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Autore: Neamh Moonstar    16/08/2023    4 recensioni
[SPOILERS SECONDA STAGIONE]
Le loro separazioni non erano mai per sempre. In fondo lo aveva detto anche Aziraphale stesso: "Nulla è per sempre".
Eppure la loro ultima lite era sembrata una ghigliottina: li aveva divisi così profondamente da lacerarli, così duramente da far mettere ad entrambi il punto su una relazione che pareva essere appena cominciata - o che era morta ancor prima di cominciare davvero.
Crowley si era sentito tradito, così tanto da dirsi che non sarebbe tornato dall'angelo nemmeno se gli fosse piombato davanti - in ginocchio, per giunta.
Peccato che fosse solo tutta una stupida storiella che si ripeteva per non ammettere quanto in realtà sperasse in un ritorno. Sperava in un chiarimento. Sperava in una svolta.
E adesso la svolta era arrivata così, di colpo, senza preavviso.
Dopo un anno intero da quel disperatissimo bacio.
Genere: Angst, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Metatron
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve, salve, salve!

Questa è la mia primissima long basata sulla seconda stagione. Ho deciso di iniziare a pubblicarla anche perché, sarò sincera, continuare i miei vecchi lavori fa ancora alquanto strano al momento. Mi sento come se tutto ciò che stavo scrivendo si sia rivelato sbagliato 😭. Spero di non essere l'unica.

In ogni caso, due precisazioni:

1 - con molta probabilità, il rating sarà giallo per sicurezza.

2 - spero di non aver involontariamente "copiato" uno dei mille milioni di lavori che stanno uscendo ultimamente (e giustamente). Qualsiasi similitudine non è voluta.

Detto ciò, allacciate le cinture! Sarà un lungo viaggio.

Con amore,

- Neamh


•°•°•

Tornare a casa fu doloroso. Forse perché quelle mura grigie non erano più casa da un po', ormai. D'altronde, ora erano decisamente diverse da come le aveva lasciate.


Aveva aperto la porta quasi sdraiandocisi sopra. Aveva cercato di annegare i suoi dispiaceri nell'alcool e aveva lasciato che la cosa gli sfuggisse di mano. In fondo, aveva decisamente bisogno di una mente il meno lucida possibile per tornare al suo appartamento dopo tutto ciò che era accaduto.

Aveva un odore diverso, quasi acre, da pizzicore al naso. Ovvio: Shax, a differenza sua, adorava l'Inferno; perciò lasciava sempre che un po' di stantio misto muffa entrasse con lei e si mescolasse al profumo fin troppo dolce che si versava addosso. Nulla di irrisolvibile: quando si sarebbe ripreso - e ciò avrebbe potuto richiedere dai cinque minuti ai cinque anni - Crowley avrebbe schioccato le dita e sarebbe sparito tutto. Nel frattempo, però, decise di trascinarsi fino al divano fin troppo morbido del salotto e vi ci si tuffò sopra - di faccia.

Lì rimase, immobile, fino al mattino dopo. Tanto non aveva certamente bisogno di respirare, perciò mantenne il volto ben premuto sul cuscino e aspettò che la sbronza smettesse di martellargli la testa. Riuscì persino a farsi una dormita che non implicasse sogni scomodi, il che fu una sottospecie di benedizione.

Era troppo debole per sognarlo, troppo distrutto, troppo tradito e rotto e deluso e-


Si rigirò di schiena con un sospiro. Il sole era alto, il suo corpo scricchiolante e la sua nausea più forte che mai. Non voleva sapere che ore fossero e non si sentiva ancora pronto a ricomporsi. Decise di restare a fissare il soffito, intanto che combatteva contro i primi pensieri lucidi - i quali affioravano di tanto in tanto a ricordargli ciò che si erano detti. Ciò che si erano fatti.

Alla fine, per quanto avesse disperatamente tentato di non farlo, una lacrima gli scivolò sulla guancia e si mise a piangere. Ne seguirono altre, grosse, calde che andarono a bagnargli il collo e il petto mezzo scoperto. Tra i singhiozzi, le sentì andare ad infrangersi sul pavimento, una dopo l'altra, un tic, tic, tic che divenne presto la sua unica compagnia.

Si raggomitolò su un fianco e le ore gli scivolarono addosso lente e strazianti. Si sentiva così solo tutto d'un tratto, come se gli avessero tolto un pezzo. E in effetti era proprio così... Una parte di lui se n'era andata.

