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Autore: _Lightning_    23/08/2023    2 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
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Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          «CHE succede? Non vi piace?»

Ricciardi tradisce un sussulto nel riscuotersi, alzando subito gli occhi dal punto del tavolo in cui si erano infissi, assenti.

«Scusa, Rosa. Non ho fame.»

«Eh, voi non ce l’avete mai, ma non è una scusa per non mangiare. Siete sciupato e si vede. Di questo passo, non vi alzerete nemmeno più dal letto.»

Ricciardi pensa che quella prospettiva non gli sembra poi così terribile. Meglio che continuare a sbattere la testa in vicoli ciechi sul caso di Vipera, e meglio che crucciarsi in attesa di una telefonata, di un messaggio, di un qualsiasi segnale da parte Livia.

Non ha più osato contattarla, rimettendosi di fatto completamente nelle sue mani; in un atteggiamento fin troppo simile alla preghiera, di chi avanza richieste al vuoto e attende che si realizzino con fede cieca. Lei avrebbe ogni motivazione per tirarsi indietro e ignorare la sua richiesta, sia perché fin troppo pericolosa, sia perché lui non si merita un briciolo della sua disponibilità (sia perché lei sa tutto, se lo sente nell’animo con la stessa certezza con cui sa che un morto lo fissa, non visto). Ma sa anche che non lo tradirà; di Livia si fida, in un modo contorto che non riesce a spiegarsi del tutto e che ha a che fare coi sentimenti, sì, sebbene non quelli che lei vorrebbe da lui (o magari non del tutto, ma, a voler essere sincero, non lo sa nemmeno lui).

Lancia un’occhiata da sotto le ciglia a Rosa che, borbottando e mugugnando, gli toglie il piatto di friarielli da sotto il naso, sapendo che non li mangerà nemmeno il giorno dopo.
Si chiede cosa ne penserebbe lei, del fatto che il suo appetito, la sua insonnia e le sue emicranie sono peggiorate per via della preoccupazione per Bruno (è un tarlo instancabile che lo rode dall’interno, ormai). Sarebbe più semplice rivelarle che vede i morti, probabilmente. Non vuole davvero pensarci.

Quando Rosa torna dalla cucina strusciando i piedi e fa per portarsi via anche la brocca d’acqua e il bicchiere, le blocca con delicatezza la mano sul tavolo, stringendole piano le nocche nodose e rigide per l’artrosi. Rosa si arresta di colpo, sorpresa, ma posa semplicemente l’altra mano sulla sua, in un gesto così naturale che Ricciardi si sente strappare un po’ l’anima dal petto. Si sente di nuovo il ragazzino appena orfano che cerca conforto nell’unica figura che non era scomparsa attorno a sé.

«Signorino, non state bene?» gli chiede, allarmata, stringendogli la mano con più forza di quanto dimostri, quella con cui impasta ancora il pane e sbatte le lenzuola e traffica in cucina con la stessa lena di vent’anni fa.

Ricciardi comprende il suo sconcerto. Non è famoso per concedere spesso gesti d’affetto (teme sempre di contaminare tutto ciò che tocca) e di rado così espliciti. Ancor più raramente cercati a quel modo quasi rozzo, di certo non in linea con il galateo che gli è stato inculcato sin da giovanissimo.

«Sto bene,» mente subito, regalandole un sorriso un po’ forzato. «È solo un po’ di stanchezza.»

«È perché mangiate poco e dormite ancora meno,» lo rimbecca, la lingua fulminea e severa come tutte le donne cilentane. «E poi, c’è qualcosa che vi angustia.»

Ricciardi non può evitare di fuggire il suo sguardo per un singolo istante, trapassato dai suoi occhi resi tremuli dall’età e incastonati tra le rughe del sorriso, ma ancora limpidi e acuti.

«Nulla di più o di diverso dal solito,» risponde pacato, sapendo di non ingannarla.

«Sono vecchia, non cieca,» sospira lei, accarezzandogli il dorso della mano con la punta delle dita, callose e indurite dalla fatica.

