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Autore: MaikoxMilo    18/12/2022    4 recensioni
Sulla scia del racconto de "Il Piccolo Principe", la storia dell'evolversi del difficoltoso rapporto tra Camus e Hyoga, maestro e allievo, padre e figlio, tra inciampi vari, incomprensioni, modi di essere così apparentemente distanti eppure così simili. Perché proprio come l'aviatore, anche Camus impara a ritrovare sè stesso solo grazie al bimbetto dai capelli color del grano che, un giorno di febbraio lontano, in Siberia, entra nella sua vita, per lasciarci il segno.
DAL CAPITOLO SECONDO:
“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”
Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.
“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.
Imparai a mie spese che 'dritto davanti a sé' era davvero sin troppo limitato!
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Tengo quello stesso pendaglio, seppur ora così diverso di forma, tra le mie dita. Sospiro, sentendomi smarrito davanti all’ennesimo mistero. Osservo nuovamente il viso lontano di Hyoga, rischiarato dalla fioca luce che penetra da fuori. E’ ancora rassomigliante a quello di allora, così illuminato da sembrare una falce lunare che si rispecchia nel mezzo di un laghetto segreto. E’ cresciuto, lo so bene, ma ancora, mi pare quell’esserino fragile che io dovevo proteggere… ancora, sebbene sia arrivato molto più distante di me, sebbene sia un uomo… infinitamente migliore di me! Ed io… cosa ho potuto fare per lui? Cosa, per impedirgli di finire così, a lottare disperatamente tra la vita e la morte. Che cosa?!

Un padre dovrebbe saper proteggere le proprie creature. Non ci sono riuscito con Isaac; non ci sono riuscito nemmeno con lui, con il mio Hyoga, anzi, è stato lui a dover…

Serro la mascella nel trattenere un singhiozzo dentro di me. Stringo convulsamente il pendaglio rotto a seguito dell’ultima battaglia per poi incassare la testa tra le spalle, al limite. Mi sento… al limite!

Vorrei urlare, ma a cosa gioverebbe?! Ho detto a Michela che piangere è inutile, che non aiuterà Hyoga a salvarsi. Lei si è costretta ad asciugarsi le lacrime, ingoiando a vuoto il magone. Sta diventando davvero forte, così come Marta e Francesca. Posso io cedere?! Dopo tutti gli insegnamenti impartiti ai mie ragazzi? No, non mi è concesso!

Mi alzo brevemente in piedi, tremante, per accarezzare dolcemente i capelli color del grano del mio Hyoga, smarrito in chissà quali lidi dell’incoscienza. Infine, sollevandogli un poco la testa, gli metto il ciondolo al collo, riaccompagnandolo poi giù sul cuscino.

“Questo è tuo, piccolo… è la tua benedizione!” gli sussurro a fatica, prima di baciargli la fronte stentatamente calda e prendergli la mano tra le mie.

“Quel giorno… - provo a parlargli, anche se a fatica – pensasti che il pendaglio che ti aveva regalato tua madre fosse del tutto simile a 100, 1000 altri. Non è così, Hyoga, è il tuo tesoro, è la sua protezione per te, e adesso… ha perfino cambiato forma, non è più una semplice croce ortodossa. Sono sicuro che ti piacerà ancora di più, nessuno di noi ha mai visto una cosa lontanamente simile a questa, né Shaka né Mu, è davvero particolare e… devi vederla con i tuoi occhi, ti sorprenderà!”

Gli accarezzo delicatamente il palmo con il pollice, cercando di sollecitarlo a reagire, sebbene versi in condizioni pressoché disperate.

Ha perso così tanto sangue -il mio occhio cade automaticamente sulle bende che gli stringono la parte alta dell’addome- la sua pelle è secca, tirata. Ad eccezione dei bordi della ferita che sono molto caldi, sembra quasi freddo al tocco, nonostante il cuore invitto batta ancora strenuamente, così come è sempre stato il mio ragazzo, forte e delicato al tempo stesso.

“Ti voglio bene, Hyoga, perdonami… perdonami se non sono mai stato capace di dirtelo, di essere franco con te, di manifestare quanto tu fossi importante per me. Sei… sei mio figlio, piccolo! Sai, una delle gioie più grandi della mia vita è stata quella di crescervi, tu ed Isaac. Sono… avete reso la mia vita così luminosa, l-la mia...”

Mi devo fermare, non riesco più a parlare, qualcosa mi blocca in gola e fa male. Mi occorrono diversi minuti per riprendermi. Lo osservo ancora, un fremito più intenso mi pervade. Nella paura che possa avere freddo, perché siamo ormai a dicembre, gli rimbocco meglio le coperte, adagiandogli compostamente la mano sopra le lenzuola. Lo continuo ad accarezzare per diversi minuti, tornando solo in un secondo momento a recuperare il libro che avevo momentaneamente messo da parte.

“Sono qui, Hyoga, non arrenderti! - lo provo ad incoraggiare, riaprendo le pagine che avevo lasciato in sospeso – Sono qui. Ora continuo, so che ti piace tanto sentirmi leggere, lo chiedevi spesso da bambino...”

Non riesco tuttavia a ricominciare subito, perché la porta si apre e una figura conosciuta entra nella stanza, zampettando in maniera buffa verso di me.

“Marta… - la saluto, sforzandomi di sorriderle, sebbene mi riesca difficile, mentre la luce della lampada rischiara la sua figura avvolta ancora dalla camicia da notte – Non ti sei concessa che sole poche ore di riposo...”

“Oh, fratellino, tu invece proprio nulla, sei ancora qui. Non… non ti sei staccato un attimo da lui!” mi rimprovera bonariamente, lo sguardo lucido.

“Non riesco ad allontanarmi… - le dico, prima di far trasparire il mio pensiero completo – Ho paura che mi scivoli via...”

Mi raschia la gola a dover esprimere una cosa simile. Le palpebre mi pungono, il peso sul mio petto si acuisce, l’aria sembra mancarmi... eppure non riesco a non essere cristallino con lei: è il mio sostegno!

