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Autore: Chevalier1    25/07/2023    6 recensioni
Nata quasi per caso come una raccolta di one shot, iniziata con i turbamenti di una piccola Oscar alle prese con la scoperta di essere una bambina, è diventata di fatto una serie di notti agitate lungo la cronologia dell'anime.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: André Grandier, Generale Jarjayes, Marron Glacé, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Da tutta la vita mi aspetto che il mio corpo mi tradisca. So - da quando so che cosa significa essere donna - che perderei ogni scontro diretto che si mettesse solo sul piano della forza. Per anni, durante la crescita, ho convissuto con il recondito timore che la maturazione di forme femminili togliesse credibilità al mio ruolo di ufficiale fino a coprirlo di ridicolo. Dal primo giorno ho messo in conto la morte in battaglia.

Con il rischio di una ferita da arma da taglio o da fuoco, per quanto possibile, ho fatto pace. Son consapevole da sempre che è un incerto del mestiere: quando succede, perché ogni tanto succede, sai che se non è immediatamente mortale, ti apre le porte di un inferno in terra, lungo o breve, da attraversare: ferri che intrudono, tagliano, cuciono carne viva. Dolore senza altro ausilio che quello dello stordimento di un sorso di acquavite se il corpo non è troppo debilitato e di qualcosa da mordere. Lì per lì è una devastazione. Ma se il danno non è permanente, se non subentra un’infezione, se ne esce dopo un tempo incerto ma finito. Come tutti gli esseri umani vorrei che mi fosse risparmiato il dolore, ma quando capita mi armo di pazienza e resisto come posso, perché so che è questione di tempo, che finirà.

Mio padre ha formato con rigore senza cedimenti anche quell’aspetto del mio carattere. Mi ha allenata a resistere. Per quanto possibile, a questo sono preparata. La menomazione, lo ammetto, è un rischio che conosco ma lo rimuovo, come un fantasma, perché mi fa paura: però so che c’è, ho rischiato due volte di perdere un braccio per un colpo d’arma da taglio. Sono i momenti più duri: più del dolore mi logora l’incertezza, mi divora l’ansia di non tornare quella di prima. Mi pesano le convalescenze, un limite per il quale il dottor Lassone mi prende sempre in giro, dice che sono come mio padre: che per noi non c’è tortura peggiore che darsi il tempo di una lenta guarigione.

Stavolta è diverso. Il destino ha colpito alle spalle, inatteso, a tradimento. Stavolta, dottore, ve lo giuro, pagherei per poter contare su una lunghissima convalescenza e invece sarà solo una lenta e triste agonia. L’avrai, Colonnello, il coraggio di affrontarla con dignità? Mai avrei pensato che il mio corpo mi tradisse in questo modo. Non era nel conto. Non ora. A questo graffio che mi raspa dentro a ogni respiro, a questo fendente che mi accoltella al petto a ogni colpo di tosse non ero preparata. Non ero preparata a questa debolezza da vecchi che mi consuma a 33 anni. Non sono pronta allo stillicidio che a ogni respiro affannoso mi ricorda che la clessidra della mia vita è stata voltata e che la sabbia sta precipitando velocissima, inesorabile, rammentandomi a ogni respiro che il mio tempo è corto e corre via.

***

Il dottor Joseph Marie François de Lassone non era abituato a portarsi a casa i problemi di lavoro, teneva per sé i molti fallimenti della sua debole scienza troppe volte impotente davanti alla malattia. Chiuderli fuori dalla soglia di casa era il suo modo di sopravvivere al carico di dolore quotidiano. Non che non lo tenessero sveglio la notte le preoccupazioni quando un paziente lo teneva in ansia perché non tutto andava nel senso previsto, soltanto quando accadeva faceva sempre in modo che non gravassero sul resto della casa.

Ma quella visita fuori programma a tarda sera, forse perché arrivata imprevista dopo cena, nelle ore che normalmente riservava a quella che chiamava tra sé la decompressione, tra chiacchiere in famiglia e buone letture, proprio non riusciva a chiuderla fuori dalla porta.

