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Autore: time_wings    18/12/2022    2 recensioni
[ATLA!AU - AtsuHina, IwaOi, OsaAka]
Atsumu e Osamu passano le loro giornate tra allenamenti noiosissimi e scippi fallimentari, nell'anello esterno di Ba Sing Se. La loro vita cambia radicalmente quando si ritrovano costretti ad aiutare Shouyou Hinata, un ragazzo misterioso che viaggia in groppa a un bisonte volante.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Keiji Akaashi, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Tooru Oikawa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PARTE SECONDA
Oshubi
 

Il sole picchiava forte, baciava cime immense facendole quasi luccicare. Osamu non aveva mai visto nulla del genere in tutta la sua vita.
Certo, non aveva mai superato i confini dell’anello esterno di Ba Sing Se. Di diverso, in tutto quel tempo, aveva visto solo il cielo. Ironico quanto mansueto possa diventare un uomo, se gli si consente di vedere nuvole e stelle. Assurdo, quanto inconsapevolmente si accontenti. Osamu aveva vissuto tutta la sua vita facendo due cose: rubare e dominare la terra. A quanto pareva, quattro mura di pietra erano bastate a dominare lui, un bambino rabbonito con i suoi giocattoli preferiti. 
Non odiava suo fratello. Era una cosa difficile da spiegare, ma odiare Atsumu, in qualche modo, sarebbe stato come odiare una parte di lui. Non udirlo russare all’altro capo del letto o piantargli un piede in faccia quando si agitava nel sonno, dopo tutti quegli anni, gli sarebbe parso innaturale. Però Osamu lo accusava.
Non era giusto che non avessero niente, che non potessero esporsi troppo, che fossero costretti ogni giorno in quel buco a trovare un modo per tirare avanti. Non era giusto che, oltretutto, dovessero guardarsi continuamente le spalle. Non c’era un modo carino di dirlo: non era giusto che la maledizione di Atsumu dovesse essere anche la sua. A volte la loro mera esistenza sembrava un brutto presagio. A volte quel fuoco sembrava un errore. E adesso Atsumu era stato catalogato erroneamente come nemico del regno e Osamu, vista la scarsa capacità di distinzione di un occhio non esercitato, lo era a sua volta.
Però ecco dove l’aveva portato: su un bisonte di nome Mugi, mentre sorvolavano le cime più alte che Osamu avesse mai visto. Diamine, avrebbe potuto smuoverle? Quanto pesavano? Quanto erano radicate nel continente? Fino a dove si spingeva il loro respiro? Non ne aveva viste molte, di montagne. In realtà, non ne aveva mai vista nessuna, se non si contavano dipinti e arazzi. C’era solo un piccolo inconveniente: Osamu aveva una nausea micidiale, non c’era prelibatezza che la potesse annientare.
“Questo è lusso sfrenato!” esclamò Atsumu, da qualche parte sul bisonte.
La risata di Hinata si sollevò cristallina nell’aria, più leggera delle loro, più sincera. Sembrava che rimbombasse sui dorsi delle montagne più in basso. “Tuo fratello non sembra pensarla così.”
“Non… Volare non mi fa impazzire.”
La prima parte del volo, una volta scappati da Ba Sing Se era stata abbastanza gentile col suo stomaco. Avevano sorvolato il Regno della Terra fino alla sera, poi si erano accampati al limitare di un villaggio. Hinata aveva buttato un mucchio di legno a terra e aveva guardato Atsumu, aspettandosi che facesse in fretta qualcosa a riguardo. Suo fratello aveva scrollato le spalle come se fosse stata normale amministrazione, per lui, ma Osamu aveva alzato un muretto di pietra attorno al legno.
“Credi che sia uno stupido?” gli aveva chiesto Atsumu, sorridendo come prima che si prendessero a botte a casa.
“Sì,” aveva risposto semplicemente Osamu, perché sapeva come provocarlo.
“Ragazzi, ho fame!” si era intromesso Hinata. Osamu ancora non aveva capito se fosse la creatura più stupida sulla faccia del pianeta o la più furba. Ancora non sapeva che, col passare degli anni, avrebbe continuato ad avere quel dubbio.
Comunque Atsumu aveva acceso il fuoco senza uccidere nessuno. Osamu non si era perso il sorriso compiaciuto che gli si era dipinto in volto. Era possibile che fosse il dominatore del fuoco peggiore al mondo, ma lui no, lui doveva tirarsela come il fanatico che era.
In lontananza, le luci del villaggio sfavillavano, fiammiferi nel buio di un mondo sconosciuto. Hinata li aveva messi al corrente della guerra, di quello che aveva fatto e ancora faceva la Nazione del Fuoco.
“La gente da queste parti ha paura dei dominatori del fuoco. Non sarà facile per te, sai” aveva detto guardando Atsumu, mentre addentava una nocciolina. Aveva parlato in maniera così diretta che quasi non era sembrato offensivo, al massimo sincero.