Gli dona un’ultima stretta salda, prima continuare a sparecchiare; anche se Ricciardi lo sa, che forse vorrebbe lasciargli una carezza sulla testa come faceva quand’era bambino, e si trattiene solo perché ora lui è adulto, oltre che nobile e padrone e commissario e tante altre fesserie. E Rosa sa che lui non le dirà niente di più, come non le ha detto niente tutte le altre volte. Lui le sue angosce le tiene per sé, assieme i morti che vede (non dovrebbero macchiare la vita degli altri).

«Rosa?» la richiama, quando la sente di ritorno sulla soglia della cucina, e i suoi passi si fermano. «Puoi chiudere tu le imposte nella mia camera, per piacere?»

Anche senza guardarla, può immaginare il lampo addolorato che le scorre sul viso. In quella finestra ci credeva più lei che lui, a volte.

«Certo, come volete,» risponde piano, con voce così dolce che Ricciardi si sente davvero di nuovo un bambino; e forse non è poi una sensazione così brutta.

Si volta a guardarla, ma lei è già sparita oltre la porta della stanza da letto e, pochi secondi dopo, sente il cigolio metallico e lo scatto delle imposte chiuse. La luce nel salotto si affievolisce un poco, rendendo più vivida quella delle finestre illuminate all’esterno. Non le guarda, nemmeno quando si alza per andare a coricarsi (non è quella la luce che cerca adesso, e probabilmente non lo è mai stata).

Non guarda nemmeno Rosa, mentre le posa una mano gentile sul braccio nel passare, avvertendo una fitta di senso di colpa nell’averle mentito pur senza davvero mentire. Ma quella semplice richiesta, apparentemente innocua, era la cosa più vicina che potesse dirle per esprimere il tumulto che gli sta sconquassando il cuore da ieri; che gli spezza il fiato ogni volta che pensa che lui, il sole, potrebbe non vederlo più e quindi di una finestra aperta sul vuoto non se ne fa nulla.

Quella notte sogna proprio il sole, fioco e livido, e una notte cupa e senza stelle (e Bruno, da qualche parte, che lo aspetta in quel buio).

 
 
L’aria del porto è pregna di salsedine, umidità e dell’odore marcescente delle alghe ora scoperte dalla bassa marea.

Ricciardi non ci viene spesso, a Mergellina. Non ne ha alcun motivo, dopotutto; e, se pure volesse guardare il mare, c’è il lungomare sul Golfo, con le sue belle passeggiate, panchine e terrazze aggettate sulle onde. Nessuno con un briciolo di buonsenso verrebbe mai a fare una passeggiata al porto di Mergellina, almeno non alle undici passate della notte. Ma Bruno è lì, e quindi devono essere lì anche loro: così gli ha detto Livia, e così ha riferito lui a Maione.

Mentre se ne stanno in tre acquattati dietro una pila di casse precariamente celata dall’oscurità, coi piedi che sguazzano nelle pozzanghere, Ricciardi pensa che non è mai stato così lieto di potersi fidare di qualcuno. Perché Livia avrebbe potuto sbattergli la porta in faccia e mandarlo al diavolo per poi tornarsene a Roma; e Maione avrebbe potuto tirarsi indietro, visto che ha moglie e  figli già gravati da un lutto troppo recente. Eppure, sono entrambi lì al suo fianco, consci del rischio (forse molto più di lui, che non teme certo per se stesso).

Nel cono di flebile luce che filtra dal grande magazzino di fronte a loro, illuminando parte del molo, marciano le figure di due camerata, con le falde dei pantaloni alla zuava e le nappine dei fez che ondeggiano a ritmo dei loro passi cadenzati mentre montano la guardia. Un terzo fa capolino dall’interno di tanto in tanto, con passi più ciondolanti, il puntino di una sigaretta che pulsa nella penombra a segnalare la sua presenza.

Ricciardi presume che, dentro al magazzino, ci sia almeno un altro paio di uomini, a guardia diretta dei dissidenti in fermo (prigionieri, di fatto). E tra quei prigionieri, spera, c’è ancora Bruno. Se non l’hanno già caricato su una nave diretta chissà dove; ma a quella possibilità non può pensare. Nemmeno alle altre, più tetre ancora.

Almeno, in quel quadrato di porto buio, non ci sono morti a sussurrargli nelle orecchie o a cantilenare parole lugubri. Ha temuto (e continua a temere) di scorgere nell’ombra una sagoma perlacea con ricci indomiti, barba sfatta, un sigaro in mano e un sorriso ormai spento in viso.

