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Autore: Adeia Di Elferas    31/03/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Come altro te lo devo dire?” chiese Rodrigo, infastidito come non mai: “Non ti hanno avvelenato, non c'è alcuna prova che lo dimostri e nessuno dei nostri dottori ha riconosciuto in te i segni del veleno... Casomai...”

“Casomai..?” si alterò Cesare, guardando il padre di sottecchi, il mantello ancora sulle spalle, a mo' di coperta, mentre il suo corpo, ancora provato dalla malattia delle ultime settimane, tremava appena, malgrado il gran caldo di maggio.

“Casomai, la ragione dei tuoi stessi mali sei tu!” sbottò il pontefice, lasciando il suo comodo scranno e andando alla finestra che affacciava su Nettuno: “Il mal francese e chissà che altro..! Che male ho fatto, io, papa, per avere un figlio depravato come te?”

“Chissà da chi avrò preso...” borbottò il Duca, incrociando le braccia sul petto e mettendosi a guardare la grossa schiena del padre, animato da un odio che non provava da tempo.

“Io, almeno, mi cercavo solo belle donne...” commentò Alessandro VI, senza voltarsi, il volto scuro e il grosso naso attraversato appena da un tremito: “Invece da quello che sento dire, tu non badi troppo a... Insomma... Dicono che anche quel tuo amico, Miguel, quello che ti ha soccorso...”

“Michelotto è solo mio amico.” si difese, con troppa veemenza, Cesare.

Quello scatto fece finalmente girare il papa che, dopo un lungo sguardo al figlio, riuscì a dire soltanto: “Non sono affari miei, ma voglio che non lo diventino. Sono stato chiaro?”

Il Valentino annuì: in fondo neppure lui aveva interesse affinché certe sue debolezze diventassero di dominio pubblico. Una questione erano i giovani paggi – c'era pieno di signorotti, in fondo, che si dilettavano con i loro servi più giovani, senza che nessuno ne avesse a risentirsene – ma un'altra era un uomo adulto e ben noto come il Corella...

“Prima che dicano che mio figlio si lascia usare come l'ultima delle cortigiane da uno dei suoi condottieri...” riprese a dire Rodrigo, sempre più cupo.

“Non capiterà.” tagliò corto il figlio, sistemandosi meglio e concludendo: “E poi Michelotto andrà presto a Roma, per quella questione di Pisa... Non vedo, dunque, dove sia il problema.”

“Fai finta di non capire...” sospirò il pontefice, addolcendosi appena: “Comunque hai spiegato bene al tuo amico cosa deve fare a Roma? Gli hai detto bene che deve tranquillizzare i pisani e riferire al loro portavoce che noi faremo di tutto per aiutarli nella loro guerra contro Firenze?”

“Certo che l'ho fatto.” ribatté, aspro, il Duca.

“Bene... Bene...” soppesò Rodrigo e poi, tornando alla finestra, disse: “Adesso che quel maledetto impiastro di Lorenzo Medici sta morendo, chi ci resta a Firenze, come alleato? Nessuno. E dunque è il momento di prendercela...”

“Quando Firenze sarà nostra – provò a proporre Cesare – rivoglio la Sforza per me.”

Il padre lo guardò con un misto di commiserazione e incredulità e poi ribatté: “Se la vuoi, dovrai andare a prendertela spada in pugno.”

Un po' preso alla sprovvista dalle parole del padre, il giovane Borja si prese qualche istante, prima di sbuffare: “Come se non ne fossi in grado...”

Il modo in cui il papa sollevò entrambe le sopracciglia, la disse lunga su quel che pensava in merito, tuttavia, quando parlò, non vi fece cenno: “Prima di tutto – disse – dobbiamo concentrarci su quel che va fatto. Per ora tenderemo una mano a Pisa e appena Firenze sarà troppo distratta da quelle scaramucce di paese, arriveremo a dare la zampata...”

“L'incornata, casomai...” sogghignò il Valentino: “Il simbolo della nostra famiglia è un toro, non un leone...” soggiunse, vedendo l'espressione cupa del pontefice che, evidentemente, non aveva colto l'ironia.

