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Autore: sacripante23    06/08/2023    0 recensioni
[https://it.wikipedia.org/wiki/Cronache_del_ghiaccio_e_del_fuoco]
[https://it.wikipedia.org/wiki/Cronache_del_ghiaccio_e_del_fuoco]
Il notaio criminale scoppiò in una risata fragorosa.
“E' sempre una questione di denari, Dante. Per ottenere grazie femminili, conforto religioso, la sicurezza... Gli uomini come te e come me, siamo degli alchimisti: impugniamo il ferro per ottenere oro” e toccava col palmo della mano l'arma portata alla cintura.

Braavos, la città rinascimentale che richiama in sè la galassia delle Signorie Italiane.
La Città Segreta, luogo di maschere pragmatiche, dove il guadagno fà da padrone, ma anche un luogo aperto e ferocemente anti-schiavista. Caratteristiche che ne fanno una macchia bianca che risplende nel mondo grigio e crudele descritto da G.R.R. Martin.
Ma cosa sappiamo veramente di lei e delle persone che la vivono?
In un racconto che incrocia le atmosfere da Cappa e Spada delle opere di Arturo Perez-Reverte e quelle Poliziesche di Raymond Chandler, uno spadaccino onesto, ma tremendamente cocciuto, entra nelle trame di Targaryen e Martell all'ombra del Titano.
Questo racconto ha lo scopo di offrire a chi legge momenti di svago e divertimento. In caso contrario chiedo ai lettori aiuto per migliorare in futuro e mi scuso in anticipo perchè, come diceva ben altro Autore, "non s'è fatto apposta"
Genere: Avventura, Azione, Noir | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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"Troverete nel calle parallelo a Via della Meridiana, all'interno dei cancelli, una piccola magione con le mura imbiancate e una porta rossa. Siate lì al tramonto" aveva detto il Cigno Bianco. 
Restava ancora una traccia di chiarore nel cielo; ma i vicoli stretti, sotto le gronde scure dei tetti, erano neri come le fauci di un lupo, resi ancora più difficili da osservare dalla leggera foschia che saliva dall'acqua. Dante aveva scelto una traversa angusta, scura e deserta, per aspettare che la porta si aprisse. L'aria stava rinfrescando e lo spadaccino si era alzato il bavero della nuova cappa, comprata con l'anticipo ricevuto. Nel farlo si sfiorarono la cinquedea e l'impugnatura del costoliere. Anche quella notte aveva indossato il "martin pescatore" e ai piedi, i vecchi stivali dalle suole comode e sciupate che gli avrebbero permesso di tenere i piedi ben saldi a terra nell'eventualità di doversi muovere con rapidità. 
Sotto il panno caldo, la mano sinistra riposava sul pomo del costoliere. Per un attimo, gli tornarono alla memoria i combattimenti ed il numero di uomini che aveva ucciso. Due uomini, si era risposto. Senza contare i casi equivoci legati a guerre, più o meno dichiarate dalle Città Schiaviste. Di essi uno in duello con un Bravo ed un'altro per ragioni di servizio. Entrambi uomini fatti, capaci di difendersi e, almeno per il secondo, un furfante conclamato, della peggior specie. Erano tutti casi di legittima difesa, mentre assolveva al compito affidatogli dal proprio cliente o nelle ronde rionali. Questa era una prerogativa importante, per lui; Dante dei Liberti, a differenza di bravacci mercenari, non accoltellava mai un uomo alle spalle e mai per questioni futili, ma durante il suo servizio come Lancia Spezzata. 
Il sole era tramontato e si era persa l'eco del bargello che annunciava la chiusura dei cancelli. Tutti quelli che non erano cittadini braavosiani avrebbero dovuto lasciare le strade interne; molti si sarebbero diretti verso la zona del Porto degli Stracci, altri, grazie ad amici e conoscenti, avrebbero trovato rifugio in case accoglienti. Per i pochi rimasti non restava che affidarsi alla buona sorte di non incappare nelle ronde rionali o nei giri dei berretti, oppure trovare rifugio nei crocicchi di bravi che imperversavano presso la Pozza Lunare e i rioni adiacenti. 
