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Autore: Chevalier1    08/01/2023    4 recensioni
Nata quasi per caso come una raccolta di one shot, iniziata con i turbamenti di una piccola Oscar alle prese con la scoperta di essere una bambina, è diventata di fatto una serie di notti agitate lungo la cronologia dell'anime.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: André Grandier, Generale Jarjayes, Marron Glacé, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Rannicchiata sotto le coperte Oscar cercava ancora di togliersi dal corpo il gelo rimasto annidato dopo il tuffo involontario nella fontana. Ma non era il freddo residuo, che pure sentiva, a tenerla sveglia bensì l’improvvisa consapevolezza che vagava nella sua testolina confusa: «Una bambina», si ripeteva, e intanto ripercorreva, come si può farlo nei pensieri a cinque anni, gli eventi convulsi di quella giornata.

Subito dopo pranzo Oscar e André, annoiati a morte da una mattinata di esercizi di scrittura con il precettore e di frustranti macchie di inchiostro cui seguivano immancabili rimproveri e qualche bacchettata sulle mani, erano scesi nel parco a giocare con le spade di legno, nel sole pallido e freddo che sopravviveva all’autunno. Infervorati nel duello, immedesimati com’erano nei racconti dei paladini che André di un anno più grande stava imparando a leggere, erano finiti fin sul bordo della fontana e caduti vestiti nell’acqua diaccia.

«Aahhh». L’urlo aveva fatto accorrere lo stalliere che li aveva afferrati entrambi per la collottola, senza tanti riguardi, e portati di corsa nelle cucine, il posto più caldo della casa, più preoccupato di risparmiare loro un grave malanno che di rispettare le convenzioni sociali.

La nonna di André vedendoli arrivare in quel modo, fradici e mezzo assiderati per via dell’acqua gelida e del vento di ottobre che per soprammercato li aveva sferzati durante il tragitto dal parco al focolare domestico, si era messa le mani in viso per un istante, uno solo, prima di sfoderare il senso pratico necessario a evitare il peggio. Intimò ad André con un tono che non ammetteva repliche di togliersi immediatamente gli abiti bagnati e aiutò Oscar a fare altrettanto. E intanto ordinava alla prima aiutante a tiro di rovesciare alla svelta l’acqua che bolliva nel paiolo unita a un secchio d’acqua fredda in una tinozza, in modo che ne uscisse nel più breve tempo possibile un bagno caldo ma non bollente. Nel mentre spediva Colette nelle stanze dei due scavezzacollo a procurare loro un cambio di vestiti e una coperta di lana. Se non fossero stati troppo gelati anche per pensare Oscar e André avrebbero osservato, divertiti, che la nonna quando la necessità incombeva sapeva dare ordini e comandare plotoni di servette con un’efficacia tale da far concorrenza al Generale. Nel giro di brevissimo tempo i due bambini tremanti di freddo si trovarono senza sapere come ammollo insieme nel tepore della tinozza, troppo mortificati per parlare e per provare a giustificarsi. A differenza di quanto si sarebbero aspettati, la nonna non aveva avuto il tempo di rimproverarli, troppo spaventata per le possibili conseguenze di quell’incauto bagno fuori stagione e troppo indaffarata a sventarle. Frastornati dallo spavento a scoppio ritardato per il rischio ancora incombente e per la preoccupazione sul volto di lei che li aveva contagiati, consapevoli di essere stati avventati, non trovarono di meglio che lasciarsi accudire a occhi bassi.

La situazione che si era creata, le cui implicazioni la governante impegnata a tamponare l’emergenza non aveva considerato, mise Oscar per la prima volta in vita sua in condizione di interrogarsi su una differenza che fin lì non aveva avuto modo di notare, né con André né con altri, dato che il padre per farne l’erede del casato l’aveva cresciuta isolata dalle sorelle, già in collegio dalle monache o ancora a balia alla sua nascita, e da altre compagnie infantili: mai fino a quel giorno Oscar aveva avuto qualcuno con cui confrontarsi e né occasione di mettere in dubbio di essere davvero il figlio maschio di cui il padre andava così fiero né di domandarsi se in quel figlio non ci fosse per caso qualcosa di strano.

