Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Claire DeLune    28/09/2022    1 recensioni
La donna fece per prendere il portafogli dentro la piccola borsetta che le pendeva dal polso, ma con un gesto della mano il capitano la bloccò, «Offre la casa».
Questo sì che la stupì.
«Ho sofferto per anni di insonnia, so come ci si sente», chiarì.
«Ne soffre ancora?».
Levi annuì.
«Immagino non si possa scappare dai nostri demoni», rispose lei mesta e per la prima volta il corvino notò un’ombra velarle i solitamente allegri occhi ambrati.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Falco Grice, Gabi Braun, Levi Ackerman, Mikasa Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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3.
Salsedine

 

   Quel fatidico lunedì arrivò prima del previsto e, altra cosa imprevista, Levi era agitato.
   Non gli fu così semplice capire che fosse nervoso, non era uno stato d’animo a cui era abituato. Una sensazione di malessere lo investì ancor prima che si svegliasse; un mugolio gli sfuggì tra le labbra secche e impastate, la fronte e la nuca gli dolevano terribilmente e, quando riuscì finalmente ad aprire gli occhi, una luce abbagliante baluginò tra le persiane, accentuando il fastidioso mal di testa che minacciava di fargli compagnia per tutta la mattinata.  
   Levi si portò indice e medio a premere sulla tempia, tentando di mettersi a sedere, ma un’improvvisa vertigine lo ricacciò supino sul letto. Grugnì, più per lo stupore che per il mancamento, e si voltò ancora appannato dal sonno in direzione della finestra. Strabuzzò gli occhi nell’osservare i raggi del sole tracciare righe oblique, parallele tra loro, che penetravano nella penombra della stanza. Sebbene non lo colpissero direttamente in viso, se lo protesse con una mano, la vista ancora impreparata a tutto quel chiarore, la bocca distesa in un linea retta.
   Non era certo per quanto avesse dormito, sicuramente più del solito e ciò lo stranì. Non era assolutamente normale per lui che sonnecchiava, sì e no, tre ore per notte.
   Si alzò ancora intorpidito, un macigno allo stomaco e un’inizio di nausea. Toccandosi la fronte, appurò di non avere la febbre e che l’influenza fosse un’opzione da accantonare. Ma allora cos’era?
   Lievemente intontito, lo sguardo gli cadde sul telo piegato con cura e poggiato sopra al coperchio del cestino in vimini da picnic ancora vuoto; il parasole écru in macramè, con motivi dorati e un design esotico, riposto in un angolo.
   Levi chiese più volte a Onyankopon dove lo avesse trovato, ma l’uomo si limitava a fornirgli risposte vaghe circa la provenienza dell’oggetto. L’unica informazione certa che gli fornì fu sulla manifattura, tipica della sua terra natia, ma non volle aggiungere altro; un velo di tristezza gl’incupiva i grandi occhi scuri, divenuti improvvisamente spenti.
   Doveva essere un ricordo doloroso per lui che, come aveva raccontato in uno dei loro primi incontri, quando ancora il capitano era il secondo in ordine di comando nel Corpo di Ricerca, venne prelevato e arruolato nell’esercito marleyano contro la proprio volontà. Il corvino fu abbastanza sensibile da non insistere oltre con le domande, avrebbe concesso a Onyankopon il beneficio di scegliere lui dove, come e, soprattutto, quando confidarsi. Anche se il momento non fosse mai giunto, Levi lo avrebbe accettato; infondo, lui per primo non aveva un carattere propenso alla condivisione, preferendo tenersi le cose dentro e lasciarsi consumare da esse.
   Si costrinse ad alzarsi dal letto, non aveva ancora molto margine di tempo prima del suo appuntamento con Lyra. Indossò velocemente una vestaglia leggera e andò in bagno per prepararsi. Mentre il pennello a setole larghe di tasso si ammorbidiva nell’acqua tiepida, si lavò con cura il viso, picchiettando un olio per preparare la pelle alla rasatura; poi spalmò la schiuma da barba in movimenti circolari, rendendola ricca e piena, infine iniziò a far scivolare la shavette delicatamente, ma con decisione, sulla cute.
   I movimenti meccanici, dettati dall’abitudine, permisero alla sua mente di vagare indisturbata e fu solo allora che cominciò a sospettare che la sua indisposizione fosse, semplicemente, riconducibile a una forma di somatizzazione della piacevole apprensione che aveva all’idea di dover vedere la persona per cui, ormai era palese, nutriva un trasporto sempre più profondo e viscerale, in un crescendo che sembrava non intenzionato ad arrestarsi.
