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Autore: time_wings    30/08/2023    1 recensioni
[Wolfstar, Jily + una ship non taggata]
Sirius Black sa che ha quattro mesi prima di perdere la vista. James Potter sa che hanno quattro mesi per vedere il mondo insieme. Dopo averci riflettuto per meno di dieci secondi, i due partono per un viaggio dalle destinazioni incerte, che li porterà più lontano di quanto avessero previsto. Perché alla fine è davvero così cruciale trovare se stessi?
Una storia raccontata da alcuni occhi.
Dal testo: “Sei uno che pianifica molto, eh?” La verità era che non lo sapeva, era cresciuto con l’idea che leggere gli altri servisse solo a sfruttarli successivamente. Era nuovo a questo gioco.
“Mh, un sacco.”
“È molto grave, fa male alla salute.” Inclinò il viso su un lato, lo guardò ancora, le palpebre di colpo pesanti rispondevano più al torpore che al sonno. Un altro paradosso di quel paese. Le ciglia di Remus si piegavano sulle guance, la pelle era segnata da qualcosa che sembrava vento. “Dove hai detto che vai?”
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Peter Minus, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Se il destino esisteva, se l’era ingoiato l’uomo barbuto sul palco, perché lo stava ruttando.
Il locale era un roteare di luci verdi, fucsia, blu. A volte, quando scivolavano negli occhi, davano l’impressione che li stessero attraversando da parte a parte e che quello che illuminavano dall’altro lato venisse dal punto opposto dell’universo.
C’era un’altra stella, così lontana che non era ancora stata scoperta e quindi non aveva un nome che sembrava un codice di recupero di una password smarrita. Attorno a quella stella orbitavano otto pianeti e nel terzo c’era un anti-Sirius che era andato in anti-Finlandia con un anti-James, perché una sconosciuta aveva detto loro di andare più a nord. E si stavano guardando, lui e il suo opposto, in un momento che era già successo in un tempo lontano. Così lontano che forse si era verificato al polo negativo dell’evento zero. E c’era quindi una possibilità che leggessero di un personaggio inesistente che leggeva di loro.
L’uomo barbuto sul palco non ruttava, in verità, perché era un cantante metal e il rutto era al contrario un growl; una tecnica vocale difficilissima che si sarebbe rivelata tale quando James e Sirius ci avrebbero provato qualche ora dopo.
“Non era questo che…” iniziò James, ma la sua voce si perse nell’onda di teste e suoni che si impennò nel locale. Poiché erano pubblico liquido, si arricciarono anche loro. “Non era questo che mi aspettavo quando Lily ci ha detto che non potevamo perderci il nord!”
Sirius guardò James e la tavolozza di luci che si muoveva sul suo viso. Gli brillavano i denti. “È troppo forte!”
E, con la stessa regolarità di un oceano, partì un’altra ondata di visibilio.
Quel posto non aveva senso. Se non ci fossero state tutte quelle persone sarebbe sembrato quasi sobrio. Si intuivano le sagome di un luogo che avrebbe potuto accogliere fonografi o tavolini per tornei di partite a carte over 70. E invece ci si ruttava. Era come violare una chiesa ancora non sconsacrata, come farsi città del metal – la musica infernale – a un tiro di schioppo dalla fabbrica di Babbo Natale.
Fiamme e ghiaccio nella stessa bufera.
Un ragazzo accanto a lui prese un sorso di birra e poi si mise a urlare. Il suo profilo, sovrapposto alle luci stroboscopiche dall’altro lato, brillava in ombra come una foto in negativo.
Si voltò e incontrò i suoi occhi.
Il vetro trasparente della bottiglia raccoglieva le luci del locale e, presi i panni di un prisma, le rispediva così alla rinfusa da fondare un inferno per fisici. Nessuno dei loro calcoli li avrebbe condotti alla realizzazione più intima che le bottiglie erano come quadranti di orologi. Da polso, a pendolo, da esecuzione. La lancetta scoccò una volta, poi frenò a un passo dallo scoccare ancora.
Uno. Due. I prismi si arrestarono, le luci pure.
Ripeti da capo.
Si voltò e incontrò i suoi occhi.
Incontrò i suoi occhi.
La lancetta vacillò, lottò per riprendere il conto che aveva perso.
Incontrò.
“Perché sorridi?”
“Ah?”