“Certo...” fece infatti Rodrigo, con il tono un po' spazientito che, come padre, aveva rivolto tante volte ai suoi figli quando erano molto piccoli e incapaci di comprendere discorsi complicati: “Ora pensa a riprenderti del tutto... Del resto parleremo più avanti.”

 

Nel momento stesso in cui una lettera era arrivata alla villa, Caterina aveva pensato che portasse notizie di Lorenzo. Invece, quando aveva visto il sigillo e la provenienza, si era resa conto che la missiva era di sua nipote Ippolita, figlia del suo defunto fratello Carlo.

La giovane – che, la Tigre ricordava bene, era coetanea della sua Bianca – la voleva informare della nascita di una figlia, chiamata Ginevra.

In altri momenti, forse, la Leonessa non avrebbe accolto con troppo trasporto quel genere di notizia, specie perché per lei Ippolita era pressoché una sconosciuta. Sapeva, però, quanto la nipote si fosse esposta e prodigata non solo per la causa sforzesca a Milano, ma anche per lei, cercando di trovarle spalle e appoggi tra i francesi. Come lei, anche il marito, Alessandro Bentivoglio, si era dimostrato favorevole a darle un aiuto e, in generale, i signori di Bologna, a tratti per parentela, a tratti per convinzione o convenienza, si erano fatti araldi della sua fazione.

“Dovremmo festeggiare...” soppesò la Sforza, ripiegando la lettera: “Bere un calice in onore di mia nipote e della bambina appena nata...”

Nella sala, oltre a Fortunati, che in quei giorni faceva letteralmente da ombra alla milanese, c'erano Sforzino e Galeazzo. Il primo stava leggendo e, sollevando appena gli occhi dalla pagina, fece un cenno d'assenso, senza avere il coraggio di aggiungere che il vino forse l'avrebbe rifiutato, ma, se col calice fosse arrivata anche una fetta di torta, allora non si sarebbe sottratto ai festeggiamenti.

Galeazzo, invece, in piedi davanti alla finestra, intento a osservare il bosco che circondava le immediate vicinanze della villa, fece un paio di domande riguardo quei parenti che non conosceva.

Caterina, che pur non aveva mai parlato volentieri del fratello Carlo, che ormai non ricordava quasi più, riassunse al figlio la loro parentela e poi si perse anche a parlare di Angela, altra figlia di Carlo, di un paio d'anni più vecchia di Ippolita, andata in sposa intorno ai quindici anni d'età a un certo Ercole Este, di cui il più famoso Duca di Ferrara era uno zio, a quel che sapeva.

“Ma anche se pure in lei scorre il sangue degli Sforza – concluse amaramente Caterina – non mi sembra che stia facendo granché per aiutare la nostra causa...”

“Non tutte le mogli, a volte si trovano nelle condizioni di influenzare come vorrebbero i mariti, figuriamoci i parenti acquisiti quale è per lei il Duca di Ferrara...” si permise di dire il piovano, senza sollevare gli occhi dall'anello sacerdotale con cui stava giocherellando da un po'.

“Se fosse davvero una Sforza, ne troverebbe il modo.” rimbeccò prontamente la Leonessa: “E comunque...”

La donna, però, non fece in tempo a concludere la frase, perché sulla porta della sala si presentò frate Lauro. Portava con sé due carichi importanti che, a suo dire, meritavano l'immediata attenzione della Sforza.

Il primo era un carico in carne e ossa, ossia Bernardino: “Vostro figlio Carlo – disse Bossi, con il suo consueto sorriso – stava importunando il personale di cucina, cercando di rubare del vino.”

“Stavo solo controllando che non lo rubassero loro!” si difese il Feo, trattenuto per la collottola dal frate.

“Vieni qui con noi.” fece Caterina, facendo un cenno al figlio: “Stiamo per festeggiare la nascita della figlia di mia nipote Ippolita... Farò portare il nostro vino migliore e potrai berlo anche tu.”

Anche se, con quell'affermazione, la donna aveva appena ammesso di non aver creduto alla scusa del figlio, ma all'accusa del frate, il ragazzino fu rabbonito a sufficienza da non tentare la fuga, ma, anzi, si mise placido accanto alla madre, in attesa degli eventi.

“E poi c'è questa – fece allora frate Lauro, porgendole una missiva scritta visibilmente su un foglio di recupero – da Firenze. La manda Scipione Riario.”