   Era il loro primo incontro al di fuori dell’ambito lavorativo. Un contesto totalmente nuovo per Levi che, in passato, aveva scelto coscienziosamente di non imbarcarsi mai in situazioni che potessero legarlo di nuovo a qualcuno. Questa spinta ad aprirsi, sebbene ora le circostanze lo permettessero, lo spaventava terribilmente, ne era terrorizzato, ma ciò non l’avrebbe ammesso mai, neanche sotto tortura. Aveva una reputazione da difendere.
   Come devo comportarmi?, si domandò, la lama del rasoio sospesa a mezz’aria; lo ripose nel lavandino e, ancorandosi ad esso, si osservò insistentemente nello specchio. Ondeggiava la testa da un lato e poi dall’altro, constatando lo stato di guarigioni delle cicatrici che gli solcavano il volto: le tre sullo zigomo sinistro, così come la linea che gli attraversava la guancia destra per la lunga, giungendo quasi al mento, si erano ormai ridotti a dei segni sottili, visibili perlopiù in controluce. Tutt’altra storia era quella che gli divideva di netto il viso a metà: una riga obliqua che, partendo dal sopracciglio destro tagliava la palpebra e proseguiva la sua corsa a colpire le labbra fini.
   I bulbi gli si inumidirono di lacrime traditrici pronte a scorrere, ma che Levi asciugò immediatamente, quasi graffiandosi dalla brutalità con cui lo fece. In verità si stava trattenendo. La nervosità con cui si era destato quella mattina lo rendeva emotivo, facendo vacillare la pace di spirito con cui aveva accettato il suo nuovo aspetto che, dentro di sé, credeva di meritare. Una sorta di prova fisica e tangibile del suo vissuto. Ma oggi, mosso dalla volontà di mostrarsi al meglio difronte a Lyra, sembrava essersi dimenticato del fatto ch’ella lo conoscesse già, che lo accettasse e apprezzasse per quello che era e, pur sapendolo, desiderava essere diverso, desiderava non essere un uomo malconcio e distrutto dalla guerra. E non per una mera questione estetica, non gliene importava assolutamente nulla di essere piacente. A farlo tentennare era il timore che un giorno la docente avrebbe potuto non tollerare più i suoi sbalzi d’umore, la sua scontrosità, il suo essere rotto.
   Lei è così bella, confessò, ripensando al sorriso contagioso, alla luce che emanavano i suoi occhi ambrati. Lyra era così energica, brillante, così vitale e allo stesso tempo sapeva lasciargli i suoi spazi, fare un passo indietro se necessario e placare il tumulto nel suo cuore martoriato.
   Non merito tanta bellezza, constatò, Non ho niente di buono da offrirle, strinse il pugno sull’elsa del rasoio libero, reprimendo l’impulso di sfogarsi sullo specchio. Poi chiuse gli occhi per qualche secondo, concentrandosi a regolare il respiro e, una volta calmo, riprese a radersi, deciso a relegare quei pensieri oscuri nell’angolo più remoto del suo inconscio.
   Indossò la benda, uscendo dal bagno, e andò in cucina. Quando varcò lo soglia della stanza trovò già tutti disposti intorno al tavolo con un’abbondante colazione, un unico posto vacante.
   «Buongiorno, Levi», lo salutò Onyankopon, mentre versava il fumante liquido brunastro nella tazza vuota già posizionata ad aspettarlo.
   Si sedette facendo un cenno del capo, ringraziando muto l’uomo per la cortesia. Si allungò a prendere una fetta di pane tostato, sentendosi addosso lo sguardo dei presenti che lo scrutavano curiosi. Due occhi in particolare lì percepì più insistenti degli altri; sapeva che se avesse sollevato i propri dal tavolo, essi si sarebbero bruciati nei suoi. E così fece, soffiando leggero sul tè caldo, la cui superficie si infrangeva ad ogni sbuffo.
   Le iridi cannella risplendevano come tizzoni ardenti, un sogghigno vivace e affettato perfettamente visibile sul viso che ancora conservava qualche ricordo d’innocenza, nonostante, lentamente, stesse assumendo sempre più i tratti che l’avrebbero contraddistinta da adulta.
   «Ti sei alzato tardi», fu l’unica cosa che disse, intenta a non staccargli quell’occhi di dosso, l’espressione di chi la sapeva lunga.
