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Autore: time_wings    18/12/2022    2 recensioni
[ATLA!AU - AtsuHina, IwaOi, OsaAka]
Atsumu e Osamu passano le loro giornate tra allenamenti noiosissimi e scippi fallimentari, nell'anello esterno di Ba Sing Se. La loro vita cambia radicalmente quando si ritrovano costretti ad aiutare Shouyou Hinata, un ragazzo misterioso che viaggia in groppa a un bisonte volante.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Keiji Akaashi, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Tooru Oikawa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PARTE TERZA
Gaoling

 
Kao Lai, ottantacinque anni prima, era nota per essere la città più a ovest del Regno della Terra. Sorgeva su una zolla a forma di uncino ed era famosa per le sue spiagge dorate, ma striate di nero. Una sottile lingua di mare separava Kao Lai dall’isola di Shouhon, la più grande nell’arcipelago della Nazione del Fuoco e famosa per il vulcano che la dominava. Polveri e detriti si spingevano fino a Kao Lai e, per via di fenomeni atmosferici che i più grandi studiosi del mondo ancora non erano riusciti a decodificare, venti e piogge si tingevano di nero e crollavano nell’entroterra e sulla costa. La città era poi diventata famosa per le sue lacrime di carbone.
Kao Lai, ottantacinque anni dopo, era nota per essere la città più a ovest del Regno della Terra, per le sue lacrime di carbone e perché era una colonia della Nazione del Fuoco. Erano sparite le leggende sul vulcano di Shouhon ed erano state rimpiazzate dalle angherie dei soldati giovani che venivano mandati lì per far pratica di violenza, eserciti della Nazione del Fuoco in erba.
Kao Lai, però, era nota per un’altra, piccolissima cosa: gli imbrogli. E questo era vero ottantacinque anni prima come allora.
Oh,” disse il ragazzo, la bocca formava un anello perfetto di stupore e agitazione.
“Oh… cosa?”
Lui scosse la testa e ripose la mano del suo interlocutore sul tavolo, la voltò perché nascondesse il palmo e lasciò due buffetti costernati sulle nocche.
“Oh cosa?” ripeté il soldato con voce stridula. Se c’era una cosa che amavano, questi soldati della Nazione del Fuoco, era immergersi nel misticismo di Kao Lai, nel mistero della sua storia legata stretta a una magia che gli abitanti del luogo spacciavano per la più antica del mondo.
“Non son liete novelle” disse infine il ragazzo, scuotendo di nuovo la testa e osservando impotente le mani del soldato. “V’è a capo della linea, e della vita a essa congiunta, la più ardua delle prove. Il rischio è rilevante, specie quando piove. Di dir più non m’è concesso, ma, aguzzando l’occhio, il palmo segna il dove.”
Il soldato lo guardò fisso, la bocca semiaperta come un pesce annaspante, poi colse il senso delle parole dell’indovino e si alzò in piedi sconcertato, gli occhi fissi sul palmo della mano che, qualche istante prima, gli era stato letto.
Il mago fece spallucce – un tipo di spallucce solenni e per nulla noncuranti, si badi – e accennò con la mano sinistra al barattolo sul tavolo. Il soldato annuì svelto. Infilò le monete nel barattolo e scappò via come se la sua anima gli avesse ricordato di un’urgenza.
L’indovino espirò pesantemente dal naso e allacciò esausto le mani dietro la testa, poi sciolse le spalle e riprogrammò il suo cervello perché tornasse a parlare normalmente.
Oikawa Tooru non era un indovino, era un ciarlatano. Era noto a Kao Lai per essere l’espressione più pura della magia.
Ecco la parte di storia vera: i suoi genitori erano stati a trovare degli amici di famiglia nel sud del Regno della Terra, ma erano due dominatori dell’acqua, originari della Tribù dell’Acqua del Nord. A sua madre si erano rotte le acque sulla strada di ritorno per il nord, e si era trovata per caso a partorire a Kao Lai.
Ecco invece la parte di storia falsa: Kao Lai aveva benedetto il dominatore dell’acqua nato nel suo grembo e gli aveva donato un potere che neanche gli stregoni più potenti della città potevano vantare: la cura dalle maledizioni. L’acqua che toccava era sacra, intrisa di dominio e magia. Ma la sua potenza, ovviamente, era indimostrabile.
Oikawa Tooru prima leggeva disastri nella vita delle persone – la vita, tanto, era una tragedia per tutti, quindi bastava restare vaghi – e poi si faceva pagare una quantità spropositata di denaro per cancellare questi disastri dal loro futuro. Quelli che restavano, ovviamente, non erano una sua responsabilità: non si poteva pagare per tutti.
Nessuno aveva mai osato mettere in dubbio la sua credibilità. Nessuno, fino a quando l’ultima delegazione di soldati della Nazione del Fuoco alle prime armi non era sbarcata sulle coste striate di Kao Lai.
La porta della locanda si aprì con un suono secco e deciso. Molte delle sue sedute si tenevano in locande, negozi di antiquariato, a volte anche rocce in riva al mare. Non avere uno studio lasciava che la magia della terra di Kao Lai gli fluisse attorno, spirali e linee sinuose di ispirazione che non erano che una scusa che funzionava molto molto bene per non pagare i soldi dell’affitto di un locale per indovini.
Oikawa alzò gli occhi verso la porta della locanda e localizzò il nuovo arrivato.
“Se la ruota della fortuna vuoi girare,” iniziò con tono solenne, quando lui si fu avvicinato al suo tavolo, “il palmo della mano, o viaggiatore, ti conviene mostrare.”
“Piantala con le stronzate” gli rispose lui, sedendosi sulla sedia di fronte alla sua come se gli spettasse. Non gli spettava affatto, a dirla tutta costava una fortuna. Ma Hajime Iwaizumi era quell’unica persona che osava mettere in dubbio la sua credibilità. “Uno dei miei compagni è uscito di qui qualche minuto fa e ha detto che adesso vuole andare a pescare trote.”
Oikawa sollevò un sopracciglio. “Io l’ho sempre detto che voi della Nazione del Fuoco siete degli stupidi” disse leggero, cambiando completamente registro. Le rime non attaccavano con Iwaizumi, ciò che attaccava era farlo irritare e, in quello, Oikawa era quasi più bravo che a fingersi mago.
“Attento a come parli, non sei intoccabile solo perché una mandria di stronzi ti sta a sentire.” Iwaizumi lo fulminò con lo sguardo, ma Oikawa non aveva più paura della Nazione del Fuoco. Era un genere di lusso che si potevano concedere tutti quelli che li avevano visti ardere le vite attorno a loro.
“Guarda che sono i tuoi stronzi. E comunque espongo i fatti. Quel tuo amico dev’essere parecchio cretino se ha sentito nelle mie parole il suggerimento di andare a pescare trote, nella vita. Anche se tutto sarebbe meglio che continuare a fare quello che fate voi qui... qualunque cosa sia.” 