Osamu si concentrava sui ricordi della sera precedente e sui fianchi delle montagne lì sotto, aggrappandosi a una memoria visiva della terra, perché rischiava di vomitare oltre il fianco di Mugi. Un’esperienza certamente nuova, ma non allettante.
“Oh cazzo, ‘Samu, questa devi vederla.”
Osamu deglutì a vuoto ed emise un suono… complicato nella gola, poi si voltò.
Tra i monti, così alta da farli sembrare a confronto nuvole, svettava una torre. Il tetto concavo metteva in bella vista tegole verdi bordate d’oro. Era bellissima nella sua semplicità, una lancia che, in giorni peggiori, doveva poter trafiggere le nuvole e affacciarsi dove la pioggia non esisteva. “Ma che diamine è?”
Shouyou sorrise. Sembrava che il vento fosse suo. “Quella è la torre del Tempio dell’Aria del nord. Ci sono altri tre templi, potete immaginare come si chiamano.”
Sorvolarono una vallata. Le vette si tuffavano verso il basso come a voler divorare l’aria, usurparla o sfidarla a chi correva più forte. Osamu avrebbe voluto sfiorarle con un dito come sul pelo dell’acqua, ma a stento riusciva a respirare.
Poi il paesaggio si aprì e il Tempio dell’Aria si mostrò in tutte le sue pareti spoglie e minimaliste. Guglie e mura di cinta si arrampicavano su una montagna monca. Sui cornicioni delle piccole finestre ad arco e i tetti verdi si stava depositando un sottile strato di neve. Presto sarebbe stato impossibile distinguerne il colore, sotto il manto innevato di un inverno che, così sospeso, doveva sembrare magico. Un sentiero sottile di roccia collegava la base del tempio a un’altra montagna.
Man mano che si avvicinavano, però, il sogno svaniva ai bordi.
I ragazzi iniziarono a distinguere le crepe, l’edera sulle mura, il silenzio lacerato solo dagli uccelli che circondavano la torre centrale, rincorrendosi in un viaggio che, per traiettoria, risultava infinito.
Sembrava la rovina di un mondo intero.
Osamu guardò Atsumu lanciare un’occhiata tentennante a Hinata. Lo conoscevano a stento, ma era una creatura curiosa. Era un libro aperto, indossava le emozioni come se non avesse altra scelta, peccato che fossero scritte in una lingua che Osamu non capiva. A giudicare dal cipiglio di Atsumu, doveva star pensando la stessa cosa. Il ragazzo serrò la mascella, imperscrutabile nella sincerità quasi sbeffeggiante di quel gesto, e volarono oltre.
“Non ci fermiamo?” domandò Atsumu, guardando gli ultimi tetti squamati del tempio sparire sotto la pancia di Mugi.
“Non possiamo,” rispose semplicemente Hinata e puntò lo sguardo fisso sui nuovi monti inabitati davanti a loro.
A Osamu parve che, una volta superato il Tempio dell’Aria, il paesaggio si fosse irrigidito. La neve, prima solo sulle cime, stava lentamente colando più in basso, prendendo spazio sulle alture e imbiancandole via via sempre di più.
“Mugi l’hai trovato da qualche parte quassù?” domandò Atsumu.
Hinata si mise a ridere e lo guardò solo un attimo. “No, tutti i dominatori dell’aria hanno un bisonte volante. Sono i nostri compagni per la vita. E comunque è una ragazza!” Come al solito la stupidità di suo fratello tirava su il morale anche ai più scoraggiati.
Mugi fece un rutto.
“Davvero femminile!” commentò Atsumu, dando una pacca sulla schiena del bisonte.
 
Arrivarono a Oshubi poco prima del tramonto.
O quasi.
Mugi planò dolcemente verso il basso e atterrò con un tonfo sorprendente, per le sue dimensioni, su un misto di ghiaccio, fango e terra, non troppo distante dalla cittadina.
Shouyou non aveva mai, in tutta la sua non troppo lunga carriera da Nomade dell’Aria, messo piede o navigato il cielo della Tribù dell’Acqua.
Saltò via dalla schiena di Mugi e adoperò quanta più aria possibile per tamponare la caduta, quindi poggiò prima un piede a terra, poi l’altro e la sua mantellina rossa si sottomise di nuovo al regno della gravità con eleganza. Alle sue spalle, Hinata sentì due tonfi distanti qualche attimo l’uno dall’altro. Il primo era di Osamu; si era steso supino, le dita conficcate nei radi ciuffi d’erba che ancora resistevano al ghiaccio e respirava a grandi boccate. Il secondo era di Atsumu che, pur sprovvisto di mal d’aria, era riuscito a cadere a faccia a terra. Peccato che ‘terra’ fosse ghiaccio.
Shouyou tentò di trattenere le risate, quando si precipitò ad aiutarlo.