Lui avrebbe terminato il suo compito e poi sarebbe tornato al suo tugurio, come aveva fatto le tre notti precedenti. protetto dalla sua piuma purpurea e dalla carta nel tubo di latta alla cintura, che lo dichiarava membro della condotta ducale. Ma questo sarebbe stato molto più avanti nella notte, con berretti che brontolavano sotto le palpebre pesanti a proposito di ubriaconi e nottambuli. 
Finalmente, la porta iniziò ad aprirsi, quasi timorosa del mondo esterno. Metà di essa era sparita sotto l'arcata del muro che circondava la casa, mentre, come d'accordo, il condottiero si fece trovare posizionato dal lato dei cardini. 
"Che cercate?" chiese una voce gutturale proveniente dall'interno
"Una mezza damigiana di spirito chiaro dell'angiporto di Lys" aveva ribattuto Dante
Rassicurata, la porta aveva proseguito il suo percorso verso l'interno. Quattro figure erano velocemente scivolate fuori, prima di rinchiudersi la porta alle spalle. La luce del lampioncino sopra l'ingresso, permetteva di scorgerne le fattezze. Avevano tutte più o meno la medesima altezza e portavano indosso un mantello, con il cappuccio calcato sulla testa di ognuno. 
Se durante la prima serata c'era stato qualche incertezza o dubbio, ormai il gruppo era ben rodato e non ci fu necessità di dire nulla. I quattro si disposero a losanga, in modo che uno di essi camminasse accanto allo spadaccino, la precisione e il sincronismo nei movimenti era tale che sarebbero rimasti alle stessa distanza fra di loro anche una volta iniziato il tragitto. 
Durante la prima serata il compagno di passeggiata del condottiero era stato ser Robin, mentre ora l'uomo corpulento aveva preso il suo posto. Anche questi portava legata alla cintola una pesante spada, anche se faceva di tutto per dissimulare. Sembrava che fosse l'arma di predilezione di ogni mercenario proveniente dai Sette Regni. La lunga punta andava ritmicamente a battere contro lo stivale sinistro, intralciandone i movimenti e conferendogli un'andatura incerta, quasi da zoppo. 
Gli altri due uomini, a metà strada fra Ser Robin e l'altro, si muovevano con maggiore familiarità nell'ambiente pieno di canali e ponteggi più o meno improvvisati per attraversarli. Indossavano delle scarpe morbide, che strusciavano sul terreno e facevano un notevole contrasto rispetto alle calzature più rigide e pesanti dei loro compagni.
Sebbene non dicessero mai una parola, Dante avrebbe potuto giurare che gli individui con le scarpe, sebbene non aprissero mai la bocca, fossero pentosiani. Gli ampi mantelli non riuscivano a mascherare completamente i sottili abiti colorati che indossavano. Vi erano poi altri piccoli fattori, come l'abitudine a muoversi fra vicoli stretti, la scelta di suole capaci di adeguarsi al selciato malmesso come al terreno reso sdrucciolevole dall'acquerugiola che li aveva bersagliati la prima sera.  
Fin da subito Dante, superato lo stupore quando gli avevano comunicato la loro meta, aveva optato per un percorso relativamente diretto, ma che stesse lontano dalle zone battute dai Bravi, muovendosi, dove possibile, in zone ampiamente illuminate. Superato il Canale degli Eroi, si erano diretti verso la Lanterna Blu, che in quel periodo era deserta: la stagione dei spettacoli era appena terminata. Poco dopo il loro corpulento compagno era scivolato su di un bordo reso umido dalla pioggia e sarebbe finito in acqua se uno dei suoi compagni non fosse intervenuto a sorreggerlo. Probabilmente portava una maglia di ferro sotto alla cappa a giudicare dalla difficoltà nel tenerlo in piedi. 
A poco erano valsi i consigli che il condottiero si era sentito in dovere di fare al cavaliere nero. Cocciutamente sia lui che l'uomo corpulento continuavano ad indossare vestiti ed armi che li avrebbero fortemente rallentati in mezzo alle viuzze e ai passaggi stretti di cui Braavos era costellata. In questa occasione Dante aveva potuto come fosse il cavaliere nero a fare da interprete visto che l'altro parlava solo la lingua ponentina, a parte una manciata di parole in valiriano monco. 
