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Autore: awhmoony    16/03/2023    3 recensioni
Parigi è in fiamme, supplica afflitta nel tumulto ché s’avvicina la Rivoluzione, in mezzo a terrificanti rivolte popolari che si confondono tra i lamenti strazianti che squarciano il cielo di quelle madri che piangono disperate lacrime sui cadaveri dei figli rimasti senz’anima, si consuma discreto e intimo un amore struggente tra un comandante e una contadina, che tanto vorrebbero metter fine a quel conflitto sigillando le ostilità con un bacio in una piazza. Ma non succede, loro combattono al fianco della capitale che cade in ginocchio innalzando comunque quel desiderio di libertà che riverbera nel cuore di tutti sotto l’ultima notte stellata di Parigi.
[...] “Esser morta vorrei veramente. Mi lasciava piangendo, e tra molte cose mi disse:
È terribile ciò che proviamo. Ti lascio, non per mio volere. Va’ pure contenta, e di me
serba il ricordo: tu sai quanto t’amavo.”
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Soldati della guardia metropolitana di Parigi
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO I.

VICINO




I primi e audaci raggi del sole s’introdussero esitanti attraverso i vetri graffiati delle finestre, illuminando parzialmente il parquet all’evidenza danneggiato e consumato. Sempre con indulgenza, la luce andò a depositarsi sul letto singolo allocato al centro della claustrofobica stanzetta. Tuttavia l’ingresso del tenue bagliore non si rivelò indesiderato poiché la proprietaria di quella piccola camera era già totalmente sveglia e vestita e stava in piedi davanti allo specchio contemplando con una smorfia infastidita il suo riflesso: l’abito era di un’indubitabile mediocrità, visibilmente di seconda mano. Arrivava lungo fino ai polpacci, ma era strappato in alcuni punti e qua e là erano chiaramente visibili delle rappezzature, sopra di esso era stato legato attorno alla vita un grembiule bianco che in parte nascondeva il colore blu spento del vestito. Malgrado l’apparenza disordinata e sciatta che quell’indumento le attribuiva, Joëlle era di una bellezza impossibile da discutere: i capelli corvini le ricadevano riccioluti oltre le spalle e quando non erano tenuti legati in una coda alta fungevano da cornice per un viso dalla carnagione chiara e leggermente lentigginosa. A rendere ancora più grazioso quel volto erano i grandi occhi che portavano lo stesso colore della notte: troppo espressivi e stanchi, contornati da delle evidenti occhiaie. I delicati lineamenti del viso, le forme morbide del corpo e l’apparenza attraente erano in netta contrapposizione al carattere libertino, a tratti indisponente e sbarazzino della giovane fanciulla: la quale non si risparmiava a tenere incastrati i pensieri nella testa, ma li esponeva con estrema padronanza di sé accompagnata da un’eccessiva impetuosità negli atteggiamenti e nelle movenze. Che fossero i ragazzi che poggiavano brevemente gli occhi sul suo aspetto, i quali poi si prendevano la libertà di avvicinarsi con la convinzione che le loro provocazioni fossero sufficienti a far cascare una giovane ragazza nelle loro grazie, o nei confronti dei rimproveri, delle discipline imposte dal padre a cui lei puntualmente si rifiutava, con orgoglio e arroganza, di sottostare. Le regole, a Joëlle, erano davvero difficili da far seguire. 

Se soltanto fosse stata una ragazza dall’atteggiamento più sdolcinato e raffinato, probabilmente sarebbe risultata agli occhi estranei più gradevole da guardare e anche i ragazzi si sarebbero fermati a osservarla meglio – questo, almeno, era ciò che si ostinava a ripeterle insistentemente Babette; la moglie del panettiere che lavorava in società con suo padre. Ella non rinunciava quasi mai a reiterare i medesimi concetti rivolti principalmente alla giovane Moreau: soprattutto quando l’anziana donna aveva modo di osservare la ragazzina svolgere i lavori tipicamente adatti a un uomo: tagliare e portare la legna, imbracciare un fucile, collocare le trappole al limite del bosco, vangare l’orto e occuparsi dei lavori di manutenzione della casa. E quando il padre non era nei dintorni, Joëlle si assumeva responsabilmente quei doveri assegnati al fratello gemello. César, sotto rigide disposizioni da parte della sorella, si dedicava invece ai lavori domestici: pulire il pavimento, occuparsi del bucato, cucinare, lavare i piatti, mungere la mucca e aiutare Hugo con i compiti. E nei primi periodi, quando Babette ancora non conosceva bene i caratteri dei fratelli e chiedeva a César il motivo per il quale non prendesse in mano la situazione – «dopo tutto, sei tu, dopo tuo padre, l’uomo di casa. Dovresti comportarti come tale, figliolo.» Così, aveva detto –, il timido e incerto Moreau si grattava sempre nervosamente la nuca e rispondeva: «Mia sorella è fatta così. Di già è costretta a far lavori da domestica in casa d’altri, se deve farlo anche qui, esce di testa zia.»

Zia, era così che i tre fratelli avevano preso a chiamare Babette con il passare del tempo. Poiché quando la donna poteva concedersi una giornata di riposo, non perdeva mai occasione per abbandonarsi a una gradevole tazza di tè a casa dei Moreau. Era una donna senza figli e l’istinto materno si era dunque riflesso su quei tre giovanissimi ragazzi lasciati un po’ allo sbando, senza più una mamma e costretti a lavorare.

Tuttavia il duro lavoro dai massacranti turni sfiancanti gravava sulle spalle di tutti, anche su quelle della giovanissima Joëlle che di anni ne aveva appena venti ma che da tempo aveva compreso il vero significato della parola sacrificio. 