Iwaizumi abbassò la voce e piantò le mani sul tavolo. Si alzò in piedi, facendo stridere rumorosamente la sedia contro il pavimento, poi si sporse in avanti per fronteggiare Oikawa. “Questa è l’ultima volta che te lo dico: smettila con questa truffa.”
“Non è colpa mia se voi soldati siete così deboli da non saper resistere a una predizione” ribatté l’indovino, fronteggiandolo a sua volta.
“Questa cosa potrebbe mettersi seriamente male per te.”
“Preoccupato per la mia incolumità?”
“Addestrato così bene da non attaccare alle spalle.”
“Davvero nobile. Vuoi elencarmi tutte le altre cose leali e corrette che ha fatto la Nazione del Fuoco negli ultimi ottantacinque anni?” Oikawa percepì il suo respiro rimbalzargli sulle labbra. Fece scattare lo sguardo dai suoi occhi alla sua bocca, a metà strada tra sfida e qualcos’altro.
Iwaizumi scosse la testa rassegnato, poi si allontanò di scatto e tornò dritto. “Ci vediamo stasera al solito posto?”
Oikawa annuì e Iwaizumi gli diede le spalle. “Iwa-chan?” lo richiamò. Lui si voltò a metà, seccato. Della seccatura di Iwaizumi a lui importava quanto il futuro dei suoi clienti: zero. “Lo sai che vivi in una prigione, sì?”
Lui esitò solo un attimo, la prova di quella pausa nel dito medio che ancora non gli aveva mostrato. “Tu non capisci proprio niente,” disse, poi se ne andò.
Iwaizumi non si era ancora mai fatto leggere le mani, il che era un fatto peculiare, perché, tra tutte le mani dei soldati della Nazione del Fuoco che Oikawa aveva toccato, le sue erano quelle con cui aveva più familiarità.
Alcune notti, la differenza tra fuoco e acqua e fiamme e onde si affievoliva al punto che Oikawa e Iwaizumi si vedevano per qualche minuto solo per quello che erano: due ragazzi che, in una vita più facile, avrebbero potuto innamorarsi.
 
Passarono i giorni.
Incredibile come, tagliando alcune corde, anche le cose più improbabili scivolassero facilmente nell’abitudine. Atsumu e Osamu non avevano mai lasciato Ba Sing Se e adesso viaggiare sulla schiena di Mugi era diventata la loro attività fissa dopo la colazione. Avevano visto boschi, mari, fiumi, laghi e monti e, più lo facevano, più sembrava che non avessero fatto altro per tutta la vita. Shouyou, invece, che aveva sempre viaggiato da solo, abituato a nascondersi e a non fidarsi, era diventato forse il dominatore dell’aria che aveva più amici al mondo. Non era difficile, in fondo ne bastava uno, ma era qualcosa.
Osamu iniziava a superare le sue difficoltà con l’alta quota. Shouyou aveva anche avuto l’impressione che gli mancasse Oshubi, ma forse erano solo i suoi sensi di colpa a parlare.
Nell’ultima settimana avevano visto il grande Canyon, coi suoi percorsi guidati, e, dal clima rigido e inospitale delle Terre del Nord, erano passati per uno spicchio di deserto e per una palude così ampia e fitta che sembrava ricoprisse in qualche modo il mondo intero. Sorvolando quell’oceano di alberi, i ragazzi erano rimasti in silenzio, cullati dal respiro pesante di Mugi e dal suono distante e antichissimo del vento che scuoteva le foglie laggiù. Una volta superata, Shouyou si era voltato verso i suoi compagni di viaggio.
“Credete che avremmo dovuto fermarci?” aveva domandato, le sopracciglia aggrottate, confuso dalla sua stessa domanda.
“Nah, un mucchio di fango e melma,” aveva detto Atsumu, scrollando le spalle.
Ma Osamu era scivolato in un silenzio riflessivo e così avevano proseguito lungo la rotta per Gaoling più sicura per i dominatori dell’aria.
La prima e unica cosa interessante di quel viaggio accadde la notte prima che approdassero in città, a mezza giornata di viaggio dalla meta.
Shouyou si svegliò di scatto. Un fremito nell’aria, un accenno di vibrazione. Aprì gli occhi e uno spicchio di cielo lo fissò di rimando. Osamu, quando non trovavano accampamenti validi, costruiva tende di roccia per loro, lasciando solo uno scorcio di cielo sulla sommità conica. Al mattino li accoglievano i primi raggi timidi di una sveglia naturale.
Ma non era giorno. Non ancora. Due respiri regolari si alternavano non lontano da lui. Due. Quello di Osamu e quello di Mugi, oltre la tenda.
Si alzò a sedere e distinse appena, nel buio, la sagoma floscia di un sacco a pelo, la sagoma vuota.
Leggero come una piuma e per niente silenzioso, Shouyou sgusciò via dal suo sacco a pelo e si infilò nella fessura da cui si intravedevano le stelle.
L’aria della notte era fresca, lì al sud, frizzante ma non umida di rugiada. Faceva rabbrividire appena perché questa sembrasse una reazione superflua un attimo dopo. Il paesaggio era tutto massi scuri e alti, una foresta di rocce che dominava il cielo. Pinnacoli incredibili si ergevano come guardiani silenziosi di una landa desolata, ormai immemori dei terremoti che nel passato avevano scosso la terra perché loro si sollevassero. L’incremento di altitudine aveva cancellato ogni traccia della palude che si erano lasciati alle spalle non molto tempo prima. Eppure Shouyou era stato così sicuro che impregnasse il mondo intero!
Non lontano da lì scorreva un ruscello. Doveva essere un corso piccolo, che si tuffava da qualche parte nel vuoto, ma la notte amplificava ogni suono e lo trasformava in qualcosa di importante, meritevole di attenzioni.
Shouyou aveva imparato ad ascoltare i paesaggi grazie agli insegnamenti dei pochi monaci più anziani rimasti. La terra era un ostacolo, un muro. Il cielo era lontano e illeggibile. L’acqua era pericolosa almeno quanto era vitale. E il fuoco… be’, il fuoco era morte. All’inizio aveva finto di dar ragione ai suoi maestri, perché quando gli dicevano di chiudere gli occhi e ascoltare i paesaggi lui non sentiva un bel niente e la meditazione non era che una noiosissima e atroce tortura. Nessuno l’aveva mai propriamente costretto a far niente, ma Shouyou voleva essere il miglior dominatore dell’aria del mondo, al punto che da una cosa complessa e piena di variabili, quell’arte si trasformasse nel divertimento distintivo dei più forti e quindi doveva meditare.
Poi un giorno era successa una cosa strana: il vento aveva scosso le foglie quasi secche di fine estate, un fruscio distante e impalpabile affine a un’illusione più che una percezione. E Shouyou, invece che sentirlo, lo ascoltò.