Ma non voleva pensarci. Non doveva pensarci. Avevano chiuso.

Per sempre.


Scivolò giù dal divano che era di nuovo sera - anche se non avrebbe saputo dire di che giorno. Si sentiva prosciugato, ma iniziò comunque ad aggirarsi per casa come uno zombie, dita pronte a schioccare. Osservò quasi con interesse le similitudini che c'erano tra lui e il demone che lo aveva sostituito per tutto quel tempo. Dato che entrambi non avevano veramente bisogno di niente di terreno, l'appartamento permaneva quasi vuoto, salvo per quegli oggettini interessanti che attiravano la loro attenzione. Nel caso di Crowley erano stati alcuni pezzi d'arte - tanti regalatogli dai creatori stessi - e le piante - che ancora doveva togliere dalle scatole in cui le aveva stipate. Nel caso di Shax erano tanti piccoli accessori: alcune spille, rossetti dai colori decisi, i suddetti profumi fin troppo dolci per una con quel caratteraccio... Tutto ciò che l'aveva contraddistinta viaggiava dal rosso al vinaccia, perciò era facile da individuare e facile da far sparire.


Non fu un processo rapido, né semplice.

Crowley ci mise settimane intere a resettare il suo angolo di mondo. Si rese conto che quell'appartamento non gli era mancato per niente: era troppo vuoto, troppo freddo, non aveva un velo di polvere, e non odorava di tè, o cioccolata calda, o carta stampata, o-

Scosse la testa. Non poteva permettersi un altra crisi, non ora. Si concentrò sul risistemare il salotto, rimanendo qualche minuto in più ad osservare il divano.

Non era male: era comodo, morbido ed invitante. Come quello alla libreria.

No.

Fece sparire anche quello e vi rimise il suo, bello ma scomodo da morire. Andava bene così.

Andava benissimo così.


Trovò le forze di rimettere apposto le piante dopo un mese. Erano talmente mogie da far venire i brividi e, quel che era peggio, Crowley non riusciva proprio a biasimarle. Non riuscì nemmeno a dir loro qualcosa perché sapeva: sapeva che le sue sgridate non sarebbero state sincere - non lo erano mai - ma intrise di una tristezza che non riusciva ad annegare in nessun alcolico esistente. Le aveva provate tutte.

Aveva persino provato a passeggiare, ma aveva smesso dopo che per la sesta volta le sue gambe lo avevano automaticamente portato a Soho. Allora faceva dietrofront, si stringeva nella giacchetta e andava via a testa bassa prima che qualcuno potesse riconoscerlo.

La verità è che era sempre troppo occupato a non pensare per stare attento a dove metteva i piedi. Si ritrovava sempre a sbattere contro le spalle della gente, ad urtare contro qualche palo, a farsi suonare da qualche automobilista in corsa... Tutto perché una parte di lui - quella che rimaneva, sola e abbandonata - cercava sempre di ricondurlo lì, in quell'angolo di strada che odorava di ricordi che non voleva, e che sapeva troppo di tè e cioccolata calda con una leggera punta di caffè.

Si morse il labbro tanto da farlo sanguinare. Il sapore ferroso che prese a pizzicargli la lingua fu abbastanza da allontanare la sensazione - per ora.

Già. Per quanto ancora sperava di andare avanti in quel modo? Il passato gli aleggiava sulla spalla, imperterrito e sussurrante. Prima o poi avrebbe dovuto affrontarlo.

Prima o poi. Non ora.

Non ora.


Fu una battaglia che si protrasse per tre mesi interi. Le giornate le passava o dormendo, o bevendo, o facendo entrambe le cose a turno. Si distraeva guardando la tv e cambiando canale ogni volta che iniziava un film romantico, o ogni volta che si imbatteva in un attore con gli occhi azzurri, i capelli biondi o i riccioli.

Si sentiva uno stupido, ma allontanava qualsivoglia sensazione con una bottiglia di qualsiasi cosa non fosse acqua. Tanto non poteva fargli male - a meno che non lo volesse. Aveva perso tutto: peggio di così non poteva andare, no?

Forse fu quella consapevolezza a portarlo davanti allo specchio una mattina.