Terminò di legarsi i capelli in una coda di cavallo disordinata, si infilò velocemente le scarpe e coprì le spalle con un vecchio foulard dal colore purpureo. Uscì di casa ancor prima che i suoi fratelli si svegliassero; non aveva il tempo di preparare la colazione per loro, o semplicemente avere qualche minuto a disposizione per salutarli prima di rivederli nuovamente alla sera. Spesso e volentieri, sebbene vivessero nella stessa abitazione e facessero parte della stessa famiglia, Joëlle aveva modo di vedere i suoi fratelli e il suo adorato padre solo durante la cena. Quest’ultimo lavorava in una piccola panetteria nel villaggio; un’attività che aveva messo in piedi assieme a un vecchio amico d’infanzia, in seguito alla prematura morte della povera moglie, e i suoi turni erano stremanti: si svegliava ancor prima del sorgere del sole e rientrava a casa a tramonto inoltrato e quando poteva concedersi alcuni pomeriggi di riposo li trascorreva a dormire. Joëlle, benché non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, era segretamente preoccupata; l’instancabile Gérard Moreau iniziava ad avanzare con l’età e per lui quei turni lavorativi così eccessivi davano il principio di pesare troppo sulla sua condizione fisica. Ad aiutare con le spese ci pensavano i figli maggiori: lei, Joëlle, che con il suo lavoro da cameriera aggiungeva mensilmente qualche spiccio in più e suo fratello, César, il quale lavorava solo occasionalmente come stalliere. Erano lavori umili, faticosi e la paga era minima, eppure i soldi sembravano non bastare mai. Hugo, invece, che di anni ne aveva appena quattordici aveva iniziato la scuola nella chiesa del paese, a cui ragazzi e bambini veniva impartita una severa conoscenza generale delle scienze e della teologia, e malgrado avesse più volte espresso la volontà di abbandonare gli studi per lavorare, gli era stato categoricamente proibito dal padre. Il piccolo era il suo riscatto, una scusante per rimediare agli errori commessi con i figli più grandi i quali avevano dovuto crescere troppo in fretta, apprendere precocemente il reale meccanismo tortuoso e insipido del mondo, abbandonare drasticamente i sogni e distruggere l’incanto delle fiabe raccontate in tenera età. Hugo era diverso: ambizioso, intelligente e ancora saturo di emozioni fanciullesche che non aveva perduto.

 

La maestosa villa dei Bourdon, un’aristocratica famiglia che possedeva alcuni terreni adiacenti, ergeva isolata: era circondata e protetta da un’impenetrabile inferriata ricoperta completamente da verdi cespugli che ne ostacolavano la visuale interna. Era in perfetto stile rococò: l’esterno era dipinto di un delicatissimo color avorio tenue e le due grosse colonne poste all’ingresso offrivano all’abitazione un aspetto ancora più maestoso, più imponente. Gli interni erano dominati da due principali colori: l’azzurro chiaro e l’oro, fatta eccezione per alcuni mobili d’arredamento che si presentavano costruiti con levigato e lucidato legno pregiato. Ogni stanza aveva le sue distinte peculiarità che catturavano subito l’attenzione e ognuna di esse ostentava ricchezza.

Joëlle lavorava al servizio della famiglia Bourdon da ormai due anni e attraverso la sua capacità d’osservazione e la sua massima discrezione, aveva potuto distinguere il modo di vivere degli aristocratici, in particolare le figure sfarzose e sempre eleganti delle figlie femmine di questi ultimi. Adrianne, la maggiore, aveva la stessa età di Joëlle e crescendo il suo comportamento s’era adirato ancora di più, covando una profonda avversione nei confronti di tutto e di tutti. Aveva i capelli biondi, sempre acconciati in ordinati boccoli e intoccabili erano i suoi guanti di vari e costosi tessuti che non si azzardava a togliere mai. Erano l’unico strumento che potevano aiutare la giovane contessina a non detonare in furiosi attacchi d’ira causati dalla sua maniacale ossessione per i germi e i batteri. Dopodiché era il turno di Amélie, la sorella di mezzo; aveva quindici anni e un carattere più mite, educato e introverso. La sua voce si udiva raramente e nonostante la sorella maggiore rimproverasse spesso i suoi atteggiamenti e i suoi sbagli, ella non smetteva mai di ringraziare timidamente i camerieri ogni qualvolta loro svolgevano qualche cosa per lei. Aveva i capelli mori e dritti, gli occhi azzurri nascosti dietro degli spesse lenti rotonde ed era di corporatura estremamente minuta, probabilmente a rendere la sua figura così esile era anche l’atteggiamento taciturno e schivo. E infine la sorellina minore, Victoria. Aveva circa sette anni e mezzo e il suo era il carattere più bisbetico e lamentoso che Joëlle avesse mai avuto la sfortuna di vedere in una bambina. Era una creaturina incredibilmente viziata, le veniva concesso e perdonato di tutto e per questo motivo gettava contro le domestiche ordini dalla mattina alla sera. Capelli castani, occhi azzurri e immersa sempre nei suoi piccoli abiti cuciti su misura, se ne stava sempre attaccata al quel suo ventaglio; con il quale spesso osava picchiare la sua istitutrice quando era di umore particolarmente alterato. Joëlle lavorava principalmente occupandosi delle tre contessine, seguendo diligentemente una attenta routine che si ripeteva meccanicamente ogni giorno. 

Passò dal cancello posteriore, quello riservato esclusivamente alla servitù, entrò dalla piccola porta che conduceva alla cucina. Lì, già impegnate a sistemare ordinatamente la colazione su cinque vassoi differenti, trovò le altre sue colleghe. Joëlle era la più giovane e per quanto tutte sembrassero riservare per lei una timida simpatia, non si erano mai rivolte più di qualche parola, inclusi i saluti. In totale erano in quattro e ognuna di loro aveva il compito di occuparsi distintamente dei membri della famiglia e si erano implicitamente suddivise i compiti: dunque, per la maggior parte del tempo all’interno di quella dispersiva e solitaria villa regnava il silenzio. Joëlle si affrettò a sistemare la colazione sul suo vassoio: riempì una tazza con del tè caldo, sistemò una brioche su un piattino e posizionò della frutta fresca. 

Le cameriere giunsero tutte e tre contemporaneamente davanti alle porte delle tre sorelle, bussarono e entrarono in sincronia. Joëlle venne immediatamente pervasa dall’odore pungente dell’aria fresca che le pizzicava il naso; Amélie, come ogni mattina, aveva aperto le finestre che davano sul balconcino e stava pettinandosi distrattamente i capelli seduta sullo sgabello di velluto davanti al grande specchio. La cameriera si richiuse la porta alle spalle e si avviò verso il tavolo rotondo da colazione. Vi posò sopra il vassoio con gentilezza, dopodiché si rivolse con il massimo rispetto: «Buongiorno Signorina, la colazione è pronta.» Successivamente assunse una posizione rigida sul posto: le mani unite dietro la schiena e le spalle aperte. 