Un soffio basso lo riportò al presente. Si guardò in giro all’erta. Stranamente, però, sbadigliò. Continuò a voltarsi smarrito finché un bagliore arancio colorò lo sfondo di una colonna di roccia, permettendole di stagliarsi nel buio nella forma di un’ombra. Poi la luce si spense e la colonna svanì.
Shouyou seguì quell’unico indizio a tentoni, finché non giunse, solo qualche minuto dopo, ai piedi del pilastro irregolare che aveva visto prima. “Atsumu?” chiamò voltando l’angolo, ma la sua voce fu superata e distrutta dal ruggito di una fiammata.
Si affrettò a nascondersi dietro la parete di pietra che faceva da angolo, poi capì che non era mai stato sulla linea d’azione dell’attacco e si sporse per sbirciare.
Le fiamme erano sparite, ma qualche scintilla si attardava ancora nel buio, conservando il crepitio dell’esplosione. Altre piccole fiammelle si accesero nell’aria, colorando a intermittenza quell’oscurità in file sinuose e apparentemente imprevedibili. Accendevano finestre sulla foresta di roccia che li circondava, uno spettacolo segreto che solitamente rispondeva solo al richiamo del giorno.
Al centro di quella guerra c’era Atsumu, calmo come Shouyou non l’aveva mai visto, ma gli occhi – che dal suo nascondiglio lui vedeva a stento e solo a volte – erano accesi di qualcosa di simile alla fame, una determinazione che bruciava più ardentemente dell’aria che incendiava.
Continuò a sbirciare e non lo interruppe. Non seppe bene perché, ma, più di quanto gli convenisse ammettere, Shouyou si fidava del suo istinto, e quindi non mosse un muscolo.
Aveva imparato a temere le fiamme più della morte, aveva imparato a distinguere la puzza di bruciato e a seguire le correnti d’aria che più si allontanavano da essa. Per tutta la sua vita Shouyou aveva associato il fuoco alla nazione che ne aveva preso il nome, alla violenza, alla disgrazia, alle notizie sulle scuole di lì, nelle quali si giurava ogni mattina fedeltà al loro paese e al loro Signore del Fuoco.
Però Atsumu non c’entrava niente con tutta quella distruzione.
Muoveva le mani in una maniera che Shouyou non aveva mai visto suo fratello fare e l’effetto fu strano-bello. C’era qualcosa di magico nella nascita di una scintilla, nella maniera violenta e rapida con cui questa si trasformava in fiamma, divorando un’aria che Shouyou avrebbe trattato certo con più garbo ma con meno magia. Era più o meno sicuro che Atsumu non avesse la più pallida idea di come si padroneggiasse quell’arte e, in un momento meno sospeso, avrebbe riso di lui, ma c’era comunque qualcosa di affascinante nel vederlo accendere una luce. Quel fuoco era vivo in una maniera che non rischiava di avvampare e poi divampare.
I maestri di Shouyou gli avevano detto che era un po’ troppo spericolato, tentato dalla curiosità e incapace di resisterle. Aveva imparato a meditare, ma era ancora incosciente e forse lo sarebbe stato per sempre.
Questo bisogno continuo di stimoli era la benedizione di un viaggiatore, ma straripava al punto che l’ultimo consiglio del suo maestro per lui fu: ‘non giocare col fuoco, Shouyou’.

“Che stai facendo?” lo interruppe Hinata, facendosi avanti. Atsumu si voltò di scatto e un cono di fuoco morì in cielo, spegnendosi in nuvole di fumo. Nel palmo della sua mano rimase solo una fiamma sfiatata.
Alzò le sopracciglia sorpreso, un angolo della sua bocca si sollevò appena, ebbe un fremito e poi tornò giù. “Niente, volevo…” poi la fiamma si spense e il paesaggio crollò nel buio, “provare.”
Shouyou si avvicinò di qualche passo. La terra brulla gli rispondeva ostinata e accomodante insieme. L’aria era pesante come se fosse piovuto fuoco. Soffiò davanti a sé per localizzare l’esatta posizione di Atsumu, poi si arrestò. Era così buio che tenere gli occhi aperti o chiusi non faceva differenza. A volte il buio ha delle sfumature, attiva i sensi e permette di percepire un ostacolo solo perché in certi punti pare più denso. Invece quello era totalizzante, immanente. Esistevano solo la terra sotto i suoi piedi e Atsumu, perché respirava. “Provare nel bel mezzo della notte?” Shouyou non era lì per giudicare. Aveva abitudini strane anche lui. D’altronde volava sulla schiena di un bisonte volante e si era volontariamente accollato una missione suicida.
“Non c’è un orario per provare,” fu la risposta ironica di Atsumu. Shouyou pensò che fosse proprio uno di quei tipi che dicevano le cose importanti scherzando e le battute con fare serio. Non li capiva.
“Hai proprio ragione, Atsumu!” Shouyou non sapeva perché, ma essere entusiasti al buio era diverso che esserlo al sole. “Allora tu continua ad allenarti molto duramente.” Fece per andarsene, ma Atsumu gli afferrò il polso.
“Resta,” sussurrò. Perché a volte, quando si era al buio, si era sempre un po’ abituati a non farsi scoprire svegli dalla mamma, anche se la mamma non l’avevi. “Mi fa piacere stare con te.”
Con la mano libera accese di nuovo la luce, un sorriso storto gli tagliava diagonalmente il viso. Shouyou captò la disonestà come al solito, ma si fidò, perché se Atsumu non sorrideva mai sinceramente di certo guardava sinceramente. E nei suoi occhi sembrava sempre che la fregatura non andasse mai a discapito di Shouyou, che fosse anzi volta a renderlo felice.
Shouyou era cresciuto temendo il fuoco, ma quello di Atsumu gli piaceva.
Atsumu gli piaceva.
 
Tirava un vento caldo dall’ovest quando, una manciata di ore prima del tramonto, i ragazzi intravidero Gaoling oltre il muso di Mugi.
La città consisteva di una serie di edifici di piccole dimensioni incrostati alla terra e circondati da montagne simili a denti, le cui basi sfumavano le une nelle altre. Quell’anello naturale di monti delimitava i confini di Gaoling e conferiva al paesaggio un aspetto brullo e secco.
Shouyou, dal suo posto speciale sul collo di Mugi, si voltò a favore del vento e annusò l’aria, la fronte aggrottata in quel modo ambiguo, a metà tra l’accigliato e il suo opposto.
Atsumu lo guardò mentre il vento si infilava tra i capelli e glieli sollevava sulla fronte, mettendo in mostra il tatuaggio. L’aveva intravisto altre volte, mentre volavano o al mattino, appena svegli, ma c’era qualcosa di affascinante ogni volta nel toccare con mano il modo in cui la spiritualità di Shouyou si scontrava con quel suo lato selvaggio. Atsumu seguì con lo sguardo il percorso della freccia tatuata lungo la nuca finché l’azzurro non si tuffò oltre il colletto della sua maglietta. Avrebbe voluto tracciarla con un dito e ripercorrerla al contrario, allontanandosi da quello a cui puntava e avvicinandosi alla sua origine, al suo motivo.