“Sto bene, sto bene,” disse Atsumu, la voce attutita da… qualunque cosa avesse in bocca. Si rialzò, ignorando volutamente la mano di Shouyou. “Guarda che l’ho fatto apposta, mi sembravi triste.”
C’era da rimanere impressionati, da quanto credibile sembrasse.
“Non lo ascoltare, sta mentendo.”
“Ma tu non eri morto?”
Osamu si strinse nelle spalle. “Ti piacerebbe.”
Atsumu sbuffò derisorio, ma cambiò discorso. “Perché ci siamo fermati qui, comunque? Siamo praticamente arrivati a Oshubi. Hai detto che volevi solo fare rifornimento di provviste lontano dal Regno della Terra, no?”
“Sì, be’...” Shouyou fece spallucce, “Mugi era stanca, ha volato tutto il giorno. Ci accampiamo qui, stasera! C’è una grotta.”
Atsumu spalancò la bocca, Osamu ebbe anche la forza di alzare la testa dalla terra solo per sollevare un sopracciglio. Hinata se ne curò poco e si mise a sedere in una zona asciutta.
“Quella grotta?” domandò Atsumu, indicando quella che, secondo il parere poco schizzinoso di Hinata, era una grotta di tutto rispetto.
Shouyou si guardò attorno, poi si strinse nelle spalle. “Non ce ne sono altre.”
“Stai scherzando? Quello è un modo veloce per morire. Oshubi è letteralmente a due metri da qui!” disse indicando un sentiero da qualche parte a ovest.
Shouyou sorrise. Si alzò paziente, poi prese il braccio di Atsumu e lo reindirizzò a nord, in una fetta di cielo tra due montagne aguzze come denti di una creatura selvaggia. La sua pelle era calda sotto il tessuto sottile della maglietta. Faceva un contrasto piacevole col paesaggio verso cui era rivolto. “Veramente è lì.”
“Cretino,” commentò Osamu, ancora sdraiato.
 
Osamu Miya era un tipo solitario.
Sì, sì, aveva condiviso il grembo materno con un incidente di percorso. Va bene, aveva vissuto la sua intera vita (fatta eccezione per un giorno e qualche ora) nella città più popolosa del mondo. Certo, condivideva il letto con l’incidente di percorso sopraccitato.
Però Osamu Miya andava al bagno, a volte, e la solitudine gli piaceva. Forse proprio perché l’aveva sempre considerata un lusso.
Così, quando Hinata aveva detto che avrebbero dovuto prendere la legna per la sera, Osamu era scattato in piedi e si era offerto di fare un giro nei paraggi. Non aveva atteso neanche che gli offrissero una mano, compagnia, dritte; era semplicemente partito per la sua spedizione.
Appena superò l’entrata della grotta, la solitudine lo avvolse come una coperta in quel freddo del nord: secco e offensivo, un artiglio conficcato nel fianco. Ma Osamu non temeva nulla di tutto ciò, era abituato a suo fratello, che era una spina nel fianco, dunque nulla di nuovo sotto il sole morente degli ultimi aliti del tramonto.
Un bosco vestito di bianco si nascondeva al di là del grappolo di rocce tra cui si erano accampati. Oltre, una catena di montagne appuntite celava la visuale di Oshubi, la capitale delle isole della Tribù del Nord.
Osamu varcò il confine dei primi alberi e i raggi rossi e arancioni presero a infilarsi tra le fessure, bucare le chiome nella speranza di sgonfiarle come palloncini. Il ghiaccio si depositava in granelli così piccoli da ricordare dei diamanti, quando la luce li colpiva. Aveva le punte delle dita gelate e una fame che non riusciva neanche lontanamente a immaginare di descrivere. Eppure, in quel regno sospeso fatto di elementi su cui non sapeva mettere le mani, Osamu conobbe un’emozione così ridicola e imbarazzante da prosciugare l’ironia sprezzante e lo scetticismo patologico di cui era gravemente affetto. E quell’emozione era la meraviglia.
Quella che lasciava i bambini a bocca aperta, quella che lui e suo fratello non potevano concedersi nella competizione eterna che ingaggiavano e nel poco che l’anello esterno di Ba Sing Se aveva da offrire.
La legna.
Era lì per la legna.
Tenne d’occhio il sole e il poco altro aiuto che poteva offrirgli. Cercò di muoversi in linea retta, ma per precauzione alzò piccole torri di terra laddove la neve non ricopriva lo strato sottostante. Il bosco era carino, gli alberi erano magici, il paesaggio era mozzafiato, ma morire di freddo in quel labirinto non rientrava nei suoi piani.
Derubò la base di qualche tronco, rami piccoli abbandonati al suolo da qualche animale che aveva fatto male i suoi calcoli. Lasciò stare i rami veri e il ghiaccio rigido che ne ricopriva alcuni. Quando si imbatté in un pezzo più grande e adatto al loro falò, Osamu sollevò una zolla di terra di scatto e tagliò di netto il legno.