Dopo il teatro, avevano preso a costeggiare il Porto Viola fino alla loro destinazione: un grosso dromone con la parte poppiera molto alta e finemente intagliata. Sembrava più il capolavoro di un grande ebanista che una nave da guerra. Ma nessuno a Braavos avrebbe mai sostenuto che la Saetta, nave ammiraglia della flotta e prediletta imbarcazione del Duca, non fosse in grado di dare battaglia. 
Appena aveva sentito quel nome, Dante aveva ripensato alle parole di Meridio che avevano assunto tutt'altro significato. Non si stupiva più che il cavaliere nero potesse abitare in una piccola magione all'interno dei Cancelli, nè di quanto avesse visto le notti successive. 
Durante la seconda uscita, su insistenza dei suoi clienti, avevano tagliato la Città da ovest ad est. Superate le Isole degli Dei, a monte del Lungo Canale, costeggiarono un tratto del Dolceacque, prima di arrivare da oriente in vista della Saetta, toccando Piazza delle Gilde, la Banca del Ferro e la Pozza Lunare. Il viaggio aveva richiesto più tempo anche a causa della cattiva illuminazione in quella parte della città, così vicina alla Ripamota. La presenza di lampade e lampioni pubblici infissi in muri ed archi era molto ridotta rispetto alle zone attorno ai Cancelli del bargello. 
Quella sera un leggero venticello aveva spirato per buona parte del tempo ed aveva aiutato a dissipare la presenza della caligine. Il fronte del Porto Viola, con le sue lampade disseminate per tutta la sua lunghezza, si stagliava in bella vista; così Dante aveva potuto assistere all'arrivo di una mezza dozzina di armigeri, armati di lance e giavellotti, che attorniavano un uomo dalla figura alta e slanciata. Muovendosi, producevano un rumore cadenzato, anche se attutito da drappi di colore grigio, mantelli, cappelli e sciarpe, che indossavano fino all'altezza della bocca. La figura posta al centro, sotto al mantello lasciato leggermente aperto, indossava una veste simile ad un caffetano con i risvolti in pelliccia, i colori erano scuri anch'essi, ma in due varietà di rosso che permetteva di osservarne gli arabeschi ricamati. 
Al loro sopraggiungere, gli armigeri si erano arrestati a difesa del loro protetto. Questo, invece, si era limitato ad osservare con attenzione i nuovi venuti. Era bastato che l'uomo corpulento, scostasse un lembo del cappuccio perchè, grazie alla luce presente, l'altro uomo si rasserenasse. Un leggero sorriso si era formato sul volto saturnino. 
Ogni volta giunti a destinazione, Dante aspettava che terminasse l'incontro a bordo in un salottino situato a metà del gigantesco dromone. Ogni volta si toglieva il cappello e la cappa, stando in piedi nella saletta decorata con arazzi di Myr, badava a non volgere lo sguardo verso il bicchiere di acquavite sopra al tavolo ricoperto di velluto verde accanto a lui.  
Non beveva mai quando aveva un incarico, sia in pace che in guerra, una di quelle cose che,  a suo giudizio, distingueva una Lancia Spezzata da un qualunque mercenario prezzolato. 
Accompagnato dallo stesso servitore in livrea ducale, sbarcava pochi minuti prima dei quattro uomini in nero. Non si erano più incrociati con l’altro gruppo di visitatori. Probabilmente si allontanavano a scaglioni, dando modo a tutti di svanire nella nebbia senza clamore. 
Durante il ritorno, l’atmosfera si faceva leggermente più rilassata. Lui era sempre in cima al gruppo, ma questo si scindeva in due coppie. Di retroguardia rimanevano i due individui smilzi, che continuavano a guardarsi alle spalle, con le mani sotto le cappe, probabilmente strette attorno ai pomi delle daghe o delle busilarde; ma il vero cambiamento era nell’atteggiamento degli altri due uomini. Il cavaliere nero confabulava con l'altro suo uomo usando quel loro linguaggio gutturale. Sembrava che gli incontri stessero dando i buoni frutti come ser Robin Darklyn sperava. Il tono della sua voce si faceva più squillante di quanto fosse stato in presenza del Cigno Bianco assumendo una cadenza quasi infantile. Il suo compagno non era da meno, anzi, la sua voce, che usava assai raramente, almeno a portata di orecchio del condottiero, assumeva un tono profondamente baritonale, tanto che la terza notte uno degli onesti cittadini di Braavos, svegliato dal rumore nel calle, aveva deciso di omaggiarli con il contenuto del suo pitale senza il consueto avvertimento. 