Quei pensieri furono interrotti in un baleno da Osamu, che gli colpì il mento. “Chiudi la bocca.” lo mise in guardia. “Il cielo è pieno di mosche.”
Atsumu fece scattare lo sguardo nel suo e mosse la mandibola per accertarsi che non gliel’avesse scardinata. “Non mi fanno paura le mosche. Ho vissuto per diciott’anni con la più fastidiosa di tutte.”
Osamu sollevò un sopracciglio, apparentemente poco turbato. “Dici?”
Shouyou sospese la sua conversazione telepatica col vento e si voltò a guardarli battibeccare. Atsumu ci teneva sempre a dare l’impressione che fosse quello meno coinvolto, nelle sue discussioni con il fratello. Questo secondo lui gli dava una certa aria superiore. La verità era che non vedeva l’ora che scattasse il momento più indicato per fare a botte e aveva la faccia di uno che non vedesse l’ora che scattasse il momento più indicato per fare a botte. Per fortuna anche Osamu aveva l’aria bellicosa.
“Che succede?” Shouyou sorrideva. All’inizio Atsumu l’avrebbe trovato tenero, ma dopo settimane di viaggio aveva capito che altro che piccolo gigante del dominio dell’aria: era un piccolo stronzo.
Osamu sfiorò lo sguardo di suo fratello, poi, con l’espressione più addolorata che riuscì a fingere, sospirò: “È un po’ patetico, a dire il vero, ma credo che ‘Tsumu…”
“Trovi questa città poco alla moda,” lo interruppe Atsumu, sfoggiando un sorriso sibillino. Conosceva Osamu abbastanza per sapere che sarebbe stato ambiguo, ma non conosceva Shouyou abbastanza per valutare la sua perspicacia.
Gaoling era tutt’altro che ‘poco alla moda’. Atterrarono poco fuori la città, alle spalle di una montagna dall’aspetto friabile, poi lasciarono Mugi al sicuro. Quando si addentrarono nella vallata, furono accolti da villette recintate che lasciavano intravedere solo le siepi più alte dei giardini al loro interno e targhette che segnalavano con tratti sinuosi ed eleganti i nomi dei residenti delle proprietà.
Attraversarono un ruscello dall’aria intrusa e circumnavigarono il muro più lungo in cui si fossero imbattuti lungo quella passeggiata nel lusso, finché questo non si interruppe per far posto al portone più sontuoso su cui i gemelli avessero mai posato gli occhi.
“Wow,” fu il commento articolato di Atsumu. Per una volta Osamu non lo prese in giro e stette a guardare a braccia incrociate quel capolavoro di intarsi e ghirigori. In cima al portone campeggiava lo stemma di un cinghiale volante.
 
“Quindi dove dobbiamo andare?”
Atsumu si fidava di Shouyou, soprattutto perché non aveva intenzione di mettere in dubbio quella rete fantasma di informazioni che i dominatori dell’aria avevano intessuto in silenzio per ottantacinque anni, però era quasi calato il buio e Osamu non aveva ancora gareggiato in un’arena.
“Ci sto lavorando,” fu la risposta criptica di Hinata. A giudicare dalla sua faccia, sembrava che il lavoro di Shouyou fosse vagare senza meta e sperare che la loro prossima mossa piovesse dal cielo, ma Atsumu non glielo disse, perché era un tipo misericordioso.
Buttò un occhio a suo fratello, qualche metro indietro, nella strada principale stracolma di bancarelle. Lo vide sussultare come un cane da caccia e seguire la scia di un odore che portava a un pentola di rame, poi annusò ancora e sgranò gli occhi come se gli fossero state aperte le porte del mondo degli spiriti. Atsumu sperò che la gara che lo attendeva nell’arena fosse qualcosa sul filo di ‘riconosci la cottura del bufalo’, perché altrimenti erano spacciati. Ebbe giusto il tempo di notare suo fratello chiedere qualcosa al signore fermo dietro alla bancarella, poi Shouyou, accanto a lui, sfiatò da un angolo della bocca.
“Ma che diavolo stai facendo?”
Hinata lo guardò con gli occhi sbarrati e la bocca ancora storta. Si ricompose in fretta facendosi dritto come un fuso e leccandosi le labbra per liquidare le prove del misfatto. “Niente, sto aumentando il raggio delle onde sonore che…”
“Non hai idea di come trovare quest’arena, eh?”
“No,” si sgonfiò come un palloncino, “i dominatori dell’aria parlano di una gara clandestina, ma è difficile decifrare i messaggi in codice.” Shouyou si grattò il capo. “Forse l’indizio si riferiva a un’area in cui si tiene una parata in una stradina.”
Atsumu lo guardo arrovellarsi e pensò, siamo sul serio spacciati, ma poggiò comunque una mano sulla spalla di Shouyou. “Non preoccuparti, sei al cospetto del miglior criminale di Ba Sing Se.”
Seppe di aver fatto la mossa giusta a non esprimere le sue perplessità, perché il viso di Shouyou sembrò raccogliere sul viso tutta la luce che la stringa di lanterne sulle loro teste emanava e rispedirla a lui, che non se la meritava. “Sei fantastico, Atsumu!”
La prima cosa che fece fu raccattare Osamu.
“Io prenderei la polpetta” gli consigliò, dando un colpetto col gomito a suo fratello per risvegliarlo dalla sua contemplazione assorta. “Ti devi mettere in forze.”
“Perché dovrei?”
“SALSICCE E CAVOLI FRESCHI PER I DOMINATORI PIÙ IN FORMA DI GAOLING!” un uomo scampanellava da una bancarella sgangherata che, fedele a se stessa, vendeva solo salsicce e cavoli. Attirò l’attenzione di Atsumu.
“Hai ragione. Perché non una salsiccia?”
Osamu lo guardò con l’espressione con cui lo guardava quando diceva qualcosa di estremamente stupido, ma Atsumu lo conosceva: lo guardava così anche quando capiva che stava mettendo a segno un colpo. Era l’espressione con cui lo studiava.
“Ti va una salsiccia?”
Osamu lanciò un’occhiata a Shouyou, alle loro spalle. Era basso, ma stava iniziando a bruciare e collassare su se stesso dall’impazienza, quindi si faceva notare. “È una battuta sporca?”
Atsumu lo guardò un attimo con le sopracciglia aggrottate.
Osamu scrollò le spalle. “Vabbè, in ogni caso mi va una salsiccia.”
Si avviarono alla bancarella ridendo e il tipo scampanellò più forte per attirare la loro attenzione. “SALSICCE E CAVOLI FREEEEESCHI…”
“Fammi indovinare,” lo interruppe Atsumu, sorridendo come a cercare un’intesa e puntando un dito contro di lui. “Per i dominatori più in forma di Gaoling?”