   «La tua insonnia è scomparsa?», chiese Falco, il sollievo era palpabile nella sua voce.
   «Non ne sono sicuro, ma dormo meglio negli ultimi tempi».
   «Hai cambiato qualcosa nella tisana serale?».
   Ci rifletté un po’ prima di rispondere, «Niente di rilevante».
   «Allora dev’esserci qualcos’altro che ti sta aiutando», alluse l’unica ragazza presente, frase che il capitano decise deliberatamente di ignorare, spalmando della marmellata fatta in casa sul toast e addentandolo posato.

 

✯✯✯

 

   «Levi!», si sentì chiamare, una voce chiara sovrastata appena dal rumore del vento e dal fragore del mare. Vide in lontananza una figura slanciata che si sbracciava per rivelare la propria posizione, con una mano si teneva il cappello di paglia per impedirgli di volare via. I capelli sciolti, fatta eccezione per le ciocche laterali, libravano nell’aria, occupandole il viso altrimenti sgombro. Lo raggiunse per togliergli di mano la cesta, un paio di teli coricati sottobraccio. «Lascia che ti aiuti».
   «Ce la faccio», s’imbronciò, strattonando il paniere.
   Lo sguardo scrutatore passò su di lui, sull’ombrellone appoggiato al torso e bloccato tra la guancia e la spalla, sulla cesteria - un manico trattenuto dalle forti di dita dell’uomo, l’altro da quelle esili della donna -, sul piede sinistro su cui ancora l’ex-soldato si reggeva malamente. «Levi, per favore, non essere testardo. La gamba non è ancora guarita completamente».
   «Non dire caz—».
   «Non è un attacco alla tua virilità se ogni tanto ti appoggi agli altri», lo interruppe, «Capitano», aggiunse infine con un sorriso conciliante ma beffardo a scucirle le labbra. Un’espressione a cui il corvino non seppe come replicare; ben consapevole fosse inutile darle contro, ché la sua ostinazione sorpassava di gran lunga la caparbietà del militare. Lasciò correre e allentò la presa quel tanto da far oscillare la cesta tra i due, «Portiamolo insieme allora», sbuffò.
   Un compromesso.
   Un primo spiraglio di cedimento che Lyra accolse di buon grado. Le guance imporporate.
   Si avviarono lungo il molo, in direzione della scaletta laterale che scendeva alla spiaggia e scelsero un buon punto dove srotolare i teli. Abbastanza lontano dal bagnasciuga per evitare gli schizzi di qualche onda mascalzona, abbastanza vicino per godere del panorama e dell’avvolgente odore di salsedine che si mischiava a quello del sole sulla loro pelle.
   Si accomodarono tra i cespugli di gramigna che punteggiavano qua e là il litorale di verde, ondeggiando ad ogni folata. Levi fissò gli angoli dei teli con delle piccole rocce, poi l’ombrellone, mentre Lyra estraeva dei cuscini dalla capiente borsa e una coperta. Dopotutto, era pur sempre una giornata di fine estate, il clima era imprevedibile.
   Infine si tolse le scarpe e si sedette, abbracciandosi le gambe, mentre l’osservava prendere posto al suo fianco. La guancia schiacciata contro le ginocchia e un sorrisetto sornione.
   «Devi dirmi qualcosa?», sorrise lui, velatamente incuriosito dalla sua espressione furba. Le si avvicinò, il volto inclinato quel tanto da dover sollevare lo sguardo per guardarla negli occhi. Un tentativo di intimidirla, mentre arcuando un sopracciglio chiedeva: «Allora?».
   Lei si morse il labbro divertita, ma non disse nulla. Lo stava stuzzicando.
   «Dunque non vuoi parlare». Sembrava meditabondo, come se stesse architettando qualcosa. Una minaccia per farla arrendere. «Cosa devo fare per toglierti quel sorrisetto dalla faccia e farmi dire cosa ti passa per la testa, mm? Buttarti in acqua magari».
   Un leggero rossore attraversò le gote di Lyra, al pensiero di stare tra le braccia forti di quell’uomo così insolito e misterioso, di vedere gli abiti intrisi d’acqua salmastra appiccicarsi lungo tutto il suo corpo.
   «O magari dovrei semplicemente andarmene e lasciarti qui». Interruppe il suo fantasticare.
   Il sorriso s’allargò ancora di più, «Mi abbandoneresti in balia delle onde e dei pirati?».