Non che fossero molte le occasioni per Dante di abbassare la guardia. ll terzo giorno, ad esempio, nel tragitto di ritorno, avevano incontrato un paio di Bravi che evidentemente avevano perso la strada. Si trovavano in un calle fra il ponte Primiera e le Isole degli Dei quando si erano incontrati. Confabulavano fra loro come forsennati, ma si erano zittiti non appena accortosi di non essere più soli. Intravedendo le armi sotto le cappe dei nuovi venuti, i due avevano insistito per misurarsi con quegli sconosciuti vestiti di nero. Dante era riuscito a ferire con il costoliere la spalla di uno dei due, prima che sopraggiungessero un gruppo di berretti della Terza Lama. In silenzio, le guardie avevano lanciato una veloce occhiata attorno, e, senza disturbare il condottiero, avevano raccolto la spada del bravo ferito e disarmato l'altro in modo efficiente e deciso. Altrettanto velocemente si erano dileguati, portandosi dietro i due frastornati bravacci, ma non prima che Dante riconoscesse in uno di essi  Lotario, venturiero e compagno ai tempi della galea Salda. 
Erano così giunti alla quarta escursione notturna, stavano procedendo per il medesimo percorso fatto la sera precedente. La serata era clemente e con la poca umidità la foschia rimaneva rintanata nei canali, disertando carrugi e campielli. Avevano appena terminato di costeggiare la zona dei templi, tenuti alla loro destra, quando, appena oltre il Tempio dei Cantori della Luna, si trovarono di fronte al punto peggiore di quel percorso. 
La strada era priva di corsi d'acqua, una cala secca, come era definita a Braavos. Partiva dalla traversa del Ponte Primiera, con la statua di quello che era considerato il primo Duca della città, costeggiava l’Imbarcadero dell'Iride, per poi descrivere un angolo retto e, superato il muro di recinzione del forno rionale, terminava davanti allo slargo di Campo dei Torrazzi, con le particolari forme alte e coniche delle case in quella zona. Il primo tratto con il suo angolo buio, stretto e deserto, era sicuramente il più adatto per un’eventuale imboscata, permettendo a chi avesse attaccato di sorpresa di arrivare immediatamente ad uno scontro ravvicinato senza dare il tempo di reagire. La sera prima era stato necessario deviare da quella parte a causa dei due bravi che avevano incontrato e Dante aveva cercato di proporre un altro percorso. 
Proprio all’Imbarcadero, in una piccola darsena, stavano i legni che i barcaioli pubblici utilizzavano per trasportare i fedeli alle rispettive isole di devozione o per i passanti che desideravano evitare di perdere tempo costeggiando l’intera area. Lo spadaccino avrebbe preferito accordarsi durante la giornata con uno di essi per aspettarli in un punto stabilito e tagliar fuori una buona fetta del percorso, passando al centro dei canali più ampi evitando che potessero saltare a bordo da una finestra o balconcino. Ma, dopo essersi consultati fra loro, il cavaliere nero aveva preferito mantenere un tragitto già conosciuto. In caso di intoppo, loro quattro avrebbero saputo percorrerlo da soli, evitando di coinvolgere un altro sconosciuto nella loro uscita. 
Pertanto ora i cinque uomini dovevano passare per quella strettoia. 
Il fuoco acceso sul tetto del tempio del signore della luce tingeva di rosa le case attorno a loro, agitando le ombre. Il condottiero, dopo aver ricontrollato che il costoliere uscisse agevolmente dal fodero, aveva impugnato la cinquedea e tratto da sotto il farsetto un piccolo fischietto in osso che aveva utilizzato come capo ronda in un paio di occasioni, pronto per chiamare aiuto che sapeva ormai aggirarsi in punti prestabiliti. 
Non fece a tempo a voltarsi per comunicare le sue intenzioni ai suoi compagni di viaggio. 