Lei sente sempre più intensamente ciò che provo, una parte di me non lo vorrebbe, l’altra… si aggrappa con tutta sé stessa a questa consapevolezza! Mi ha percepito prima, l’altro giorno, quando ho dovuto decidere se far tentare a Hyoga l’operazione di emergenza con il rischio che mi morisse sotto i ferri; lo sente anche adesso, che sono così sperso e in balia di tutto e tutti.

Devo essermi indebolito in questi anni... prima affrontavo -o cercavo di affrontare!- tutto da solo, con le mie sole forze, ora non ci riuscirei più. Ho bisogno di lei, della mia sorellina, di Michela, di Francesca, di Sonia, di Milo, degli altri Cavalieri d’Oro; ho bisogno di tutti loro e… anche il mio Hyoga ne ha bisogno, perché se non fosse stato per gli altri lui non sarebbe più qui.

Marta rimane in silenzio per una serie di secondi, sempre più partecipe del mio stato, poi, accorgendosi del libro che tengo tra le mani e che sto leggendo al mio Hyoga, mi sorride con calore.

“Il Piccolo Principe! - mi dice, gli occhietti luminosi, sfiorando appena i ciuffi biondi del mio ragazzo per fargli forza a sua volta – E’ uno dei mie libri preferiti! Da noi, ti parlo di quando facevo le Elementari, è venuta apposta un’insegnante per leggercelo. Ci abbiamo fatto anche un lavoro di gruppo!” mi racconta, in tono basso ma tangibile.

“Sì… - confermo, prima di recuperare aria per parlare – E’ di Hyoga, lo ha sempre tenuto nella sacca gialla di cui ti ho parlato. E’ il suo tesoro insieme al ciondolo!”

“Il ciondolo, quello che teneva al collo e che si è spezzato nella battaglia?” chiede conferma lei, dispiaciuta.

“S-sì, quello!” lo indico con un cenno del dito nel farle notare la nuova forma assunta, inspiegabile ai nostri occhi.

“E’ un mistero e un prodigio, ma lo trovo comunque più bello rispetto a prima.”

“Qualunque sia la sua forma, ciò che conta è la sostanza: è l’ultimo lascito di sua madre Natassia!”

“Vero. - conferma lei, intenerita, prima di tornare a concentrarsi sulla copertina del libro – Quindi glielo stai leggendo in russo?!”

Stavolta non le rispondo verbalmente, ma annuisco, prima di lasciarlo tra le sue mani in modo che lo possa sfogliare con agio.

“Ah, ma guarda, è davvero complicatissimo ma riesco a capirlo, a grandi linee!” esclama, sinceramente meravigliata dalla scoperta.

“Seraphina, suppongo.” le sorrido sempre più a fatica, scompigliandole teneramente i capelli.

“Sì, è grazie a lei che...”

Lascia la frase in sospeso, sospirando appena, prima di passarmi nuovamente il libro.

“Il russo è davvero complicato, confermo, ma è la lingua madre di Hyoga, ho pensato che… che potesse farlo sentire più a casa!” le rivelo, sebbene anche in questo caso la voce mi si spezzi a metà.

“Fratellino…” il suono con cui pronuncia l’appellativo mi riscalda il cuore, sollevandomi un poco d’animo.

“Marta, io...”

...Ho tanto bisogno di te, per non crollare, e tu… tu sei sempre qui con me, piccola mia! Mi dispiace, percepisci il mio stato d’animo su di te, non deve essere facile prendere sonno con le mie emozioni che ti soverchiano, ma non le rifiuti, anzi, mi aiuti a capirle, io che con le emozioni ho sempre avuto difficoltà, io che nella mia vita ho sempre sbagliato. Con Hyoga. Ma anche con tutti voi.

“A che punto sei?” mi chiede ad un certo punto, probabilmente percependo le mie difficoltà.

“A-alla volpe, deve arrivare lei...”

“Continua… è un pezzo bellissimo!” mi esorta, rannicchiandosi nuovamente sul letto, il mento appoggiato alle braccia, gli occhi vispi che mi osservano.

Ed io continuo, un po’ perché incoraggiato dalla sua presenza, un po’ perché è davvero un pezzo bellissimo, e un altro po’ perché vorrei ricordare a mio figlio una cosa, la più importante…

Discorro lentamente, calcando con lentezza le frasi, in modo che lui le riesca ad udirmi e seguire la mia voce, ovunque si trovi ora la sua coscienza.

Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, ed io sarò per te unica al mondo.

(…) C’è un fiore… credo mi abbia addomesticato…

I miei ragazzi mi hanno addomesticato… aveva ragione Isaac quella volta -realizzo, con una punta di paura e brivido- i miei ragazzi, i miei fiori…

“La mia vita è monotona… - gracchio, a fatica, raschiandomi la gola perché l’emozione è davvero tanta, troppo, a stento la trattengo – Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata...”

“...Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. - continua al posto mio Marta, in italiano, gli occhi chiusi e un leggere sorriso sulle labbra, come se conoscesse tutto alla perfezione – Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...”

“Conosci tutto a memoria… deve piacerti parecchio!” le sorrido, permettendomi ancora una volta di accarezzarle la testa con la punta delle dita.

Riuscissi a spiegarti quanto mi sei cara, piccola mia, quanta forza mi da la tua vicinanza…

“Come ti dicevo… è uno dei miei libri preferiti della mia infanzia insieme alla Gabbianella e il Gatto. Più ancora… - si alza in piedi, compie pochi passi, prima circondarmi le spalle con le braccia in una stretta delicata e salvifica al tempo stesso. Appoggia dolcemente la testa sulla mia e tutto, per un istante, sembra raddrizzarsi – E’ così che ti vedo anche io.”

“M-Marta...” poso di riflesso una delle mie mani sul suo polso destro, stringendo appena la presa.

