevano un momento cosí...

Ora come ora, il suo skateboard prendeva polvere in un angolino della camera. Le poche volte che aveva provato a usarlo recentemente era caduta in breve tempo; la mancanza di energie dovuta alla fame le faceva perdere l’equilibrio, e con esso la voglia. Da quando i suoi avevano divorziato e lei si era trasferita, con Tommy e Arianna si erano scritti un paio di volte l’anno, ma mai più visti di persona. Quest’anno però non si erano scambiati lettere: Il funerale e tutto il resto le avevano fatto scordare anche questo. Tutto della sua vita precedente stava svanendo via, come cancellato con la varichina. Accarezzava la foto con le dita, come sperando che il contatto potesse farle sentire ancora il caldo californiano, il rollio e il ribaltarsi delle tavole, le loro risate. O potesse aprire un un portale magico che la catapultasse nel passato, le desse la possibilità di cercare di non far separare i suoi, poter rivedere i loro due amici...

Questa ondata di malinconia fu la goccia che fece traboccare il vaso. Senza rendermene conto, iniziò a uscire una cantilena di versi brevi ma sonori dalla sua bocca; ritmati e ripetuti come un motore che doveva partire: ma era un motore molto doloroso che stava per ingranare la marcia.

“Uh...uh...uh...AAAAAAAHAHAHAAAAAH!”

Scoppiò in un fiume di lacrime, accompagnato da un urlo lungo e atroce, il viso deformato dallo sfogo. 

“TOMMY! ARIANNA! DOVE SIETEEEEEEEH?! SCUSATEMI, NON VI VOLEVO ABBANDONAREEEEEH! NON LASCIATEMI SOLAAAAAAH!”

Una fitta raffica di singhiozzi seguí, intervallo per il secondo tempo:

“VI VOGLIO BENEEEEEH! E TUTTA COLPA MIAAAAH! TOMMYH...ARIANNAH...DOVE Siete...ee...eeeh...”

Il pianto scemò in una patetica ma meno rumorosa piagnistea. Max si piegò in due, facendo piovere la cascata di lacrime sulla foto. L’attacco isterico le aveva fatto ferrare le mani sui bordi della Polaroid, piegandola ma non strappandola in due. Iniziandosi a riprendere dall’esaurimento nervoso, rifocalizzò i pensieri, e resasene conto, si asciugò le lacrime col palmo della mano sinistra, e iniziò a cercare di lisciarla.

“No...no...ci manca che la rompa anche...è tutto quello che mi rimane di loro.”

Riuscì ad appiattirla abbastanza da lasciare su di essa soltanto una cicatrice nel mezzo, che stropicciava la sé stessa del passato. Non era poi qualcosa di troppo distante dalla realtà. Il rossore peperonesco del pianto iniziò a svanire dal suo viso, che impallidì in fretta, e il calore dello sfogo venne sostituito da sudori freddi. Max si ricordó cosa le avevano insegnato sul primo soccorso a scuola: erano i sintomi di uno stato di shock, causato da forti emozioni di gioia...o dolore...

Iniziò a fare quindi profondi respiri per abbassare la pressione, poi avvicinò con le mani la sedia della scrivania dallo schienale, si distese sul letto e vi poggió le gambe stese in alto. Un ondata di dopamina la investí, il battito del cuore tornò a livelli normali; e finalmente si concesse un po’ di riposo. Chiuse gli occhi e cadde in un profondo, ma necessario sonno.

   
 
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