Sembrò come se un gigante avesse bussato alle porte della Città per chiedere di entrare. Il cupo rimbombo si rincorse fra gli stretti passaggi, accrescendo e giungendo alle loro orecchie da diverse traiettorie. Rapidi scambi di occhiate intercorsero fra I presenti, mentre il rumore si affievoliva, prima di assopirsi del tutto. Al suo posto fecero sentire la loro presenza i richiami dei fischietti delle ronde.
Poi li raggiunse il rumori di passi concitati. Molti. In lontananza.
Alcuni in avvicinamento. 
“Attenti!” urla Dante buttandosi a capofitto in avanti. 
Attorno a lui voci gridano in preda allo stupore e al dubbio. 
Due uomini gli vengono incontro. 
Sono sbucati all'improvviso dall'angolo che passa dal Ponte, intanto una massa scura si avvicina alla riva, alle sue spalle. 
Brevi riflessi rimandavano lo scintillio delle armi nelle loro mani. 
Ma tutto questo è secondario per il condottiero. La strada di fronte a lui è stretta e al momento questo è un vantaggio perchè impedisce ai suoi immediati avversari di attaccarlo in massa. 
Il primo cerca di mettersi in guardia con una mazza, ma non fa in tempo.
Dante gli butta in faccia il suo mantello arrotolato e lo liquida con un rapido colpo di cinquedea al ventre: il getto di sangue parte dalla punta della sua lama e si congiunge allo squarcio, come un'immagine cristallizzata nel tempo. 
Un secondo avversario ha in pugno un paio di brusilarde dalla punta ricurva. Le tiene con una presa alla rovescia, la medesima con cui il condottiero brandisce la sua cinquedea nella mano sinistra. 
Ma lui nell’altra ha il costoliere. 
L’assassino cerca di farsi sotto giocando di gambe. Un paio di passi a destra e sinistra, ritmati con altrettanti affondi con le armi, come se fossero gli artigli di una fiera. Ma non bastano. 
Dante si scosta leggermente di lato. Sfrutta la maggior lunghezza della sua arma ed esegue una granucola di colpi. Stoccate rapide e precise colpiscono busto e braccio. 
I primi rimbalzarono indietro con un suono metallico, mentre quelli al braccio strappano un grido di dolore all'uomo che getta a terra il coltello. 
L'uomo si riprende subito e con un ringhio è di nuovo in guardia con l'arma superstite. 
E tiene stretto al fianco il braccio ferito. 
Dante incrocia le proprie armi e con le punte rivolte all’esterno, si fa sotto. 
Si fida della copertura offerta dal proprio giubbetto. 
Sbatte con forza contro l’altro individuo che cade all'indietro. Ha sentito le punte delle lame conficcarsi nel bersaglio, ma non ha importanza. L'uomo si affloscia senza un lamento, ha battuto la testa contro uno dei pali che affiorano dall'acqua, . 
Il condottiero riprende un attimo di fiato e si costrige a guardarsi attorno: una imbarcazione, nera come la notte, si è accostata alla riva. Quattro figure sono scese ed gli altri li hanno impegnate, scongiurando che la minaccia lo prendesse alle spalle. 
I due uomini smilzi lavorano in coppia, impugnando piccole targhe in una mano e, nell’altra, ampie daghe, le mulinano, tenendo gli avversari sulla difensiva. 
Ser Robin ha abbandonato il mantello e, brandendo la spada che porta alla cintura, tempesta di colpi il brocchiello dietro cui il suo avversario si ripara disperato. 
In ultimo, l’uomo corpulento, limitato dalla grande cappa che indossa, ha appena fatto in tempo ad estrarre la pesante spada bastarda. Brandendola sopra la testa va all’attacco del quarto uomo. Questi tiene uno stocco, già proteso in avanti venendo in contro al suo avversario per infilzarlo prima che possa calare la sua arma. 
Un movimento alle sue spalle, improvviso, e il sicario si irrigidisce. Getta a terra l'arma e inizia a rantolare, piegandosi su se stesso. 
Uno stiletto spunta dal suo collo e Dante è a due passi di distanza, ancora in movimento. 
Si avvicina all'uomo corpulento che abbassa la bastarda con un grugnito ed un cenno in direzione del braavosiano.
E lo supera. Ha gli occhi puntati oltre.
Vi sono ancora due uomini sull’imbarcazione. 