Una passeggiata, solo una, si disse. Era distrutto, i suoi capelli erano passati dal rosso brillante al bordeaux spento; sotto gli occhi si erano formate due linee scure e marcate. Ne hai decisamente bisogno, sembri un morto che cammina.

E si sentiva morto, effettivamente. Null'altro che un'entità sola e triste che fa avanti e indietro per un appartamento semi vuoto - e che ora si stava lentamente preparando per fare avanti e indietro per una città mezza piena.


Era una bella giornata. Mite, piacevolmente fresca e moderatamente soleggiata.

Sembrava una specie di scherzo dato il suo stato d'animo... ma, effettivamente, era la prima volta che Crowley faceva caso al meteo. Le sue uscite precedenti erano iniziate e finite con lui che non prestava mai attenzione a niente, mentre adesso si sentiva fisico e presente in mezzo al marciapiede e al solito viavai londinese.

Doveva essere un buon segno.

    Raggiunse la Bentley e le diede due affettuose pacche sul tettuccio. «Ehi, bella» salutò. «Ti sono mancato?»

Dovette rischiararsi la voce un paio di volte. Non parlava con nessuno da tanto: suonava come un basso scordato. Certo, aveva già dato il buongiorno alla sua beniamina le poche volte che era uscito, ma non erano mai suonati così spenti.

Questo non era decisamente un buon segno, invece.

    Il piccolo moto di gioia che gli arrivò in risposta lo fece sorridere - per la prima volta dopo quella che gli era parsa un'eternità. «Facciamo un giro?» Chiese senza pensarci. Glielo doveva: l'aveva lasciata parcheggiata lì fin troppo tempo. Avevano entrambi bisogno di correre un po', di scappare da quella melma di realtà.

Ovviamente, lei ne fu infinitamente entusiasta.


Premere sull'acceleratore fu quasi liberatorio. Era uno sfogo a cui Crowley non aveva voluto pensare - soprattutto perché anche lì, nel familiare abitacolo della sua macchina, i ricordi rischiavano di tornare ad investirlo. Primo tra tutti, il posto vuoto accanto a lui era straziante da guardare - tanto che decise di ignorarlo del tutto. Poi c'erano gli onnipresenti Queen che sembravano aver scritto canzoni solo per lui e l'amore che lo aveva distrutto - quelli, purtroppo e per fortuna, non poteva proprio né cambiarli né zittirli.

Girò a vuoto per un'oretta buona, concentrato solo sul rombo del motore e il fischio delle ruote sull'asfalto. Non aveva meta, né obbiettivo. Voleva solo vagare come si era prefissato di fare, così prese svolte a caso - ignorando gli altri automobilisti, i pedoni, le bici, i semafori e il senso di marcia. Poi, così com'era partito, di botto si fermò.

O meglio, la Bentley lo fece. Frenò da sola accanto ad un marciapiede e si rifiutò di andare oltre. Per un secondo, al demone parve una bimba capricciosa che incrociava le braccia e puntava i piedi a terra - con tanto di broncio.

    «Che ti prende?» Chiese, più preoccupato che adirato. Fu quando decise di dare un'occhiata fuori che si accorse dell'inghippo.

Un brivido gli percorse la spina dorsale. Sospirò, cercò di ripartire, ma niente. Erano cementati lì.

    Strinse le mani sul volante: «Brava, ti ricordi ancora la strada per arrivare alla libreria. Ora potremmo andarcene?» Mormorò. «Per favore.»

L'aria stessa di quel luogo pareva schiacciarlo. L'edificio rosso - ma tu guarda, come i suoi capelli - dall'altro lato della strada era dolorosamente invitante. Ma no, si era ripromesso di non tornarci.

Avevano chiuso, per sempre.

    «Sei una bastarda» disse allora, facendosi ricadere le braccia sulle cosce. «Hai imparato dall'angelo, vero? È sempre stato una pessima influenza... Almeno per quel che riguarda te.»

Da quant'era che non lo nominava? Non così tanto, ma gli era parso davvero un secolo. Faceva un male cane.

Provò ad aprire la portiera ma, ovviamente, non si mosse di un millimetro: era in trappola. Ringhiò, incespicò nella sua stessa lingua, si mise le mani tra i capelli, si tolse gli occhiali e si passò le dita sugli occhi. Non voleva scendere, non voleva varcare quel maledetto uscio, non voleva starsene in quella via dove tutti lo conoscevano e non lo vedevano da tre mesi, non voleva.