L’uomo sul palco tornò a ruttare, le luci a girare, le persone a scatenarsi. Il ragazzo si avvicinò. Sorrideva. “Ti ho chiesto perché sorridi,” gli disse all’orecchio, le parole si fondevano ai bordi col chiasso.
Sirius non se ne era accorto. “Non lo so,” gli rispose e non doveva aver avuto lo stesso effetto della sua domanda, perché non gli aveva parlato nell’orecchio.
Il ragazzo annuì e non staccò gli occhi dai suoi mentre prendeva un altro sorso di birra.
Poi la mano di James si strinse attorno al polso di Sirius e lo trascinò da un’altra parte.
 

Gli ostelli erano un concetto curioso, perché avevano una tendenza più o meno celata a farsi microcosmo.
In generale, sapevano essere contro ogni aspettativa un luogo discreto e, nella loro discrezione, evidenziavano la necessità di averne. Era la dichiarazione di possedere una storia e la gentilezza di non doverla per forza comunicare. Il che era vero in realtà per ogni posto al mondo, ma era più difficile ricordarsi che ognuno aveva davvero una vita, un attorcigliarsi eventi, quando quel posto era un autobus.
Questo perché sull’autobus era più facile restare assorbiti in se stessi.
Gli spazi comuni degli ostelli a volte riflettevano questa loro qualità. Ad esempio Sirius per farsi un caffè doveva fare lo slalom tra fotografie appiccicate con scotch, punesse, pasta adesiva, spille, aghi per cucire e doveva piegare la testa per evitare mensole lunghe ricavate da tavole da surf.
Uno smetteva di chiedersi più o meno subito cosa ci facesse una tavola da surf nell’inverno fatto nazione, perché non era l’oggetto più strano che si trovava in giro.
Lanciò un’occhiata alla sveglia che lampeggiava numeri verdi squadrati in un angolo della stanza. Le quattro e quarantasei. Alla fine, quando la luce del frigo lo investì, optò per una birra.
Ne prese due e lasciò i soldi in un cestino lì vicino. Tintinnarono come uno battito in una chiesa o come una forcina che cadeva in un mercato. Era difficile dirlo, dipendeva dalla consistenza che si voleva dare al buio.
Alla fine delle scale c’era una finestra aperta, perché lungo il corridoio dell’ultimo piano non c’erano camerate. Le tende garrivano come bandiere di una nave pirata. Oltre, si usciva su un balcone incastonato nel tetto. La geometria al rovescio dava la sensazione, a chi ci stava in piedi per un po’, che fosse facile scivolare giù.
“La patria del metal,” disse una nuova voce alle sue spalle, le parole si seccavano ai bordi nel tipo di silenzio di cui si riempivano a volte le città, quando erano a qualche notte di distanza dal trovarsi innevate. “Che te ne pare?”
Sirius si voltò mentre il nuovo ospite del piccolo balcone si sedeva accanto a lui. “Tu sei il tizio del locale!”
Il ragazzo annuì. Aggrottò le sopracciglia in una richiesta muta, mentre col dito indicò la birra in più lasciata chiusa tra di loro.
“Prendila,” e, per qualche secondo, lo osservò stapparla e girarsela in mano, “che fai, mi segui?”
“O era solo molto probabile che un turista nel bar stesse all’ostello a cinquecento metri.”
La città, ostruita dalle sbarre in ombra della balaustra, che da quella angolazione l’occhio non poteva aggirare, era un luccichio sommesso che si gettava nel vuoto del mare. Se aguzzava la vista, e forse anche un po’ la fantasia, vedeva anche la ruota panoramica con la sua cabina scura, come il primo dente perso di un bambino.
“È un po’ tardi per fare il saputello, no?”
“In realtà è presto,” rispose lui. Sirius annegò un insulto in un sorso di birra. “Però ti ho seguito quassù.”
“Grazie per aver rispettato la mia privacy.”
Lui scrollò le spalle, una mano reggeva mollemente la bottiglia. “Uno che vuole privacy non porta due birre.”
“Ne volevo due.”
“Okay.”
Si guardarono, poi il ragazzo si mise a ridere e si inclinò nella sua direzione, porgendogli una mano.
“Remus.”
“Sirius,” rispose accettandola. I respiri si solidificavano a metà strada in nuvolette di condensa.