Ma c’è solo il gorgoglio ritmico delle onde e il loro sciabordio contro gli scafi dei bastimenti e delle barche da pesca. Qualche voce si leva di tanto in tanto, echeggiante, richiami o litigi persi nel dedalo di vicoli; si sente a tratti lo sbattere di tovaglie dalle finestre al termine di cene tardive; e il cigolare dei portoni e lo scalpiccio di scarpe sull’acciottolato umido di mare; e il pianto flebile di un neonato e una litania dolce che si leva a quietarlo. L’unico suono spettrale sono le strida dei gabbiani, figure alate che nella luce fioca appaiono come fantasmi traslucidi che planano nel buio.

La notte è dei vivi, per ora. Ricciardi non è mai stato superstizioso, nemmeno quando ha iniziato a vedere i morti negli angoli della vita, ma vuole sperare che almeno quello sia un buon segno.
 

 
In cuor suo, Ricciardi si era aspettato di rivedere Bruno un po’ malconcio, dopo il suo faccia a faccia coi fascisti.

Ma non così, mai così. Avrebbe difficoltà a riconoscerlo, non fosse per i capelli inconfondibili.

Bruno riesce a malapena ad aprire gli occhi pesti e il suo volto è gonfio, tumefatto, più viola che roseo anche sotto la barba. Un rivolo di sangue gli imbratta il viso, sgorgando da qualche ferita celata dai suoi ricci; si abbraccia il busto con forza, il respiro irregolare, e zoppica vistosamente, come se avesse un piede o una gamba offesi.

Ricciardi ha a malapena la prontezza di farglisi incontro e sostenerlo al volo, quando il camicia nera lo trascina da loro di malagrazia, spintonandolo via, o rovinerebbe a terra faccia avanti. È l
unica cosa che lo frena dallafferrare quel bastardo in divisa, scansarlo il più lontano possibile da Livia, alla quale si è accostato sin troppo, e da Bruno, che ha certo contribuito a ridurre così, e scaraventarlo giù dal molo, sugli scogli. Lui, che non è mai stato impulsivo né incline alla violenza, sente di poter uccidere, in quell’istante, pur col rischio di ritrovarsi di fronte uno spettro creato da lui; e quello lo lascerebbe volentieri a vagare per Mergellina invendicato.

«Ohi, Riccia’,» esala Bruno, distogliendolo da quel fiume d’ira.

È poco più di un rantolo roco, accompagnato dall’accenno di un sorriso (il buio si spacca, per quel singolo istante, per un battito d’occhi fugace), ma è a un soffio dal suo orecchio e non potrebbe non sentirlo. Poi le gambe di Bruno cedono e gli si accascia addosso di peso prima che riesca a rispondergli, mezzo aggrappandosi a lui. Si ritrova ad accompagnarlo a terra il più delicatamente possibile, col buio che riprende a pulsare tutt’attorno.

«Bruno. Bruno!» lo chiama, più d’istinto che aspettandosi risposta (e pronunciare il suo nome, chiamarlo, gli invia una schicchera attraverso i nervi, è come se avesse rotto un argine invalicabile).

Percepisce, senza guardarli, il camerata che si allontana, Livia che gli posa una mano sulla schiena e Maione che si inginocchia accanto a loro, con un lieve affanno.

«Ha perso i sensi, Commissa’. Va medicato, e pure subito.»

Ricciardi deve forzarsi, per fissare la maschera di sangue e lividi oltre la quale riesce ancora a intravedere i lineamenti di Bruno, torti in una smorfia sofferente e non nel suo solito sorrisetto beffardo.

«Prendi l’auto, allora. Spicciati!»

Maione non se lo fa ripetere e scatta in piedi, caracollando verso l’automobile parcheggiata nel vicolo. Ricciardi lo segue brevemente con lo sguardo, prima di posarlo di nuovo su Bruno; e poi distoglierlo altrettanto rapidamente, con un crampo alla gola (non riesce a guardarlo così, imbrattato di sangue e pallido quasi quanto i morti che vede).

«Lo portiamo da me,» dichiara trafelato, più per porsi un obiettivo a breve termine che altro. «Portarlo nel suo stesso ospedale desterebbe troppo scalpore.»