La ragazzina le indirizzò uno sguardo solenne, le sue iridi in assenza degli occhiali apparivano ancora più piccoli e severi. Appoggiò la spazzola con un tonfo pesante e si alzò dallo sgabello andandosi a sistemare diligentemente a una delle due sedie del suo tavolo da colazione. Osservò per qualche istante il cibo di massima qualità presente sul suo vassoio, poi fece un leggero segno d’assenso a cui Joëlle rispose con un piccolo inchino. Fece per voltarsi e uscire, – voleva sempre sottrarsi il più rapidamente possibile a quell’eccessiva e insopportabile scena, che la vedeva costretta a innalzare davanti alla sua vera personalità un atteggiamento di massimi riguardi. Si sentiva sempre terribilmente a disagio – quando la soave e appena udibile vocina di Amélie glielo impedì.

«Joëlle?» Appena la chiamò, la diretta interessata si voltò, sicura che la contessina avesse trovato qualche difetto nel suo piatto. Era giù pronta a riversare le migliori scuse, quando venne sorpresa da una domanda inaspettata: «Non è che potresti… farmi compagnia?» 

Amélie lo ammise distogliendo lo sguardo in direzione del balconcino per mascherare un principio di imbarazzo e probabilmente fu un bene che non osservò negli occhi la domestica, perché avrebbe visto l’espressione di puro sbigottimento che quest’ultima non aveva avuto modo di nascondere.

«Uhm…» non sapeva cosa dire e soprattutto come fosse opportuno agire. Il suo programma prevedeva degli impegni da svolgere entro la fine del suo turno, tuttavia uno dei suoi incarichi principali era quello di obbedire e occuparsi delle figlie del suo padrone. Avrebbe sicuramente dovuto svolgere tutti i suoi doveri di fretta, probabilmente non sarebbe nemmeno riuscita a terminarli, ma accettò quello che sembrava essere un cordiale invito a sedersi.

Nei primi momenti all’interno della stanza regnò il silenzio più assordante. Amélie era indubbiamente la persona più silenziosa che Joëlle avesse mai incontrato; non emetteva alcun suono sgradevole neppure quando consumava la sua colazione. E non era nemmeno una persona spiacevole da osservare, anche se era evidente che non fosse sveglia da molto. Era ordinata, pulita e precisa. 

«Se ti sto rallentando il lavoro sei libera di andare.» Disse a un certo punto la ragazzina mantenendo lo sguardo inflessibile sulla colazione e un tono di voce piatto che fece accapponare la pelle alla cameriera.

«N-non si preoccupi, posso restare fin quando lo desiderate.» Joëlle detestava esprimersi in questo modo. Eccessivamente forbita, sempre attenta a manifestare il più assoluto rispetto. Notò come Amélie aveva iniziato a torturarsi le dita delle mani nervosamente e come il viso iniziava a corrucciarsi sempre di più. 

«Non ho amici,» disse all’improvviso, con la stessa rapidità con cui si strappa un cerotto. «Frequento le lezioni a casa e per la maggior parte resto chiusa qui da sola. Per una volta, volevo soltanto qualcuno che mi facesse compagnia» 

Finalmente, Joëlle realizzò: Amélie si sentiva sola e aveva un disperato bisogno di un’amica. La sorella maggiore non doveva essere di ottima compagnia considerando il suo brutto carattere e i suoi terribili atteggiamenti. In più, trascorreva la maggior parte del suo tempo a tentare di farsi notare dallo stalliere; gli girava sempre attorno e quando le sue amiche da Parigi la raggiungevano per dei salotti, le chiacchiere si tramutavano quasi sempre in aspri pettegolezzi. E nemmeno la sorellina minore era di buona compagnia: frequentava le lezioni affiancata dell’insegnante per bambini e assistita continuamente alla governante più anziana. Perciò Amélie era sempre da sola. Soprattutto con il padre nascosto sempre nel suo ufficio e la madre fissa a Parigi. Joëlle si accorse di sentirsi profondamente triste per la ragazzina, tuttavia la persona che avrebbe scacciato via quell’immensa solitudine dagli occhi mesti della giovane Bourdon non poteva essere lei. Per quanto immaginava che le sarebbe piaciuto, perché la contessina sembrava davvero diversa dalle sue sorelle, doveva mantenersi distaccata. Lei era lì per lavorare e l’unico rapporto che doveva mantenere con Amélie sarebbe dovuto restare formale. Avrebbe voluto esprimersi in un comprensivo: «Nemmeno io ho amici.», tuttavia si trattenne continuando a sorreggere un silenzio convenzionale. 

Non ebbe il tempo di aggiungere qualcosa, che Amélie proseguì: «E mi dispiace davvero tanto per quello che ha fatto mia sorella l’altro giorno…» 

La cameriera sapeva benissimo a cosa la contessina stava alludendo: qualche giorno prima Joëlle era stata sorpresa nelle stanze di Amélie a rovistare nei cassetti e immediatamente Adrianne, che aveva sempre espresso nei suoi confronti un’antipatia inspiegabile, l’accusò di essere una ladra e di star cercando oggetti di valore da rubare. In realtà, quello che Joëlle stava facendo era semplicemente cercare disperatamente il Carillon che la piccola Victoria le aveva rubato soltanto qualche minuto prima infilando con arroganza una manina nella tasca laterale del suo grembiule. Senza nemmeno avere avuto il tempo di difendersi, si era ritrovata con le spalle al muro e le mani di Adrianne che la colpivano violentemente; mentre Joëlle doveva rimanere in uno stato di sottomissione, anche se l’istinto di ribellarsi si andava a depositare sulle dita delle mani tremanti. Alla fine, quando la più grande delle figlie del Conte Bourdon si stufò di quel giochetto, tirò fuori dalla tasca il suo Carillon lanciandolo rovinosamente contro il muro rompendolo in mille pezzi. Adesso, l’unico oggetto che legava Joëlle a sua mamma era andato distrutto e impossibile da riparare. Il tutto era accaduto sotto gli occhi lugubri e addolorati di Amélie che era rimasta a guardare immobile all’ingresso.