Un attimo dopo, qualcosa si mosse e lui si irrigidì.
Era ovvio, era naturale, smuovere la terra richiedeva un riassestamento che neanche Osamu le poteva negare. Se Atsumu fosse stato lì, le braccia incrociate e una battuta sulla punta della lingua, Osamu avrebbe dovuto dargli ragione e dire che, se non se la stava proprio facendo sotto, almeno era esageratamente vigile.
Ma in un bosco un albero valeva un altro. I suoni si mescolavano, seguivano percorsi zigzagati, permeando l’aria e dando l’impressione che il canto d’un uccello provenisse dal centro del mondo, alle proprie spalle, a ovest, a venti metri da terra. Poi qualche altro uccello rispondeva e in poco tempo la situazione si trasformava in un macello.
Osamu espirò di sollievo, Atsumu gli avrebbe detto che se l’era fatta sotto per davvero e lui, mentre suo fratello non guardava, avrebbe dato solo un’occhiata di controllo alla sua patta. Poi, arrabbiato, gli avrebbe detto che un uccello gli aveva appena fatto cacca nei capelli e avrebbe goduto dello scetticismo e del dubbio nei suoi occhi.
Non ebbe neanche il tempo di rimettersi in marcia che il suono si ripeté.
Non era il bosco che si riassestava.
Erano passi.
Inconfondibili passi.
Quanti ne erano? Una cinquantina? Forse cento? Mille? Si allontanavano? Forse era il Dai Li, la prova che Ba Sing Se si era attivata perché due fecce della società erano partite sulla schiena di un bisonte volante. Forse volevano fargliela pagare, perché a nessuno venisse la malsana idea di mettere in dubbio la sincerità della città inespugnabile. Forse avevano pensato che se degli scarti erano riusciti a capire che qualcosa non andava, era solo questione di tempo perché negli altri anelli si facessero le stesse domande.
Era impossibile, ovviamente. Erano rifiuti e tali rimanevano. Forse la loro partenza era stata addirittura un sollievo. Due persone in meno non erano una soluzione al sovraffollamento dell’anello esterno, ma almeno non erano due persone in più. Avevano visto quello che sapeva fare Atsumu, meglio lasciarlo andare che gestirlo. E poi ormai la guerra c’era, per loro, meglio farli scappare che trovare un modo per silenziarli.
Ma non era il Dai Li per un motivo ben più pratico.
I passi appartenevano a una sola persona. Osamu non riusciva a capire da dove, ma era impossibile negare che si stessero avvicinando.
Ragionò in fretta. Mollò il legno che aveva raccolto e scrollò quanta più neve possibile via dal terreno, poi sollevò le mani in posizione di guardia e si piazzò meglio sui piedi.
Prese a guardarsi attorno. Stare all’erta gli dava una percezione della terra che normalmente ignorava. Il bosco era vivo. Radici e semi che si incrociavano, si danzavano attorno. Insetti che si rincorrevano, scavavano, bucavano, attingevano. Il bosco era vivo, eppure niente si muoveva. 
I passi si avvicinarono ancora un po’. Erano cauti, pericolosamente sensibili a qualcosa che tradiva l’esistenza di Osamu in quel posto. Infine, si arrestarono.
Si innescò tutta quella serie di suoni virtuali che il silenzio sa creare: le orecchie presero a fischiare, il cuore pareva sbattere contro la gabbia toracica a ritmo sempre più insistente.
Ad annunciarlo, fu un crepitio nell’aria. Poi Osamu registrò il sibilo di qualcosa che sfrecciava a un soffio dalla sua guancia e la schivò in tempo per vedere un filo d’acqua solidificarsi in ghiaccio davanti ai suoi occhi e conficcarsi nel tronco alle sue spalle. L’acqua si sciolse all’istante e tornò indietro, schiaffeggiandolo lungo il percorso con la coda.
Osamu si voltò nella direzione in cui l’acqua stava tornando e non vide niente, ma attaccò. Sollevò sette pietre e le lanciò a raffica, sperando rivelassero qualcosa. A contrastarle, sette getti d’acqua risposero in rapida successione, riducendo la roccia in poltiglia.
Distinse una sagoma che rotolava a terra. Senza pensarci due volte, Osamu sollevò altra pietra e la spinse con slancio verso la figura, modellandola poi affinché la circondasse. Ma il nemico scartò di lato, la terra si attorcigliò attorno al punto in cui era stato un attimo prima.
Era come gareggiare contro Aran e Kita. Era come tentare di batterli a Toki, l’ultimo gioco che avevano inventato. Il fatto che il suo avversario dominasse l’acqua non doveva spaventarlo. Erano in un bosco e Osamu era in vantaggio.
Una lezione che si impara sempre in maniera brusca è che il vantaggio batte l’esperienza solo quando entra in gioco la fortuna. E, al contrario di quanto diceva Atsumu per ragioni che gli erano oscure, la vita di Osamu non lasciava molti dubbi sulla quantità di baci che la fortuna elargiva per lui.