    Emise un lamento. «E va bene! Ci vado, ma solo perché sei tu» ringhiò infine, arrendendosi.

Con un moto di vittoria, la macchina si aprì e lo lasciò uscire. Aveva pianificato tutto alla perfezione, l'adorabile stronzetta.

Crowley non seppe se sentirsi doppiamente tradito o terribilmente fiero.


°•°•°


La campanella che lo accolse all'entrata gli parve dolorosamente stonata. Inoltre, venne investito da tutti quegli odori che il suo inutile cervello aveva cercato di dimenticare - prima tra tutte la cioccolata calda. Tutto il suo essere si rimescolò in un moto di rifiuto e gioia talmente incasinato da farlo star male. La sola vista di quelle pile di libri, di quel pulviscolo che aleggiava a mezz'aria, di quegli oggettini sparsi in giro, fece urlare la sua aura. Doveva andarsene. Aveva ancora la mano sulla porta: poteva aprirla e fuggire prima di crollare in lacrime lì sul parquet.

Fu una consapevolezza a frenarlo.

In quel posto non era cambiato assolutamente niente... Assurdo. Eppure ora era gestito solo ed unicamente da-

    «Oh, è lei!» Canticchiò una vocina.

Alzando lo sguardo, Crowley si ritrovò a faccia a faccia con colei che i suoi pensieri avevano appena cercato di tirare fuori.

Se ne stava in cima alla scala a chiocciola e gli sorrideva allegramente con un libro ben stretto al petto. Il suo faccino sui toni del cacao pareva scintillare: si vedeva che si sentiva a suo agio lì, felice e contenta nel suo maglioncino color crema e nella sua gonnellina beige.

    Le rivolse un cenno di testa: «Ciao, Muriel». Diede uno sguardo ai dintorni, cercando di non far trasparire il dolore che gli provocava il conoscerli perfettamente a memoria. «Sempre affollato qui» mormorò con fare sarcastico. Erano solo lui e la piccoletta - ex angelo di basso rango ora promossa a libraia a tempo pieno.

    Quest'ultima lo raggiunse con una corsetta. «Oh, no: c'è sempre qualcuno. Solo che oggi è mercoledì.»

Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Il cielo è azzurro, l'ossigeno si respira, le librerie sono chiuse di mercoledì.

    Crowley annuì come si annuisce ai dati di fatto, poi diede uno sguardo a una pila di volumi su un tavolino. «Di' un po', come vanno gli affari? A me pare che non manchi nemmeno un libro qui dentro.»

    Muriel parve leggermente imbarazzata. Spostò il peso dai talloni alle punte un paio di volte - senza mai smettere di sorridere, seppur ora un po' più nervosamente. «È che, vede,» iniziò, pensando bene a come esporre il concetto, «è tutto così interessante e avvincente. Non posso lasciar andare via un libro senza averci dato almeno un'occhiata, no? Sarebbe un peccato.»

Sembrava di sentir parlare Aziraphale, il che era tutto dire. La cosa stupì il rosso non poco. Incredibile ma vero, forse la piccoletta non era poi la scelta peggiore da mettere lì dentro.

Metatron ci aveva visto lungo.

    Quel nome lo mise a disagio. Decise di spazzarlo via come spazzava via qualsiasi cosa dalla sua testa, ormai. «Hai decisamente ragione» disse solo, guadagnandosi un saltello di giubilo.

    «In ogni caso, è bello averla qui» canticchiò Muriel. «Ho imparato a fare la cioccolata calda. Ne vuole un po'?»

    Crowley sbarrò gli occhi. «Davvero?»

Forse era un po' troppo prevenuto nei suoi confronti, ma aveva come l'impressione che Muriel e i fornelli non fossero due cose esattamente compatibili. Già era strano che lei e la libreria fossero compatibili...

    Eppure, se fosse andato a cercare la parola "raggiante" sul dizionario, ci avrebbe sicuramente trovato l'espressione soddisfatta che aveva davanti. «Davvero davvero. Venga.»


La cucinetta della libreria - come il resto dell'ambiente, d'altronde - era confortevole, accogliente e con i muri sui toni del giallo - ma tu guarda, come i suoi occhi.

L'angelo non la usava se non per farsi il te o, appunto, la cioccolata. La stessa che Muriel adesso stava accuratamente rigirando in un pentolino.