Anche io vi vedo così. Avete tutti un ruolo nel mio cuore, una parte solo vostra che non vi può strappare nessuno. Vi voglio bene, vorrei essere capace di dimostrarvelo come voi tutti fate con me. Vorrei essere riuscito a dirglielo anche a Hyoga, prima di tutto questo, vorrei che lo avesse capito, di quanto lui sia essenziale per me. Non l’ombra di Isaac, non la tua ombra, Marta, ma lui… solo lui, il mio ragazzo dai capelli color del grano che ho cresciuto io, il mio Hyoga!

“Sei tu ciò che il Piccolo Principe è per la volpe.” farfuglia, un poco imbarazzata, stringendo la presa su di me. Anche io la stringo di riflesso su lei, lasciandomi cullare.

“Pi-piccola… - ancora le parole mi muoiono in gola, faticando non poco ad uscire – L-lo sei anche tu, p-per me, mi hai… mi avete... insegnato così tanto!”

“Grazie, tu hai fatto lo stesso per noi, ma sei un testone e non te ne rendi conto...”

No, grazie a te per essere al mio fianco, per essere il mio sostegno, il mio porto, il luogo sicuro, dove mi sento protetto… la mia casa!

“Stai facendo passi da gigante, lo sai, Cam? Sono… sono così orgogliosa di te!”

Mi lascio andare ad un sospiro prolungato, appoggiandomi quasi completamente su di lei, confortato dalla sua vicinanza e dal suo calore. Nello stesso momento, con le dita, le accarezzo il polso con movimenti delicati. Vorrei fare di più per lei, farle percepire tutto ciò che sento, la sicurezza che provo nell’averla sempre, sempre, al mio fianco. Ma non sono bravo con le parole, in questo non sono cambiato rispetto ad allora e...e…

“Stai tranquillo… - lei deve percepire il mio respiro accelerato per l’emozione, mi bacia teneramente la nuca, prima di riprendere a parlare – Andrà per il meglio, hai allievi molto forti, Cam!” mi rassicura, socchiudendo gli occhi.

Annuisco, rimanendo un po’ lì, il libro tenuto sulle ginocchia, l’altra mano sopra la copertina e il cuore in tumulto. Imito il suo gesto di socchiudere gli occhi, rendendomi conto per la prima volta di essere davvero stanco.

“Devi crederlo con tutto te stesso, intesi? Sei tu che li hai addestrati!”

“I-io li ho addestrati, ma loro… l-loro...”

“Loro..?” mi incentiva, riaprendo gli occhioni che mi scrutano nel profondo.

“Penso mia abbiano addomesticato, Marta… i miei ragazzi...”

“Può darsi sia successo, sì. - ridacchia lei, staccandosi un poco – Accade di tutto in Siberia Orientale!” ricalca poi una frase del libro, facendomi l’occhiolino.

“Mi avete addomesticato un po’ tutti, in realtà...”

“Questo non è per forza una male: addomesticare significa creare dei legami!” mi risponde saggiamente lei, sempre ricalcando il libro.

“L-lo disse anche Isaac quel giorno, penso avesse riflettuto molto sul concetto di addomesticare...”

“Quale giorno?” mi domanda lei, attenta, riprendendo posto sulla sua sedia.

Taccio per una serie di secondi, con lo sguardo torno su Hyoga. Il suo respiro sembra un poco mutato, facendosi più forte e sicuro. Richiudo quindi il il libro con il pensiero di continuare a leggerglielo dopo. Di nuovo gli prendo la mano tra le mie, di nuovo gliela stringo, tentando di fargli percepire la mia presenza e dargli tanto coraggio, più di quanto ne abbia dimostrato in tutti questi anni.

Forza, piccolo… sono con te, SIAMO con te! Resisti!

“Quel giorno che Isaac, con la sua semplicità e a parole molto schiette, le stesse attitudini tue... – le sorrido con calore, accorgendomi ancora una vola di quanto il mio soldo di cacio e la mia sorellina si assomiglino – riuscì, lui solo, a far comprendere a Hyoga il reale significato, e l’importanza, del regalo di sua madre...”

 

 

Avevo preso l’abitudine di osservare spesso i miei ragazzi in diversi momenti della giornata, anche e soprattutto quando loro non si accorgevano della mia presenza. Così accadde quel giorno. Era fine settembre, ormai, e il tempo volgeva al brutto. La prima neve era infatti già caduta oltre il Circolo Polare Artico, Pevek e i dintorni non facevano eccezione. In mattinata ero andato a comprare le provviste in città, mi ero mosso con la solita slitta di Husky ma avevo preferito lasciare i miei allievi a casa.

Avevo fatto più in fretta del previsto e, una volta rientrato, li avevo visti intenti a giocare in camera loro con i vagoni del trenino e le statuine che gli avevo regalato quell’estate. Non si erano accorti del mio arrivo, troppo presi a giocare tra loro come due bambini normali, pertanto, una volta finito di mettere a posto la roba, avevo acceso il bollitore per farmi qualcosa di caldo. Ultimati i preparativi, sempre con il massimo riserbo, mi ero quindi recato dietro il muro di camera loro, dove mi ero seduto appoggiandomi. La porta della cameretta era aperta, la luce rischiarava parzialmente la parete di fronte a me, tramite la quale mi era così possibile scorgere le loro ombre quando si alzavano e passavano da lì per muoversi.

Sorrisi, rimanendo in ascolto dei loro parlottii e dei piccoli rumori che producevano. Al contempo, cercavo anche di figurarmeli in testa, i loro visetti, la luce che li rischiarava, le loro espressioni. Ero felice e forse neanche lo sapevo, mentre, prendendo una prima sorsata della bevanda calda nella tazza, il sapore inconfondibile della cannella mi si stampava nel palato. Tesi maggiormente l’orecchio verso loro, su quello che stava architettando.

Isaac, al solito, era il più attivo dei due. Dirigeva e coordinava i movimenti per la costruzione della ferrovia sulla quale poi avrebbero inaugurato il trenino. Aveva già un piano in testa, ben delineato, e faceva di tutto per arrivare all’obiettivo finale che si era prefissato lui stesso. Hyoga, al contrario, eseguiva docile, senza opporsi, meticolosamente, prestando attenzione anche ai particolari apparentemente più insignificanti.