Il dominatore mosse le mani lentamente, ancora nell’ombra di un sole che ormai era tramontato, lasciandosi dietro una scia di ciclamino. Osamu non aveva mai visto alcun dominatore muoversi così, ma d’altronde non aveva mai visto alcun dominatore dell’acqua e basta.
Un colpo potente lo centrò in pieno e lo costrinse a indietreggiare e andare a sbattere con la schiena contro l’albero alle sue spalle. Osamu alzò le braccia per rispondere, ma tre spuntoni di ghiaccio si conficcarono nella sua casacca, uno a qualche millimetro dal fianco sinistro e due nelle maniche, bloccandogli le mani in alto.
La sagoma di un ragazzo si fece via via più nitida, finché Osamu non ne distinse il volto. Strattonò le braccia e mosse i polsi per avere un appiglio sulla terra, sentirne le redini, la vita, ma quello alzò una mano e piantò gli aculei di ghiaccio più a fondo nel tronco. Poi gli si avvicinò.
Osamu vide la borraccia appesa a un fianco e le ultime gocce che ne cavò fuori. Le solidificò assieme a un po’ di neve lì attorno, mentre sollevava tutta l’acqua che aveva radunato. Quando assunsero la forma di un’unica e ultima lama sottile, questa era ormai a un passo dalla sua gola. Osamu alzò la testa e fu costretto a guardarlo negli occhi.
Era… freddo.
I capelli scuri erano arruffati da un vento gelido che non c’era più, le guance e le labbra erano arrossate per il gelo. Nella penombra, gli occhi chiari avevano una tinta cupa, una luce opaca bagnava le pupille e il labbro inferiore. Osamu rimase a guardarlo appena il tempo di qualche battito di ciglia, respirando nuvole di condensa che, da qualche parte, si fondevano a quelle dello sconosciuto.
“Il bosco di Shoubei è sempre vuoto,” gli comunicò il ragazzo, come un dato di fatto, un’informazione da accettare nella sua semplicità. Una voce bassa vibrava su corde vocali di velluto.
Osamu rubava mele e arance a Ki, il fruttivendolo fuori casa, quando non guardava. Non gliene poteva fregar di meno di toni solenni e rompicapi dal retrogusto di leggende. Alzò un sopracciglio e, con le braccia ancora bloccate, riuscì comunque a scrollare le spalle. “Non oggi.”
Poi picchiò a terra con un piede e richiamò una roccia. Il ragazzo sembrò a stento guardarla, perché la lama di ghiaccio che teneva sollevata partì.
 
Atsumu Miya sorrideva sinceramente così come rubava: in fretta, in silenzio e solo quando era certo di non essere visto. Tutto il resto delle volte era fuffa. Erano tecniche per accaparrarsi qualcosa, commenti aspri, prese in giro, falsa modestia. Li si riconosceva perché erano a una delle estremità di un interruttore: bastava uno scatto perché si trasformassero in antipatia.
Ma quella sera, poiché una delle tre condizioni si era verificata, Atsumu sorrise senza promesse di svuotare le tasche a qualcuno.
Shouyou era seduto su un masso piatto e striato di neve e muschio. Aveva gli occhi chiusi, le gambe incrociate e i pugni serrati e uniti insieme, nocche contro nocche, attento a tenere le braccia sempre all’altezza delle mani. E basta. Non faceva altro.
Atsumu aveva radunato qualche rametto per accendere un fuoco provvisorio, in attesa che Osamu facesse ritorno alla loro lussuosissima grotta con della legna vera. Le fiamme timide bagnavano il profilo sereno di Shouyou, danzando sul suo viso come se seguissero il suono del vento.
Fu in quel momento che Atsumu sorrise. Si sedette davanti al fuoco, chiedendosi che razza di vita bisognasse condurre per essere capaci a meditare.
Ma non osava prenderlo in giro. Shouyou era così diverso da qualunque cosa avesse mai visto da risultare attraente al limite dell’irritante. Era sincero, quando lui era abituato a mentire. Era libero, e lui era stato chiuso tutta la vita tra due mura. Era un viaggiatore, e lui non si era mai mosso dai tre metri quadrati della sua miseria. Atsumu avrebbe potuto passare tutta la sera a guardarlo così, in silenzio, e questa sarebbe stata la cosa più simile alla meditazione a cui si sarebbe mai potuto accostare.
“Ti serve qualcosa?” domandò Shouyou di punto in bianco, schiudendo un occhio.
Certo che gli serviva qualcosa. Gli servivano un sacco di cose. Gli serviva un maestro, un posto dove stare, soldi a volontà, un bacino... Il pensiero lo distrasse momentaneamente. “Ti… stai mettendo in contatto con i tuoi amici?”
Shouyou si voltò finalmente a guardarlo, il fuoco gli illuminò tutto il viso. Tra vestiti rossi e capelli fiammanti, uno avrebbe detto che a scomodare il fuoco fosse lui. “Meditare non è mica una magia!”