La prima, a poppa, agita il braccio rivolto all'altro che, prendendo un attrezzo ingombrante ai suoi piedi, lo imbraccia e si rivolge verso la prua. Verso le sue potenziali vittime.  
Dante, con un grido strozzato, spicca un balzo, armi in pugno. 
La banchina dista un metro dall'imbarcazione. 
Per un attimo rimane come sospeso nell'aria. Ora riesce a vedere davanti a sè nettamente. 
L'uomo con la balestra, tira. 
Dante che atterra sulla barca. Il quadrello gli scivola accanto e prosegue verso il suo bersaglio. 
Grida di dolore e di rabbia si rincorrono fino alle orecchie del condottiero, cui unisce il suo. 
Il balestriere ha ancora un mezzo sorriso sulle labbra quando gli si avventa contro. 
La barca ondeggia furiosamente, con beccheggi e rollii inconsulti. 
Dante è sopra la faccia del suo avversario, a poche dita. Il puzzo di cipolla, pane raffermo e sudore gli entrano nel naso e sembrano invadere il cervello, ma incontrarono un muro fatto di rabbia. 
Una gran rabbia. 
La cinquedea mena fendenti al busto del sicario, ma senza effetto. Un ringhio di frustrazione si fonde al suo: l’altro sta accanendosi contro il suo corpetto, cerca un punto debole per lo stiletto che ha sfoderato. 
D’improvviso un’ombra si allunga su entrambi. 
Il condottiero cerca di muovere il costoliere contro l'altro avversario. 
Si tratta di un ometto e la luce rossastra gli evidenzia la ridicola barbetta, ma il braccio è bloccato dal balestriere contro il bordo della barca, in una morsa. 
Disperato, Dante scaglia la testa contro il naso del sicario. Esplode un lampo di dolore. 
Il braccio riesce a liberarsi ed inizia ad agitare il costoliere selvaggiamente, quasi dotato di volontà propria. 
L'ometto fa un balzo indietro a cui risponde un ulteriore, profondo scossone. 
Per la barca è troppo e si rovescia. 
L’abbraccio della gelida acqua della laguna fu paradossalmente la benvenuta per Dante. 
Il suo avversario, cadendo in acqua, aveva lasciato la presa e stava cercando di guadagnare la superficie, ma più si sbracciava e più andava a fondo. 
L'acqua era insozzata dal limo e dagli scarti della città, ma il condottiero potè intravedere i frenetici tentativi dell’assassino di liberarsi della cotta di maglia che portava addosso. 
Dante dei Liberti stava facendo altrettanto. 
A differenza dell’assassino, lo spadaccino conosceva a menadito il martin pescatore che portava addosso. Era un bel capo d’abbigliamento fatto in camoscio e pelo di bufalo del Gran Mare d’Erba dothraki. Al suo interno vi era racchiusa fra i due strati di pelle e tessuto una maglia di ferro formata da numerosissime listelle di metallo affiancate e cucite le une alle altre. Questo rendeva improbabile che un colpo di taglio o anche di punta di un’arma ad asta o a manico potesse fare più danno di quello della forza con cui era stato vibrato l colpo. Allo stesso tempo il peso rendeva necessario a chi lo portava un certo esercizio per imparare a muoversi agilmente. Ad esempio in una corsa a perdifiato per una banchina. 
Merito degli anni passati sotto le insegne di Braavos e del suo Duca, il condottiero era stato molte volte imbarcato ed aveva avuto la fortuna di incontrare diversi capitani, conestabili che sapevano il fatto loro. L’ambiente di un dromone o di una galea da guerra era per definizione piccolo e sovraffollato; ogni movimento doveva essere calibrato. In guerra questo faceva la differenza fra essere esausto di fronte al nemico oppure ancora in grado di vendere cara la pelle. In acqua permetteva di sopravvivere ad un principio di affogamento. 
Poi vi erano i sistemi di aggancio, che univano la parte davanti con quella posteriore, molto pratici ed intuitivi. Ci volevano pochi momenti per indossare il corpetto, ad esempio per l’attacco improvviso di una galea nemica, oppure per toglierlo; anche se immerso nell’acqua limacciosa, colto di sorpresa ed ansante per il combattimento. 