Afferrando all'istante la lettera, la Tigre cominciò subito a leggerla. Scipione, in poche lapidarie frasi le raccontava un evento a suo dire molto strano e molto importante avvenuto quella mattina a Firenze.

La città, scriveva, era stata attraversata da molti uomini che stavano andando a Pisa, per dare una svolta alla guerra e chiudere il fronte. C'erano guastatori e soldati di ogni sorta. Tra questi c'era anche Giampaolo Baglioni con quaranta armigeri.

Il prezzo del grano era schizzato subito a tre lire e in città non si parlava d'altro di come perfino il vecchio signore di Perugia si stesse schierando in prima fila per Firenze, contro i pisani, perché i pisani avevano dietro in modo sempre più plateale niente meno che il papa e suo figlio, il Duca Valentino.

Alla Leonessa non importava nulla del prezzo del grano – per fortuna avevano trovato dei contatti che permettevano loro di avere la farina a un prezzo di favore – né tanto meno che guastatori e altri fiorentini stessero raggiungendo Pisa per spegnere le velleità di quella città.

Ciò che la colpì fu il fatto che Giampaolo Baglioni, notissimo oppositore dei Borja, scampato alla loro mannaia per un soffio, non solo si fosse unito alla causa fiorentina, sottintendendo quindi che la Repubblica era ormai nemica del papa, ma che addirittura fosse sfilato in mezzo alla città senza alcun timore, sicuro, quindi, che nemmeno la Signoria avrebbe disdegnato l'associazione che i più avrebbero fatto tra i condottieri ribelli e Firenze stessa.

Era pur vero che quel distacco dal pontefice e quindi dalla Francia avrebbe dovuto farla sentire sollevata, perché significava che la fazione di suo cognato Lorenzo ormai non aveva più alcun peso in città... Era anche vero, però, che se Alessandro VI e Luigi XII erano nemici di Firenze, anche se non ancora dichiaratamente, prima o poi avrebbero cercato di conquistarla e lei, in caso la conquista fosse andata a buon fine, sarebbe per certo stata reclamata da Cesare...

“Sforzino...” fece Caterina, quasi senza voce: “Vai nelle cucine e... E di' loro di portare di sopra del vino, per favore...”

Il ragazzino, ben felice di poter andare in uno dei posti che preferiva della casa, uscì subito dalla sala, senza dire una parola.

“Che succede?” chiese invece Fortunati, capendo che qualcosa era cambiato, nell'espressione della Sforza.

Questa, però, scosse il capo e nascose la lettera di Scipione in uno dei tasconi del suo abito, convinta che fosse meglio che prima ci ragionasse con calma lei e poi, solo in un secondo momento, ne discutesse anche con il piovano.

Non appena una serva arrivò con la caraffa scelta e venne servito a tutti, compreso frate Lauro, da bere, la Tigre si isolò via via sempre di più. Ragionava sulle implicazioni delle ultime novità, sulla posizione di Baglioni, sul potere effettivo che lui e gli altri condottieri ribelli avrebbero potuto avere in un'eventuale contrattacco a Roma, e, soprattutto, cercava di contare in modo oggettivo i suoi possibili alleati e le relative forniture in termini di uomini, armi, denaro e influenze politiche.

Se tutti gli altri si erano già lasciati trasportare da un discreto clima di festa – malgrado nessuno di loro conoscesse Ippolita Sforza – la milanese restava invece sempre più cupa nel suo angolo, ricambiando solo all'occorrenza qualche sorriso.

Passata circa un'ora, mentre Sforzino e Bossi parlavano di un martire d'epoca romana, e Galeazzo, Bernardino – che beveva felice il suo vino – e Fortunati dell'opportunità di insegnare anche i soldati semplici a leggere e scrivere, Caterina mise da parte il calice, che aveva appena toccato, si schiarì la voce e dichiarò: “Scusatemi, vedo in camera mia... Ho bisogno di riposarmi.”

Nessuno provò a fermarla, ma non appena uscì dalla porta, Francesco si scusò con il Riario e il Feo e la seguì. I due ragazzi, che avevano da tempo accettato la possibilità che tra il piovano e la loro madre ci fosse qualcosa di più di una semplice amicizia, lo lasciarono andare senza fare commenti.