Fu lì, in quella bagnarola piena di acqua calda, non sufficientemente insaponata da occultare le inequivocabili differenze che la distinguevano da André, che Oscar, nella sua mente acerba e disorientata ma pronta, vide andare a posto alcune tessere fin lì indecifrabili nel mosaico della sua piccola vita. Ripensava a quella parola «bambina», che più di una volta volta aveva sentito, sulla bocca della servitù, mentre chi stava parlando abbassava subito la voce o cambiava discorso non appena s’accorgeva di avere Oscar nei paraggi. Ripensava al mezzo sorriso, subito represso, che vedeva comparire talvolta sul volto degli adulti, quando sentivano suo padre dire orgoglioso: «Mio figlio». E la sua testolina intelligente, per quanto confusa, fece 2+2 a un’età in cui sapeva a mala pena che facesse 4 contando sulle dita. Ma non fece domande, neppure alla nonna di André, l’unica con cui avrebbe avuto la confidenza per chiedere conferma di una cosa così imbarazzante. Preferì rimandare un confronto che le faceva paura e insieme prendersi un po’ di tempo per abituarsi da sola all’idea. Anche perché l’evidente indifferenza di André alla questione le suggerì il pensiero di essere rimasta l’unica all’oscuro di quel segreto che la riguardava. Le regole dell’educazione severa che le avevano impartito l’avevano abituata a non fare domande indiscrete agli adulti e ad accettare che la volontà del padre non si discuteva, ma l’idea che André conoscesse un suo segreto così privato da una parte la indispettiva, dall’altra parte la rassicurava: se sa già di aver giocato con una bambina fino adesso, non smetterà.

L’anziana governante, invece, cui la sensibilità certo non mancava al di là degli apparenti modi sbrigativi, aveva notato il turbamento della sua piccola, e capito al volo di aver commesso una leggerezza, seppure dettata dalla necessità. Sapeva anche che si trattava di un errore tutto sommato veniale: aveva messo nel conto il fatto che quel momento di consapevolezza non sarebbe stato rimandabile all’infinito e che una più lunga attesa avrebbe solo complicato le cose.

«Sono dunque una bambina?». Si chiedeva Oscar nel buio della notte indovinando una risposta che non le piaceva, convinta come l’avevano che essere maschio fosse comunque molto meglio. Una vocina dentro di lei si ribellava: «Ma io non voglio, io sono un maschio». E intanto, però, non riusciva a far tacere quella parte di sé che provava a tradimento a figurarsi che cosa volesse dire esattamente essere una bambina.

Le si materializzarono davanti i ventagli che vedeva in mano alle sue sorelle, i belletti e gli abiti di cui fantasticavano, ingolosite dalla fretta di crescere abbastanza per averli, i ricami che prendevano in mano per passare il pomeriggio nelle rare occasioni in cui alle feste comandate la famiglia si riuniva, mentre lui, cioè lei ­­– improvvisamente un guazzabuglio di pronomi maschili e femminili aveva preso ad azzuffarsi nella sua mente bambina ­– era chiamata a mostrare i progressi con il pianoforte. Pensò a tutte le cose che le avevano insegnato a disprezzare come qualcosa di frivolo, poco interessante e comunque inadatto agli interessi di un ragazzo. Oscar dal canto suo soggiaceva a quel condizionamento, che non sapeva essere tale, di buon grado. Nessuna di quelle frivolezze attirava la sua curiosità. Non solo capiva istintivamente che i suoi riccioli al vento assecondavano i suoi giochi molto meglio dell’impalcatura di forcine che vedeva in testa alle sue sorelle poco più grandi, per non dire della praticità dei suoi pantaloni al confronto con le gonne che impedivano di correre e saltare. Ma l’esclusiva di un rapporto privilegiato, “tra uomini”, con il padre, nel suo ruolo di primogenito maschio, erede del casato, lo faceva sentire importante e orgoglioso. Gli veniva proposta la sua diversità come un onore, che richiedeva coraggio, dedizione e responsabilità per prendere un giorno il posto del padre.

