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Autore: Adeia Di Elferas    21/04/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Fortunati rimpiangeva di non essere ripartito da Firenze già il giorno prima. In fondo, avendo deciso di non incontrare di persona Semiramide, ma di lasciare che fosse Lucrezia Medici a occuparsene, non ci sarebbe stato bisogno, per lui, di trattenersi in città fino al 29 maggio.

Ripensava ancora alla voglia che aveva provato di rientrare a Castello già cinque giorni prima, quando era giunta a Firenze la notizia che la Badia a San Savino era rovinata addosso a una sessantina di guastatori fiorentini. Si diceva che fossero stati i pisani a renderla pericolante, affinché i nemici ci restassero intrappolati nel momento in cui avessero provato a mettervi mano. Di certo la Tigre di Forlì avrebbe trovato quella storia interessante, ci avrebbe speculato sopra per un po'...

Invece Francesco si era trattenuto, più per la curiosità di avere altre chiacchiere sul funerale di Lorenzo e sulle nuove mosse della Signoria che non per altro, e così, per caso, aveva finito per imbattersi in una scena raccapricciante, che l'aveva scosso nel profondo.

Quella mattina era stato messo a morte, dopo un brevissimo processo, un uomo di vent'anni circa, un sarto, uno di quelli che si occupava dei paramenti sacri e di tutti i vestiari degli uomini di Chiesa.

Il piovano non ne era certo, ma forse anche lui, una volta, si era rifornito in quella bottega, quando ancora non era del ragazzo in questione, ma del padre. E questa consapevolezza aveva solo peggiorato il suo umore.

Il giovane banderaio era accusato di aver ucciso un altro giovane, che svolgeva lo stesso lavoro, per una qualche invidia professionale o, come dicevano alcuni, per gelosia in ambito amoroso. Era stato comunque decretato che venisse decapitato in pubblico quella mattina.

Francesco, trovandosi a passare proprio dalla piazza, non aveva potuto aggirare in alcun modo la ressa e si era trovato ad assistere all'intera scena.

Il boia aveva calato il primo colpo sul collo del condannato, ma il giovane era sopravvissuto, con appena una brutta ferita. Aveva calato il secondo colpo, ma il poveretto ancora riusciva a gemere di dolore. Il terzo colpo, forse per la lama poco affilata o per l'agitazione del giustiziere, messo in soggezione anche dalle risate del pubblico, ancora non bastò per tranciare il capo del giovane.

Un cavaliere, poco lontano dal ceppo, si era innervosito come non mai e, preso un bastone, aveva colpito con forza il boia, gridando: “Quello che muore è un uomo di vent'anni! Perché farlo soffrire così?!”

Il giustiziere si era ritratto, spaventato, mentre il condannato cominciava a scuotersi e rantolare, ucciso dall'emorragia e non dai fendenti del suo assassino. Nello stesso momento, il medesimo pubblico che fino a poco prima aveva riso per l'imperizia del boia, aveva ora iniziato ad assecondare lo sdegno del cavaliere, unendosi in un grido corale, a' sassi a' sassi, e cominciando ad armarsi con ciottoli, pietre e sassi d'ogni foggia e misura.

Una pioggia di proiettili lanciati a mano aveva raggiunto il patibolo e perfino i Battuti e il cavaliere che per primo si era ribellato a quell'indecenza erano dovuti scappare per non finire vittime loro stessi della rabbia della folla.

Il boia, invece, era stato colpito più e più volte, perdendo un occhio, rompendosi il naso e finendo per soccombere, sanguinante e piangente. Fortunati non aveva capito se fosse già morto o meno, quando aveva visto ciò che più di ogni altra cosa lo aveva sconvolto: un gruppo di ragazzini, di età compresa tra i cinque anni e quattordici, circa, salirono sul patibolo, presero il giustiziere e con coltelli e armi di fortuna lo fecero a pezzi.

Non appena la folla si era diradata, per seguire il macabro corteo che stava portando i resti del boia verso Santa Croce, Fortunati aveva potuto riprendere il suo cammino, ma il suo stomaco si sarebbe ripreso solo molte ore dopo.

Fu così che, quando raggiunse la villa di Castello, la Leonessa lo trovò scosso e laconico, tanto da temere che stesse andando storto qualcosa riguardo la questione di Giovannino.