«Non si deve scusare, Signorina. Non è stata colpa sua. Ormai è successo, la pregherei gentilmente di non fare mai più accenno a questo accaduto. Adesso avrei urgentemente delle faccende da sbrigare, con permesso.» Si congedò il più velocemente che poté impegnandosi per non risultare irrispettosa. Si alzò dalla sedia, rivolse un timido inchino alla ragazzina e rapidamente uscì dalla stanza. Appena rinchiuse la maniglia lasciò sfuggire dalle labbra un sospiro di sollievo - no, di angoscia, o forse di imbarazzo -, appoggiandosi lievemente alla porta e lasciando per un momento cadere le spalle verso il basso rilassandosi dalla scomoda posizione rigidamente composta. Successivamente a quel breve momento di riflessione, alzò il mento con sicurezza e proseguì in direzione dei prossimi lavori da sbrigare.




 
•••

 

 

Versailles. Metà mattinata, la luminosità dei raggi del sole ora si espandeva per tutta Parigi, toccando anche gli splendidi giardini di Versailles e cadendo precipitosamente sulla piazza della Caserma della Guardia Reale, sulla quale sfilava un corteo di soldati impegnati a mettere in scena una commovente parata di commiato: gli zoccoli dei cavalli che scalpitavano all’unisono producevano un fortissimo frastuono che si espandeva per tutto l’ambiente, il sole alto nel cielo che osservava cheto le teste dei soldati coperte dai cappelli e infilati nelle ordinate divise militari. Immobile di lato a osservare la manifestazione che i suoi uomini avevano organizzato per lei, il Capitano delle Guardie Reali Oscar François de Jarjayes sembrava disattenta, assorta in agitati pensieri. I precedenti episodi che avevano stravolto drasticamente la sua vita e che avevano inevitabilmente turbato tutte le sue più fiduciose certezze, non smettevano imperterrite di palesarsi davanti ai suoi occhi; il dolore incommensurabile, quasi estraneo a qualsiasi tentativo di parafrasi sensata, di un amore non ricambiato, impossibile. Il suo, nei confronti di Fersen, il quale aveva inconsapevolmente respinto il suo amore proferendo poche e ingenue parole, e l’amore confessato in un istante al limite del terrore da parte di André, il suo carissimo amico d’infanzia André che giusto qualche ora prima aveva manifestato nei suoi confronti un’aggressività che non era sicura di riuscire a comprendere, realizzare, perdonare. Due amori destinati a rimanere sospesi a mezz’aria, incompleti, difettosi.

 

Successivamente aveva definito le linee tratteggiate dei pensieri e aveva preso la sua irremovibile decisione: abbandonare la Corte Reale e il suo ruolo di Colonnello. Versailles era, nel più sincero utilizzo del termine, la tana dei serpenti. I nobili, gli aristocratici che mettevano su una maschera di falsa autenticità e marcia gentilezza con l’unico scopo di presentarsi a Corte e mordere, infettare i propri simili che al tempo stesso tentavano di entrare nelle grazie dei Sovrani. Versailles era una gabbia d’oro, con i nobili che strisciavano storditi dallo champagne che non riuscivano a reggere e dal desiderio rivolto unicamente nei confronti del gioco d’azzardo, e con le dame, le nobildonne che nascondevano la faccia dietro quei ventagli sfarzosi e si lanciavano l’un l’altra spietate occhiate; partecipare ai salotti esclusivi nelle stanze della Regina era il loro unico obiettivo. Ostentare ricchezza, superiorità, comandati da quelle manie di potere, di grandezza. A lungo andare, toglieva il respiro. Oscar non si era mai sentita a suo agio in quegli ambienti, non si rivedeva negli atteggiamenti pavoneggianti e nella monotonia che aleggiava su tutti quelle altolocate figure infastidite che frequentavano Versailles: questo, il suo amore non corrisposto e l’allontanamento da André erano motivi sufficienti per voltare pagina. 

 

Era perfettamente consapevole, d’altra parte, che la sua decisione avrebbe creato enorme dispiacere alla Sua Regina – la quale, difatti, aveva tentato inutilmente di dissuaderla –, e malgrado il profondo disappunto manifestato da Maria Antonietta, appena a Oscar venne annunciato il titolo del suo nuovo incarico, che non poté certamente rifiutare, ella aveva ampiamente dimostrato di non aver sottovalutato la richiesta, la supplica, di quell’unica persona che poteva considerare davvero amica. Adesso sarebbe diventata Comandante di un reggimento della Guardia Metropolitana di Parigi: innumerevoli erano i pettegolezzi che guizzavano da una parte all’altra, che si erano diffusi a macchia d’olio anche tra le bocche zozze dei Nobili a Versailles. Quelle stesse bocche sudicie raffiguravano i Soldati della Guardia Francese come brutali animali dagli atteggiamenti quasi selvaggi, poiché nient’altro erano che poveracci che non avevano di che mangiare. Si diceva disprezzassero profondamente la Nobiltà e che non risparmiassero aggressività nei confronti di nessuno. Oscar ne aveva compreso la difficoltà e si prendeva coscienziosamente la piena responsabilità.

Era entusiasta e a stento tratteneva un’impazienza febbrile all’idea di dare finalmente una svolta alla sua vita. Sentiva di essersi tolta un enorme peso. Eppure… c’era qualcosa che gravava in maniera inappropriata e insostenibile sul quel suo cuore un po’ spezzato, confuso e soprattutto terrorizzato. Dall’idea dell’amore? Sì, così violento e inebriante fino a stordire i sensi. Era vero amore quello che aveva provato in maniera così struggente per Fersen? Cosa ne sapeva lei di quell’amore di cui tutti parlano, di quella timida sensualità che si nasconde in esso, di quella contentezza che ubriaca la ragione. Di quell’amore lei era degna? Era destinata? E assieme al desiderio dell’amore, si contraddistingueva anche quello di sotterrare nelle profondità del suo essere quella femminilità che l’aveva resa fragile, vulnerabile, che l’aveva fatta soffrire. 

Lasciatasi finalmente alle spalle Versailles, si concesse del tempo in completa solitudine stabilendosi fino a nuovo ordine nella villa di famiglia in Normandia. Reclusa, finalmente sola con i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue paure. 

 

 

•••

 

 

Il pomeriggio, per Joëlle, trascorse come da programma, senza interruzioni o discontinuità di alcun genere. La giovane ragazza riuscì a portare a termine i propri impegni: si occupò di sistemare le stanze delle tre sorelle nel frattempo che erano impegnate con le lezioni private nella grande sala. Si premurò di stendere con cura e precisione il bucato appena lavato e sistemare la biancheria. Terminò il suo turno a tarda sera; stanca e affamata, ma soprattutto sconvolta dalla situazione che si era creata quella mattina con Amélie, di cui non riusciva a smettere di pensare e darsi tregua.