Assaporai il secondo sorso prima di buttarlo giù, trovando piacevole il calore che si diradava nella mia gola. Quasi inconsciamente, venni carpito dai movimenti concentrici del liquido che veniva mosso dalla mia mano. Mi soffermai anche sul colore di quella tisana, tendente quasi al rosso, complice la presenza della mela essiccata. Pareva una cosa da nulla, in verità, eppure parte della mia felicità era data anche da quella: lì, in quello spazio di tempo, lontano dagli ordini spietati del Santuario, ero un semplice ragazzo a cui piaceva soffermarsi ad osservare i giochi di due bambini altrettanto normali.

“Oh, attento, Hyoga, così non...”

Avvertii appena l’esclamazione di Isaac, prima di udire il rumore di innumerevoli pezzi che finivano sparpagliati sul pavimento. Attimi di silenzio, poi la silhouette di Hyoga fece capolino sulla parete illuminata dalla luce. Dalla leggera curvatura del capo ne dedussi che fosse rammaricato.

“Scusami, Isaac...”

Percepii nell’aria un sospiro prolungato, qualcosa doveva essere andato storto nei preparativi. Generalmente, il non riuscire negli obiettivi prestabiliti, non piaceva affatto ad Isaac, ma quella volta, sorprendendomi non poco, non disse niente. Semplicemente aiutò il compagno a rimettere in ordine prima di aprire il discorso.

“Che ti succede, Hyoga? Sei fuori forma?” chiese poi, un poco apprensivo.

“Io...”

Hyoga aveva le mie stesse difficoltà di esprimersi a parole, se poteva, non si pronunciava su questioni private. Con me lo aveva fatto perché si era trovato costretto a spiegarsi, avendolo beccato a crucciarsi dalla finestra quei giorni che ci eravamo recati ad Anadyr.

In effetti, era proprio da quel momento che si era chiuso ancora di più. Sempre più soventemente era malinconico, serrato nel suo dolore, nella sua sofferenza, nelle domande, senza risposta alcuna, sul perché sua madre gli avesse fatto un regalo che, per lui, doveva essere unico e irripetibile, ma che, in verità, era uguale a cento, mille altri ciondoli che raffiguravano tutti croci ortodosse di fattura pressoché identica.

Io, al solito, avevo deciso di non tirare più fuori quella questione, sbagliando evidentemente, nella speranza che al piccolo passasse, ma… non gli era passata affatto! Neanche si esprimeva, del resto, ed io… non ero adatto a dischiuderlo dal guscio.

Presi un’altra sorsata, rigirandomela brevemente nel palato prima di deglutire, poi posai la tazza per terra, al mio fianco.

“Ho scoperto una cosa che mi ha fatto male...” riuscì infine a mormorare Hyoga, con estrema difficoltà.

“Una cosa… COSA?” la voce di Isaac era trillante, la curiosità stava nuovamente prendendo il sopravvento, cosa che invece metteva sempre sulla difensiva l’altro piccolo.

Con Hyoga bisognava sempre andarci con i passi leggeri, aspettare, tastare il terreno più volte, non forzarlo, un po’ come con me, ma il mio soldo di cacio era ancora immaturo su quello, non riusciva ancora a trattenersi, in certe circostanze. Contro le previsioni di tutti, tuttavia, il bambino dai capelli color del grano ci sorprese.

“Ti è mai capitato di… di considerare unico e speciale un oggetto e poi capire che, in fondo, così unico e speciale non lo è?”

“Hai voglia! Mi è successo con una foglia di… di acero, un giorno che i miei genitori mi avevano portato con loro in un viaggio verso Sud. Era rossa, io le foglie rosse non le avevo mai viste, pensavo che fosse una cosa rara, che venisse da un altro mondo; ma proprio da un altro pianeta, sai?! Ero così elettrizzato, al mio ritorno nel villaggio dove abitavo con i miei l’ho fatta vedere a tutti, la custodivo gelosamente, ma poi...”

“Poi?”

Vidi la sagoma di Isaac alzarsi a sua volta, allargare le braccia, prima di congiungerle e picchiettare i due indici uno contro l’altro.

“Poi la feci vedere alla balia che teneva me e altri bambini quando i nostri genitori non potevano, anche lei veniva dal Sud, conosceva molte cose. Comunque la vide, se la rigirò tra le mani, mi aspettavo che mi dicesse chissà cosa, sai? E invece… lei mi spiegò che in autunno molti alberi perdono le foglie, che prima di questo passaggio si tingono dei più svariati colori, anche se il perché non me lo ricordo... - ammise, in tono un poco più fievole, prima di darsi una scrollata – La mia bellissima foglia di acero era quindi uguale a cento, mille, altre foglie di acero… Mi è caduto il mondo addosso!”

La sua voce era forzatamente salita per calcare il suo stato emotivo. Il mio soldo di cacio era abile a farlo, aveva una tonalità e un accento per ogni evenienza ed era bravissimo a comunicare con chiunque. Una dote, la sua, che gli invidiavo, anche se tendeva a mostrare, sbagliando, troppa parte di sé agli altri.

“Insomma una brutta faccenda...” si trovò d’accordo Hyoga, dispiaciuto

“Questo è l’esempio più… - gli mancava la parola ‘eclatante’, fece spallucce e continuò – Beh, comunque buttai via la foglia, alla fine.”

“Uh… no!”

“Sì, ero scemo… - sospirò, non nascondendo il biasimo – E poi non è mica vero che tutte le foglie sono uguali in autunno, me lo ha insegnato il Maestro Camus: esse possono cambiare enormemente anche se appartengono allo stesso albero-madre, dipende da un sacco di fattori. Non c’è, non ci può essere, una foglia del tutto identica all’altra!”

“Quindi… hai buttato via una cosa che era veramente unica.”

“Già...”