Ritiratasi con il fiorentino in camera propria, ordinando che nessuno, nemmeno Galeazzo, andasse a disturbarli fino a nuovo ordine, la donna gli si rivolse, ansiosa, per dire: “Da oltre una settimana aspettavo il tuo ritorno... Mi hai dato poche notizie, e poco chiare. Adesso ti presenti qui bianco come un lenzuolo e con gli occhi pesti... Spiegami cosa sta succedendo, o giuro che questa volta non rispondo di me!”

Il piovano, rendendosi conto solo in quel momento della preoccupazione che stava involontariamente causando, senza preamboli raccontò quanto successo quella mattina a Firenze, concludendo, cupo: “La morte è uno spettacolo orribile.”

Caterina, mentre ascoltava le parole di Fortunati, si era trovata a ripensare agli uomini e alle donne che lei stessa aveva messo a morte – senza riguardo nemmeno per i bambini – e a quelli che aveva ucciso lei stessa, sia in battaglia, sia nelle segrete della sua rocca, e aveva sentito il proprio cuore farsi di roccia, tanto da portarla a commentare, con una certa freddezza: “Sì, è vero. Ma adesso parliamo di cose importanti: cosa farà Semiramide, riguardo a mio figlio?”

L'uomo, seduto sul letto, con le mani in grembo, rimase un momento spiazzato dalla scarsa importanza che la sua amante stava dando a quanto riferito. Non si era aspettato, in realtà, di impressionare una donna come lei parlando di un tumulto di quel tipo, ma aveva quanto meno sperato di ottenere da lei una parola di conforto o di rassicurazione.

“Non ti fa né caldo né freddo, pensare che poche ore fa io abbia visto fare a pezzi un uomo?” non si trattenne dal chiedere.

La Sforza, in piedi davanti a lui, incrociò le braccia sul petto e rispose: “Lo so che non è una cosa piacevole, ma...”

“Non è una cosa piacevole..?” fece eco lui, sgranando gli occhi: “Hai capito bene quello che è successo? La folla si è... Si è presa la libertà di uccidere un boia e nessuno ha fatto nulla... Dei bambini hanno fatto a pezzi un uomo e...”

“Se tu fossi stato a Mordano, dopo l'incursione francese – lo zittì lei, con fare imperioso – non ti farebbe davvero molto effetto sentire di un uomo sventrato dalla folla. Se tu fossi stato a Ravaldino, la notte in cui ci mi sono trovata a camminare sui cadaveri dei miei uomini, non... Non ti impressioneresti così. Se...”

La Tigre ebbe un attimo di incertezza, mentre il piovano continuava a fissarla con un'espressione stolida, che non le lasciava capire se stesse seguendo le sue parole o se stesse davvero ancora pensando al giustiziere fiorentino che era stato a sua volta giustiziato per imperizia.

“Se tu avessi fatto quello che ho fatto io – concluse, a fatica, abbassando gli occhi – non saresti così tanto sconvolto, per la morte di un solo uomo... Anzi, di due. Mi hai detto che c'era anche un condannato alla decapitazione, se non erro...”

Francesco si era portato una mano alle labbra, quasi volesse imporsi di tacere. Senza dire nulla, si alzò dal letto e scosse il capo, andando verso la porta, ma Caterina gli sbarrò la strada.

“Devi ancora dirmi cosa intende fare Semiramide. Sei stato a Firenze apposta... Adesso non mi dirai che solo per colpa di quello che hai visto stamattina, tutto il resto passa in secondo piano...” si trovò a dire la donna.

Il fiorentino si fermò e, con un sospiro, disse: “Semiramide non dovrebbe davvero fare nulla, contro di te. Il processo continuerà per qualche settimana, per le formalità. Non vuole la tua eredità, ma ha comunque dei figli anche lei e vuole limitare i danni. Non vuole farti guerra, ma non vuole nemmeno darti più di quello che ti spetta. Per il resto, ti prego... Parliamone più tardi, magari stasera...”

“Magari domani.” ribatté la Tigre, senza voler polemizzare sul fatto che non voleva l'eredità di Giovanni per sé, ma per suo figlio: “Stanotte è meglio che tu stia nelle tua stanza a... Riposare o pregare, o quello che preferisci.”

Cogliendo il vero senso di quell'invito, il piovano incrinò le labbra di lato e sussurrò: “In effetti, da che sono tornato non mi hai nemmeno dato un bacio.”

“Sei stato tu a non baciarmi.” volle incaponirsi Caterina, benché si rendesse conto che nemmeno lei aveva avuto slanci nei suoi confronti.