“Puoi dirlo forte, ragazzo!” rispose quello, allegro.
“Oh, lo stai dicendo bello forte tu, non voglio soffiarti il lavoro, amico.”
Il venditore sorrise, una scintilla nello sguardo che confermava i sospetti di Atsumu, perché brillava molto meno di goliardia e molto più di furbizia. “Sei sveglio.”
Atsumu si strinse nelle spalle. “Tu un po’ meno, non ho ancora visto neanche un dominatore in forma.”
“Ma che stai…” iniziò Osamu, ma Shouyou gli pestò il piede con forza.
“Forse stai guardando nel posto sbagliato.”
“Forse le tue salsicce sono una truffa.”
L’uomo si sporse appena oltre il bancone. “Stai cercando il quinto scontro del dominio della terra, ragazzo?”
Atsumu gli sorrise ingenuo.
L’uomo si allontanò di scatto e mise mano a salsicce e contenitori. “Tre salsicce con contorno, dico bene?”
“Corretto,” rispose Atsumu e fece segno con la mano a Osamu di passargli dei soldi. Quando suo fratello lo accontentò, Atsumu ebbe appena il tempo di notare un buco perfetto nella sua maglietta e interrogarlo con lo sguardo per un lunghissimo istante. Osamu si rese illeggibile, per la seconda volta negli ultimi giorni.
L'uomo si guardò intorno, guardingo, poi fece segno ai ragazzi. “Seguitemi in magazzino per le salse di accompagnamento.”
“Atsumu…” gli sussurrò Shouyou, reggendo la sua cena fumante tra le mani, mentre il venditore di salsicce li conduceva all’arena. “Io sono vegetariano.”
Atsumu rimase interdetto. “Ah, non ti piace?”
“No,” continuò a sussurrare Shouyou, scuotendo forte la testa. “No, nel senso che non mangio la carne, però ottimo piano!” disse poi, mostrandogli un pollice in su.
L’uomo bussò a una porta tre volte di fila, poi attese un secondo e bussò una quarta volta. La porta si spalancò. Dava su una scalinata che si snodava in un buio che sembrava denso, alla vista. Melassa, pasta di zucchero.
“Se gareggiate e vincete dite che vi manda Kyo.” Diede un’occhiata ai ragazzi da capo a piedi, in una valutazione vagamente sfiduciosa. “Oppure non dite niente. Buon divertimento!”
E, veloce come il vento, tornò alla sua bancarella.
 
L’arena del quinto scontro era costruita al centro di un’enorme sala sotterranea. Osamu contò almeno una dozzina di altri corridoi collegati a tunnel bui che sfumavano in gradinate, identici a quello che avevano appena attraversato loro. L’arena si trovava su una struttura rialzata nel bel mezzo di una fossa recintata ed era illuminata dall’alto da cristalli fluorescenti, che gettavano un bagliore spettrale e smanioso d’azione insieme.
“Wow!” esclamò Shouyou, gli occhi enormi riflettevano esterrefatti quell’immensità. Atsumu non sembrava granché impressionato dal luogo, ma più da come si rifletteva negli occhi di Hinata.
“Qualcuno di voi mi può spiegare che ci facciamo qua?”
“Siamo venuti a dare un’occhiata alla gara” spiegò Atsumu, guidandoli lungo il corridoio parallelo al lato più corto dell’arena. “Oh, hanno lasciato liberi i posti in prima fila!” trillò, correndo a prenotarne tre sdraiandosi su un gradino che aveva una vista perfetta sul ring.
“Mi stai dicendo che stiamo viaggiando da Oshubi da giorni perché volete vedere dei dominatori della terra lottare in un’arena?” Atsumu fece spallucce. “A Ba Sing Se l’ultima cosa che volevi fare era guardare me, Aran e Kita combattere.”
“Perché voi non siete esperti.” Osamu inclinò il viso su un lato, scettico. “Ehi, ora ho visto mezzo mondo. Il viaggio ti cambia, ‘Samu.”
“Ma non siamo venuti qui perché ci servivano soldi?”
“Perché non ti siedi e mi dai tregua?”
Osamu non gli dava tregua da quando la sua cellula aveva incontrato la cellula di Atsumu, ma si sedette comunque e osservò ammirato i cristalli inclinarsi con uno stridio e puntare dritto sul ring, lasciando in penombra gli spalti. Mormorii indistinguibili serpeggiarono tra gli spettatori, poi calò il silenzio.
Beeeenvenuti al quinto scontro del dominio della terra!” tuonò la voce di un ragazzo, in piedi su una colonnina di roccia. Osamu immaginò che fosse l’arbitro. “L’attesissimo evento che si tiene a Gaoling ogni quindici anni! Le regole sono semplici: gli avversari si scontreranno a coppie. Il primo sfidante a sbattere l’altro fuori dal ring con il dominio della terra passerà al round successivo. Il dominatore che arriverà all’ultimo round si scontrerà con il campione dello scorso scontro del dominio della terra!
Un coro di ovazioni si alzò dalla folla, poi un uomo basso e tarchiato, vestito in maniera stravagante, si fece largo sul ring, sollevando entrambe le braccia e annuendo fiero agli spalti in ombra.
Diamo il benvenuto a… il re matto!
Il re matto esultò come se avesse vinto già qualcosa, poi l’arbitrò presentò il suo sfidante e il primo scontro ebbe inizio.
Osamu era mediamente affascinato. Attacco e difesa coprivano a volte le basi del dominio della terra, altre le ribaltavano, rimodellandole e riplasmandole in varianti creative e talvolta spettacolari. L’azione era serrata, la gara era continua e l’arena veniva costantemente crepata, sollevata, distrutta e ricucita attacco dopo attacco, sfidante dopo sfidante. La polvere danzava nell’aria sotto le luci sinistre dei cristalli e poi si disperdeva. Non era completamente affascinato, però, perché molta di quella roba era del tutto inutile: una performance e niente di più. Alcuni movimenti erano di troppo, le forme acrobatiche non rispettavano ciò che al dominio della terra avrebbe dovuto stare più a cuore: l’attesa, l’ascolto, la semplicità. Gli scontri erano effimeri, mentre la terra era sostanza.
A Shouyou e suo fratello però sembrava piacere.
“L’HAI VISTO, ‘SAMU, HAI VISTO CHE HA FATTO?” urlava costantemente Atsumu nel suo orecchio e sembrava importargli relativamente poco dei detriti che venivano scagliati a qualche centimetro dalla sua testa durante il combattimento.
“Oh, adesso capisco perché le prime file erano tutte libere” commentò Shouyou a occhi spalancati, addentando una foglia della sua doppia porzione di cavolo, visto che Atsumu gli aveva ceduto la sua in cambio delle salsicce che non poteva mangiare.
“‘SAMU, QUESTO LO SAI FARE?”
“Ha solo sollevato una pietra, ‘Tsumu.”