“Sei stanca?” chiese Fortunati, non appena raggiunse la Tigre, che stava camminando svelta verso la propria stanza.

La donna, che non aveva creduto di essere seguita da qualcuno, sbuffò e ribatté: “Ho quarant'anni, ormai.” poi, guardando i capelli ancora scuri, ma abbinati a una barba ormai del tutto grigia del fiorentino, aggiunse: “Ma che lo dico a fare, a te, che sei anche più vecchio di me...”

“C'era qualcosa nella lettera di Scipione..? Vuoi che venga in camera con te per parlarne..?” provò a offrirsi l'uomo.

La Sforza lo fissò un istante e poi scosse il capo: “No, sto andando da Pier Maria. Voglio passare un po' di tempo con mio nipote.”

“Credevo stessi andando a riposare...” fece notare lui, accigliandosi.

“Da quando mi fai da carceriere?” ribatté la Sforza, piccata: “Mi sembra che già da tempo abbiamo chiarito che non ti spetta conoscere alla perfezione ogni mio minimo movimento...”

“Hai ragione.” sospirò allora il piovano, allargando le braccia e voltandole le spalle.

Incredula di aver già fatto desistere Fortunati, Caterina restò immobile qualche istante e poi, con passo nervoso, andò davvero dal nipote Pier Maria. Mandò via la balia, dicendole di ritenersi pure libera per almeno le prossime due ore, e poi si dedicò al piccolo De Rossi.

Il bambino, ancora troppo piccolo per parlare o anche solo per capire cosa lei gli stesse dicendo, era l'interlocutore perfetto, per la Tigre, quel giorno.

Osservando Pier Maria che, steso sul tappeto – finalmente libero, come da sua precisa disposizione, dalle fasce e dalle varie imbragature che invece Bianca aveva imposto finché era stata lì – giocava assorto con il cavaliere di legno che gli aveva donato Bernardino, la Leonessa cominciò a elencare in modo caotico i pensieri che si affastellavano nella sua mente. Il De Rossi, di quando in quando, sollevava gli occhi pazienti su di lei, facendo un breve gorgoglio.

“E questo è quanto.” concluse la milanese, seduta ormai a sua volta sul tappeto, una mano sulla testa bionda del nipote.

Questi, dall'alto della maturità dei suoi sette mesi, rise, solleticato dalle dita della nonna, e poi mosse, tenendolo però al contrario, il cavaliere giocattolo come se stesse andando alla carica.

“Se solo tuo zio Galeazzo fosse più esperto...” soppesò Caterina, raddrizzando il giocattolo al nipote: “Se solo tua madre Bianca avesse più possibilità economiche e tuo padre potesse fornirci un appoggio concreto... E se solo... Se solo io avessi un esercito...”

La Leonessa aggiunse anche, ma solo nel pensiero, un pragmatico 'se solo Lorenzo morisse presto', ma ebbe l'accortezza di non esprimere quel desiderio ad alta voce, benché fosse certa che il piccolo non avrebbe potuto capirla.

Pier Maria si accigliò ed emesse un suono confuso che, all'orecchio della Sforza, parve quasi una difficoltosa imitazione della parola 'esercito'. Sapeva che il nipote era troppo piccolo per parlare già, ma quello sforzo la fece sorridere.

“Vuoi che ti racconti una storia sull'esercito del tuo trisnonno Francesco Sforza?” propose la Tigre, desiderosa come non mai di estraniarsi dai problemi che l'attanagliavano.

Il piccolo, tenendo sempre stretto a sé il cavaliere, gattonò fino a lei, allungando poi una manina verso di lei, per farsi prendere in braccio.

Con una vena di tristezza nello sguardo, pensando a quando anche il suo Giovannino era stato così piccolo, mentre lei aveva avuto poco tempo per curarlo e coccolarlo, la Sforza afferrò con sicurezza il nipotino e, con un sospiro lento, iniziò a raccontare: “Francesco Sforza era un avventuriero, che combatteva per denaro e per desiderio di gloria... Un giorno, però, venne notato dalla figlia del Duca di Milano, Bianca Maria, e da allora la sua vita prese una piega molto diversa...”