Atsumu pensò che dovesse darsi proprio una calmata e volare basso. Quando era stato interpellato, stava pensando di baciarlo, era già tanto che fosse riuscito a mettere insieme una frase sensata, per la miseria. “E io che ne so, sei tu l’esperto spirituale, qui.”
Shouyou sorrise e scosse la testa, poi abbassò lo sguardo sulle sue mani, abbandonate in grembo. “No, sono mesi che non sento più nessuno.”
“Avremmo potuto fermarci al Tempio dell’Aria e controllare.”
“No, non possiamo, noi siamo…” Shouyou lo guardò negli occhi. Atsumu pensò che duecento raffiche di vento non avrebbero avuto lo stesso effetto. Forse Hinata cercava nel suo sguardo un motivo per fidarsi, una chiave per aprirsi. Di Atsumu non c’era da fidarsi, questa era la prima regola di tutti quelli che lo conoscevano e, per giunta, non era un passe-partout. Eppure Shouyou sospirò e riprese a parlare. “Ottantacinque anni fa, quando la guerra è iniziata, i dominatori dell’aria sono stati sterminati dalla Nazione del Fuoco. Siamo un popolo di nomadi, è difficile trovarci sempre tutti in un posto, ma i quattro Templi dell’Aria hanno smesso di essere sicuri. Ormai siamo rimasti in pochi, riceviamo gli insegnamenti in luoghi estremi,” gli occhi di Shouyou colsero di sfuggita una fiamma e si illuminarono di divertimento. “Una volta sono stato su una montagna altissima che aveva uno strapiombo sul nero più nero che abbia mai visto! Le mura del fossato avevano delle venature rosse, la lava ribolliva letteralmente sotto i miei piedi e, in mezzo a tutto quel fuoco, c’era una cascata. Riesci a crederci? Una cascata a picco nel vuoto! Credo che a te e tuo fratello sarebbe piaciuta molto di più.”
Asumu aggrottò la fronte sorpreso. Non aveva mai sentito nulla di simile, non sapeva neanche che la natura lo consentisse.
“Comunque siamo in contatto. A volte ci incrociamo in viaggio, altre lasciamo messaggi in codice per segnalare posti sicuri, altre ancora ci dividiamo i compiti.” Atsumu iniziò a vedere la libertà di Shouyou come tutt’altro che una pacchia. “È il motivo per cui sono venuto a Ba Sing Se! Pare che siano stati trovati dei tesori dei dominatori dell’aria che il nemico non aveva scovato quando aveva razziato il Tempio dell’Aria dell’Est, all’inizio della guerra. Cercavo di intercettarli prima che li portassero alla Nazione del Fuoco e speravo che il re della terra ne seguisse i movimenti, ma non sapevo niente della vostra strana tradizione. Stiamo andando a Oshubi perché è segnato tra i posti sicuri per fare rifornimento, poi volevo andare al tempio a cercare indizi. Ovviamente a Oshubi voi sarete al sicuro, potreste aspettare che le cose…”
“No.” Atsumu lo disse un po’ troppo in fretta. Non tanto perché avrebbe dovuto consultare Osamu (sarebbe stato egoista e avrebbe salutato Shouyou per sempre soltanto perché non gli piaceva volare), ma perché aveva una dignità da mantenere. “No, veniamo con te.”
Per un attimo, temette che Shouyou facesse domande difficili. Invece sorrise, un sorriso grandissimo che quasi fece dimenticare ad Atsumu le tre condizioni sacre perché potesse imitarlo. Quasi. Lui era un duro, attenzione. Pensò che fosse il momento di attestarlo.
“E poi il tuo piano fa acqua da tutte le parti, hai bisogno di noi. Ci servono soldi, non puoi aspettarti di derubare la Nazione del Fuoco senza qualcosa da scambiare.”
“Per rubare non ti servono soldi!” Shouyou sorrise di nuovo, come se avessero iniziato improvvisamente a sfidarsi e lui credesse di aver vinto. “Non pensavo di dover essere io a insegnartelo.”
“I soldi servono sempre, Shouyou.” Atsumu gli sorrise senza condizioni e questo significava che stava per fregarlo. “A prendere tempo, a far credere a chi stai per derubare che valga la pena ascoltarti, a trattare, a depistare. I ladri migliori sono quelli che ti illudono di aver fatto un affare.”
Si guardarono. Shouyou aveva un modo di disporre i silenzi in una conversazione in maniera che mormorassero qualcosa. Atsumu iniziava lentamente a parlare la lingua di quei sussurri. In una situazione normale, si sarebbe semplicemente sporto in avanti e l’avrebbe baciato, ma quella non era una situazione normale. Shouyou non era una persona normale. A volte, quando volava, dubitava anche che fosse una persona.