“Sì, ma lo sai fare?” Atsumu lo guardò pieno di aspettativa.
Osamu ricambiò lo sguardo, poi, molto lentamente e con le sopracciglia aggrottate, disse: “Sì.”
Il re matto finì per perdere all’ultimo scontro, nella sfida contro il campione in carica. Gli spalti esplosero di fischi esaltati e grida di rivincita o di complimenti, ma l’arbitro richiamò il silenzio e questo permeò ovattato e trepidante la sala, donandole il sentore di una scintilla di possibilità.
Il re matto perde contro la campionessa del quarto scontro del dominio della terra! Facciamo un applauso alla guerriera dell’est, rimasta imbattuta!” Malgrado il malcontento di alcuni, la vincitrice fu accolta da applausi ed esultanze. “Ma,” riprese la parola l’arbitro. “Offro una ricompensa a chiunque, nel pubblico, creda di potersi battere con lei e strapparle la cintura del campione!
E a quel punto l’arena sotterranea ululò.
Osamu ebbe a stento il tempo di registrare un movimento alla sua sinistra, poi vide suo fratello alzarsi in piedi e dichiarare: “Lo faccio io.”
“‘Tsumu ma che diamine, tu non sei un…”
E qual è il nome del dominatore che tenta l’impossibile?
Osamu lo capì con un microsecondo di ritardo. “Oh, no,” mormorò.
“Il giullare di Ba Sing Se.”
Per poco un coro di risate non coprì la voce dell’arbitro, che dalla sua colonnina di roccia dichiarò: “Si faccia avanti… Il giullare di Ba Sing Se!” e questa volta le risate si trasformarono in applausi entusiasti.
Atsumu tornò a sedersi e lanciò un’occhiata a Osamu. “Ecco come faremo soldi a Gaoling. È il tuo momento.”
“‘Tsumu, odio doverlo dire, ma, se io provo anche solo ad alzare una pietra, lei mi fa il culo.”
Atsumu gli diede una spinta. “Meglio che inizi a fartelo piacere,” sollevò lo sguardo verso l’arbitro, che reggeva un sacchetto pieno zeppo di monete e una cintura che sembrava valere sei volte tutti i cristalli luminescenti sul soffitto, “perché non hai mai visto così tanti soldi in tutta la tua vita.”
Osamu seguì lo sguardo di Atsumu, poi chiuse gli occhi e inspirò forte per il naso.
In effetti.
Non aveva mai visto così tanti soldi in tutta la sua vita.
“Qual era esattamente il piano?”
“Prepararci per vincere con l’astuzia contro la Nazione del Fuoco al Tempio dell’Aria dell’Est, sfruttando tutte le risorse disponibili,” si intromise Shouyou e, guardandolo, Osamu pensò che non avesse mai visto creatura più fuori luogo di lui, in un’arena.
“No, intendo il piano per battere il campione.”
La domanda di Osamu incontrò due sguardi interrogativi. “Devi vincere?”
La folla ululò, questa volta sul confine tra il seccato e l’impaziente. “Volete dire che non avete un piano?”
Atsumu gli batté una mano tra le scapole. “Andrai benissimo, sono quindici anni che sorbisco i tuoi allenamenti con Aran e Kita.”
Giullare di Ba Sing Se?
Osamu si portò una mano alla fronte e inspirò di nuovo, poi si alzò di scatto e si tolse la maglietta. Doveva proteggere quei fori, ricordare che erano reali. “Tu sei morto,” sussurrò ad Atsumu, poi si avviò sul ring.
“Però!”
Atsumu seguì lo sguardo di Shouyou, che lo condusse direttamente a suo fratello. Correzione: sui pettorali di suo fratello. “Non guardare.”
“Invidioso?”
Atsumu gli sorrise e si guardò attorno giusto un attimo (abitudine), poi inclinò il busto nella direzione di Hinata e sollevò le sopracciglia. “Io sono un dominatore del fuoco, Shouyou.”
Lui lo guardò, una consapevolezza sospesa nell’aria del fatto che fossero tremendamente vicini. Atsumu si finse disinvolto a riguardo.
Brucio un sacco di calorie.”
La risata di Hinata fu soffocata dall’arbitro che annunciava l’inizio dello scontro.
 
Ecco le quattro cose di cui Osamu si rese conto nei primi tre secondi di battaglia sul ring:
  1. La guerriera dell’est era la dominatrice della terra più insospettabile sul pianeta. Si muoveva leggera come una dominatrice dell’aria, elegante come una dominatrice dell’acqua e precisa come una dominatrice del fuoco.
  2. La luce dei cristalli, inclinati perché puntassero sul ring, gli stava facendo vivere quell’esperienza come uno di quegli incubi che faceva a casa in cui era al centro di una folla, nudo, con l’ingrato compito di tenere un discorso sui rischi di estinzione dell’alce-leone dai denti a sciabola, nonostante lui non ci capisse niente di alci-leone dai denti a sciabola.
  3. La guerriera dell’est era superiore.
  4. No, sul serio. L’avrebbe stracciato.
Dunque Osamu, alla luce delle illuminanti consapevolezze ammassatesi nel suo cervello in tempo record, fece l’unica cosa possibile: allargò i piedi e sollevò le mani, con i palmi rivolti verso l’alto, ben piazzato in una posizione buona sia per l’attacco che per la difesa (e soprattutto ottima per cadere nel fossato senza farsi troppo male, grazie tante).
Poi il punto quattro del suo elenco mentale si illuminò a intermittenza nella sua testa, perché, senza dargli neanche il tempo di capire cosa stesse succedendo, l’avversaria mosse una mano verso il basso, naturale e fenomenale come se stesse accarezzando un gatto randagio, e Osamu si ritrovò nel ring. Non sopra, non sotto, all’interno. Le urla del pubblico erano attutite come sotto l’acqua più densa del mondo, in una fossa chiusa su ogni lato ma dinamica per mano della guerriera dell’est, che lo stava inesorabilmente spingendo oltre i limiti dell’arena dall’interno. Tecnicamente non era stato sbattuto fuori dal ring, quindi non aveva ancora perso.
Contrastò quella forza al buio, rimpiazzando se stesso con altra roccia e, contro ogni istinto umano, spingendosi più in basso. Un’ultima lastra sottilissima di terra lo separava dalla caduta di tre metri nel fossato. Iniziava a finire l’ossigeno e già sentiva i polmoni contrarsi attorno al vuoto. Avanzò ancora al di sotto dell’arena e bucò la terra su cui aveva camminato pochi istanti prima, procurandosi altra aria e quindi altro tempo. Fece volare una delle pietre rimaste sulla superficie del ring. Udì lo scontrarsi inquietante di pietra su pietra, nel silenzio attonito del pubblico. Infine mosse un pugno verso l’alto e tornò in superficie, atterrando alle spalle della sua avversaria e sollevando una colonna di roccia per farla volare dall’altro lato.