Fa leva sulle ginocchia per raddrizzargli il busto e permettergli di respirare meglio (lui geme appena, ha qualcosa di rotto), e rinsalda la presa sotto le sue braccia, pronto a sollevarlo del tutto non appena Maione tornerà a dargli una mano (e sotto la sua camicia la pelle è troppo calda, rovente, umida nei punti in cui le ferite o il sudore hanno fatto aderire il tessuto alla pelle).

«Rosa sa fare qualche medicazione ed è la casa più vi...»

«No.»

La replica di Livia è tardiva ma perentoria, il suo sguardo fermo lo trapassa.

«Non da te,» chiarisce, scuotendo una sola volta il capo senza quasi battere le ciglia.

Le sue iridi nere rilucono nella luce fioca, quasi come il mare altrettanto scuro che si agita dietro di loro in moti inquieti, sotto una sottile falce di luna.

Ricciardi si congela sul posto, gli occhi quasi sgranati, per un istante dimentico del fatto di avere Bruno addosso, esanime e con la testa reclinata contro il suo petto che gli macchia di sangue i vestiti. Fissa Livia senza riuscire ad articolare una risposta sensata, perché non ne esiste una (e i suoi occhi parlano, gridano tutto ciò che ieri è rimasto sopito tra loro).

Non da te, perché sarebbe sospetto, le sente dire, nel silenzio assordante che cala tra loro. Non da te, perché ti stai già esponendo troppo così.

Ricciardi deglutisce a forza, fa per parlare e poi, invece, tace. Si limita a chinare il capo, abbassando subito gli occhi e incontrando quelli chiusi e contornati da lividi di Bruno. Consapevole che Livia sta scrutinando ogni suo singolo gesto, ogni parola, ogni sguardo (e lui ha Bruno tra le braccia, schiacciato contro il petto, più vicino di quanto non sia mai stato, e non riesce a provare qualcosa che non sia pura angoscia, anche se l’istinto di stringerlo di più a sé lo soffoca).

«Portiamolo da me,» aggiunge poi Livia, facendolo quasi trasalire. «Villa Pignatelli è grande, isolata... darà meno nell’occhio. E tu potrai rimanere con più discrezione.»

Ricciardi la fissa di nuovo, stavolta sgomento. Non c’è ironia nel tono di Livia, né derisione, né qualsivoglia sentimento negativo; e il suo viso è calmo, pur solcato da una vena di tensione. È un’offerta sincera, un’offerta che lui non si meriterebbe da nessuno, men che meno da lei. Sa che non scorderà facilmente il suo folle slancio di coraggio, quando si è fatta avanti da sola per reclamare il rilascio di Bruno (l
’ha fatto per lui e il pensiero lo scalda e gli dà la nausea al contempo).

Stringe di riflesso le dita sulla giacca di Bruno, in cerca di un appiglio che non trova, di qualcosa che gli permetta di domare le emozioni e i sentimenti che stanno rischiando di strabordare da giorni.

«Livia...» comincia, strozzato, e non sa nemmeno lui come concluderà la frase, ma non ve n’è bisogno.

«Dopo,» lo ferma lei, toccandogli il polso in una pressione lieve, e la sua mano è fresca. «Adesso pensiamo ad aiutare lui.»

Il rombo sommesso del motore quasi ingoia quelle ultime parole. Ricciardi riesce solo ad annuire in risposta, prima che Maione si precipiti di nuovo al suo fianco per aiutarlo a caricare Bruno sull’automobile. Ricciardi non si considera un uomo esile, ma non ha mai sentito nelle vene quella forza soverchiante che gli permette di sollevare Bruno come fosse un fuscello. Lo coricano sui sedili posteriori e Bruno è così inerte che emette poco più di un mugolio a quelle manovre goffe (e Ricciardi può immaginare con nitidezza le sue lamentele e critiche da medico, e spera che potrà farcisi una risata tra qualche giorno).

In perfetta sincronia, Maione si siede di nuovo al posto di guida, Livia su quello del passeggero e lui si stringe dietro, in un coro di portiere sbattute quasi all’unisono, come se quella fosse sempre stata l’unica formazione possibile. Si ritrova con la testa di Bruno in grembo, e gliela sorregge d’istinto in punta di dita, per evitare che venga sbatacchiata durante il tragitto. Sente il suo respiro affaticato sfiorargli il dorso della mano e la barba troppo cresciuta che gli pizzica il palmo e si impone di ignorare ogni sensazione fisica che non sia il suo stesso cuore che batte (troppo veloce, troppo violento, e non sa più se sia soltanto paura).