   Sbuffo una risata compiaciuta: l’aveva fatta parlare.
   «Dei pirati? Credo non esistano più da qualche secolo», affermò divertito, «ma se esistessero ancora, li capirei se volessero rapirti», le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Il pollice indugiò giusto un poco sull’angolo della sua bocca, mentre aggiungeva: «Peccato che ti butterebbero in mare un secondo dopo averti sentita blaterale senza sosta».
    Assunse una finta espressione offesa e lo spinse lontano da sé, che lasciandosi cadere sul telo scoppiò a ridere. Una risata così spontanea e genuina da farle morire qualunque frase piccata sulla punta della lingua. Era così bello sentirlo ridere, vedere lo stoicismo lasciare il posto alla beatitudine.
   Si sdraiò a sua volta, girandosi sul fianco, l’orlo della gonna si sollevò quel tanto da esporre i polpacci. Cosa che non passò affatto inosservata agli occhi dell’uomo che provvide a risistemarlo. Era sconveniente per una signora. Però la galanteria venne interrotta a metà, quando la mano dell’insegnante sciolse il nodo che affrancava la benda dietro la testa del barista. Istintivamente Levi bloccò il tessuto dal cadere per terra e si voltò a lanciare un’occhiata di rimprovero alla donna.
   «Il vento là riempirà di sabbia», si giustificò, «Non devi nasconderti da me, Levi», aggiunse poi per riempire il silenzio lasciato dal suo accompagnatore, accarezzandogli una guancia. I polpastrelli percorrevano i solchi sul suo volto uno ad uno.
   Il capitano sospirò, annuendo con un colpo secco della nuca, chiuse gli occhi e piegò la benda nel palmo di Lyra, la quale, sorridente, la ripose in borsa, sibilando un flebile grazie.
   Si concesse il suo tempo per riaprire gli occhi e decidersi a guardarla, rendendosi conto solo in quel momento quanto valore avesse dato ad uno stupido lembo di stoffa. Era come un’armatura, senza si sentiva spoglio ed impotente.
   Ma lei sorrideva. Il suo dolce sorriso non aveva abbandonato il suo viso nemmeno per un istante, né s’era incrinato ora che poteva vedere il suo occhio spento. Il colore sbiadito dell’iride, la pupilla tinta di bianco incapace di reagire alla luce. Temeva l’avrebbe guardato con disgusto - o peggio, con pena -, il giorno in cui finalmente l’avrebbe visto in tutto il suo orrore, e che il sogno si sarebbe infranto.
   Ma non fu così.
   Lo sguardo di Lyra non era mutato. La mano sulla sua guancia non s’era ritratta. La caviglia sotto le sue dita - che involontariamente avevano preso a sfiorare - non s’era allontanata.
   Lei era ancora lì, con lui. E non sembrava intenzionata ad andarsene.
   Sentì come una scarica fluirgli lungo tutto il corpo quando, preda da un impulso che aveva ingabbiato per fin troppo tempo, gettò le sue labbra su quelle della donna, così morbide contro le proprie.
   Le loro bocche si incastrarono, Levi avvertì la testa farsi più leggera, i pensieri spegnersi. Sentiva solo il calore del fiato di Lyra mischiarsi al proprio, delle sue mani che si intrecciavano tra i suoi capelli, avvicinandolo di più a sé; per nulla preoccupata di ciò che li circondava. Dgli sguardi di rimprovero che avrebbero potuto attirare, delle malelingue che quel gesto così plateale di affetto potenzialmente avrebbe creato.
   Una stimata dottoranda marleyana sorpresa in effusioni romantiche con un eldiano originario dell’isola dei demoni impuri. Come se essere vista con un comune eldiano non fosse già sufficiente per fare scalpore in un ambiente ancora fortemente nazionalista e razzista come quello di Liberio e del resto del continente. Quello era un vero e proprio scandalo.
   La puttana del nemico.
   Il barista si staccò e si guardò intorno compunto, rifiutandosi di posare lo sguardo su di lei che, per contro, cercava in tutti i modi di incrociarlo. Incredula e confusa da quell’improvviso raffreddamento.
   Lo tempestò di domande, «Qualcosa non va? Era troppo presto? Ho forse esagerato?».
   «Come?».
   «Non farmelo dire apertamente, sono pur sempre una signorina», si morse il labbro in imbarazzo, «Non era mia intenzione metterti a disagio».