“Come credi, ci procureremo dei soldi. Conosco un posto, credi che a tuo fratello farebbe piacere gareggiare in un’arena?”
“Mio fratello non lo saprà finché non ce ne sarà bisogno.”
“Una missione segreta!”
Atsumu non capiva perché si fosse esaltato. La sua intera vita era una missione segreta, apparentemente. “La chiave è la discrezione” gli diede corda lo stesso. “Cosa che a te viene incredibilmente bene con quei tatuaggi.”
Shouyou assottigliò gli occhi, guardandosi le frecce azzurre sul dorso delle mani.
“Fino a dove arrivano, comunque?”
Lui si strinse nelle spalle e recuperò una noce da una tasca dei suoi pantaloni. “Magari un giorno lo scoprirai da solo,” disse, poi separò le due metà del guscio con un soffio e addentò la noce, sostenendo lo sguardo di Atsumu.
Lo stesso Atsumu, ovviamente, che andò in tilt. Due secondi prima Shouyou stava meditando. Non stava pescando, non stava contando le nuvole, stava meditando. Ora flirtava. Apparentemente i monaci non erano dei santi.
“Tu vuoi dirmi com’è possibile che siano nati due gemelli con domini diversi?”
“Non è una storia interessante, perché non la conosco.”
Shouyou non parve persuaso. “Ancora non so perché mi fido di te.”
“È perché mio fratello è quello rassicurante. È la tattica che ci fa guadagnare meglio.”
Shouyou inclinò il viso su un lato, come un animale confuso. “Tu non guadagni, tu rubi.”
“È la stessa cosa.”
Per la cronaca, Shouyou aveva ragione. Quella di Atsumu e Osamu era veramente una storia interessante, anche se loro la ignoravano, ma verrà affrontata più avanti.
 
Osamu sentì qualche goccia di sangue scivolare dalla guancia al collo della maglietta, impregnandola. Abbassò la pietra e abbandonò la testa contro il tronco dell’albero, sconfitto ma non rassegnato.
Il ragazzo davanti a lui inclinò il capo su un lato, soppesando forse il suo intero valore come essere umano. “Lo sai perché il bosco di Shoubei si chiama così?”
Aveva un tono così calmo e uno sguardo così diretto che Osamu si ritrovò, perplesso, a scuotere la testa in segno di diniego.
“In maniera semplice, significa difesa. Il bosco difende la città oltre le montagne, la prima della Tribù dell’Acqua del Nord, la più vicina agli altri paesi e la più soggetta ad attacchi imprevisti. Gli alberi le fanno da soldati costanti. Il bosco di Shoubei, la città di Oshubi. Il bosco è sempre vuoto, capisci?” Se avesse abbassato appena la voce, avrebbe sussurrato.
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Sei un soldato? Credi che ti stia invadendo perché mi sono fatto un giro nel bosco?”
“Non sono un soldato, ho sentito un rumore e dei passi e ho attaccato, perché di solito il bosco è vuoto.”
Ma nella Tribù dell’Acqua avevano per caso il vizio di essere completamente fuori di testa? Se avesse ribadito ancora una volta che il bosco di Shoubei era sempre vuoto, Osamu avrebbe trovato il modo di fargli ingoiare quella dannata lama di ghiaccio. “Che cosa sei, allora, se non sei un soldato?”
“Sono un ricercatore.”
Osamu sollevò un sopracciglio. Il ragazzo davanti a lui fece lo stesso, ma meglio. “Non ho intenzione di invadere nessuno, quindi ti dispiacerebbe liberarmi?”
Lui sembrò pensarci su, poi diede un’occhiata ai suoi vestiti, forse convincendosi del fatto che non avesse niente a che fare con la Nazione del Fuoco. Infine si allontanò con un sospiro e sciolse il ghiaccio che lo impalava al tronco dell’albero.
Osamu abbassò le braccia, un po’ seccato, e si sfiorò la guancia. Quando ritirò le dita, diluì il sangue che ci trovò sopra col pollice e l’indice.
“Scusami,” gli fece quello, premendo un pugno contro il palmo dell’altra mano e chinando appena il capo. Osamu non capiva che bisogno ci fosse di fare tanto i formali.
Poi successe una cosa completamente assurda.
Il ragazzo davanti a lui mosse le dita e la lamina di ghiaccio che prima gli teneva puntata alla gola si sciolse e si tinse di un azzurro che Osamu non avrebbe mai saputo descrivere. Prima che potesse difendersi o temere un nuovo attacco, l’acqua levitò fino alla sua guancia.
“Ma che cazzo…” Osamu sollevò una mano per sfuggire all’attacco, ma si ritrovò a chiudere gli occhi a metà azione e inspirare profondamente. L’acqua era freschissima, ma non ghiacciata, piacevole come una carezza e stranamente soffice. La sensazione di benessere si espanse appena oltre la guancia e sfiorò la tempia e il collo. Poi, facile come era comparsa, se ne andò.