Incontra gli occhi di Livia nello specchietto esterno, ma è lei a distoglierli per prima, stavolta, quasi colpevolmente. Maione si volta verso di lui, una ruga profonda a incidergli la fronte in mezzo alle sopracciglia folte, una mano già posata sulla leva del cambio.

«Vado da voi, quindi?»

«No, a Villa Pignatelli. Segui le indicazioni della signora Luciani. E per l’amor del cielo, Maione,» lo richiama in fretta, prima che lui possa dare gas, «guida piano.»
 

 
Il silenzio, a Villa Pignatelli, è quasi una presenza fisica che gli preme sui timpani, comprimendogli la testa e sommandosi alla peggior emicrania che abbia sofferto da quando ha memoria. Ora che c’è calma, almeno apparente, gli sembra decuplicata d’intensità e gli martella in mezzo alle tempie in un ritmo forsennato, senza niente a distoglierlo da quel dolore lancinante.

Ha rispedito a casa Maione, che sarebbe pure rimasto fino all’alba, tanta era la sua premura e voglia di aiutare ed essere utile; ma poi, gli ha ricordato Ricciardi, farebbe impazzire di preoccupazione Lucia e, un po’ a parole un po’ a spinte fisiche verso l’uscita, è riuscito a farlo desistere dall’intento. Dopotutto, li ha portati senza incidenti o troppi scossoni fin lì, in modo del tutto inusitato, e si è ben guadagnato una notte di riposo.

«Commissario, per qualunque cosa sapete dove trovarmi,» ha detto, portandosi una mano tesa alla fronte nel congedarsi. «Mi raccomando, fatemi sapere del dottor Modo.»

«Certo. Grazie, Raffaele,» ha risposto semplicemente, riuscendo a regalargli l’ombra di un sorriso riconoscente. «Ora, però, va’ a casa e riposati.»

Livia, invece, è riuscita a far materializzare lì un medico nel giro di un’ora; ed è anche riuscita ad allontanare lui da Bruno per il tempo della sua permanenza.

“Non sarebbe saggio farti vedere qui,” gli ha detto, di nuovo con quello sguardo affilato, colmo di sottintesi. Ricciardi potrebbe anche fingere che si riferisca alla sconvenienza di farsi vedere in casa sua a quell’ora tarda della notte, con tutte le voci che già circolano, ma sa che non è ciò che intende Livia; così come al porto non intendeva che fosse pericoloso portare Bruno da lui per eventuali ritorsioni.

Livia ha capito tutto. Gli diviene più chiaro con ogni minuto che passa, con ogni fitta che lo arpiona in mezzo agli occhi mentre misura a passi nervosi il piccolo disimpegno in cui lo ha accompagnato, pregandolo di attendere lì, tra il broccato scuro delle tende, le sedie Luigi XIV e la carta da parati bordeaux, che danno a quel piccolo spazio una nota claustrofobica.

Livia ha capito tutto e ciò lo spaventa meno di quanto dovrebbe (o forse non è quello il tipo di buio di cui ha paura). Lo spaventa di più il non capire perché lo stia aiutando.

Il cigolio della porta che si schiude lo fa sobbalzare, e si volta di scatto proprio verso la figura di Livia che si sporge all’interno. Scorge l’accenno di viola sotto i suoi occhi, segno che è provata anche lei da quella notte turbolenta. F
orse anche i giorni precedenti non sono stati così semplici per lei, essendosi dovuta mettere in contatto col suo misterioso osservatore. Da quando hanno messo piede nella villa, Ricciardi ha l’impressione che si sia fatta più guardinga, con gli occhi che guizzano spesso verso gli angoli lasciati in ombra, come se si sentisse spiata; in modo non dissimile da come fa lui coi morti, non può fare a meno di pensare. Gli diviene sempre più chiaro che quella persona che la sorveglia non suscita affatto la sua simpatia, e gli si stringe il petto al pensiero di averla obbligata a comunicare con lui.