Ovviamente aveva già imparato a proprie spese che quel privilegio comportava anche degli inconvenienti, per esempio subire punizioni molto più rigorose di quanto toccasse alle sue sorelle: a Oscar uno schiaffo poteva arrivare senza tanti complimenti al primo gesto o alla prima parola fuori posto, mentre alle sue sorelle toccavano, in genere, castighi diversi: magari molto noiosi ma meno ruvidi. Solo una volta Oscar aveva visto la maggiore prendere un bel ceffone dal padre nel bel mezzo di una riunione di famiglia. Oscar se ne ricordò in quel momento e sorrise a quel ricordo. La primogenita si era fatta sorprendere a dire qualcosa all’indirizzo di un giovane appena entrato a far parte della servitù, una cosa che Oscar non aveva capito bene ma che doveva essere davvero molto sconveniente se il padre si era alzato come una furia per rifilare alla ragazza uno schiaffo in pieno viso al grido di: «così che non ti passi più per la testa di fare discorsi da sgualdrinella da bassifondi nella casa rispettabile di una nobildonna e di un generale». Oscar non conosceva il significato della parola, di sicuro non un complimento, usata dal Generale, ma la situazione era sufficientemente tesa da suggerirle di rimandare la domanda, tanto più che a quel termine mai udito aveva visto la madre, solitamente molto attenta a non contraddire il Generale, lanciare un’occhiata quasi di rimprovero al marito. La cosa aveva incuriosito Oscar che mentre si preparava per la notte quella sera stessa aveva chiesto a Nanny: «Che cosa vuol dire sgualdrinella?», ricavandone in risposta un’espressione scandalizzata e la minaccia di vedersi lavare la lingua con il sapone di Marsiglia. Avendo più o meno compreso che doveva trattarsi di una parola da non ripetere, Oscar non osò dire che l’aveva imparata dal padre. Le venne da ridere chiedendosi se Nanny sarebbe stata capace di minacciare dello stesso trattamento con il sapone anche il Generale. E poco mancò che il sorriso impertinente sfuggitole a tradimento al solo pensiero, non le attirasse una tirata d’orecchie dalla governante, che in genere riservava ad André i propri rimproveri, a meno che Oscar non stesse proprio esagerando. In quel momento però André non c’era e la governante era piuttosto sicura che l’addestramento paterno non si fosse spinto al punto da mettere in conto che il soldatino di casa si assuefacesse già a cinque anni al linguaggio da caserma.

Simili pensieri e ricordi si affacciavano in disordine alla mente di Oscar mentre, senza riuscire a prendere sonno, cercava di raccapezzarsi nel tentativo di capire quale fosse esattamente la differenza tra maschi e femmine, al netto del particolare che aveva notato nella tinozza e che in quel momento le pareva comunque il minore dei problemi, sicuramente secondario a una domanda che a lei, lì nel buio, sembrava fondamentale: «Chi ha deciso che una bambina non può essere coraggiosa e non può fare l’ufficiale? Solo perché mia sorella, già quasi in età da marito, si è messa piangere come una vite tagliata lì in mezzo a tutti per uno schiaffo dobbiamo essere tutte così?».

Intanto però la confondeva l’ostinazione del Generale a chiamarla ostentatamente figlio, si domandava se avrebbe continuato a farlo se lei avesse scoperto la verità e nutriva l’oscuro timore che l’incantesimo della sua vita si sarebbe rotto, come in certe fiabe, nel momento esatto in cui lei ne avesse scoperto l’arcano e provò quasi un senso di colpa pensando di aver rovinato tutto. Si chiedeva se il fatto stesso di essere femmina sarebbe bastato a mandare all’aria tutto quanto prima o poi. Ovviamente se lo chiedeva come avrebbe potuto farlo una bambina di cinque anni che fino a quel momento si era creduta bambino e che ora temeva sopra ogni cosa il fatto di non essere all’altezza delle attese di suo padre. Disse a sé stessa che non voleva essere una bambina, non nel modo in cui lo erano tutte le altre. Sentendo maturare dentro di sé una risolutezza nuova pensò che maschio o femmina avrebbe dimostrato a suo padre che non le sarebbe mancato niente di ciò che serviva a seguirne le orme. Si disse che si sarebbe allenata di più per diventare forte come il padre desiderava e che gli avrebbe fatto vedere lei quanto sapesse essere coraggiosa una bambina.

Il mattino dopo, come ogni sabato, in assenza del maestro d’armi il padre l’avrebbe messa alla prova per vedere i progressi compiuti. Un confronto che le piaceva ma di cui provava anche soggezione. Quale migliore occasione per mostrargli la determinazione fiera che stava prendendo forma dentro di lei?