    «Devo proprio chiedertelo» intervenne Crowley, ora spaparanzato su una sedia, «quanto ci hai messo ad imparare?»

E soprattutto, senza bruciare nulla?

    Lei ridacchiò. «Oh, solo una decina di tentativi. Non puoi lasciarla troppo poco sul fuoco ma nemmeno troppo: è molto complicato.»

Il demone trattenne una risatina nervosa. Dieci tentativi e l'edificio era ancora in piedi: una buona notizia non guasta mai.

Alla fine si ritrovò a sorseggiare una cioccolata di tutto rispetto - con tanto di panna e cannella. Fu quasi calmante, per quanto anche quel sapore non facesse altro che ricordargli di lui. Di loro. Quel "loro" che non era mai esistito veramente.

    «E a lei come va?» Gli chiese Muriel ad un certo punto, giocherellando con il ciuffo di panna nella sua tazza.

    Crowley non dovette nemmeno pensarci: «Malissimo.»

Affondò quell'affermazione nel cacao, spostando lo sguardo - perennemente coperto - sulla superficie lignea del tavolo.

    «Le manca Aziraphale, immagino.»

Il silenzio che seguì quell'affermazione lo colpì come una palla da demolizione. Nella sua ingenuità, Muriel aveva dato voce a ciò che lui aveva soffocato per tre mesi. Aveva ragione lei e faceva davvero un male cane.

    In mancanza di una risposta, la piccoletta fece spallucce e riprese: «Sa, quando sono venuta ad ispezionare, ho preso qualche appunto» spiegò. «Su di lei avevo scritto che mi pareva scorbutico ma anche gentile, che mi piace il modo in cui cammina, che adora la sua macchina...» Elencò, spostando gli occhioni scuri verso l'alto intanto che ricordava. «E alla fine ho appuntato che non faceva altro che guardare il Tradito- ehm, Aziraphale. Sembrava renderla di buon umore.»

Doveva essere una prerogativa dei cori più bassi del Paradiso quella di essere adorabilmente ingenui ma per nulla stupidi.

    «E la cosa non ti ha stranita?»

    Muriel sbarrò gli occhi. «Oh, no. Insomma, all'inizio un pochino, ma: ha visto cos'è successo con l'arcangelo supremo e Belzebù, no? Se possono farlo loro-»

    «-Perché noi no, eh?»

Si alzò senza nemmeno rendersene conto. Afferrò la tazza, se la trangugiò più velocemente dei sei espressi di Nina e fece per fuggire il più lontano possibile da lì.

Era stato un errore.

    «Aspetti!» Lo bloccò la voce ora un po' più rotta di Muriel.

Si voltò a guardarla. Sembrava minuscola in mezzo agli scaffali; un elemento in più che cercava di adattarsi a fatica in un ambiente che era tutto il contrario del luogo in cui era nata: pieno, soffocante, a tratti buio e solitario.

    «Perché non torna a far visita alla libreria qualche volta?» Propose lei, leggermente nervosa e molto, molto speranzosa.

    Crowley sospirò. «Ti senti sola, eh?»

Lei annuì, il sorriso triste ma onnipresente.

    «E allora siamo in due, agente.»

    «Potremmo essere soli insieme!»

Quel discorso lo riportò un po' troppo ai tempi di Giobbe. Sa un po' di solitudine.

La storia era davvero destinata a ripetersi, allora...

    Fissò quella figurina tutta stoffe morbide e ricciolini corvini. Ancora non si capacitava del fatto che fosse riuscita a tirare avanti la baracca da sola per tutto quel tempo... Eppure eccola lì. «Ma sì, perché no» le rispose infine, venendo immediatamente investito da un moto di gioia e gratitudine.

    «Ottimo! Allora io la aspetterò qui. Anche perché, sa, non saprei dove altro andare.»

    «Mh. Lo sai usare il telefono?»

    Lei annuì energicamente. «Quel coso che squilla? Oh, sí. Anche se ammetto che mi fa venire uno spavento tutte le volte.»

    «Capita quando tieni troppo tempo la testa sui libri». Muriel parve non capire, così passò oltre: «Ti chiamo quando sto per arrivare.»

    «Così ho tutto il tempo di farle una cioccolata!»

    «Così hai tutto il tempo di fare la cioccolata, sì».