 

“Per il tempo che ha davvero – disse la levatrice, guardando Bianca in modo molto significativo, mentre si asciugava le mani ancora davanti al catino d'acqua calda – direi che sta procedendo tutto bene... Vi consiglio, però, di calcolare bene i tempi della vostra partenza da Roma, perché visto quanto siete florida voi, dubito che riusciremmo a far passare per settimino un bambino sano e robusto partorito a termine...”

La Riario si morse la labbra e poi, ringraziandola, assicurò: “Sarà mia premura fare in modo di arrivare a San Secondo ben prima del parto.”

“Sarebbe assennato.” concluse la levatrice, riprendendo il proprio strumentario e lasciando intendere che era pronta a congedarsi.

“Ditemi quanto vi devo.” fece Bianca, rivestendosi.

L'altra scosse il capo: “Se mi prenderete a servizio per seguire la gravidanza, e credo che vi convenga, ne parleremo a tempo debito...”

La figlia della Sforza non si sentiva troppo tranquilla, davanti a quel tono un po' insinuante, ma voleva fidarsi del giudizio di Baccino e dunque voleva fidarsi di rimando di quella strana donna, così disse solo: “Va bene. Mettetevi d'accordo con la mia dama di compagnia per la prossima visita.”

La levatrice, che aveva capito subito che Creobola era al corrente di ogni cosa, annuì e andò finalmente alla porta.

Stava per andarsene, quando la Riario non resistette e aggiunse: “Salutatemi messer Baccino e ditegli che, se ne ha piacere, manderò i suoi saluti a mia madre.”

La donna fece una breve risata e ribatté: “Glielo dirò e lui di certo lo vorrà... Non fa altro che parlare di vostra madre. Figuratevi che...” iniziò a raccontare, ma, facendosi seria, si ammutolì.

“Parlate.” la incitò la Riario, incuriosita da quell'improvvisa reticenza.

“Che non si sappia, o ne andrà anche a discapito del vostro buon nome – fece la levatrice, con aria circospetta – ma Baccino m'ha trovata in un lupanare della periferia di Roma. Anche quelle sonno donne, sapete, anche loro a volte hanno bisogno di me e spesso non per cose belle.”

Bianca restava in silenzio, il volto impassibile. Fin da bambina era stata abituata ad avere a che fare con donne dalla provenienza più disparata e, in particolare, con le meretrici che sua madre comprava dai bordelli peggiori di Forlì per dar loro la possibilità di avere un lavoro onesto a Ravaldino.

“Quell'uomo ha qualcosa che non va, secondo me...” ridacchiò la levatrice, con un'alzata di sopracciglia: “Andava al lupanare e alla fine parlava e basta, sempre e solo del suo infelice amore per una donna più matura di lui e con cui aveva avuto solo qualche incontro fugace... Entrando un po' più in confidenza, ho capito che si riferiva niente meno che alla Leonessa di Romagna...”

La Riario trovò quel dettaglio interessante, ma pensò che non sarebbe stato il caso di farne cenno alla madre: dubitava che alla Tigre avrebbe fatto piacere, sapere che uno dei suoi amanti parlava di lei alle donne che lavoravano in un bordello di Roma...

“Nella mia prossima lettera, saluterò mia madre per parte di messer Baccino.” concluse la giovane, con un sorriso: “Ditegli che, da parte mia, lo considero un amico prezioso.”

“Credo che Baccino sarebbe felice come un Dio, se vostra madre gli chiedesse di raggiungerlo a Firenze...”

Bianca sorrise di nuovo e promise: “Proverò a fargliene menzione.”

Rimasta sola, la giovane attese qualche minuto, per essere certa che Creobola, in attesa appena fuori dalla camera, avesse finito di fissare il prossimo appuntamento con la levatrice e poi uscì a sua volta, dicendo che avrebbe passato un po' di tempo a leggere.

La biblioteca di palazzo Riario era ben fornita e per nulla monotematica: Raffaele Sansoni Riario, negli anni, aveva accumulato libri in latino, in francese e in italiano, i temi andavano dalla caccia, ai santi, passando per le guerre epiche, toccando perfino trattati di botanica e fisica. In tutta onestà, quella sarebbe stata l'unica cosa di Roma di cui Bianca avrebbe sentito la mancanza.