“Magari hai trovato di meglio, mentre ero a Firenze...” indagò lui, guardandola di sottecchi.

“Non è decoroso, per un uomo come te, far finta di essere geloso.” tagliò corto lei: “Ma stanotte, se la fine sarebbe ancora parlare di quello che hai visto a Firenze, non venire in questa stanza. Non ho voglia di finire a litigare...”

L'uomo annuì e, senza aggiungere altro, andò davvero alla porta e l'aprì. Aveva già l'uscio socchiuso, quando si ricordò di una cosa che, di certo, la Leonessa avrebbe voluto sapere subito.

“Semiramide ha fatto sapere, tramite Lucrezia, che le piacerebbe incontrarti. E incontrare anche Giovannino, quando possibile.” riportò.

Nel vedere il bel profilo di Fortunati e i suoi occhi buoni e un po' tristi che la guardavano, Caterina sentì infine il bisogno di colmare la distanza tra loro, ricordandosi, anzi, del vuoto profondo provato in quelle lunghe notti e della voglia indicibile che aveva avuto di lui, fino a che non l'aveva rivisto.

Si sporse quindi in avanti, posò una mano sul suo braccio e lo attirò appena a sé, baciandolo. Il piovano ricambiò in modo quasi dolente, ma poi si scostò per primo e mormorò qualcosa riguardo al fatto che la Tigre aveva ragione, che quella notte era meglio passarla ancora separati, in attesa di quella seguente in cui, di certo, entrambi sarebbero stati più ben disposti l'uno nei confronti dell'altro.

Francesco, quindi, bisbigliò anche un breve saluto e uscì. Non si accorse subito che poco lontano dalla porta c'era Galeazzo, in attesa.

Il ragazzo aveva creduto che lo scambio tra il piovano e la madre sarebbe durato ancora poco e quindi si era appostato fuori dalla stanza in modo da mostrare alla Leonessa una lettera che gli era arrivata proprio quando la donna era già impegnata a discutere con il fiorentino. Si trattava di una missiva di Bianca, in cui la sorella gli chiedeva di stare attento a Ottaviano e di assicurarsi che, quando fosse tornato a Castello e avesse capito la vera identità di Pier Maria, non facesse disastri.

Il Riario, fondamentalmente, voleva chiedere alla madre se il fratello, secondo lei, sarebbe tornato presto o se, invece, c'era in progetto per lui una dilazione dei tempi di viaggio o addirittura nuove mete future che lo portassero ancora più lontano.

Non si era aspettato di intravedere quello che gli era parso un bacio tra Fortunati e la Sforza. Anche se da tempo lui – come Bianca e Bernardino – aveva il sospetto che Francesco potesse essere addirittura un insospettabile amante della Tigre, vedere quella scena coi suoi occhi, l'aveva sorpreso.

Caterina, più per sincerarsi che Fortunati stesse bene – come se potesse capirlo solo dalla sua andatura – sporse il capo fuori dalla stanza e anche lei vide Galeazzo. Solo che se il piovano aveva fatto finta di nulla, passandogli accanto con passo rigido, lei non riuscì a ignorarlo. Gli fece cenno di raggiungerla e lo accolse nella sua stanza.

“Dovevi dirmi qualcosa?” gli chiese, dopo averlo ragguagliato molto rapidamente, come d'altro Francesco aveva fatto con lei, circa le intenzioni di Semiramide.

Il ragazzo teneva la lettera di Bianca dietro la schiena e lo sguardo basso, ben deciso a non guardare verso il letto, né verso qualsiasi altro angolo della camera, per non rischiare di vedere qualcosa che confermasse il reale ruolo di Fortunati nella vita della madre. Anche se apprezzava il fiorentino e lo stimava, e anche se era sinceramente felice di saperlo vicino alla Sforza, riconoscendone l'influsso benefico, preferiva comunque non vedere e non sentire nulla.

“Mi ha scritto Bianca – ammise, convinto che la madre non gli avrebbe chiesto di leggere la lettera, se lui non gliela avesse offerta apertamente – e mi chiedeva di stare particolarmente attento a quanto Ottaviano tornerà. Ha paura che combini qualche pasticcio, con Pier Maria.”

“Ci penso io a tuo fratello.” soffiò, stanca, la milanese: “Non preoccuparti.”

Il ragazzo, in realtà poco convinto, dati i precedenti tra la madre e Ottaviano, annuì lo stesso e concluse: “Mi spiace di avervi disturbato per così poco... Io non ho pensato che...”