Era anche purtroppo consapevole che una volta tornata a casa non avrebbe potuto trovare il tanto bramato e meritato riposo: ultimamente lei e suo padre non sembravano andare d’accordo su niente; qualunque irrilevante situazione sembrava la più adatta per scontrarsi in un’accesa discussione che finiva quasi sempre con i due interessati che non si rivolgevano la parola per i giorni seguenti. Quella sera invece si prospettava essere diversa; Joëlle avvertì una inusuale sensazione di rilassatezza e appena varcò la soglia di casa venne immediatamente accolta da alcune piacevoli risate che si liberavano nell’aria. La scena che le si presentò davanti la colse si sorpresa: suo padre, i suoi fratelli e una graziosa fanciulla dai luminosi capelli castani erano seduti al grosso tavolo in cucina e chiacchierando animatamente gustavano profumate tazze di tè. Appena la giovane si chiuse la porta alle spalle, le quattro figure divertite si voltarono in sua direzione.

«Ah, Joëlle, sei tornata finalmente! Questa è Odette, un’amica di tuo fratello. Odette, lei è Joëlle, la gemella di César.» Annunciò prorompente di felicità suo padre alzandosi dalla sedia e allacciando un braccio attorno alla sua vita guidandola più vicino. Joëlle lasciò cadere un veloce sguardo di confusione sul padre, che per la prima volta dopo anni la ragazza mora vedeva con un’espressione lieta e contenta e sul fratello che invece era contenuto in un timido sorriso. E infine posò definitivamente l’attenzione sulla presunta Odette: un’aggraziata ragazza che non doveva avere ancora vent’anni, dai capelli color cioccolato raccolti sopra la testa, gli occhi castani che esprimevano curiosità e dagli atteggiamenti raffinati. Ella si avvicinò repentinamente rivelando a Joëlle una voce delicata: «È un piacere fare la tua conoscenza. César mi ha parlato molto di te. Siete realmente identici!» 

Joëlle era come pietrificata. Non sapeva cosa dire. Nei mesi precedenti il suo nome era scappato occasionalmente dalla bocca di César, il quale l’aveva descritta, timoroso, come un’amica: anche lei era una cameriera e lavorava al servizio di una delle tante famiglie aristocratiche di Parigi. La giovane Moreau non aveva mai dato troppa importanza a quel nome ma adesso, esaminando attentamente il fratello come soltanto lei era in grado di fare, capì d’aver commesso un errore a sottovalutarla. Fu a quel punto che César prese coraggio e si alzò in piedi, affiancando Odette passandole amorevolmente un braccio attorno alle spalle.

«Adesso che siamo al completo, posso finalmente annunciarlo.» 

Un attimo di spavento pervase Joëlle con un indesiderato brivido lungo la schiena. Sapeva cosa stava per dire César: lei glielo leggeva in faccia. Poteva percepire i sentimenti di lui tremargli nel petto e i pensieri avvolgersi nella testa, Joëlle sapeva tutto di suo fratello gemello; provare l’una le emozioni dell’altro era una delle tante particolarità che li contraddistingueva. César avrebbe potuto sapere cosa lei provava anche se si fosse trovata dall’altra parte della Francia, e viceversa. Dunque la gemella poté facilmente intuire l’ansia che si posava come un macigno sullo stomaco del fratello. Non poteva essere felice, anche se lo desiderava.

«Io e Odette siamo fidanzati. E desideriamo sposarci al più presto.» 

Sentire quelle parole uscire direttamente dalle timide labbra di César, provocarono in Joëlle un effetto totalmente imprecisato. Ancora pietrificata dallo sbalordimento iniziale, si mosse in avanti con un’espressione di stupore dipinta in faccia; gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta. Accolse il fratello in un abbraccio senza dire un parola. Dopotutto, loro non avevano mai avuto bisogno di tante parole. Joëlle sapeva che nascosto in quell’abbraccio c’era tutta la sua commozione, la sua felicità e il suo appoggio. 

D’altro canto però, non si poteva certo dire che il padre fosse altrettanto entusiasta. Gérard Moreau, infatti, non manifestava alcuna emozione positiva anzi, al contrario, sul suo viso era dipinta un’immagine sincera di disapprovazione. C’era qualcosa di storto, di sbagliato e tutti percepirono lo stesso retrogusto amaro che si era depositato sulle loro lingue. C’era qualcosa che suo padre aveva trattenuto per troppo tempo, Joëlle lo sentiva. Gérard si alzò lentamente, poggiando una mano sul grosso tavolo si tirò sù e volse al figlio uno sguardo addolorato.

«Vieni, figlio mio, devo discutere con te in privato.» Il suo tono di voce era drasticamente cambiato: più lento, grave e appesantito da quel dolore indefinibile per Joëlle. Il vecchio Moreau posò delicatamente una mano sulla schiena del figlio e sottraendolo alla fidanzata, lo condusse su per le scale all’interno di una delle stanze da letto, chiudendo la porta. 

Le due giovani donne lasciate all’oscuro della misteriosa conversazione, attesero con i visi aggravati da un’espressione turbata e perplessa da parte di Odette e gravemente preoccupata di Joëlle; in brevissimo tempo la sala da pranzo che fino a pochi istanti prima era immersa nell’allegria, illuminata di spensieratezza e beatitudine, adesso iniziava a immergersi in un clima lugubre e tetro, complice anche la candela posizionata al centro del tavolo che stava lentamente morendo. Joëlle era nervosa, il petto schiacciato dall’ansia di non essere stata messa al corrente di dettagli rilevanti che vedevano protagonista proprio la sua famiglia e in modo particolare suo fratello, il suo César, la sua unica altra metà. Era visibilmente preoccupata, la bocca contratta in una smorfia nauseata; batteva insistentemente il tallone contro il pavimento incapace di starsene ferma. Il silenzio aveva assalito entrambe le donne che sembravano patire sempre di più l’assenza prolungata dei due uomini che già da mezz’ora si erano chiusi nella camera da letto matrimoniale. 