«Come sta?» chiede comunque, non appena la vede.

«Il medico ha detto che è stabile.»

Ricciardi comprime con forza le labbra, un moto d’angoscia che gli agita le viscere nel non sentire ciò che avrebbe voluto: sta bene, si riprenderà, non c’è da preoccuparsi.


Si stringe il polso, le mani ancorate dietro la schiena a raddrizzarla, come se potesse ancora sperare di darsi un contegno, di nascondere qualcosa che, in quel momento, gli brilla accecante negli occhi, che è palese nelle macchie rossastre che gli imbrattano completo e camicia (e forse anche le mani, ma non si cura di sincerarsene).

Eppure, non le chiede se può vederlo, anche se quelle sono le uniche parole che vorrebbe pronunciare adesso (e lo chiede con lo sguardo a Livia, di dirle per lui, pretendendo ancora molto più di quanto dovrebbe).

«Vuoi vederlo?» gli legge nel pensiero lei, con scontata facilità.

Ricciardi riesce solo ad annuire, prima di ritrovare la voce:

«Solo se non lo stancherà troppo.»

Livia esita un istante, e la sua bocca si contrae appena in una linea rigida, come non volesse davvero dire ciò che sta per dire:

«In realtà, è ancora incosciente.»

Ricciardi sente lo stomaco sprofondare in un vuoto d’aria (o forse è l’anima che gli è scivolata via dal petto, rintanandosi nei talloni).

«Il medico cos’ha detto?»

Livia si umetta le labbra prima di parlare, ed è ovvio che il medico non abbia detto nulla di buono (è Bruno, il medico più competente che conosca a Napoli, e la sorte sa avere un’ironia crudele).

«Che ha fatto il possibile, ma che ha delle lesioni interne. Ha medicato le ferite, applicato dei cataplasmi e riassestato le fratture, ma ora possiamo solo lasciarlo riposare e sperare che riprenda presto conoscenza.»

Ricciardi stringe i pugni dietro la schiena e irrigidisce la mandibola, tentando di non lasciar trapelare nulla, di accogliere quella notizia con la composta gravità che dovrebbe avere in quel momento; e ci riesce quasi, finché non gli sfugge un respiro appena più udibile e fin troppo tremulo.

Avverte le orecchie ovattate, come se qualcuno gli avesse spinto la testa sott’acqua. Le parole di Livia si tramutano in immagini cristalline dietro le sue retine. Bruno che lotta tra la vita e la morte (perché è questo, che ha detto il medico). Lui, seduto al suo capezzale, che aspetta e aspetta, finché Bruno non riaprirà gli occhi. O finché, accanto a Bruno, non comparirà una sua copia slavata, marcescente e dagli occhi vacui, che ripeterà all’infinito qualcosa (il suo nome, il suo nome all’infinito; un’accusa e una condanna, perché non è arrivato in tempo a salvarlo).

«Puoi portarmi da lui?» si sente dire, con voce più spenta di quella dei fantasmi che teme di vedere.

Livia non risponde e prende semplicemente a fargli strada tra i corridoi in penombra. Ricciardi esita per un singolo istante, poi affretta il passo per tenerle dietro, sentendosi come se ora stesse correndo nella direzione opposta al sole.

 
 
Note dell'Autrice:
Come volevasi dimostrare, mi sono dilungata e ci è scappato un capitolo in più.
Principalmente, perché mi interessava scavare ancora un po' nella psiche del nostro commissario, e poi perché volevo ritagliare un posticino anche per Rosa. Dopotutto, se in ogni mia storia non infilo almeno un rapporto genitore-figlio, adottivi o meno, non dormo tranquilla.
Ripeto che la cronologia è completamente ad sensum e che, come ben si vede, ho rimaneggiato gli eventi come meglio mi aggradava (anche perché Bruno che se la cava senza un graffio o quasi dopo aver sputato a un fascista non me la bevo). L'angst sta arrivando, insomma :D
Grazie a chi ha commentato e aggiunto la storia alle liste, delle sorprese assolutamente inaspettate che mi hanno fatto molto piacere ♥
Al prossimo capitolo,

-Light-


P.S. Come sempre, i titoli sono versi della canzone "Freddie" dei Pinguini Tattici Nucleari.

 
   
 
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