Avrebbe voluto vederlo sotto una luce normale, quando i capelli soffici non si facevano trasparenza attraverso fari stroboscopici, quando la notte non gli intesseva un velo nero davanti alla faccia che lo rendeva solo un gioco di ombra che ammutoliva ogni colore.
“Da quanto sei qui?”
Sirius alzò gli occhi al cielo. “Un paio di giorni.”
A quel punto Remus si accese una sigaretta e fu un gesto pesante. Il genere di cosa che si nascondeva a volte nei portamenti. Il tono caldo della luce sulla punta dissotterrava sfumature che alle notti di tutto il mondo piaceva sempre nascondere con l’altro lato dello spettro.
“Tu da quanto sei qui?” e, mentre Sirius lo guardava sollevare e abbassare il pomo d’Adamo in controluce, pensava che non voleva smettere di vedere.
“Qualche giorno. Domani parto,” disse Remus espirando.
“Torni a casa?”
“No.”
“Dove vai?”
Remus inclinò la sigaretta nella sua direzione. Sirius non sapeva se gliela stesse proprio porgendo, quindi si sporse e rubò un tiro. Lui mosse la mano, Sirius gli sfiorò le dita con le labbra.
“In Lapponia,” rispose Remus alla fine. Aveva il tono sgonfio, come se fosse stato sull’orlo di rispondere così prima di quel contatto e ora si stesse limitando a ripetere le parole di un ricordo. Sirius sorrise e sperò che al buio non si notasse. Non gli sarebbero mai serviti tutti e cinque i sensi per usare quel tocco magico che definiva il sesto.
“In Lapponia,” ripeté, assaggiando la parola come se fosse stata insieme una presa in giro e un elemento del mondo cruciale da considerare. “E perché sei partito?”
Sirius si voltò a guardarlo: aveva imparato dalle precedenti esperienze che era sempre meglio sfruttare tutta la luce possibile durante questo genere di domande. Remus prese un tiro e aggrottò le sopracciglia, le guance incavate dettavano il ritmo del crepitio all’estremità della sigaretta. Aspettò di soffiare prima di rispondere. “Sono ricercato e sto scappando.”
“Ah, sì?” Sirius rise, una cosa tagliente che non voleva dargliela vinta. Era diventato cruciale avere la meglio in questa conversazione con questo sconosciuto. “Da chi scappi?”
“Dalla polizia, da chi altrimenti?”
“Da tantissime cose. Un agente, una regola, un debito, un criminale, un usuraio…” Sirius si avvicinò, abbastanza perché il loro sfiorarsi diventasse un contatto. “Un amante,” concluse, a un passo dal suo viso.
Si guardarono negli occhi per qualche secondo o qualche ora, volte di riflessi simili per convessità a sfere celesti o a quadranti di orologi. Sirius abbassò lo sguardo sulla sigaretta. Non mosse la testa, fu solo un battito di palpebre.
Remus sollevò la mano per farlo fumare.
“E che hai fatto?”
“Ho rapinato una banca.”
Sirius annuì espirando. “Quindi ora sei ricco?”
“Solo tecnicamente… posso stendermi? Sono esausto,” indicò le gambe di Sirius. Lui sollevò un sopracciglio, ma annuì piano. “Quando rapini una banca non puoi mica comprare tutto quello che vuoi subito, deve passare un po’ di tempo, così non si chiedono dove hai preso tutti quei soldi.”
“Lo sai che ora ho abbastanza informazioni per consegnarti?”
Remus sorrise dal basso e tutto quello che non gli aveva detto con la messinscena della rapina lo tradì con quel sorriso. Era una cosa complessa, come lo possono essere a volte le strette di mano ai colloqui o la fama. Era qualcosa che non si sarebbe fermato un attimo ad analizzare, se non si fosse trovato su un balcone in Finlandia, vestito più di buio che di poliestere. Era un taglio, una nota alta di violino, una cosa graffiata con ostinazione. “Non farai la spia, lo so,” disse Remus e chiuse gli occhi. Era un lusso che si potevano concedere quelli che non camminavano con una sentenza appoggiata sulla noce del collo.
Sirius non era stupido, anzi camminava per il mondo convinto che fosse sempre il caso di cogliere un’occasione, a volte anche quando non era la sua. Fece scivolare le dita nei capelli di Remus e non si chiese come fosse finito lì, tanto per cominciare. “Sei uno che pianifica molto, eh?” La verità era che non lo sapeva, era cresciuto con l’idea che leggere gli altri servisse solo a sfruttarli successivamente. Era nuovo a questo gioco.