Pacificata almeno in parte da quel pensiero, ingenuo ma rassicurante, crollò per sfinimento in un sonno agitato di sogni improbabili, in cui si alternavano sequenze confuse di pizzi e alamari, spade e ventagli, di capelli al vento e diademi.

Il mattino dopo Oscar approfittò della prima luce che filtrava nella sua stanza per sgattaiolare scalza fuori dal letto e aprire come poteva i pesanti tendoni, decisa a fare per la prima volta una cosa che le avevano insegnato a non fare se non fugacemente al fine solo di controllare che la propria tenuta fosse all’altezza dell’ordine impeccabile che il padre pretendeva: guardarsi allo specchio. Oscar indugiò sulla figurina in camicia da notte che la guardava di riflesso e si disse che, sì, in quegli occhi azzurri, in quel nasino delicato, in quei riccioli biondi da putto e soprattutto in quelle lunghe ciglia da cerbiatto si poteva anche vedere l’immagine di una bambina, prima che al termine della toeletta l’abbigliamento rigorosamente maschile le assegnasse le insegne di un altro ruolo, trasformandola nell’erede di casa Jarjayes.

La confusione c’era ancora, ma l’ansia della notte precedente aveva lasciato il posto a sensazioni diverse, non tutte negative: un misto di preoccupazione, curiosità e determinazione. Quello che Oscar quel mattino vide con occhi nuovi nello specchio non le dispiacque, ma non incrinò la volontà di tenersi il ruolo che aveva dalla nascita ancor prima di sapere esattamente come l’avesse avuto.

A colazione Nanny aveva provveduto a informarla che il padre, dato che il clima ancora lo consentiva, l’attendeva nel parco di fronte della sala delle armi al rintocco delle undici. Oscar alla prima oscillazione del pendolo si precipitò fuori dalla sua stanza. Calcolando mentalmente che né Nanny, appena passata con una cesta di biancheria diretta alla lavanderia, e né il padre, pronto fuori ad attenderla, avrebbero potuto sorprenderla in quel gesto in genere foriero di rimproveri, risparmiò tempo scivolando cavalcioni lungo il corrimano, preda di una leggera eccitazione: un misto di timore e di sfida. Mentre saltava giù appena prima di impattare sul fregio a forma di ghianda che chiudeva il mancorrente sentì la risata di André che affacciato alla balaustra del primo piano aveva assistito alla scena. Gli fece un cenno di saluto e d’intesa e poi corse fuori dal portone per non iniziare la giornata prendendosi una ramanzina per il ritardo. Sapeva che come il disordine il ritardo maldisponeva il padre e non era quello di cui aveva bisogno quella mattina.

«Buongiorno, Oscar», la accolse il padre tendendole un piccolo fioretto e tenendone uno di misura normale per sé, armi da allenamento, protette in punta per evitare che potessero ferire durante l'esercizio.

«In guardia, padre!».

Il generale trattenne un sorriso, tra il compiaciuto e il divertito, mostrando di prendere con molta serietà l’assalto che il suo soldatino desideroso di misurare le proprie capacità aveva tentato senza por tempo in mezzo.

Notò, con fierezza, nello sguardo concentrato e nell’energia che ci metteva, una determinazione che gli sembrava nuova e la incoraggiò.

All’ennesimo affondo, Oscar, forse stanca, inciampò cadendo su una pietra aguzza. Il generale si compiacque nel vederla rialzarsi mostrando di ignorare il dolore e il sangue che colava dal ginocchio sbucciato per tornare subito ad affondare. «Bravo Oscar, così si comporta un soldato di valore, ora però andiamo a occuparci di quel ginocchio e poi se vorrai continueremo» e le fece strada verso la sala d’armi.