Solo in quel momento la Sforza ebbe un lampo di consapevolezza e si chiese se il figlio l'avesse anche solo intravista mentre baciava sulle labbra Fortunati: “Non mi hai disturbato. Non c'è nulla che io voglia nasconderti. Se vuoi chiedermi qualcosa, fallo senza problemi. Anzi, se... Se c'è qualcosa che non ti sta bene, devi dirmelo. Non voglio ripetere due volte lo stesso errore.”

Colta l'allusione alla reazione violenta e vigliacca di Ottaviano e Cesare alla relazione tra la Leonessa e Giacomo Feo, tanti anni prima, Galeazzo arrossì violentemente e mise in chiaro: “Io non sono Ottaviano. E... E comunque vi avevo già detto che mi stava bene.”

La Sforza, a quel punto, sospirò e mormorò un 'va bene', chiedendo poi al figlio se gli andasse di bere qualcosa con lei, dopo cena.

“Se non avete da fare...” provò a dire lui, sia per sondare il terreno, sia per permettere davvero alla donna di smarcarsi, nel caso avesse preferito passare l'intera notte con il piovano.

“No, stanotte non ho assolutamente nulla di meglio da fare che bere un po' di vino con mio figlio e parlare con lui di guerra, politica e affari di famiglia.” assicurò lei.

Galeazzo, felice di avvertire una nota sincera in quelle parole, raddrizzò le spalle e ribatté: “Grazie, ne sono felice anche io.” poi, appena prima di congedarsi, soggiunse: “Magari una di queste sere proponetelo anche a Bernardino. Penso che gli farebbe piacere.”

Stringendo le labbra, Caterina annuì, incerta, però, se seguire o meno il consiglio nel breve termine, e poi, cambiando espressione e facendosi perplessa, chiese: “Bianca non ha mandato nulla per me..?”

Il Riario alzò le sopracciglia: “Nella mia lettera fa cenno a una missiva anche per voi, ma per ora non è arrivato nulla...”

“Aspetterò.” concluse la donna e poi, rinverdito l'invito per quella sera, salutò il figlio e tornò a chiudersi in stanza, nella speranza di poter rimettere in ordine i sentimenti confusi che le ultime ore le avevano portato.

 

Era notizia proprio di quella mattina che il fuggitivo Francisco Troches fosse stato ritrovato in Corsica e che, prontamente, fosse stato imbarcato per essere riportato a Roma e lì preso in consegna dalle guardie papali e spedito a giudizio.

Nell'ambiente Vaticano, a quanto pareva, non si parlava d'altro o, meglio, non si voleva parlare d'altro. Troilo, invece, sapeva che la vera notizia di quei giorni era un'altra, anzi, erano altre due.

La prima, non molto facile da valutare come notizia negativa o positiva era il rifiuto ormai certo di Venezia dinnanzi alla proposta di stipulare un accordo con i Borja e la Spagna. Si trattava di un concordato che era stato tenuto accuratamente sottotraccia, dato che non sarebbe stato molto onorevole, da parte del papa, allearsi con gli spagnoli, mentre questi combattevano contro i francesi nel sud dell'Italia. Quindi, se da un lato il progetto politico di Alessandro VI naufragava, dall'altro c'era la possibilità che il re di Francia non venisse mai a scoprire i veri contorni di quell'iniziativa, lasciando, quindi, che i rapporti tra lui e il papa restassero quanto meno freddamente cordiali.

La seconda novità, che si sarebbe concretizzata il primo giugno, riguardava la nomina di una decina di nuovi Cardinali, tra cui spiccava il nome del Vescovo di Volterra, Francesco Soderini, fratello del Gonfaloniere a vita di Firenze.

Il De Rossi, quando aveva saputo di quella mossa del papa, era rimasto incerto sulla lettura da darvi. Da un lato era pur ovvio che il pontefice, in quanto tale, nominasse Cardinali dove credesse servissero, tuttavia la delicata posizione che il Vaticano aveva ormai acquisito nei confronti di Firenze, rendeva quella nomina molto particolare, sia per il tempismo, sia per il nome scelto.

Era ormai quasi sera, quando Troilo riuscì a sganciarsi finalmente dai suoi impegni nei palazzi pontifici – impegni, a suo modo di vedere, sempre più vani e vaghi – e tornare dalla moglie. Non vedeva l'ora di discutere con lei delle ultime nuove, ma quando giunse al palazzo dei Riario, non la trovò nel salone, ad aspettarlo come sempre.