Aveva già anticipato a Troilo un paio di titoli di cui avrebbe voluto fornire anche la biblioteca di San Secondo, ma l'uomo, pur non dicendosi contrario, le aveva fatto capire che prima avrebbero dovuto fare qualche conto a tavolino, per capire cosa fosse il caso di comprare e cosa no, viste le spese che avrebbero dovuto sostenere per rimettere in funzione la rocca.

'In fondo – pensò malignamente la Riario, prendendo un volume a caso e mettendosi alla scrivania, in piena luce – potrei anche portarmi appresso qualcuno di questi libri... In fondo questa è casa di mio fratello Ottaviano...'.

Stava quasi iniziando a farsi un elenco mentale di quali volumi trafugare, quando Creobola la raggiunse, recando con sé una lettera: “Viene da Castello.” riferì, porgendogliela.

Bianca sapeva che doveva trattarsi di una missiva di sua madre, perciò l'aprì subito. Lesse con piacere le notizie riguardo la buona salute dei suoi fratelli e, soprattutto, di Pier Maria. Trovò le parole della Tigre molto più dolci del solito, e ne fu felice. Solo arrivata alle ultime righe, però, capì almeno in parte il motivo di un tono tanto carezzevole.

Senza mezzi termini, Caterina le aveva scritto che Lorenzo Medici aveva avuto un malore improvviso, a inizio mese, e che da allora era relegato a letto, senza saper né muoversi, né parlare e che i medici facevano il caso pericoloso di morte.

La Riario si sentì perfida, ma non riuscì a trattenere un sorriso e a dire a Creobola, che era rimasta lì, in attesa di scoprire se vi fossero novità interessanti: “Il Popolano sta morendo: presto mio fratello Giovannino sarà libero di riabbracciare sua madre.”

Detto ciò, la giovane si fece portare il necessario per scrivere e poi, dopo aver espresso in poche righe il suo stato d'animo per la salute del Medici – senza eccedere, almeno per iscritto, nell'entusiasmo – pensò fosse il caso di citare Baccino, come aveva promesso, spiegando quanto fosse importante per lei, in quel momento e quanto il cremonese desiderasse, in un futuro, raggiungere la Tigre a Firenze.

Dopodiché ritenne opportuno riferire le poche notizie di politica che aveva avuto modo di origliare stando a Roma, in primis i movimenti di Dionigi Naldi che, tornato a Roma da Cesena, era stato omaggiato qualche tempo prima dal Valentino con un suo giubbone e una sua divisa. Oltre a quei doni onorifici, il Duca doveva avergli dato anche del denaro, perché prima di ripartire alla volta di San Leo, per un assedio che durava ormai da parecchio, Naldi aveva distribuito mezzo ducato a ogni uomo della sua compagnia, come incentivo.

In secondo luogo, la Riario informò la madre – benché lei stessa avesse notizie confuse e frammentarie in merito – riguardo a un ritorno improvviso a Roma di Miguel de Corella che, assieme al Cameriere Segreto del papa, Francisco Troches, aveva incontrato i portavoce pisani, per rassicurarli sulla vicinanza del pontefice alla loro causa. Un paio di giorni dopo quell'incontro, il Troches era sparito da Roma, si diceva forse alla volta della Corsica, forse temendo, per qualche motivo non meglio precisato, di essere considerato dai Borja un traditore.

Il fatto che la notizia dell'incontro coi pisani fosse ormai di dominio pubblico, suggerì la Riario, forse era alla base della fuga del Cameriere Segreto.

Chiuse la missiva con molti saluti e frasi di incoraggiamento e si auspicò che presto Giovannino potesse tornare ad avere la casa che si meritava. Solo dopo la firma, come se fino a quel momento se ne fosse del tutto scordata, aggiunse due parole sulla sua gravidanza, assicurando che tutto andava come doveva andare.

 

La notte di Lorenzo era stata molto agitata. L'uomo non si esprimeva in alcun modo, fin dal giorno in cui era stato messo a letto, se non con qualche gorgoglio sommesso o delle mezze urla a bocca stretta, che assomigliavano più allo stridio di un topo che non alla voce di un uomo.