   Le strinse il fianco, incapace di trattenersi dal toccarla, dal volerla sentire vicina, «Non sono a disagio, non hai niente da rimproverarti». Lyra sentì gli occhi del corvino bruciarle addosso, «Ma come hai detto tu stessa, sei una giovane donna. Tutto questo non è appropriato».
   «Cosa vorresti dire?»
   «Una nubile che amoreggia in pubblico è già di per sé mal visto. Per te che ricopri un ruolo di rilievo in un rinomato ateneo equivale a un suicidio sociale. La vita per voi donne è già abbastanza difficile per il bigottismo e il maschilismo che ci trasciniamo dietro, non puoi permetterti di infangare il tuo buon nome. Con me soprattutto». L’uomo non aveva mai parlato così a lungo e con tanto accoramento. Ella si sentì stordita.
   «Ma—».
   «Lyra, non credo di essere la persona giusta per te. Sono molto più grande, sono eldiano, di Paradis, un militare per giunta».
   «Non mi interessa».
   «Dovrebbe! Ho ucciso centinaia di persone, ero nella missione che ha distrutto il distretto d’internamento. Facevo parte dell’esercito nemico alla tua nazione».
   «E hai combattuto il Gigante Fondatore, ti sei alleato con Marley perché sapevi che il tuo governo era caduto in mano agli estremisti, che Jaeger stava sbagliando. Ti siamo tutti debitori per questo, hai contribuito a fermare la guerra. Sei un eroe, Levi».
   «No, non lo sono. Sono un assassino e un traditore. Non posso macchiare la tua reputazione dei miei peccati».
   «La mia reputazione?», si stava innervosendo.
   «Cosa pensi che diranno quando sapranno della tua relazione con un eldiano? Con il famigerato Capitano Ackerman?».
   «Alcuni saranno contenti per noi, altri ci biasimeranno, come succede sempre».
   «Potrebbe influire sulla tua carriera».
   «Non accadrà e anche se fosse la cosa non mi tange».
   «Lo dici adesso. Non puoi sapere come sarà in futuro. Potresti anche finire per odiarmi un giorno».
   «Potrei», lapidò. Il capitano non le aveva mai visto quell’espressione prima di allora: pura risoluzione. «Ma non lo sapremo mai se rinunciamo a tutto adesso», gli prese il volto fra le mani, «Ci aspettano momenti duri, potremmo perdere tutto, ma non mi farò indietro. Voglio te», gli occhi di Levi si strabuzzarono, «Voglio il famoso Capitano Levi Ackerman, il Soldato più forte dell’umanità. Sì, conosco il tuo soprannome», terminò con un mezzo ghigno conciliante.
   «I mirini del mondo puntano sulla mia fronte, aspettano solo un mio passo falso. Stando con me potresti diventare un bersaglio».
   «Sia».
   «Mio Dio, Lyra», la strattonò per entrambe le braccia, i pollici affondavano nel tessuto in brevi movimenti cadenzati, più simile a una carezza che a un gesto d’irritazione, «Proprio non vuoi capire», i suoi occhi si indurirono come acciaio temprato. Una leggerissima sfumatura violacea si disegnò intorno alla pupilla, mescolandosi al grigio dell’iride che si colorò d’un pallido blu. «Non ho intenzione di perdere anche te!», il suo respiro si fece incerto, «Ho perso tutti coloro che amavo».
   La giovane incassò il colpo, trattenendosi dal sorridere per il significato nascosto dietro alle parole dell’uomo.
   Levi l’amava.
   Teneva a lei a tal punto da essere disposto a rinunciare a lei pur di saperla al sicuro.
   Avrebbe voluto gioire di questa verità rubata, felice che i suoi sentimenti fossero ricambianti da così tanta intensità. Ma non poteva ignorare quanto le buone intenzioni dell’ufficiale stessero minando il loro rapporto sul nascere. Desiderava proteggerla, era disposto a sacrificare la propria felicità per questo, tuttavia non la stava rendendo partecipe di ciò. Stava decidendo tutto da solo. Lasciando che la paura prendesse il sopravvento e controllasse il suo metro di giudizio e le sue scelte personali, che mortificasse il loro legame.
   Lyra non l’avrebbe mai permesso.
   «Quindi preferisci perdermi in partenza», disse sferzante, «Privarti di me subito, così nessun altro potrà farlo».