«Non– non c’è modo di capire di cosa stanno parlando?» Proruppe Odette mantenendo timidamente la testa abbassata sulle mani congiunte sul tavolo, ritta in una posizione elegante. Era evidentemente in imbarazzo, le sue gote si macchiarono di un delicatissimo color porpora. «V–voglio dire, so che è irrispettoso, ma ormai sono lì dentro da un’ora! Sarà successo qualcosa?»

Era esattamente lo stesso pensiero che ronzava per la testa di Joëlle come una fastidiosa mosca. Temeva che in qualche modo César fosse nei guai, c’entrava il fidanzamento? Sicuramente. Il matrimonio era messo in discussione? Palese. Sarebbe stato annullato? Temeva di sì. Perché, poi? Joëlle non si raccapezzava facendosi spazio in mezzo a tutte le supposizioni più disparate che il suo cervello, in preda a deliri agitati, continuava a proporle. Alla fine, non resistette più.

«D’accordo, adesso basta. Vieni con me.» Apostrofò la giovane Moreau alzandosi rapida dalla sedia. Sicura di sé afferrò il polso della delicata Odette e la condusse su per le scale senza però arrivare a poggiare i piedi sul piano superiore; si fermarono a metà scalinata, da lì sarebbe stato più semplice udire la conversazione anche se i due interessati erano al di là di una spessa porta di legno. Tuttavia, ciò che sentirono le due donne fu il silenzio più totale. Joëlle azzardò a spostarsi leggermente per finire proprio accanto alla porta chiusa.

 

«…perché? Perché adesso? Perché proprio quando avevo trovato la mia dolce metà, la felicità… perché?» 

Era una cantilena estenuante da sentire, la voce di César era rotta dal pianto. Lo immaginava seduto al bordo del letto, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani a coprire la faccia, faceva sempre così quando era triste. 

«Perché non abbiamo più soldi, lo capisci? Il denaro non è sufficiente, il commercio sta crollando e quei nobili, i Sovrani, stanno là rinchiusi a Versailles senza interessarsi di nulla…» Sembrava disperato anche suo padre, che al contrario, Joëlle immaginava camminare irrequieto per la stanza, sopraggiunse poi un altro minuto di silenzio.

«Credi di essere l’unico? Di questo passo dovrò togliere tuo fratello dalla scuola e metterlo a lavorare, ha solo quattordici anni!» la disperazione, a quel punto, lo colse completamente. Joëlle non avrebbe mai creduto di assistere a una scena del genere; l’unica volta in cui aveva visto suo padre piangere in preda a sospiri convulsi, era stato al capezzale della moglie defunta. Tirò un rumoroso sospiro, poi continuò: «Per il bene di questa famiglia, César e per il vostro, quello di tutti. Ti arruolerai al reggimento delle guardie francesi e in quanto a tua sorella-» 

Suo padre non ebbe il tempo di concludere la frase che intervenne brusca la voce di César: «Cosa c’entra Joëlle, padre?» 

«Ho stretto accordi con un Conte proveniente da Nîmes,» pronunciò in tono aspramente aulico, tossicchiò leggermente: «l’ho conosciuto personalmente, è una persona rispettabile e soprattutto si è dimostrato interessato.» 

«Tu hai…» Era la voce di César quella che si introdusse nelle orecchie di Joëlle, calda e sconvolta: «Hai venduto tua figlia per soldi, padre! E hai condannato me a morte certa.» Scattò in un’affermazione irruente, si era evidentemente alzato in piedi perché si udì lo strepitio di passi pesanti che avanzavano rapidi. Probabilmente, pensò la giovane Moreau, suo fratello si era messo faccia a faccia con il padre.

«César, non ti permetto di parlarmi così! Non l’ho venduta, le ho garantito un futuro migliore. Come ho fatto per tutti noi.» Erano aspre le parole del padre, ma non quanto avrebbe voluto. Erano traballanti, incerte. E assieme alle sue, si aggiunsero anche quelle del fratello: «Toglietemi la libertà, il matrimonio, una moglie, una famiglia, ma non toccate Joëlle! Non toccate mia sorella, padre. Ve ne prego!» Era una supplica? No. Una minaccia, una preghiera, un invito a sacrificarsi per lei. Ciò nonostante, il padre non sembrava minimamente commosso dalla sensibilità del figlio.

«Io sono suo padre! E decido io cosa è giusto per lei e per la nostra famiglia!» Divampò in un urlo disperato.

«Credi che Joëlle accetterà? Conosci davvero così poco tua figlia da non sapere che non è ancora pronta a sposarsi e probabilmente non lo sarà mai?» La rabbia di César arrivò dritta al petto di Joëlle come una pugnalata. 

«Credi che mi interessi? Tutte le donne si sposano, prima o poi, e non tutte lo fanno per amore. Joëlle dovrà abituarsi, sarà l’occasione per lei di cambiare atteggiamento, una buona volta. Tu, figlio, ti arruoli e tua sorella si sposa. Fine della conversazione!»

 

Joëlle si era pietrificata sul posto. Per la quarta volta, in quella giornata terribile, si era ritrovata impallidita e incapace a muovere un muscolo, con la vista offuscata e gli occhi colmi di lacrime. Avrebbe voluto entrare, sfondare la porta con un calcio e precipitarsi addosso a suo padre, inveire contro quel padre egoista che pur di avere qualche soldo in più stava sacrificando i suoi figli a un futuro incerto, infelice. A scuoterla da quell’intenzione fu il movimento appena accennato nell’aria di un vestito; all’improvviso, alle sue orecchie arrivò debolmente il pianto di una donna. 

«Odette» sussurrò voltandosi velocemente ricordandosi della presenza della fidanzata di suo fratello che aveva anche lei udito tutto. Vide la giovane ragazza correre via disperata e Joëlle avrebbe voluto urlare il suo nome a grande voce per fermarla, ma si trattenne: attirare l’attenzione di suo fratello e di suo padre era l’ultima cosa che voleva. In silenzio, dunque, si allontanò dalla porta e iniziò a correre giù per le scale. Corse più velocemente che poté, per aggiungere la povera Odette che disperata chissà dov’era andata a cacciarsi – in un paesino sperduto come quello, poi –, per scrollarsi di dosso la tensione, la rabbia, l’ingiustizia che provava. 