“Il mio invece doveva essere un regalo solo mio… speciale, solo per me!” si lasciò sfuggire Hyoga, in tono sempre più sofferente.

“Un regalo?” chiese conferma Isaac, tutto attento.

“Sì, di mia madre.”

“E non lo consideri speciale?”

“Lo consideravo tale… ma non lo è!

“E perché?”

Non ci fu subito risposta verbale, il piccolo si alzò in piedi e diresse i suoi passi verso un angolo della stanza. Pochi secondi dopo, giunse alle mie orecchie il suono delle sue manine che frugavano dentro la sacca. Capii, da quei rumori di sottofondo, che stava estraendo la collana con la croce ortodossa che già aveva mostrato a me quella notte inconsolabile in cui si era rannicchiato tra le mie braccia. Altri passi nella stanza, un tintinnio, di nuovo la sua sagoma sul muro nell’atto di posare il ciondolo tra le mani del compagno.

“Una croce dorata?” chiese Isaac, in tono interrogativo, osservandola con attenzione

“Sì, una croce… uguale a centomila altre croci!” commentò aspramente Hyoga, provato da quella affermazione. Non se ne era fatto ancora una ragione.

“Non capisco, Hyoga...”

“Mia madre me la diede come protezione. Io la pensavo unica e speciale, invece… - prese una pausa, inghiottendo a vuoto – Quando siamo andati alla Fiera dell’Est con il Maestro Camus, in quel negozio, ce ne erano altre, tutte uguali!”

“E’ vero, lo ricordo...”

“Quindi… quindi non è affatto un qualcosa di unico e speciale, è un oggetto come tanti, uguale a centomila altri. Io mi credevo ricco… di una cosa che è banale!”

Il suo tono tremava nel pronunciare quelle parole, ma non piangeva, non più, aveva smesso già da un po’, come se le lacrime gli si fossero finalmente congelate nel petto. Passarono altri secondi di silenzio, poi ad un certo punto…

“Non è vero, non è banale! E tu sei un tontastro, Hyoga!” gli disse Isaac, con un pizzico di severità nella voce, prima di dargli amichevolmente un pugnetto dietro la nuca.

“I-io...” Hyoga sembrava interdetto da quell’affermazione. Vidi il suo braccio piegarsi maldestro per consentire alla mano di massaggiarsi la zona colpita.

Si leggeva stupore, tra le righe, e attesi che il discorso continuasse.

“Non è banale, è un esemplare unico!” affermò con ancora più decisione Isaac.

“Ma… ma se è uguale a...”

“Può sembrare uguale, sì, ma non lo è, Hyoga, non lo è! - il tono di Isaac si era fatto caldo, percepii un sorriso increspargli le labbra – E’ il regalo che la tua mamma ha pensato per te!”

Hyoga, a giudicare dal silenzio pesante che si era creato, era rimasto a bocca aperta, tremante, trepidante, assolutamente affascinato dalle parole del compagno di addestramento.

Vidi, tramite le ombre sulla parete, Isaac muoversi verso di lui, gli mise la collana al collo prima di guardarlo frontalmente, posandogli le mani sulle spalle in un gesto amichevole e aperto.

“Sono io a non capire adesso, Isaac...” sussurrò il piccolo dai capelli color del grano, in un sussurro.

“Questa croce è speciale… perché può essere simile alle altre che hai visto al negozio, sì, ma non lo è! Questa è la collana che tua madre ha scelto per te, per proteggerti, proprio questa, tra quelle che poteva scegliere! Ha pensato a te, mentre la prendeva, a te solo, è la tua collana, Hyoga, solo tua… già questo la rende straordinaria!”

“Lo è… perché è il suo regalo? Perché ha pensato alla mia protezione quando l’ha presa?”

“Quando l’ha presa, o forse chissà, era un ricordo di famiglia. Se così fosse, è ancora più speciale: porta con sé la benedizione dei tuoi avi!” azzardò una ipotesi Isaac, quasi in fibrillazione nel pronunciare quelle parole.

Hyoga sembrava stupito e sbalordito, stentava ancora a crederci, o forse non ci aveva proprio pensato. Rimase attonito, davanti ad Isaac, il quale, dopo alcune pacche sulle sue spalle, si girò in direzione opposta.

“Mi hai mostrato finalmente cosa celavi con così tanta cura nello zainetto giallo… allora anche io ti faccio vedere una cosa che custodisco gelosamente!” affermò, dirigendosi verso il suo comodino per aprire il cassetto, estrarre qualcosa, e tornare così dal compagno di addestramento.

Dall’ombra proiettata sul muro, lo vidi intento a sfasciare con cura l’oggetto, prima di porgerglielo a Hyoga. Da quel poco che percepivo, aveva una forma ovoidale.

“Questa è… una pietra?!”

“Una pietra uguale a cento, mille, anzi diecimila altre pietre, sì… ma solo in apparenza!” rispose tutto orgoglioso Isaac, gli occhi che mi immaginavo brillanti, anche se non li potevo vedere direttamente.

“E’ un regalo anche il tuo?” ne dedusse Hyoga, rigirandosi l’oggetto tra le mani con estrema attenzione, quasi avesse paura di danneggiarlo, scalfirlo o anche solo sporcarlo.

“Mmh, sì, di mio padre, sai… mio padre! – ebbe un fremito, si avvertì nell’aria, come accadeva sempre quando nominava il genitore a cui era così legato. Riuscì a ricomporsi solo diversi secondi dopo – Era… era un appassionato di rocce e minerali, questa la prese in uno dei suoi viaggi verso l’estremo Nord.”

“Però… però potrebbe sembrare una comunissima pietra grigia di quelle che si possono trovare un po’ ovunque sulle spiagge, o no? Perché scelse proprio questa?”

“Perché, mi disse, in quel momento stava guardando proprio il mare, pensando quanto gli mancassimo io e la mamma. Ha abbassato istintivamente lo sguardo e c’era questa pietra proprio davanti ai suoi piedi, apparentemente anonima, posata su una roccia di dimensioni maggiori, come se… volesse essere trovata proprio da lui! - gli spiegò Isaac, tutto preso nei suoi ricordi – Lo vedi il segno bianco storto che la segna?”