   Non seppe come replicare. Una sequela di atroci ricordi si susseguirono veloci sul fondo dei suoi occhi; scorrevano come scene di un film senza colonna sonora, senza apparente senso cronologico, ripetendosi ancora e ancora in un flusso di coscienza inarrestabile. Episodi di un passato macabro e inesorabile, che il semplice odore ferroso del sangue faceva riemergere tutte le volte. E l'unica cosa che sentiva era il pianto muto del suo povero cuore che aveva giurato di non avere rimpianti.
   Era la condanna dei forti vedere le persone intorno a sé perire. E la morte fuori dalle mura sapeva di ruggine, del puzzo maleodorante di interiora, di bruciante vapore, di nitriti e ruggiti cavernosi.
   Lo sguardo di Levi si perse lontano, oltre l'orizzonte. Aveva indosso la divisa dell'Armata Ricognitiva, inginocchiato sotto la fioca luce del sole che trapelava le nuvole non più cariche di pioggia; un braccio intorno al collo del biondo fratello e la testa dell'irriverente sorella in grembo. I capelli rossi, arruffati e sporchi, sparsi sui suoi pantaloni bianchi, umidi di terra e acqua. Le iridi smeraldine, che ammiravano l'azzurro cielo, erano strabuzzate come quelle di un tarso, riempiendosi di riflessi chiarissimi; tante, troppe tonalità di verde si contendevano il possesso di quelle due piccole superfici convesse, facendo apparire i suoi occhi ancora più grandi e lucidi, malgrado lo sguardo vitreo.
   Le chiuse per sempre le palpebre, poi strinse Isabel a sé, serrando le proprie.
   Quando le riaprì, il vento gli spazzava l'ordinata capigliatura all'indietro, mentre si spostava frenetico fra mastodontici alberi di conifere. I cigolii del movimento tridimensionale accompagnavano il fruscio degli aghi e lo scricchiolio dei rami spezzati, il ronzio insistente che emettevano le bombole a gas come unico costante suono sordo a fargli da sottofondo.
   A un certo punto, ancorata a un tronco diversi metri più in basso, vide Petra. Il volto tumefatto, sangue raffermo le incrostava le labbra spaccate e il naso rotto in una striscia brunastra. La donna era quasi irriconoscibile, se non fosse per i singolari capelli rossi, che tiravano sull’arancione, smossi dal vento. Il corpo sfondato, spiaccicato come quello di un insulso insetto contro la corteccia dell’albero in una posa d’innaturale contemplazione. I gioviali occhioni nocciola, ora a mezz’asta come in preghiera, spenti.
   Richiuse di nuovo i propri, soffocando il bisogno di piangere e tutto cambiò una seconda vola. Si ritrovò seduto sul tetto fatiscente di una casa diroccata; i talloni incastrati laddove le tegole erano venute a mancare. Accanto a lui Erwin sdraiato a bearsi i pallidi raggi del giorno. L'unico braccio rimastogli riposava sull'addome.
   Non parlava Levi - non che fosse il suo forte conversare -, si limitò a perscrutare lo scenario apocalittico dinnanzi a sé. Le mura distrutte, le abitazioni che stavano pian piano venendo inghiottite dalla vegetazione. A guarnizione dei muri in rovina di quella città fantasma, licheni, edera rampicante si alternavano ai tappetini di bellissimi fiori bianchi e rosa dai riflessi argentati, il cui profumo si mescolava al soffocante odore dei fumogeni che ancora si disperdevano in aria. La vita si contrastava crudelmente con le membra dei caduti, disseminati ovunque il suo sguardo afflitto potesse posarsi.
   Con la coda dell'occhio osservò l'abbraccio in cui si strinsero Eren e Mikasa ad Armin, quasi soffocandolo in uno stato confusionale. Nello shock della prima trasformazione, ancora non sapeva cos'era accaduto.
   Tornò a guardare Erwin stavolta incapace di trattenere la contrizione, e per un attimo indugiò sull'idea di sfiorargli la chioma baciata dall’aurora, perfettamente pettinata. Era un gesto che non aveva mai potuto permettersi di compiere, e quella sarebbe stata la sua ultima occasione di realizzare il desiderio di sentire le sue ciocche lisce scorrergli tra le dita. Di scoprire come fossero al tocco. L'estremo saluto al suo compagno d'arme, al suo mentore, amico e confidente fidato, eppure ritrasse la mano. Represse l'impulso e guardò nuovamente l'arcata celeste sopra la sua testa, come se stesse vedendo qualcuno.