Una scheggia d’orgoglio gli trafisse il petto quando udì un pubblico che non poteva vedere esultare come un matto attorno a lui. Forse il punto quattro poteva essere aggirato. Forse poteva farcela, poteva stracciarla, poteva sentire i tifosi sgolarsi per lui.
La guerriera dell’est sbuffò rapida dalla bocca e attutì la caduta sollevando altri spuntoni di roccia e saltando da uno all’altro come se avesse preso a scendere una scala. Osamu cercò di spezzarglieli sotto i piedi, ma lei era troppo veloce. Quando atterrò la attaccò a raffica, chiudendo e riaprendo la mano senza sosta e sentendo già i muscoli delle braccia tremare per l’esercizio. Lei non sfiorò neanche la polvere di una roccia: si limitò a schivare ogni sasso come danzando. Guardandola, a Osamu sembrò che non si stesse neanche sforzando. Modificò il ritmo degli attacchi, forse stava contando, forse le sue pietre avevano preso una cadenza, ma quando cambiò ritmo la guerriera dell’est non sembrò notare affatto il cambio di melodia.
Al contrario, lei iniziò a spaccare il pavimento di pietra del ring a sua volta, tirandogli contro altra roccia con lentezza sospetta. Osamu non poté far altro che rispedirla indietro, assieme a quella che le stava lanciando.
E poi lo vide. Preciso come una ragnatela, paziente come il ragno che l’aveva intessuta. Ai piedi della guerriera dell’est c’era un tappeto di pietre, il che equivaleva, per un dominatore della terra, a un letto profumato alla fine di una giornata estenuante.
Lei inclinò il viso su un lato e piegò le sopracciglia folte costernata. “Hai perso, ragazzo.”
Osamu la guardò fisso negli occhi verdi, cercando di leggervi un insegnamento e non più una vittoria. Tentò di attirare a sé i sassi che lei stava già radunando in un masso compatto sopra le loro teste, ma non riuscì neanche a scalfire l’opera. Tentò di coprirsi con altra pietra, ma lei continuò, con la mano libera, a distruggere ogni suo tentativo di difesa e al contrario ad aggiungerli al gruzzolo. Osamu indietreggiò. Poi, quando capì che non aveva più assi nella manica, chiuse gli occhi e attese impotente l’impatto.
Non arrivò mai.
Il rumore della terra crepata lo costrinse a riaprire gli occhi.
Il masso della guerriera si distrusse in polvere e poi quella polvere lo accecò. Se avesse potuto, avrebbe sgranato gli occhi, invece sentì quelle infinite particelle attaccarsi ovunque e spingerlo indietro.
Si chiese per un attimo di calante lucidità se lei non fosse una dominatrice dell’aria. Se fosse riuscita in qualche modo a fregare tutti o se le leggende sull’Avatar scomparso, dominatore di tutti gli elementi, fossero pronte a riscrivere ottatacinque anni di storia quel giorno, davanti a un evidente sfoggio di due elementi.
Ma lei non era l’Avatar, era ovvio.
La guerriera dell’est stava controllando la terra che lui aveva addosso e la stava utilizzando come un’assistente. La polvere lo stava spingendo fuori dal ring per lei.
Osamu Miya aveva un gemello. Sapeva esattamente cosa significasse scontrarsi ogni giorno con qualcosa di tanto simile a lui e al contempo così contrario. Negli anni, lui e Atsumu avevano imparato a trarre fuori il meglio da quella condizione e l’anello esterno di Ba Sing Se aveva offerto loro il campo di battaglia più insidioso di tutti, e quindi il più istruttivo. I gemelli avevano imparato che, quando vedevano qualcosa che funzionava, dovevano appropriarsene o imitarla fino a migliorarla.
E quindi Osamu fece entrambe le cose.
Imitò la tecnica della guerriera dell’est e, facendolo, se ne appropriò.
Combatté il sudore, la sabbia negli occhi e un dolore sordo, messaggero dei muscoli esausti e dei colpi che aveva preso.
Il problema di controllare così tanta terra sparsa tutta insieme era che alcuni granelli erano debolmente legati alla volontà del loro dominatore. Osamu se ne appropriò con fatica immensa e costruì il suo guanto di terra, rilevando, privato di un senso, i punti in cui la polvere non era presente per individuare la posizione della sua avversaria.
Cominciò a spingerla a sua volta fuori dal ring. Nel momento in cui iniziò a controllare anche i suoi movimenti, Osamu avvertì il vuoto sotto i piedi e precipitò nel fossato.
Un singulto sorpreso gli scivolò via dalle labbra.
 
“Ero certo…” Atsumu si liberò furtivamente dei contenitori di carta di salsiccia e cavolo fresco, poi unì le mani tra loro, “che ti avesse seppellito vivo, all’inizio.”
Osamu camminava accanto a loro, ma sembrava essere ridotto all’involucro esterno di se stesso. Shouyou lo immaginò come un costume di riserva di Atsumu, abbandonato su una stampella sgangherata di un ripostiglio.
“Grazie, ‘Tsumu” mormorò Osamu, esausto e anche un po’ abbattuto.
“Però poi le hai fatto fare swiiiiish!” offrì Shouyou in risposta, perché era convinto che gli facesse bene un po’ di incoraggiamento, soprattutto perché, sconfitta a parte, la sua performance gli era parsa fenomenale.
“Sì, ma poi la guerriera dell’est gli ha fatto swiiiiish in faccia,” gli ricordò Atsumu.
“Ma poi che razza di nome è, la guerriera dell’est?” chiese Osamu, a metà di uno sbadiglio.
“Quello di una guerriera che viene dall’est,” disse una voce all’improvviso, da qualche parte alle loro spalle. “Piuttosto che razza di nome è ‘il giullare di Ba Sing Se’?”
La dominatrice della terra migliore che Shouyou avesse mai visto in azione se ne stava a braccia conserte qualche metro dietro di loro. Nonostante il buio del viottolo, a Hinata sembrò mille volte meno letale ed elegante di quanto pareva coi cristalli dell’arena puntati addosso e un fossato di distanza tra loro. Si era tolta il costume con cui gareggiava e adesso indossava vestiti comuni, fatta eccezione per la cintura del campione. Sembrava quasi… umana. Quando i suoi occhi chiari incrociarono quelli di Shouyou, però, un brivido gli corse lungo la spina dorsale.
Osamu si inchinò, rispettoso, e Hinata guardò Atsumu guardarlo sconcertato. Quella sorpresa si sciolse subito, però, per fare posto al sospetto. “È un piacere rivederti, signora guerriera dell’est, ma…”
“Saya.”
“Saya,” Atsumu annuì, condiscendente e per questo tutto fuorché quello. “Non vorrei sembrarti indiscreto, ma perché ci stai seguendo?”
Saya lo ignorò. Invece portò su Osamu una versione attenuata di quel suo sguardo deciso che l’aveva fatto tremare sul ring e lo considerò da capo a piedi per una manciata di istanti imbarazzanti, prima di proferir parola. “Dove hai imparato quella tecnica?”