Semiramide, ligia al suo dovere di moglie, non l'aveva lasciato quasi mai, abbandonando il capezzale solo quando sua figlia Laudomia si era offerta per darle il cambio, ma avendo sempre cura di non lasciare Pierfrancesco da solo col padre. Non temeva che potesse fare qualcosa di grave, ma si sentiva ugualmente più tranquilla così.

I primi giorni, l'Appiani aveva fatto sì che ci fossero preti e medici a ogni ora, per pregare per il Popolano e per cercare di guarirlo. Passata una settimana, aveva ridotto la spesa, dimezzando la presenza di prelati e dottori e, ormai, a venti giorni dall'evento drammatico che aveva trasformato Lorenzo in una sorta di vegetale, aveva stabilito che i medici passassero al palazzo solo due volte al giorno e il prete tornasse solo se lei avesse ritenuto opportuno mandarlo a chiamare.

Si faceva aiutare dalle serve di casa per pulire e gestire il marito. Gli dava da bere, con una spugna, latte e miele, a volte succo di frutta fresca, quando possibile, ma non aveva il coraggio di provare con cibi dalla consistenza solida. Anche se a tratti Lorenzo la seguiva con lo sguardo e muoveva la bocca, era impossibile credere che sarebbe stato capace di masticare al momento giusto.

Quella notte era rimasta da sola a vegliarlo. Si era assopita un paio di volte, ma si era sempre risvegliata subito. Il Medici, invece, occhi spalancati e mani contratte, sembrava sempre sveglio, anche se del tutto assente.

L'aveva osservato a lungo, cercando nel volto ormai smagrito e cupo di Lorenzo, quello paffuto e felice del giovane uomo che aveva sposato tanti anni prima. Era dalla morte di Giovanni, ormai, che per lei il marito era poco più di un estraneo. Lui le aveva fatto la guerra senza che lei potesse evitarlo. L'aveva allontanata e si era chiuso sempre di più in un mondo fatto di rancore e tristezza.

Quel 20 maggio l'alba era arrivata presto. Fuori la luce del sole era dirompente, malgrado non fossero ancora le otto del mattino. Su ordine di Semiramide, nessuno era ancora entrato in stanza: era lei a chiedere aiuto, quando lo credeva utile, ed era solo lei a domandare un cambio, quando ne aveva proprio bisogno.

Il Medici, che era stato immobile tutta notte a fissare il soffitto, all'improvviso iniziò a respirare più velocemente, gli occhi che si aprivano ancora di più, cercando quelli di Semiramide o, almeno, così parve alla donna.

Deglutendo, questa si alzò dalla sua sedia e si mise a fissare il marito. Avrebbe voluto dargli conforto o, almeno, si sarebbe aspettata di sentirsi più tesa, nervosa... Invece si trovò a fissarlo impassibile, quasi avesse davvero davanti un estraneo.

Il Popolano cominciò a rantolare, gli occhi sgranati restarono tali, i muscoli di tutto il corpo si contrassero di più, la fronte imperlata di sudore solo per metà e alla fine, proprio mentre si sentivano le campane di San Lorenzo battere l'ora, smise di respirare.

Semiramide attese ancora qualche istante e poi, stringendo i denti, andò alla porta. Fuori trovò un paio di serve e sua figlia Laudomia, che attendevano pazienti che uscisse per chiedere loro il cambio.

Nel momento stesso in cui la videro, tutte e tre capirono cosa fosse successo. Le domestiche entrarono in stanza, solerti, parlottando tra loro su cosa fosse meglio far prima: chiamare il prete oppure sistemare il corpo del povero Medici? Laudomia, invece, si mise a piangere in silenzio, restando sulla porta.

“Adesso sta meglio anche lui.” disse, appena udibile, l'Appiani, con una durezza che fece accigliare la figlia che, tuttavia, capì il senso più profondo di quella frase.

La madre non si riferiva agli ultimi venti giorni di agonia, ma agli ultimi anni di intrighi, processi, arrabbiature e delusioni. Anche lei aveva visto Lorenzo trasformarsi e anche lei era convinta che, ormai, la sua vita fosse diventata un incubo per lui per primo.

“Mors omnia solvit.” decretò, teatrale, Semiramide e poi, passandosi il dorso della mano sotto al naso, sentì la propria voce tremare, mentre diceva: “Mi ritiro un momento, ho... Ho bisogno di un attimo.”

   
 
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