“Sì, è una linea trasversale che sembra quasi dividerla a metà...”

“Ecco, era così che si sentiva lui in quel momento, fratturato tra il suo lavoro che lo appassionava e la famiglia che lo aspettava, per questo la prese e me la regalò. – annuì Isaac, riprendendosi l’oggetto per stringerselo forte contro il petto – Può sembrare una banalissima pietra uguale a cento, forse mille altre, ma non lo è… è la mia pietra, perché mio padre, raccogliendola, ha pensato a me, a noi, ed è speciale proprio per questo!”

“Oh… - Hyoga era rimasto senza parole, ma stava cominciando a capire. Lentamente. - Quindi è questo che voleva intendere anche il Maestro Camus quando glielo ho raccontato!” rimuginò tra sé e sé.

“E’ così anche per le relazioni, sai? Cosa abbiamo di diverso noi, rispetto ad altri bambini?”

“Che siamo… - Hyoga ci pensò attentamente su per una serie di secondi – Noi!” arrivò banalmente alla conclusione.

“Io non ho mai visto i campi di grano del Sud, dicono siano meravigliosamente gialli. Prima di giungere qui, non ho mai visto nient’altro, di quel colore, se non alcune foglie e il sole, il tiepido sole. Ma, dal mio arrivo in Siberia, ho conosciuto la steppa. - continuò a provare a spiegarsi, in tono quasi evocativo, cercando di imitare il mio modo di raccontare, lo ben sapevo – In principio non mi ha mai detto nulla la steppa, troppo arida, troppo piatta, troppo scolorita… ma quando il vento ne accarezza gli arbusti, questi fili lunghi e sottili si muovono come quando il Maestro Camus ci sfiora i capelli e, cosa ugualmente importante, nella tarda stagione estiva si tinge di giallo; un giallo che sotto i raggi del sole splende… come il colore dei tuoi ciuffi!”

“I miei… brillano quindi di biondo?!” esclamò Hyoga, tutto emozionato dal paragone.

“Talvolta sembrano proprio dorati!”

“Oh, dorati… come l’armatura del Maestro Camus!”

“Sì. Prima la steppa non mi diceva nulla, era troppo distante dall’ambiente in cui ero cresciuto, e brulla, ma ora ho scoperto che il suo colore è il tuo, e che quando il vento muove i ciuffi, questi danzano nell’aria, come i miei capelli quando il Maestro mi passa una mano sulla testa… - spiegò, enfatizzando il tono nell’imitare il gesto – Mi avete regalato qualcosa che nessun altro essere vivente potrà mai darmi! Ora amo la steppa perché mi ricorda voi. Questo, e molto altro, rende il nostro legame speciale, diverso dagli altri. Io non sono uguale a nessun altro bambino, sono speciale, e tu anche, lo sei per me… il nostro legame lo è, e siamo fratelli, non di sangue, ma per scelta!”

“Per… scelta, Isaac?” chiese dubbioso Hyoga. Ciò che omise in quel frangente, per non ferire il compagno, fu ‘...di altri’.

Per scelta di altri… perché, in effetti, si erano trovati lì, a seguire i miei allenamenti, per un volere ben più grande di loro.

“Non ha importanza! - si oppose a viva voce Isaac, comprendendo bene ciò che il compagno aveva cercato di sottacere – Nessuno ci ha obbligato ad andare d’accordo! Siamo allievi di uno stesso maestro, d’accordo, ma siamo fratelli per scelta!”

“Oh, me l’hai già ripetuto più volte, questo… - mormorò Hyoga, vistosamente imbarazzato – La prima, quando mi hai detto che potevo bere dal tuo bicchiere, visto che il mio si era rotto.”

“Siamo fratelli, Hyoga. - confermò il piccolo, posandogli nuovamente le mani sulle spalle – Siamo fratelli anche perché viviamo sotto uno stesso tetto e… e facciamo anche delle cose tutti i giorni, alle stesse ore, ma poi… toh, salta fuori un giorno in cui facciamo qualcosa di speciale, come farebbe una famiglia, come farebbe...”

“Una sorta di rito, intendi?” chiese il bimbo biondo, ravvivandosi nel ricordare qualcosa di ben preciso nella sua mente.

“I riti, sì! - esclamò l’altro, ad altissima voce, felice che avesse inteso – Ogni giorno ci svegliamo, facciamo colazione alla data ora, poi sotto con l’allenamento; alla sera accade sempre che ci addormentiamo in salotto, ma poi, stupificiosamente ci ritroviamo nel nostro letto a dormire. Ci vogliono i riti e noi li abbiamo, il Maestro Camus ce li ha, eppure, essi, sono sempre un po’ diversi ogni giorno… messi insieme fanno parte della nostra quotidianità!”

Posai nuovamente la tazza, ormai vuota, sul pavimento di fianco a me, rimanendo ad ascoltare, con un mezzo sorriso, i discorsi dei miei piccoli, che parlavano di quanto fosse importante mantenere tutto quello, che a rendere speciale il loro, il nostro, legame, erano proprio i riti, le abitudini, la quotidianità stessa.

Decisi che dopo tutto quel parlare, ascoltato da me senza che loro potessero percepirmi, era giunto il momento, giacché parlavano di riti, di pulire la casa, perché era venerdì ed era… rituale, appunto, il fine settimana dopo gli allenamenti e i giochi, devolvere le nostre energie per lavare l’isba che ci ospitava, ma proprio in quel momento una frase di Isaac mi bloccò nell’atto di alzarmi.

“Ciò non vale solo per noi, sai? Ma anche per il Maestro Camus: noi lo abbiamo addomesticato!”

Addomesticato… rimuginai a lungo su quella frase un poco altisonante che, in quel momento, mi pareva fuori luogo e fuori contesto, quasi da irritarmi e indispormi.