   Qualcuno che ricambiava l’occhiata.
   Lasciò andare Erwin con la dignità con cui era vissuto, privato di sentimentalismi e piagnistei. Questa era la fine che il Comandante Smith aveva scelto per se stesso. Nessun rimpianto.
   Per un attimo intravide il volto di un altro comandante sovrapporsi a quello dell’uomo, adesso castano, dai tratti somatici più morbidi e una benda simile alla propria, ma speculare. Tuttavia non riuscì a lasciare che quel ricordo lo sovrastasse.
   «Dovevi pensarci prima, Levi».
   Il respiro che violò la linea dei suoi denti tremò e sapeva di pianto, «Non è troppo tardi per tornare indietro. Hai ancora tantissime possibilità—».
   «Invece è troppo tardi», lo sguardo della donna era adamantino. Lo inchiodò sul posto, trapassandolo da parte a parte, più tagliente di una spada. «Se vuoi tirarti indietro perché tu non hai il coraggio di stare con me, con una marleyana, fallo. Scappa. Ma non rigirare la frittata con la scusa che lo fai per me». Detto ciò si alzò, incamminandosi a passo spedito verso la riva. Non si arrestò finché la gelida acqua del mare non le ricoprì i piedi, trascinando qualche granello di sabbia che si incastrò tra le sue dita.
   Sentì alle sue spalle l’incespicante andatura del corvino che la raggiungeva, ma si rifiutò di voltarsi anche quand’egli le circondò le spalle con un braccio e la incollò a sé. Schiena contro petto. L’alito tiepido si impigliò tra i suoi capelli, mentre Levi vi poggiava delicatamente sopra le labbra.
   «Perdonami», supplicò direttamente sulla sua nuca, «Sono un idiota».
   «Sì, lo sei», confermò lei, non nascondendo la stizza pur accettando il contatto.
   «Sono sincero quando dico che mi preoccupo per la tua incolumità e per la salvaguardia della tua posizione». La presa sulle spalle di Lyra si strinse, «E che penso di non essere alla tua altezza».
   L’insegnante si girò tra le sue braccia, allacciando le proprie dietro la vita del barista, «Questo lascialo decidere a me».
   I due si guardarono a lungo senza parlare. Giacchio che si scioglieva nel fuoco. Le mani di uno indugiavano sul corpo dell’altro, mentre i loro visi si avvicinavano sempre più, come trascinati da una forza invisibile. Un magnetismo incontrollabile e che esisteva solo tra loro. Levi non si era mai sentito così connesso ad una persona prima di allora. E fu in quel preciso istante, con lei che lo fissava a un soffio da suggellare un bacio, che la verità lo investì.
   Quella era la sua ultima opportunità di amare. Di essere amato. Di costruire qualcosa al posto di distruggere.
   Di essere felice.
   Un incommensurabile senso di colpa si fece beffa di lui, incapace di annullare la sensazione che egli sarebbe stato la disfatta di quella ragazza. Una straordinaria giovane donna che non si meritava il fardello che Levi si portava appresso. Ma accanto a ciò si fece largo un altro sentimento, ben più intimo e potente, in grado di annichilire il suo tormento. Forse era egoista aggrapparvisi, ma, per una volta, scelse di seguire il cuore e non la testa. Di mettersi al primo posto e lasciarsi andare a qualcosa che non poteva controllare e di cui non poteva fare a meno.
   La guardò col cardio che sembrava volesse uscirgli dal petto; i polpastrelli le sfiorarono la guancia andandosi ad sistemare dietro l’orecchio, e il pollice tracciò prima il contorno della bocca, poi il profilo dello zigomo. Infine annullò la distanza fra loro, le labbra s’incastrarono come due tessere d’un puzzle perfetto, modellandosi l’une nel tepore delle altre in un affamato segno di venerazione.
   Le loro bocche, i loro respiri, i loro nasi, le loro mani, tutto dei loro corpi e delle loro anime era destinato ad essere un tutt’uno.
   Con ancora i volto appiccicati, Levi portò le braccia a circondarle i fianchi, le mani ben affrancate al costato la sollevò in aria. Lyra soffocò un sussulto di sorpresa che presto diventò una risata piena e spontanea, ben salda alle sue spalle. La fece volteggiare come se danzassero, giravano affondando nella sabbia soffice e bagnata; la brezza scompigliava loro i capelli, qualche brivido gli percorse la schiena. Non seppe dire se per la spuma di mare o per la piacevole sensazione di avere la dottoranda avvinghiata a sé.