Non riusciva a togliersi l’immagine delle mani ferme di quella ancor giovane donna bellissima che si rinfilavano i guanti bianchi con apparente distacco, come se non le avesse appena contato davanti i giorni che già sapeva contati. Si rimproverava di non essere stato capace dello stesso distacco. Si rendeva conto di non essere stato convincente e forse neanche abbastanza accogliente, capiva che Oscar François de Jarjayes non avrebbe sfogato la sua disperazione e la sua umanissima paura con nessuno, neanche con lui e se ne dispiacque. Temette di averla consegnata alla solitudine. La conosceva da quando era nata ed era sicuro di avere di fronte una delle persone più coraggiose che avesse mai conosciuto. L’aveva vista crescere così. E l’aveva ammirata, per come aveva seguito la via irta di ostacoli che il padre le aveva imposto dandole un nome maschile e scegliendosela come erede nella carriera militare. Gli piacevano la sua arguta intelligenza e il rapporto di reciproca stima che avevano instaurato con gli anni, complici i tanti accidenti del mestiere che la portavano a consultarlo spesso. Sapere di non potere più fare niente per lei gli dava una pena infinita, perché le voleva bene come a una figlia: gli sembrava un’ingiustizia tremenda il fatto che la vita le avesse riservato, dopo una strada impervia, un destino così ingrato. Avrebbe voluto darle una speranza che non possedeva. Per un attimo se la prese con quel Dio cui non credeva.

«Non dormite, Joseph?»

«No...».

«Posso fare qualcosa per voi?»

«Purtroppo no».

«Posso chiedervi che cosa vi angustia?».

«Vorrei non dirvelo, angustierebbe inutilmente anche voi».

«Riguarda la visita ritardataria di questa sera?».

«Purtroppo sì, uno dei compiti ingrati che si vorrebbe non avere mai».

«Posso alleggerire la vostra pena?».

«Purtroppo no: una diagnosi infausta a una persona che stimo molto, cui sono affezionato».

«Le avete detto la verità?»

«Sì».

«Non avreste potuto stare nel vago?»

«No, perché aveva già capito: è troppo intelligente per credere alle bugie con le gambe corte, e poi perché non me l’avrebbe perdonato: la franchezza è parte integrante della fiducia che mi accorda da decenni. Infine, perché spero che non mi ascolti, che viva fino in fondo tutto quello che le resta. Spero, suggerendole il contrario, di averle dato la spinta a farlo».

«Impossibile: agli ordini dei medici ci si attiene, specie quando si teme di morire».

«Non la conoscete».

«È una donna?».

«Sì, ma diversa dalle altre».

«Le siete legato?».

Lassone rise nel buio prendendo la mano di sua moglie.

«Non nel modo in cui potrebbe pensare una moglie gelosa. L’ho vista nascere, l’ho vista crescere, mi sarebbe piaciuto che fosse così la figlia che non abbiamo avuto, penso a suo padre in qualche modo un amico, un padre difficile, ma che l’ama di un amore che non sa dimostrare e che gli lascerà un carico pensantissimo di sensi di colpa, per cui, dopo, non si darà pace».

Si avvicinò alla moglie e la strinse nel buio, anche se era una tarda e calda primavera sentiva freddo.

Quando l’alba fu sufficientemente chiara si alzò e sedette allo scrittoio:

«Gent. Madamigella Oscar, vorrei che non dimenticaste mai una cosa: potreste avere bisogno di qualcuno che vi ascolti nel tempo che verrà, desidero che sappiate che la mia porta per voi sarà aperta senza orari alla condivisione di qualsiasi pensiero. Non esitate, ve ne prego».

Con stima

Dr. Joseph Lassone

Lo chiuse con il sigillo di ceralacca e appena l’orario lo consentì lo affidò riservato e personale per il Colonnello Oscar François de Jarjayes a un messo diretto alla caserma della Guardia francese, dove nessuno avrebbe potuto intercettarlo.

***

«Se non farete questo voi non vivrete più di sei mesi».

Nel buio di un’altra stanza sotto il baldacchino Oscar François de Jarjayes sentiva rimbalzare dentro la testa, con la freddezza del suono metallico di una chiave buttata in una grata, le parole che avevano scritto nella pietra il suo destino. Lo aveva intuito da tempo, ma un conto è sapere, altro sentirselo dire: contare i giorni.