Quando trovò Odette, era seduta sul bordo della fontana del paese: la schiena ricurva, mossa visibilmente da spasmi incontrollati a causa del pianto incessabile. Joëlle si fermò proprio davanti alla figura distrutta della ragazza, con il fiato mozzato e la fronte imperlata di sudore. Nel modo più discreto possibile si sedette al suo fianco. Sembrava inconsolabile, Joëlle tirò un profondo sospiro trattenendolo in gola per poi cacciarlo fuori prepotentemente, chiudendo gli occhi. Rimase per qualche istante senza dire niente, lasciando che Odette potesse sfogarsi di tutti i dispiaceri che all’improvviso avevano avvolto il suo puro cuore. Terminò le lacrime, le energie e si tolse finalmente le mani da davanti gli occhi rivolgendo a Joëlle uno sguardo disperato. La mora si avvicinò con prudenza, con una punta di imbarazzo che le dipinse le guance, dopodiché le circondò le spalle con un braccio nel tentativo di consolarla. 

Concesse alla fidanzata di suo fratello, che aveva conosciuto soltanto pochi minuti prima, di abbandonarsi completamente sulla sua spalla, riprendere a piangere; afferrare con angheria la manica del vestito e stringerla fra le dita.

 

Quell’estenuante avvenire di spiacevoli vicende giunse finalmente al termine, eppure Joëlle non percepì la tipica sensazione di stanchezza che pervade il corpo inducendolo a rilassarsi; era sì, stanca, ma talmente tanto tesa e preoccupata che le riuscì difficile soffiare via l’ennesimo sbuffo d’aria che decretava la fine della giornata appena trascorsa. 

Odette, con gli occhi rossi di lacrime e il viso sconvolto, ritornò a Parigi soltanto dopo aver confessato di aver ascoltato la conversazione – omettendo d’averlo fatto assieme a Joëlle, ma non servì certamente specificarlo – e César non tentò neppure di regalare un minimo di conforto alla tormentata amata; non era il tipo di carattere per certe cose, Joëlle lo sapeva bene. Crescendo, quel frammento della personalità che aveva rappresentato César come il più fragile e sensibile dei due gemelli non aveva accennato a sfumare, perciò il giovane era cresciuto con la timidezza e l’eccessiva emotività a renderlo semplicemente adorabile – anche agli occhi delle fanciulle, a quanto pare –. 

Ci aveva pensato Joëlle, invece, a dar un leggero sollievo all’infelicità di Odette. Lei, al contrario del fratello, non si lasciava trascinare facilmente dalle emozioni altrui; più insensibile alle sofferenze, aveva asciugato le lacrime dalle guance della fidanzata di suo fratello senza batter ciglio e con un tono di voce mellifluo e incredibilmente dolce le aveva sussurrato parole ricche di rassicurazione. Aveva svolto lei la parte più seccante e non c’era niente di sorprendente in questo. Joëlle lo sapeva e, in cuor suo, lo sapeva anche César. 

 

Quella sera, sotto le coperte, la giovane Moreau non riusciva a chiudere occhio. Tormentata dai mille pensieri che assalivano con violenza la sua testa, fissava con sguardo corrucciato il soffitto di camera sua. Soltanto dopo essersi rigirata a destra e a sinistra, soffiando sonoramente spazientita, si tolse le coperte da dosso con un unico e indelicato gesto delle gambe, poggiò i piedi nudi sul parquet e avanzò in direzione della finestra. Guardò fuori per un momento, contemplando l’oscurità che inghiottiva le infinite distese di campi: era una serata piacevole, il frinire costante dei grilli mimetizzati in mezzo ai ciuffi d’erba regalava una strana sensazione di quiete e serenità e se avesse osservato meglio avrebbe sicuramente intravisto le lucciole sorvolare dove il buio avvolgeva ogni cosa. “Sembra di stare in una favola.” Pensò distrattamente concedendosi per un brevissimo istante a quella pigra aria fanciullesca che in seguito agli eventi che avevano sconvolto la sua famiglia, aveva dovuto scrollarsi di dosso e chiudere a chiave nel cassetto più remoto della sua anima. Quando era piccola e osservava lo stesso paesaggio, non mancava di poggiarsi placidamente davanti alla finestra e con aria trasognante creare scenari che facevano concorrenza solo alle fiabe illustrate che sua mamma leggeva sempre a lei e a César prima di dormire. 

Mossa da quel pensiero di pace e nostalgia afferrò il vecchio scialle e uscì dalla sua camera. Da quando avevano cambiato casa, stabilendosi in un’abitazione molto più grande – ma estremamente più costosa – ogni componente della famiglia aveva a disposizione una stanza da letto tutta propria. Fortunatamente la stanza di Joëlle era quella più vicina alle scale, sicché non le costò molta fatica arrivarci in punta di piedi: si impegnò per non emettere alcun suono molesto che attirasse l’attenzione, anche se quelle terribili scale facevano un chiasso al minimo spostamento di peso. Con fatica riuscì ad arrivare al piano terra, si diresse nel sottoscala da dove aprì una piccola porta che affacciava sul retro. Da lì, una scala appoggiata di fianco conduceva sul tetto della casa. 

Era l’unico posto riservato che i gemelli Joëlle e César utilizzavano per riflettere, stare in pace quando le discontinuità della famiglia non lo permettevano. Lei sapeva che suo fratello era lassù e infatti, appena sbucò dalle tegole rosse del tetto, intravide la figura curvata su sé stessa di César. Si arrampicò con sorprendente facilità fino a raggiungere la cima e prendere posto accanto a lui. Tra le due figure tacite e apparentemente serene aleggiava uno sconfortato silenzio che pesava sulle spalle di entrambi. Un silenzio che rifletteva le medesime emozioni: paura, incertezza e una voglia matta di piangere. Istintivamente Joëlle avvicinò le ginocchia al petto nel tentativo di nascondersi da quelle sgradevoli sensazioni e ricacciare indietro le lacrime sembrava sempre più difficile.

«Hai sentito tutto, quindi.» Ruppe il silenzio César con un’affermazione tagliente, rapida, che voleva essere indolore.

«Già…» sussurrò distratta Joëlle, lasciando lo sguardo svagarsi sul cielo macchiato di stelle. «Mi dispiace, non avrei dovuto portare Odette con me.»