Riemerso, Dante si guardò intorno, boccheggiando: la corrente lo aveva spinto lontano. 
Lentamente nuotò verso il lembo di terra più vicino, una delle Isole degli Dei. Toccata terra, si sdraiò a riprendere fiato. 
Rimase a fissare le stelle senza vederle per diverso tempo. 
Ripresosi, provò ad alzarsi e si accorse che aveva ancora con sé il costoliere: ormai senza pensarci, aveva infilato al polso l'anello di cuoio che lo assicurato saldamente all’impugnatura dell’arma. Gli occhi di Dante vagarono dal costoliere al resto del suo corpo. 
Era completamente fradicio, intirizzito ed infangato, ma non aveva ferite a quanto poteva vedere. Anche la cicatrice che aveva sul fianco non pulsava in maniera rabbiosa come era solita fare: probabilmente il giorno successivo avrebbe sentito l’effetto di un paio dei colpi più forti che aveva dovuto subire, ma per il momento non se ne preoccupava. 
Indugiò con gli occhi sul tratto d’acqua dove aveva dovuto abbandonare il martin pescatore, cercando di imprimerselo bene nella memoria. Quel giubbetto era molto ben fatto ed il suo valore era di circa centoventi piastre, fatto da uno dei migliori armaioli della città, posto fra il Dolceacqua e Campofiore. 
Sarebbe stato un delitto perderlo. 
Inoltre la corrente lo aveva privato del suo cappello floscio con la piuma purpurea, avrebbe dovuto procurarsene un’altra al più presto. A parte quello non aveva più la cinquedea o lo stiletto, ma erano una perdita più accettabile. 
Alzatosi, superò un paio di rocce e, risalita una lieve area scoscesa che gli limitava la vista, si trovò davanti al tempio che occupava quell'isoletta. Gli scoppiò in gola una risata amara: era approdato vicino al tempio andalo dei Sette-oltre-l’acqua. 
Non si intravedeva nessuno all'interno; o il suo custode stava dormendo, oppure preferiva non uscire a vedere la causa del trambusto. Scuotendo la testa si mosse velocemente verso il ponte che collegava il tempio con la riva. 
Si era alzato un venticello fresco che rendeva ancora più penoso muoversi gocciolante per i calli. 
Dante si rammaricava di un'ulteriore perdita, il bel mantello appena comprato. Per fortuna quel giorno aveva deciso di fare un salto e depositare il resto dell’anticipo alla Banca del Ferro invece di tenerli sempre con sè o, peggio ancora, nel suo tugurio. Nella sua piccola cassetta alla banca, sarebbero stati al sicuro fino a che lui o i suoi eredi non fossero venuti a prelevarli. 
Si mosse per un paio di calli prima di riuscire ad orientarsi, per precauzione teneva il costoliere ben spianato davanti a sè. Era a poca distanza dal Campiello delle Cortecce dove si trovavano la maggior parte delle botteghe di ebanisti della città, ironicamente era anche il punto di approdo per l’isolotto dell’Albero Diga. Girando a destra, aveva imboccato la Strada dei Focolari. Si trattava di una delle poche, ampie, vie della Città, completamente asciutte, con i suoi caratteristici tetti punteggiati dagli innumerevoli camini di mercanti, dottori, ricchi artigiani e delle loro famiglie, che potevano anche permettersi la legna odorosa importata da Lorath e da Norvos e non solo la puzzolente torba come era costretta a fare la gente della Teppa.  
Gli sembrava di sentire l’eco dei suoi passi e scrutava con attenzione ogni anfratto e ogni ombra lasciata dalle lampade infisse nei muri. Era alla ricerca di un qualsiasi pericolo in agguato su cui sfogare la sua rabbia. A parte un paio di gatti ed un cane ringhioso, non ebbe modo d'incontrare anima viva. Nonostante cercasse di rimanere concentrato e non perdersi dietro ad inutili ragionamenti, davanti agli occhi si ripetevano le immagini dello scontro. Finì per chiedersi cosa fosse stato dei suoi compagni e che fine avesse fatto l'ometto che era sulla barca. Una barca completamente verniciata di color pece…
Si riscosse dai suoi pensieri quando avvertì nel silenzio della notte un lontano ronzio. Sembrava scivolare fra le case e mano a mano che avanzava si faceva sempre più intenso. Era passato per altri quattro o cinque rioni ben illuminati, ed ora sbucava sullo slargo della Cà Rossa, a nord di Campo dei Torrazzi. Arrivato allo slargo, il ronzio era diventato distinguibile come un gran vociare. 