Osamu aprì gli occhi e passò di nuovo le dita dove si aspettava di trovare la ferita. Invece, quando si guardò i polpastrelli, li riscoprì puliti. Sollevò di scatto lo sguardo in quello del ragazzo, che invece lo guardava come se fosse stato una cavia da laboratorio. Sembrò intuire lo sconcerto di Osamu, però, perché disse: “Alcuni dominatori dell’acqua sono guaritori. Io non sono granché, ma era un taglio superficiale, niente di impossibile.”
“Certo.” Ovviamente. Sicuro.
“AKAAAAAASHI?”
Fu così improvviso che Osamu si ritrovò ad alzare le mani, sentendo già il formicolio della terra che si sporgeva per rispondergli. Ma il dominatore dell’acqua si voltò verso la voce che lo aveva chiamato, diede una rapida occhiata al cielo, valutando la gradazione di blu sempre più scuro che andava assumendo. “Devo andare,” disse e poi iniziò ad avviarsi lungo un sentiero che non esisteva, ma di cui non aveva bisogno. “Mi devi un favore!”
Osamu si sentiva un po’ frastornato. “Sei tu che lo devi a me. Sei stato tu a ferirmi, io non ti devo niente!”
“Non saresti dovuto entrare nel bosco e basta. Il bosco di Shoubei…”
“Sì, sì, è sempre vuoto. Ho capito.”
Il buio e la foschia invernale non aiutavano, ma, in lontananza, Osamu fu quasi certo che Akaashi si fosse voltato e gli avesse sorriso, una curva sulle labbra che scioglieva un po’ di quel gelo.
Raccolse i tronchi che aveva abbandonato durante il combattimento e si avviò lungo il percorso segnalato dai bozzi di terra che aveva sollevato all’andata. Mentre camminava, si sfiorò la guancia e constatò di nuovo che fosse intatta. Forse l’aveva sognato. Forse Akaashi non esisteva. Forse il viaggio in volo e la fame gli avevano giocato un brutto scherzo.
Le maniche della sua casacca, però, erano ancora bucate.
 
La mattina dopo, Oshubi era illuminata dal sole più caldo che un posto tanto a nord potesse offrire.
Osamu e Atsumu si guardavano attorno come se, invece di essere atterrati a qualche chilometro dall’accampamento della sera prima, fossero giunti sulla superficie di un pianeta vergine. 
Oshubi era completamente diversa dalla capitale della Tribù dell’Acqua del nord. Le abitazioni non erano fatte interamente di ghiaccio e le strade non erano interrotte da canali. Non lontano da lì, il mare incontrava una scogliera dalla roccia scura. Nei punti in cui non scivolava, la neve si ammassava in chiazze bianche, rendendo la vista quasi dolorosa agli occhi.
Shouyou aveva acquistato dei vestiti di ricambio e Atsumu aveva insistito che tutti si procurassero dei cappelli per passare inosservati. Osamu si era rifiutato categoricamente. Hinata ammetteva che non fossero strettamente necessari, ma sospettava anche che volesse semplicemente fare un dispetto al fratello. Presi due cappelli e una sciarpa, dunque, i ragazzi si erano messi in cerca di una locanda in cui consumare un pasto caldo. Osamu si era autoproclamato esperto e aveva deciso che non avrebbe lasciato che nessun altro scegliesse la loro meta gastronomica. Quando Hinata aveva provato a ribattere che una valeva l’altra, era stato accusato di saper mangiare solo frutta secca e aveva stroncato sul nascere ogni altra protesta di Atsumu, definendolo uno zotico senza papille gustative.
“Decidi con calma, ‘Samu” disse Atsumu e Shouyou colse con la coda dell’occhio la mano del ragazzo che affondava tra le mele di un carretto di frutta.
Lo guardò portarsi il frutto alla bocca. Stava per morderlo, doveva già pregustarne il contrasto di dolce e aspro, ma Shouyou sollevò discretamente la mano sinistra e mosse due dita verso destra, in un movimento secco e rapido. La mela saltò via dalle mani di Atsumu e si posò con un tonfo attutito in cima al mucchio nel carretto.
Atsumu si voltò a guardarlo di scatto, sollevando un angolo della bocca e scoprendo i denti. Shouyou gli sorrise.
“Mi state ascoltando?” domandò Osamu.
“No” rispose Hinata, lapidario.
Atsumu scoppiò a ridere. La conseguenza di quell’atto sconsiderato fu inciampare in una pietra che prima sicuramente non c’era stata.
“È stato Shouyou a risponderti!”
“Ma tu mi dai fastidio.”
Shouyou sorrise innocente e il resto della giornata a Oshubi proseguì senza intoppi. Atsumu non poté fare a meno di notare, a un livello a stento conscio e che sfiorava la magia, che Osamu non aveva smesso un attimo di guardarsi attorno, a caccia di qualcosa che, per la prima volta in vita sua, Atsumu fu certo di non saper decifrare.
   
 
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