   La scortò ai teli e la adagiò con cura, prima di avvolgerla nella coperta e baciarla di nuovo.
   «Cosa c’è nella cesta?», smorzò lei mordendosi il labbro inferiore. Un sorrisetto furbo stampato in viso e un guizzo ad animarle lo sguardo, ora luminoso e denso come miele. All’ombra dell’ombrellone, pagliuzze dorate punteggiavano le iridi altrimenti uniformi.
   «Un semplice aperitivo», la bozza di un sorriso mentre le porgeva un sandwich che la castana addentò con gusto. Un mugugno di soddisfazione la tradì, assaporando la zuccherosità del mango e la corposità dell’avocado che, tagliati a listarelle, furono insaporiti da zenzero e coriandolo, scontrandosi con la consistenza delicata dell’anatra bagnata nella soia.
   «È fantastico», ammise in un sospiro, «Levi, è la cosa più buona che abbia mai mangiato».
   Il corvino ridacchiò, «Mikasa sarà felice di saperlo».
   Un sopracciglio si arcuò quasi impercettibilmente, «Mikasa?».
   «Mikasa Ackerman, una mia lontana parente. Non sappiamo nemmeno noi quale sia il nostro preciso grado di parentela. Discende dal ramo cadetto, da quel che so. Non ho mai conosciuto nessuno della mia famiglia a parte mia madre e mio zio».
   La sua espressione s’incrinò, «Capisco. Comunque il suo nome mi è familiare», deviò il discorso.
   «Era una soldatessa invincibile. A quanto pare è una caratteristica del nostro sangue», sbuffò, «Ma il suo giudizio è spesso stato compromesso».
   «Compromesso?».
   «Dall’amore», si schiarì la gola, «Tuttavia, ha saputo prendere la decisione giusta, alla fine. Seppur rinunciando all’amore della sua vita».
   «Eren Jaeger», intuì l’altra, «La ragazza che gli tagliò la testa era la sua innamorata. Mikasa Ackerman».
   L’uomo annuì, «Una vera tragedia. Li ho visti crescere, sai? Erano solo dei ragazzini di quindici anni quando l’incontrai la prima volta, ma l’orrore d’essere assediati da quelli li aveva già derubati della loro innocenza. Ho assistito a come il loro sentimento cresceva giorno per giorno. Mikasa non l’ha mai nascosto», sogghignò cupo, «Eren d’altro canto…».
   La docente gli accarezzò l’avambraccio, «Immagino abbia imparato da qualcuno», si morse la punta della lingua giocosa, scatenandogli una sommessa risata. Quanto aveva ragione.
   «Può darsi», convenne, «Ad ogni modo, Mikasa è un’Azumabito da parte di madre. Quello che stai mangiando sono ingredienti originari di Hizuru».
   Lei s’illuminò, «Hizuru! Mi piacerebbe tanto andarci. Dicono sia un luogo magico». Prese un altro morso, gustandolo appieno, «Se si mangia così bene, potrei anche non voler più tornare a casa», ghignò, «Ma qui dentro c’è il tuo zampino, quindi è fuorviante». Vederla mangiare con così tanto appetito era uno spettacolo per gli occhi. Sapere che era merito suo lo inorgoglì come in poche altre occasioni era accaduto. Anche con un gesto insignificante come apprezzare la sua cucina (uno stupido tramezzino per di più) sapeva farlo sentire completo.
   Lyra era la sua persona.


 
Con questo capitolo si conclude il breve racconto su come un tenebroso soldato in esilio si ricostruì una nuova vita, una nuova serenità lontano dalla propria patria e dai propri affetti. Di come riuscì a trovare la bellezza in un mondo fin troppo crudele e fragile.
Spero vi sia piaciuto leggere come è sbocciato l'amore tra Levi e Lyra, a cui un giorno mi piacerebbe dare un seguito (sempre se vorrete saperlo).

Un ringraziamento a tutti coloro che hanno inserito questa FF nei preferiti/seguiti/ricordati, a chi è stato così gentile da lasciarmi un feedback. Mi auguro di non avervi deluso e che la lunga attesa di quest'ultimo capitolo sia stata ben ripagata.
Grazie mille, cari lettori e care lettrici.

Un caldo abbraccio,
Claire DeLune

PS: Per chi vorrà, ci sentiremo ancora con Unspoken e con un paio di storie che ho in programma!
   
 
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