Sapete meglio di me, dottore, che quel se è soltanto un modo di non dirmi brutalmente in faccia quello che sappiamo tutti e due: è già troppo tardi e anche se non lo fosse i rimedi che abbiamo a disposizione nulla possono contro il tarlo che si sta mangiando i miei polmoni. Per questo so che mi perdonerete se non vi obbedirò, ma coglierò invece per contrasto il consiglio che indirettamente la vostra franchezza mi ha dato: vivere ogni giorno come se non ci fosse un domani, assaporando a fondo tutte le emozioni che questa divisa ha coperto fin qui, senza lasciare niente di importante in sospeso. È il contrario di quello che mi avete chiesto, dottore, lo so, ma obbedirvi significherebbe congelare la vita e il cuore per spostare di qualche giorno la notte più in là, chiudersi in una campana di vetro ad attendere la morte. A quale prezzo? Incominciare a morire ora? È questo che vorreste per voi a 33 anni, dottore? Se un po’ vi conosco, se anche sapeste di avere un solo giorno davanti lo spendereste a salvare l’ultima vita se la vostra scienza ve ne desse la facoltà, a soccorrere l’ultimo ferito, ad amare fino all’ultima goccia le persone che amate, a dare una speranza di mondo migliore a chi resterà dopo di voi.

Sono stata lontana dalle emozioni per troppo tempo, dottore, le ho represse, sotto la corazza algida che ben conoscete, così ben salda che faccio fatica a rimuoverla anche ora, nel momento più difficile della mia vita: mi stavate dicendo che sto per morire di tisi e son venute le lacrime a voi, non a me. Eppure vi assicuro che non sono mai stata attaccata alla vita come in questo momento in cui l’amore mi sta travolgendo: non proverò a fermarlo stavolta, vivrò scegliendo per me, seguendo la strada che mi avete indicato in quel primo colloquio che non ho mai dimenticato (1). Vi ringrazio dottore, con le vostre parole franche mi avete dato la forza di rompere la corazza, di superare le mie paure ancestrali, di prendermi a qualunque costo la libertà di essere la persona che voglio davvero essere, anche se non piacerà a mio padre, ai miei superiori, al re di Francia.

La tosse non dava tregua, troppo difficile gestirla da distesa, sforzandosi di restare supina per il timore di macchiare di sangue il cuscino e tradire quello che voleva restasse un segreto. Si alzò a sedere, con la sensazione di respirare un po’ meglio, scelse di vestirsi anche se fuori era ancora buio. In piedi le pareva anche di pensare con maggiore chiarezza.

Me la sono presa con te André perché mi nascondi il tuo problema all’occhio destro, ma è una cosa stupida. So perché taci, per la stessa ragione per cui lo faccio io: non voglio vedere la mia fine nell’ansia del tuo sguardo ogni volta che lo incrocio. Finché non sai di me, finché non sai che io so, possiamo tenere a bada ciascuno la propria paura per proteggere l’altro dalla sua e di riflesso restare saldi l’uno nell’altro. Sarà un equilibrio precario, ma finché riusciremo a mantenerlo vivremo pienamente. Quando l’irrimediabile verrà lo affronteremo.

Adesso non ho più paura di amarti, adesso o mai più e dunque adesso. Se non ora, quando? Solo una cosa mi turba: la ragione mi dice che la cosa giusta da fare sarebbe allontanarti da me e congedarti d’imperio, per provare a risparmiarti il dolore del dopo, per proteggerti dai rischi che corri a causa della vista annebbiata e nell’amarmi senza sapere che il nostro “per sempre” ha i giorni contati, ma so che è l’ultima cosa che vorresti: non mi perdoneresti se lo facessi. Ti ho già ferito allontanandoti una volta, non lo farò più.

Proverò a convincerti a congedarti per non rischiare, ma ti lascerò scegliere. Conosci i pericoli che corri, se non te ne vai è perché vuoi rimanere. Ed è l’ennesima prova che mi ami ancora. Anch’io ti amo, André. Adesso lo dico a testa alta, non ho più paura di niente, André, se non della notte che sta per venire. Spero solo che mi dia il tempo e la forza di darti il meglio di me nel poco che resta. Vorrei tanto non aver perso e non averti fatto perdere così tanto tempo. Non posso rimediare, non posso tornare indietro, ma posso, voglio, darti tutto di me.

Sono pronta a tagliarmi i ponti alle spalle. Guarderò solo avanti, per te, con te, finché Dio vorrà.

(1) Il passo si riferisce al capitolo 5 di questa raccolta.

   
 
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