“Sta riposando in camera – spiegò Creobola, che aveva avuto l'ordine di attendere l'Emiliano al posto della sua padrona – e ha chiesto di dirvi che, se volete, la potete raggiungere e cenare con lei in stanza, che ne avrà grandissimo piacere, o, se preferite, cenare nel salone e raggiungerla più tardi, che le starebbe bene ugualmente, avendo da recuperare del sonno arretrato di stanotte, che voi sapete bene il motivo per cui se n'è privata.”

Troilo, che si stava via via abituando sempre di più alla capacità della serva di riportare parola per parola i messaggi che le veniva chiesto di riferire, annuì e ribatté: “Fateci portare una cena abbondante in camera.”

A passo svelto, quasi correndo, l'uomo raggiunse Bianca e la trovò, in effetti, assopita a letto, in una penombra che, per qualche istante, gli fece presagire qualcosa di brutto.

“Stai bene?” le chiese, avvicinandosi.

La giovane sbadigliò, sorridendo e gli chiese di aprire gli scuri, prima di rispondere: “Ero solo un po' stanca...”

Mentre diceva così, però, fece una smorfia e si toccò il ventre. Il marito, notando con la coda dell'occhio quel movimento, le chiese di nuovo se stesse bene e questa volta la Riario si accigliò e restò qualche secondo in silenzio, prima di parlare.

“Da stamattina ho qualche dolorino che non mi spiego...” poi, prima che il De Rossi potesse infilare mezza parola, proseguì: “Ho già visto la levatrice e ha detto che non è nulla. Secondo lei non sta succedendo niente di particolare... Si tratta solo di un bambino un po' impaziente.”

L'uomo si andò a sedere sul letto, diede un bacio alla giovane, si tolse i calzari e poi si sistemò accanto alla moglie e le chiese, serio: “Pensi che possa nascere prima del tempo?”

“Io penso solo che dobbiamo andarcene da qui il prima possibile.” sussurrò lei, quasi vergognandosi della pressione che metteva ormai quotidianamente a Troilo.

Sapeva bene che non dipendeva del tutto da lui, quella situazione. Era un uomo cauto e assennato e anche lei era cosciente del fatto che per il momento, stante la situazione complicata e l'insistenza del papa nell'averli lì, era imprudente agire di propria iniziativa.

Tuttavia non desiderava altro che lasciare Roma, una città che l'aveva vista bambina, che l'aveva vista nascere, ma che l'aveva vista anche bambina infelice, tra due genitori che si odiavano e poi sposa felice del proprio matrimonio, ma costretta a una messa a letto umiliante e di cui tutti, ancora, non perdevano occasione di parlare in sua presenza. Non conosceva San Secondo, non sapeva che problemi avrebbe trovato lì, né che vita avrebbe avuto tra le mura della rocca disastrata che suo marito le offriva come dimora, ma era certa che tutto sarebbe stato meglio di Roma.

“Se il bambino dovesse nascere davvero settimino – soffiò la Riario, giocando l'unica carta che, ultimamente, sembrava far davvero effetto al De Rossi – nessuno lo crederebbe un bambino di cinque mesi appena...”

“Hai ragione.” fece l'uomo, grattandosi il mento su cui, come ogni sera, ricresceva rigogliosa e bionda la sua folta barba: “Ma dubito che riusciremo a partire di qui prima di luglio.”

A quel punto, Bianca non disse più nulla, ma decise di accantonare il pensiero e cercare di godersi le poche cose belle di Roma, nel dettaglio, la compagnia di Troilo.

Parlando del più e del meno con una facilità che impressionò il marito, la giovane raccontò la sua vuota giornata, cercando, però, di non farla sembrare poi così vuota. Era sempre stata abituata a darsi da fare, a lavorare, a studiare, a rammendare e a cucinare. In quel palazzo, invece, a parte leggere, non poteva fare assolutamente nulla. Se fosse scesa nelle cucine, di certo sarebbe stata additata come strana. Se avesse ricamato qualcosa, o se avesse cercato di confezionare un abito, qualcuno avrebbe detto che si sarebbe rovinata le mani, cosa che non era permessa, a una Marchesa... Ancora più impossibile sarebbe stato uscire per una passeggiata o, per assurdo, chiedere di poter accompagnare il marito nei suoi impegni ufficiali dal papa.