Potevo tollerarlo per alcuni animali, questo sì, io stesso avevo dato il permesso ai miei allievi di allevare e addestrare due cani. Tuttavia, dal punto di vista umano, avevo sempre reputato il concetto estremamente negativo, sullo stesso livello della dipendenza affettiva, cosa che, infatti, tentavo di combattere aspramente da tutta una vita. Addomesticare per me significava privare della libertà, e un essere umano si doveva amare proprio per quello, nel renderlo libero di agire come meglio credeva. Per questo motivo mi irrigidii notevolmente, e fui lieto di non essere visto dai miei ometti, perché nella mia espressione si era stampato qualcosa di rassomigliante al più cocente disgusto.

“Ma… addomesticare, Isaac? Il Maestro Camus?!” chiese scettico Hyoga, probabilmente reputandolo a sua volta oltraggioso.

“Addomesticare significa creare dei legami, no? Lo ha inteso lui stesso… perché dovrebbe essere un male?!” fu la serafica risposta di Isaac, che fece spallucce.

“Ma non è un cane, non è come Zana o Zaira...

“Oooooh, ma è addomesticato comunque! Siamo stati proprio noi a...”

“Chi avreste addomesticato, Isaac?!”

Mi ero infine palesato dalla porta, le braccia conserte, gli occhi con quel pizzico di severità che non guastava mai. I due piccoli si rizzarono istantaneamente, mi lanciarono uno sguardo terrorizzato, mentre Hyoga, puntando subito il dito contro il compagno, sudava vistosamente freddo.

“Lo ha detto lui!!!”

“Io?! Io...”

“Sì, Isaac, lo hai detto! Hai asserito che il Maestro…”

Non ultimò la frase, il compagno gli saltò addosso, tappandogli immediatamente la bocca con una mano: “Io non intendevo che… che… uff, sei uno spione, Hyoga!”

“Mmmmh, t-tsu sei uno...”

“NO! V-volevo dire che… erk!”

Mi diressi tacitamente dalla finestra, chiudendo le tende in silenzio senza guardarli più negli occhi per diversi secondi. Poi lentamente mi voltai, scrutandoli a fondo entrambi. Erano uno più spaventato dell’altro, Hyoga ancora con la mano del compagno davanti alla bocca, Isaac intento a mostrarmi la sua più adorabile espressione innocente per intenerirmi. Sospirai, prima di alleggerire un poco la tensione che avevo involontariamente creato.

“Diceste poco fa che ci vogliono i riti, giusto? Ebbene è venerdì oggi, non c’era forse un accordo, già precostituito tra noi, di pulire la casa?”

I due si scambiarono uno sguardo stupito, prima di mettersi sull’attenti, gli occhi comunque colpevoli.

“Maestro, ma… ma da quando stavate ascoltando?” si arrischiò Isaac, arrossendo un poco.

“Più o meno dal principio.”

“Oh…” si massaggiò dietro la nuca, sempre più vergognoso. Decisi quindi di non infierire ulteriormente.

“Mettete a posto qui in camera e poi venite giù in salotto, per prima cosa puliremo il bagno!” gli ordinai, in tono di chi non ammetteva repliche.

Loro annuirono, apprestandosi poi a seguire le mie direttive. Sorrisi soddisfatto, fiero come sempre di loro. Feci quindi per accomiatarmi da loro con l’intento di imbastire i primi preparativi di sotto, ma in quel momento notai, con la coda dell’occhio, che Isaac stava fasciando il suo tesoro, la pietra regalata da suo padre, con un qualcosa che io ben riuscivo a riconoscere.

“Isaac, quello...” non ultimai la frase, non vi riuscivo, un fremito mi aveva investito.

Il piccolo capì subito a cosa mi stessi riferendo, mi sorrise, imprimendo quel suo solito scintillio, nello sguardo, che fece istantaneamente abbassare il mio.

“Sì, Maestro, è vostro.”

Lo avevo riconosciuto, quel fazzoletto verde e stropicciato che il mio soldo di cacio custodiva gelosamente per avvolgere il regalo di suo padre. Lo avevo utilizzato per asciugargli le lacrime quando era morto Lisakki, dimenticandomene poi, da quanto lo avevo reputato superfluo. Lui, invece, se lo era tenuto, lo trattava come reliquia, persino, allo stesso livello della pietra di suo padre. Mi allontanai in fretta verso la porta, poggiandoci una mano sopra nel patetico tentativo di schermarmi ai suoi occhi.

“Isaac, è solo un fazzoletto vecchio e logoro...” gli feci presente, cercando di controllare il mio tono di voce.

“Non lo è, Maestro, vale quello che ho detto prima, se mi avete sentito...”

Mi girai nuovamente verso di lui, mi sorrideva con quell’espressione che emanava caparbietà e dolcezza al solo vedersi; quell’espressione che avevo imparato ad amare, che mi era di conforto in ogni situazione difficile mi trovassi, nonostante lui fosse più piccolo di me e avessi io la responsabilità di proteggerlo. Mi sentii la gola secca, il respiro accelerato. Hyoga ci guardava distante, non lasciandosi comunque sfuggire il benché minimo cambio delle nostre espressioni.

“Maestro, io… - Isaac prese una boccata d’aria, prima di socchiude gli occhi – Non ho paura di essere addomesticato!”

Quella frase mi perforò dentro con una schiettezza disarmante. Mi ritrovai a rabboccare aria, colpito e affondato, ci misi più tempo del solito a riportarmi forzatamente alla calma. Isaac, dal basso dei suoi 8 anni, mi aveva appena impartito una lezione che non avrei mai dimenticato. Mi ritrovai davanti al fatto compiuto che il mio allievo, su molti campi, era molto più avanti di me.

“E questo oggetto, per me, rappresenta l’inizio del nostro legame...” aggiunse poco dopo, sempre con quel sorriso tra sé e sé.