Osamu scambiò uno sguardo smarrito con suo fratello. “Che tecnica?”
“Quella che ho usato contro di te.”
Lui esitò. “Quella che hai usato tu e con cui… hai vinto?”
Ma Saya si limitò ad annuire, trasparente al punto da fargli scartare subito l’ipotesi che l’avesse cercato solo per infierire sulla sua sconfitta e prenderlo in giro.
“Ho solo fatto quello che stavi facendo tu, ma era troppo tardi.”
La guerriera dell’est lo guardò per qualche secondo di completa confusione, poi aggrottò le sopracciglia e mosse qualche passo nella sua direzione. Non era una tipa molto facile da leggere, ma sembrava arrabbiata, forse minacciosa. “Non prendermi in giro, ragazzo, ci vogliono anni per padroneggiare quella tecnica. È antichissima, originaria dell’arcipelago di Zhan, il gruppo di isole al largo del Tempio dell’Aria del Sud, ed è stata tramandata di maestro in maestro per secoli. Non esistono pergamene che ne riportino gli insegnamenti. Vive nella tradizione dei dominatori di quelle isole, che l’hanno appresa dall’osservazione dei Nomadi dell’Aria.”
Ci fu qualche momento di silenzio riflessivo, durante il quale Osamu non fu sicuro se sentirsi orgoglioso di aver padroneggiato una tecnica difficile senza il minimo sforzo o imbarazzato per aver violato qualche tradizione sacra e bla bla bla.
Shouyou, però, non sembrava star vivendo lo stesso dubbio interiore, perché saltò in aria – quel tanto che bastava perché chiunque fosse in grado di classificare quel salto come decisamente anomalo per qualunque essere umano, quel tanto che bastava per svelare a tutti cosa fosse – e gridò: “Dai dominatori dell’aria? Ma è fenomenale, Osamu, sei praticamente una specie di Avatar! Devo dire che ci farebbe molto comodo, di questi tempi, il nostro non è stato un granché, ammesso che sia morto. Comunque se è così devi assolutamente insegnarmela, potremmo mettere a punto un attacco combinato!” poi prese a colpire l’aria, con mosse misurate di karate.
“Un tornado di terra,” lo aizzò Atsumu.
“Uuuh, un tornado di terra. È un nome figo, non trovi?”
Ma Osamu stava seguendo quelle elucubrazioni solo per metà, perché gli occhi verdi di Saya continuavano a provare a scavargli nell’anima.
“Davvero non l’avevi mai provata prima di stasera, sul ring?”
Lui scosse la testa, molto lentamente.
Poi successero una serie di cose strane. Il cipiglio di Saya si sciolse di scatto, mise mano alla sua borsa e ne tirò fuori un sacchetto tintinnante, infine si inchinò, offrendo a Osamu metà della sua vincita.
“Nessuno ha mai pagato me per aver rubato una tecnica e averci pure perso uno scontro,” commentò Atsumu, dopo i primi istanti di sbigottimento generale.
“È per questo che ti sei offerto di combattere, no? Vi servono soldi.”
La mano di Osamu era a un passo dal sacchetto di monete, ma all’udire quelle parole la ritirò di scatto, costringendo Saya a guardarlo. “Non ci serve la tua carità.”
“Veramente un pochino,” ragionò Shouyou, pratico.
Ma Osamu continuò a fissare Saya, un misto d’orgoglio, spirito da bastian contrario e abitudine a sfidare tutti indiscriminatamente che si agitava nello sguardo. Sembrava che in tutta la sua vita non gli fosse mai importato di niente, ma quella battaglia mortale a ‘chi sbatte le palpebre per primo perde’ tradiva il suo reale coinvolgimento. Shouyou pensò che fosse proprio uguale a quello del fratello e al contempo diametralmente opposto, che guardare uno significava guardare una smorfia, una caricatura dell’altro e non il suo riflesso. Pensò che dove Osamu era deciso, Atsumu era ingannevolmente disinvolto; che dove Osamu era fondamentalmente sincero, Atsumu era fondamentalmente bugiardo e che in qualche modo nessuno poteva essere l’altro senza sacrificare la credibilità assoluta della performance.
“Prendili e basta” disse lei, alla fine, e parlare in maniera così netta sembrava essere la tattica preferita dei dominatori della terra per vincere le conversazioni, perché Osamu parve sconfitto. Lei gli porse nuovamente il sacchetto. “Questa è la mia seconda vittoria e io non so che farmene, queste gare sono la cosa più noiosa del mondo e un insulto all’arte del dominio della terra. Non mi sono mai divertita così tanto a gareggiare come stasera. Voi invece…” rischiò un’occhiata alle spalle di Osamu che si posò su Hinata. Lui ne fu elettrizzato: lei era fenomenale ed elegante e forte e simpatica… e soprattutto Shouyou non era certo che si fosse accorta della sua esistenza e di quella di Atsumu, prima di quel momento. Però poi disse: “viaggiate con un dominatore dell’aria, non so in cosa vi siate cacciati, ma so che non dev’essere nulla di buono.”
Shouyou sgranò gli occhi. “Come l’ha capito?!”
Atsumu scosse la testa, esterrefatto. “Sorprendente. Davvero sorprendente, mi chiedo cosa gliel’abbia fatto capire.”
“Vero?” replicò Shouyou.
Lui lo guardò un attimo. “No,” aggrottò le sopracciglia. “No. Hai fatto un salto di tre metri e sei vestito… così. E poi ti si vede…” Atsumu gesticolò per indicargli la fronte, ma Shouyou si limitò a spingere gli occhi verso l’attaccatura dei capelli, così Atsumu sospirò, fece un passo nella sua direzione ed esitò solo un secondo, prima di sollevare una mano e arruffargli i capelli.
Osamu, che insieme a Saya aveva assistito a quel teatrino, tornò con lo sguardo su di lei e prese evidentemente coscienza della situazione in cui versavano (Shouyou pensava andassero alla grande, ma, a giudicare dalla sua faccia, Osamu non doveva essere dello stesso avviso). “Accettiamo i soldi” sentenziò, afferrando il sacchetto della guerriera dell’est con la rapidità delle tecniche di scippi più raffinate.
Ma Saya si inchinò e Shouyou scorse un fremito di inadeguatezza nei gesti di Osamu, prima che facesse lo stesso.
“Buona fortuna, viaggiatori. E non giocate col fuoco.”
“E chi si permette,” disse Atsumu.
Poi Saya si inchinò un’ultima volta e scomparve oltre un angolo retto di Gaoling.
“Shouyou,” chiamò Atsumu, dopo qualche secondo di collettiva perdita di sguardi nel vuoto. “Vai a chiamare Mugi, stasera dormirà in una stalla di lusso. E noi in un letto. Un letto vero. E di lusso anche quello.”
   
 
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