Attese alcuni attimi prima di ricevere una risposta che tuttavia si disperse nel cielo stellato o in giù in mezzo ai grilli e alle lucciole. Non osò voltarsi; vedere il viso annientato dalla disperazione di suo fratello, e quegli occhi così simili ai suoi, sarebbe stato troppo da sopportare. «Non è stata colpa tua. Prima o poi sarebbe dovuta venire a saperlo… tu piuttosto, come stai?»

Nell’udire quella domanda pronunciata con apprensione, Joëlle si voltò definitivamente verso il fratello posando su di lui uno sguardo incredulo. Non si aspettava che anche in una situazione simile César trovasse le forze per preoccuparsi anche per lei. Era ingiusto e disgustosamente altruista. Alzò le spalle appoggiando il mento sulle ginocchia evitando che l’imbarazzo fosse distinguibile. 

«Io sto bene, non preoccuparti! Sono sicura che lo sfortunato che ha accettato di prendermi in sposa scapperà come un disperato appena mi conoscerà.» Scoppiò in una risata nervosa che tradì le sue intenzioni di camuffare le sue più recondite fragilità. 

I due fratelli caddero nuovamente in un piacevole silenzio, gli occhi rivolti verso le stelle; entrambi imploravano che il destino riservasse un po’ meno dispiaceri nei confronti delle sfortunate esistenze l’uno dell’altra. Silenziosamente, speravano che qualcuno li ascoltasse. Che la mamma li ascoltasse.

«Hey, senti un po’ César» mormorò imbarazzata Joëlle, facendo ricadere in basso lo sguardo sui piedi nudi e sulle dita delle mani che a causa del nervosismo non riuscivano a stare ferme, prese un profondo respiro e poi disse: «Facciamo che al mio tre diciamo qualcosa di cui abbiamo paura? Qualcosa che proprio ti fa venire da vomitare, capisci. Una cosa così.» Sapeva che suo fratello avrebbe capito, dopotutto lui riusciva sempre a seguire il filo disconnesso dei suoi discorsi, spesso senza senso, che ogni tanto Joëlle tirava fuori. Intravide con la coda dell’occhio César annuire assecondando la sua idea, probabilmente anche lui aveva bisogno di sfogarsi, pensò Joëlle mentre contava: uno, due, tre

«Non voglio sposarmi.»
«Non voglio arruolarmi.»

Si guardarono entrambi con un’espressione inebetita per alcuni attimi, dopodiché cedettero a una risata liberatoria. Joëlle appoggiò la testa sulla spalla del fratello, il quale prese ad accarezzarle dolcemente i capelli: la ragazza non si lasciava spesso andare a tali effusioni sentimentali che la vedevano così fragile; di solito era sempre lei a consolare il gemello nei momenti di sconforto poiché era sempre lui quello terribilmente emotivo e bisognoso di abbracci, carezze e sostegno emotivo. Quella, tuttavia, era un’occasione isolata: César l’indomani sarebbe partito per Parigi. Avrebbe raggiunto Odette per dare atto a un’immensa dimostrazione di amore, aveva ammesso lui con franchezza. Avrebbe atteso assieme alla sua fidanzata la lettera di accettazione che gli avrebbe permesso poi di diventare a tutti gli effetti un Soldato della Guardia Metropolitana di Parigi – così aveva detto suo padre, almeno, il quale qualche mese prima aveva agito nell’inconsapevolezza dei due gemelli e aveva fatto personalmente la richiesta per César (altra confessione che mandò fuori di testa Joëlle) –. Mentre lei sarebbe rimasta lì, a casa: continuando a lavorare, sopportando la tensione che si era aggravata tra lei e suo padre, che in assenza però della figura contenuta e calma del fratello, sarebbe stato oltremodo difficile per lei tenere a freno la lingua. Inoltre, a dare maggiore preoccupazione a Joëlle era un altro fatto: lei e il gemello non erano mai stati separati. Distanti? Sì. Ma mai divisi in maniera così drastica e il vuoto al petto che la giovane Moreau continuava a percepire era persino più doloroso del matrimonio. Aveva bisogno di sapere se anche per César era lo stesso.

«Ti ricordi cosa ci diceva sempre la mamma?» Era una domanda specifica a cui soltanto César poteva rispondere. Non quel cocciuto di suo padre e nemmeno l’ingenuo di Hugo. Era qualcosa che apparteneva soltanto a lei, César e alla mamma. Joëlle intravide l’ombra di un sorriso depositarsi sugli angoli della bocca del fratello.

«Certo che mi ricordo: siete l’uno la forza dell’altra, l’unico amore puro è il vostro. César è la gentilezza e Joëlle la forza. Nessuno vi dividerà.» A quelle parole il corpo irrigidito di Joëlle si rilassò contro la spalla di César, il quale si mosse per infilare la mano destra nella tasca dei pantaloni e tirarne fuori un foglietto che incastrò nella mano della sorella: «Aveva ragione. Hai capito, sorella? Niente e nessuno ci dividerà. Se mai dovessi sentirne il bisogno, oppure no, vuoi venire a farmi visita, mi troverai a quest’indirizzo. Per qualsiasi cosa, hai capito?»

In quel preciso momento, l’inflessibilità di Joëlle vacillò pericolosamente; perdendo l’equilibrio cadde rovinosamente sul suo cuore. Le lacrime che non aveva fatto altro che ricacciare indietro fino a quel momento, spuntarono fuori e scivolarono giù, lungo le sue guance. Joëlle stava piangendo e come di riflesso, come se anche César stesse provando le sue stesse emozioni l’attirò a sé in un abbraccio. 

«Adesso che te ne vai, chi farà le faccende di casa al posto mio?!» Piagnucolò la ragazza mettendo in scena un atteggiamento teatralmente disperato. Questo suo capriccio fece sfuggire a César una risata divertita, per poi aggiungere: «Cosa devo fare con te…» pensieroso e con un sorriso ludico stampato in faccia.

Successivamente, Joëlle rivolse un’occhiata nostalgica in direzione di una delle stelle più luminose convinta anche grazie ai racconti del passato, secondo i quali le stelle più grandi e splendenti rappresentassero i parenti ormai defunti, che quella stella luminosa che brillava dritta nei suoi occhi fosse sua mamma che dall’alto le mandava una carezza di conforto. Poi un pensiero illogico le attraversò la mente per un momento: chissà se qualcuno, dall’altra parte della Francia, guardava lo stesso cielo.

E in effetti, dall’altra parte della Francia qualcuno che osservava il suo stesso cielo c’era davvero. 

   
 
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