Numerosi erano i capannelli di persone di fronte a lui. I cittadini bravosiani, svegliati nel cuore della notte dal rimbombo simile ad un tuono, si erano messi indosso i vestiti alla bene e meglio, alcuni armati di stocco o di bastone, e avevano deciso di curiosare per le strade nonostante i bravi. Riguardo questi, anche se si intravedevano fra il nugolo di persone alcuni tipici completi sgargianti, sembravano voler mantenere un profilo basso. Molto probabile che ciò fosse dovuto alla presenza di un gran numero di uomini delle ronde, armati di partigiane e supportato da un generoso contorno di spade, elmi e mazzapicchi delle guardie ducali, accorsi a vedere la causa del frastuono come tutti gli altri. 
Un muro della costituenda Ca’ Rossa era crollato e i vari pezzi si erano sparsi per tutta l'area circostante. Il resto della costruzione era rimasto sorprendentemente in piedi, ma molto probabilmente i muratori l’indomani non si sarebbero di certo rallegrati. 
Quella casa era divenuta una specie di attrazione per il circondario. Il progetto era stato voluto da Ferrego, il patriarca della casata Antaryon. Si diceva che il magistro avesse deciso di creare un nuovo palazzo per dare grande rilievo agli accordi siglati fra Braavos ed il nuovo Primo Cavaliere dei lontani regni ponentini. In realtà vi erano stati già accordi precedenti con quel nobile e coinvolgevano Città del Gabbiano, ma la nomina di quest’ultimo come favorito del nuovo re, faceva sì che acquisissero un valore ben più alto. e principale promotore, nonchè beneficiario, era stato proprio Ferrego Antaryon. 
E così era iniziato un progetto che voleva essere differente, anzi rivoluzionario, rispetto agli altri palazzi della città. Ad iniziare dal luogo, un’area precedentemente dimenticata a favore di altri luoghi ritenuti più centrali. Vi era poi l'utilizzo dei marmi ed altri materiali per la costruzione, si diceva provenienti da Dorne, che mostrassero colori caldi, che richiamassero l'idea del sole al tramonto. Infine la facciata, nei punti in cui era stata completata, era stata arricchita con decorazioni in terracotta per tutti e quttro i piani della struttura, in genere di ambiente silvestre. Era divenuta meta di curiosità e discussione per molti cittadini; chi affermava che si trattava di un lavoro pionieristico che avrebbe arricchito il panorama della città e chi lo denunciava come un obbrobrio, prodotto dalla vanagloria del magistro. A questo si aggiunga che i lavori sembravano non finire mai e gli avversari del potente uomo dicevano che le sue continue pretese stessero facendo ammattire i poveri architetti e mastri muratori, creando un cantiere infinito. 
E quell’ulteriore contrattempo, non era che l'ultimo richiamo per una città affamata di pettegolezzi Già c'era chi nei crocicchi si avventurava a calcolare di quanto sarebbe slittata la data di completamento. 
Così Dante era capitato in mezzo a quella baraonda organizzata. 
Per un attimo mosse la testa cercando di intravedere fra le figure dei curiosi se vi era traccia dei suoi compagni, invano. Probabilmente erano stati allontanati dai berretti, ma allora che cosa era accaduto con quel quadrello e con il grido che aveva sentito? 
Non ebbe tempo di pensare ad altro. Una donna lo stava occhieggiando con sospetto. Dante, rinfoderata l'arma, cercò di allontanarsi costeggiando lo slargo fino ad imbucarsi in un calle laterale, ma non fece in tempo. 
Un gruppetto di berretti doveva aver pensato di dare un’occhiata alle vie laterali. Trovandosi di fronte il condottiero, sfatto, sconvolto, armato, senza mantello nè cappello, ma con un farsetto zuppo d'acqua, non ebbero esitazioni: gli chiesero di consegnargli le armi. Ed in breve, giudati da un graduato lo scortarono verso la residenza ducale. 
   
 
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