Quando Creobola portò la cena – s'era fatta punto d'onore di essere l'unica serva ammessa nella camera nuziale dei De Rossi – marito e moglie restarono in silenzio finché il tavolinetto non fu apparecchiato a dovere e poi, rimasti soli, cambiarono del tutto tono.

“Pier Maria come sta?” chiese Troilo.

L'uomo non aveva un contatto diretto con la Tigre, lasciava che fosse Bianca a scriverle, e per questo aveva notizie del figlio solo tramite lei. Non chiedeva spesso, sapendo che la moglie mandava messaggi alla madre solo di rado, per minimizzare il rischio di intercettazioni, ma ogni volta la Riario era ben felice di rispondergli.

Quella volta, invece, pareva un po' turbata: “Sta bene, mi ha fatto intendere che è come sempre in salute e di buona voglia...” sospirò: “Tuttavia da un po' sono in pensiero... Tanto che ho scritto anche a mio fratello.”

Non c'era bisogno di chiedere a quale fratello stesse facendo cenno, visto che Troilo sapeva che Galeazzo era l'unico Riario a cui la giovane a volte scriveva direttamente.

“Per dirgli cosa..?” domandò quindi, messo in allarme più che altro dal tono usato dalla moglie.

“Stanno cambiando tante cose, in Italia...” fece lei, un sopracciglio alzato: “Mi sono chiesta cosa succederà, quando Ottaviano tornerà a Castello e capirà la vera identità di Pier Maria...”

Il De Rossi ne approfittò per ragguagliarla velocemente sulla nomina a Cardinale del Soderini e sulle giravolte mancate del papa, dell'alleanza saltata con la Spagna e di tutto quanto d'altro avesse sentito quel giorno in Vaticano, e poi chiese: “Quindi, pensi che anche alla luce di tutte queste cose tuo fratello possa tornare a Castello? Cos'hai scritto a Galeazzo?”

“Gli ho scritto di proteggere nostro figlio a ogni costo.” rispose lei, guardando la minestra che si raffreddava nel piatto: “Anche se dovesse mettere a tacere Ottaviano con la forza. Non deve, per nessun motivo, spargere la voce che Pier Maria è nostro figlio e che è nato prima che ci sposassimo, o sarebbe stato tutto inutile...”

Soffiando sul brodo caldo, il De Rossi chiese: “E Galeazzo lo farebbe? Intendo... Ne sarebbe capace?”

“Troverebbe un modo.” assicurò Bianca.

“Anche se il modo fosse farlo tacere davvero con la forza?” si informò l'uomo, sorbendo un sorso di minestra e masticando lentamente i maccheroncini che vi trovò dentro.

“Non lo ucciderebbe.” decretò la Riario, con certezza quasi assoluta: “Ma ti assicuro: troverebbe il modo.”

“Mi affascinate, voi Riario...” si lasciò sfuggire Troilo, inclinando il capo di lato.

“Davvero?” Bianca non sapeva come interpretare quella frase, dato che era stata detta con voce atona.

“Be', tu sicuramente più dei tuoi fratelli...” fece lui, senza trattenere un sorriso: “Ma, comunque, trovo che siate stati cressciuti in un ambiente come dire... Poco convenzionale.”

“Non posso darti torto.” asserì la giovane, con un sospiro, tornando a mangiare.

“Lo so che ti pesa soprattutto l'inattività.” disse, dopo un po', il De Rossi, tagliando la carne per entrambi: “E ti assicuro che quando saremo a San Secondo avremo da fare tutto il giorno, tutti i giorni... Ci serve solo ancora un po' di pazienza.”

“Aspetterò.” concluse Bianca, con un'alzata di spalle.

Troilo smise per un istante di tagliare la carne arrosto che aveva dinnanzi e allungò una mano fino a prendere quella della moglie, stringendola appena, in segno di vicinanza: “Adesso mangiamo e poi ci riposiamo un po'... Se hai avuto tutto il giorno quei dolori è meglio che...”

“Al diavolo i dolori.” rise lei, ammiccando appena: “Ho aspettato tutto il giorno che tornassi, adesso non mi puoi scappare tanto facilmente.”

Ridendo, l'uomo riprese a tagliare la carne e commentò: “Allora sarà meglio riempirsi per bene la pancia, o potrei non riuscire a star dietro ai tuoi ritmi... Ho una certa età, ormai...”

 

   
 
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