Quel luogo, carico di insegne e di armi pregiate, che il padre riempiva dei racconti degli onori militari riportati dagli avi alla storia di famiglia, esercitava su Oscar uno straordinario fascino. Il padre una volta dentro la sollevò di peso mettendola a sedere sul semplice tavolo di legno che normalmente serviva ad affilare le spade e a pulire i fucili e si allontanò per recuperare nella stanza adiacente acquavite e garze. Oscar nell’attesa si distrasse dal pensiero del dolore imminente osservando i ritratti dei valorosi antenati che si erano distinti nella carriera militare. Li fece passare dal primo all’ultimo soffermandosi ammirata sulle armature lucide e sugli scudi ornati dei primi e sulle sfarzose uniformi di gala degli ultimi. Indugiò in soggezione davanti al ritratto del padre, giovane e bello, in uniforme da parata, l’ultimo della parete ovest. Sapeva, perché era stato il padre a raccontarglielo, che i tre drappi di velluto rosso sulla parete nord nascondevano gli spazi predisposti ad accogliere i ritratti degli ufficiali che ne avrebbero raccolto l’eredità. Si mise a fantasticare: nello spazio alla destra del ritratto del padre immaginò uno sguardo azzurro, fiero e determinato, protetto da lunghe ciglia; selvaggi capelli biondi lunghi ben oltre le spalle, il corpo alto e slanciato di una donna austera nel fiore degli anni, sicura di sé, a suo agio nel ruolo, in posa con la spada al fianco sinistro e il tricorno nero ornato di pelliccia bianca nella mano destra, avvolta nella sobria eleganza dell’uniforme candida del comandante della Guardia reale rifinita con fregi scintillanti di broccato, spalline con frangia d’argento e fascia di raso blu. Quel che immaginò le parve possibile, persino verosimile e la lusingò.

Sorrise tra sé a quel pensiero e si affidò cacciando indietro la paura alle mani poco smancerose del padre, che nel frattempo era tornato, determinata a resistere al bruciore come il soldato che aveva appena visto nel suo futuro avrebbe saputo fare.

Il generale fece quello che doveva, con la pratica sbrigativa che gli veniva dai campi di battaglia, senza far differenza tra una bimba di cinque anni e un veterano, ma non mancò di notare che il suo piccolo soldato non solo non si era fatto sfuggire neanche una smorfia, ma non aveva neppure distolto lo sguardo, tanto che alla fine ne lodò il coraggio, cosa che non faceva di frequente.

«Te la senti di riprendere l’assalto, Oscar?».

«Sì, padre. In guardia».

Il Generale represse un sorriso soddisfatto per non incrinare l’aura della propria severità.

«Bravo, Oscar. Per oggi abbiamo finito e mi sei piaciuto molto».

Rientrò in casa fiero di suo figlio ma con la sensazione vaga che qualcosa di nuovo battesse in quel piccolo cuore. La chiamava sempre così, figlio, in pubblico e in privato, un po’ per non destare domande in lei, un po’ nell’illusione di far tacere dentro sé e davanti al mondo il timore che quella vita che aveva costruito a sua immagine gli si disintegrasse prima o poi tra le mani. Non smise, per il resto della giornata, di chiedersi che cosa nascondesse la determinazione feroce che aveva visto in quegli occhi infantili e si convinse che più o meno consapevolmente Oscar stesse cercando di dirgli qualcosa.

Quando la governante, dopo cena, entrò nello studio del Generale portando un vassoio che egli aveva chiesto più che altro per avere una scusa per parlarle senza destare sospetti, la fermò.

«Chiudi un attimo la porta, Marie, devo chiederti una cosa».

La governante obbedì guardando il padrone con aria interrogativa e un po’ preoccupata.

«Pensi che Oscar abbia capito?», le chiese dando per scontato di non dover esplicitare oltre.

«Temo di sì, generale... Io...», abbozzò sul punto di giustificarsi per la distrazione del giorno prima.

«Va bene così, Marie. Doveva succedere prima o poi. Ha fatto domande?».

«A me, no. E a voi?». Azzardò a chiedere, senza sapere se fosse autorizzata a farlo.

«Neppure a me, ma ha troppa soggezione per parlare con me di una cosa simile».

«Che cosa devo fare Generale?».

«Niente, Marie. Faremo come abbiamo sempre fatto. Ma se chiederà le dirai la verità. Credo che sia pronta...».

Era tutto, Marie si congedò e se ne andò inquieta. Benché non avesse mai approvato quella forzatura contro natura non poté fare a meno di obbedire ma neanche di notare che quella sera per la prima volta a sua memoria il Generale le aveva parlato di Oscar riferendosi a lei al femminile.

Oscar nel frattempo già sotto le coperte, sfinita dalla precedente notte insonne e dalla faticosa giornata trascorsa, crollò con negli occhi quell’ultimo ritratto che solo lei conosceva e si concesse il riposo del guerriero, dormendo come solo a cinque anni si sa fare.

   
 
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