“Il… uff! - diedi il tutto e per tutto per ricompormi, mi sentivo troppo vulnerabile per proseguire quel discorso – Fate come vi ho detto prima. Quando siete pronti, venite giù, c’è molto lavoro da fare!” ripresi infine il controllo, nuovamente distante, uscendo dalla loro camera senza ulteriori indugi.

Gli occhioni un poco rattristati del mio soldo di calcio furono l’ultima cosa nitida che distinsi.

Arrivai al piano di sotto ben conscio di dover preparare il necessario per le pulizie, ma quel nuovo raffronto mi aveva stremato. Mi sdraiai momentaneamente sul divano, la mano sopra la fronte nel respirare con estrema lentezza. Il musetto di Isaac fece nuovamente capolino tra i miei pensieri, insieme alle sue parole che mi risuonarono dolcemente in testa.

Quel fazzoletto apparentemente insulso rappresentava per lui l’inizio del nostro legame.

Lui non aveva paura di crearli, questi legami, di essere… addomesticato… sebbene già in tenera età avesse subito una serie di lutti che sarebbero stati capaci di annichilire chiunque. Già, lui non provava paura, un soldo di cacio di appena 8 anni che aveva perso brutalmente i genitori e il primo amico, Lisakki, che avesse mai avuto. Già, lui non aveva paura, io… sì, ne ero proprio terrorizzato. Avere dei legami rendeva fragili, farsi addomesticare creava dipendenza, un qualcosa che mi si sarebbe ritorto contro, distruggendomi, ed io ero già stato duramente devastato dalla perdita di Fyodor. Anche il mio ometto era perfettamente consapevole di quel rischio, di essere divelto, del resto lo aveva sperimentato sulla propria pelle. Eppure non aveva perso la capacità di amare, affatto. Era un raggio di sole, un rimedio balsamico per me. Ed io… non riuscivo a dimostrarglielo!

Sospirai, affranto, costringendomi ad alzarmi per rimettermi seduto e scacciare così il malessere. Sul tavolino a poca distanza da me, non visti in un primo momento, vi erano i due cavallini in legno di Hyoga e Isaac, posti uno di fronte all’altro e lasciati momentaneamente lì dai due bambini. Sorrisi nello scorgerli, ricacciando indietro il bruciore fastidioso che mi pizzicava gli occhi.

Sì, forse era vero che mi avevano addomesticato, ed io… gli avevo permesso di farlo, nonostante le mie paure. Probabilmente era troppo tardi per poter tornare indietro.

“Troppo tardi, già...” ripetei tra me e me, picchiettando con gli indici proprio i due cavallini che dondolarono simultaneamente.

Il calore era entrato, sarebbe stato ormai impossibile scacciarlo. Invero ne avevo paura, ma mi sentivo anche sollevato.

 

(…) Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ho ormai perso il conto di tutte le volte che vi ho detto che avrei pubblicato una storia diversa e che, puntualmente, poi mi sono trovata a pubblicare sempre la stessa.

Chiedo scusa a chi aspetta le altre, purtroppo il tempo a mia disposizione non è così tanto e il periodo, l’anno, non è stato dei migliori, per cui spero di tornare a scrivere attivamente anche tutte le altre storie, ma per il momento dovrete “accontentarvi” di questa.

Vedo comunque che questo racconto piace a molti e vi ringrazio dal profondo del cuore. Mi sono trovata splendidamente con il POV di Camus e narrare della Famiglia Siberiana mi rende felice, non finirei mai!

Capitolo direttamente collegato al precedente, l’espediente è il pendaglio di Hyoga, la croce ortodossa regalata da sua madre e che tuttavia, pare, abbia cambiato inspiegabilmente forma al seguito dell’ultima battaglia in cui il Cigno è rimasto gravemente ferito.

Per saperne di più, come al solito, dovrete aspettare la pubblicazione della Melodia della Neve, questo non è il luogo adatto per approfondire ulteriormente il discorso.

Ci troviamo ormai ai capitoli principali sia del Piccolo Principe che di questa serie di capitoli, il tema basilare gioca sulla parola “addomesticare” inteso come creare dei legami.

Il Camus del presente (che ha quasi 23 anni!) è molto maturato sia come consapevolezza di sé che come apertura verso gli altri, chi segue la mia serie principale ne conosce il motivo; invece il Camus del passato (14 anni), come avete più volte potuto constatare, è ancora molto “indietro” su molti aspetti, ma ci sta, è pur sempre un ragazzo che è stato allontanato precocemente dalla famiglia di origine. Ha inoltre perso brutalmente il padre adottivo, due allievi, e deve crescerne altri due con le sue sole forze (non per niente è molto più fedele all’originale!).

In entrambi i casi, comunque, è stato capace di sviluppare un forte attaccamento emotivo nei confronti prima di Isaac e poi di Marta. Queste due persone sono, per lui, i pilastri centrali su cui si poggia la sua esistenza.

Lo è anche Hyoga, certo, ma il legame che unisce maestro e allievo, ricco di incomprensioni e sbagli soprattutto da parte dell’Acquario, non è dei più semplici, anche se, come avrete forse intuito, desidero che nelle mie storie diventi ancora più profondo e saldo dopo gli ultimi fatti accaduti.

Un’ultima chicca per chi ha seguito tutti i progetti finiti e in corso: il fazzoletto che Isaac tira fuori qui, è lo stesso che appare nel capitolo 12 della Melodia della Neve (quando avviene il contatto con Marta, per intenderci!) e che tiene stretto al polso, ultimo ricordo tangibile che lo unisce ancora a Camus, perfino nella landa timorata dagli dei in cui è precipitato (Parallel hearts). Ci tenevo a lasciargli qualcosa che gli ricordasse i legami perduti e quanto doloroso sarà ancora il suo percorso di crescita, avendo perduto le radici che lo legavano alle due persone più importanti della sua vita.

 

Anche a questo giro dovrei aver finito. Io, come sempre, vi ringrazio e colgo l’occasione per augurarvi un Buon Natale e un felice anno nuovo. Spero davvero che il 2023 sarà migliore dal punto di vista delle mie pubblicazioni… a presto! ^_^

  
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