°•°•°


Si pentì di quell'idea nel momento esatto in cui rimise piede nel suo appartamento.

    «Ma che ti salta in mente?!» Urlò al suo riflesso nello specchio del bagno. «Ti fai lasciare da un angelo e subito ti attacchi ad un altro? Qual'è il tuo problema?»

A rispondergli fu il rubinetto difettoso della doccia. Le gocce che ticchettavano gli ricordarono troppo le sue stesse lacrime, tanto che si decise a spostarsi in camera.

La verità è che non riusciva a staccarsi dal passato. Più tempo passava, più le ferite si aprivano invece di rimarginarsi. Tutto ad un certo punto tornava: Maggie e Nina che gli dicevano di parlare con Aziraphale, Metatron che entrava in scena per scombinare tutto, l'angelo che gli faceva proposte assurde...

E poi c'era quello stupido, disperatissimo, bacio. Quello che da solo gli faceva salire il magone e pizzicare le labbra; quello che lo portava a rinchiudersi a riccio e ingoiare una bottiglia di scotch dietro l'altra.

La più grande cazzata della sua esistenza.


Alla fine chiamò veramente Muriel. Nonostante tutto, si decise a lasciare le sue mura grigie per tornare a Soho.

E lo fece per mesi.

Dapprima erano visite saltuarie, magari solo il mercoledì. Poi, lentamente ma inesorabilmente, divenne una cosa giornaliera.

Si presentava agli orari di chiusura e la piccoletta lo accoglieva con un sorriso e una tazza di cioccolata calda. Gli parlava dell'ultimo libro che aveva letto e lui ascoltava, nonostante sapesse già molte di quelle trame - tutta colpa di Aziraphale, ovviamente.

    Ogni tanto la portava fuori dalla libreria. Sotto natale, le fece scoprire quella che gli umani annoveravano come la migliore delle atmosfere. «Che ne pensi, agente?»

La chiamava sempre così e a lei non pareva dare fastidio.

    «È bellissimo! Adoro i colori delle luci.»

    «E tutto per festeggiare la nascita del figlio del vostro boss. Assurdo, vero?»

    Lei aveva inclinato la testa, confusa. «Ma non era nato in primavera?»

    «Ho provato a spiegarlo agli umani: non vogliono sentire ragioni.»


Muriel amava il mondo, ma odiava la confusione. Crowley capiva perfettamente: il Paradiso era silenzioso oltre che fin troppo bianco. Così le loro passeggiate non duravano mai tanto, e finivano sempre con il loro tempestivo rientro nella pacifica quiete della libreria.

Lì, la piccoletta gli faceva un sacco di domande e lui - che sapeva meglio di chiunque altro cosa significasse avere dei dubbi - le rispondeva sempre. Era allora che i loro discorsi deviavano a destra e a manca.

A Crowley non dispiaceva. Tutto quel parlare lo aiutava a non pensare - e lo aiutava anche a non sentirsi in colpa del fatto che stava praticamente usando Muriel come distrazione. Si rese dolorosamente conto di aver bisogno di un contatto.

Ho bisogno di te. La cosa peggiore da dire in amore.


    «Crede che Aziraphale tornerà?» Gli chiese una volta, intanto che spolverava un po' cannella nelle loro solite tazze di cioccolata. «A fare visita come fa lei, dico. Adora questo posto, in fondo.»

    Il rosso si fece scappare una risata amara. «Dubito fortemente. È troppo occupato a fare il suo lavoro in Paradiso.»

Dirlo fu più o meno come essere sparati al petto. La verità è l'arma più tagliente di tutte.

    «Oh, beh. Fare l'arcangelo non è semplice» affermò Muriel con un sorriso incerto. Era proprio dai suoi sorrisi che si imparava a leggerla. Erano le incrinazioni di quell'espressione le pagine da analizzare per conoscerla.

    «Già. Come darti torto, agente».


Aziraphale non sarebbe mai tornato, ormai era chiaro. Crowley lo capì nel momento in cui si rese conto che dal loro bacio erano passati trecentosessantacinque giorni e poco più. Un anno in cui lui aveva disperatamente cercato di non pensare a ciò che era accaduto, fallendo miseramente.

Era ora di mettersi l'anima in pace. Le cose erano cambiate in modo irreversibile.

O almeno, così credeva.


   
 
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