“Mh, un sacco.”
“È molto grave, fa male alla salute.” Inclinò il viso su un lato, lo guardò ancora, le palpebre di colpo pesanti rispondevano più al torpore che al sonno. Un altro paradosso di quel paese. Le ciglia di Remus si piegavano sulle guance, la pelle era segnata da qualcosa che sembrava vento. “Dove hai detto che vai?”
 

“Porca puttana!” gridò James, lasciandosi cadere di peso con la schiena contro il sediolino.
In generale, ci si aspetterebbe che simili esclamazioni, davanti al silenzio innevato della Lapponia, fossero modi coloriti di esprimere meraviglia e che il cadere sul sediolino fosse un’ulteriore e teatrale modalità di accompagnare l’imprecazione.
E invece no.
Era stata una frenata a farlo urlare e sempre la frenata l’aveva scaraventato indietro.
Sirius cercò il suo sguardo, un braccio sollevato per reggersi ai manici del van.
“Ha-ha!” l’autista prese un’altra svolta allucinante. Era l’autobus degli allegri cartoni animati, in cui iniziare a cadere corrispondeva al tempo che ci si metteva a rendersi conto del baratro, correre significava rendere le gambe un mulinello e sfrecciare su un mezzo valeva a dire vederlo muoversi come se qualcosa, dall’interno, scalpitasse per uscire. “Oh, poffare. Poffarissimo! È tardi, è tardi, è tardi!”
Remus ridacchiò. Sedeva rilassato e mezzo arrotolato su se stesso come un gamberetto. Era possibile che fosse una tecnica per incassare meglio i colpi della guida sportiva dell’autista.
Alle loro spalle sedevano altri tre passeggeri: un uomo francese con i baffi ricoperto da uno strato spesso di paura, una donna danese che forse stava indossando tutte le collezioni di Desigual mai concepite in contemporanea e il suo ragazzo, che se ne stava seduto ritto e impassibile.
Era andata così:
 
“È fantastico che abbiano più saune che dita dei piedi, in questo paese,” disse James, lasciandosi praticamente scivolare via sulla panca di legno insieme a tutto il suo stress. Aveva gli occhiali appannati, la versione rovesciata di cugino Itt.
“Eliminerei i discorsi sulle parti del corpo,” disse Sirius, appena più che un mormorio. Aveva la testa reclinata su uno dei gradoni della sauna e gli occhi aperti abbastanza per sembrare più vittima di una lobotomia che del sonno.
“Volevo un’esperienza immersiva.”
“Io no.”
James sospirò. “Remus, scusa, mi fai un favore e ti copri gli occhi?”
Lui, dall’altro lato della stanza, annuì con una risata sulla soglia del via. Sirius alzò la testa nel momento sbagliato. James afferrò l’asciugamano che teneva in grembo, lo fece roteare per accorparlo in un unico siluro micidiale e poi lo usò per picchiare Sirius.
“Ma che cazzo…”
“Grazie, pensavo ne avessi visti abbastanza da non restare più a bocca aperta!”
Sirius scappò dall’arma-asciugamano del suo amico. “Non dirlo mentre sei nudo!”
“Davvero non c’era bisogno che entrassi nudo,” si intromise Remus, che aveva ancora gli occhi chiusi e se ne stava tranquillo mentre il resto della stanza diventava un’arena.
“Ve l’ho detto. Volevo l’esperienza immersiva!”
Prima che qualcuno potesse ribattere la porta della sauna si aprì. Il vapore fece spazio a un uomo che doveva avere dieci o sessant’anni. Non un’età compresa tra i dieci e i sessanta, ma o dieci o sessanta. I baffi brizzolati erano l’unica traccia pelosa su una testa altrimenti completamente ovale e liscia. Gli occhi azzurri brillavano di una qualche scintilla di folle iridescenza, come se le luci si fossero sbagliate. “Oh, salve!” esordì in inglese, l’accento irrigidiva le parole. Diede solo una rapida occhiata a James, nella sua interezza, il che provocò uno sguardo di silente perplessità tra i due amici, congelati ancora a metà della loro lotta. “Se siete a vostro agio siete già a metà strada!” e con questo si liberò anche del suo asciugamano.
James riprese posto con una timidezza che non gli era mai appartenuta in venticinque anni di audacia ingiustificata e srotolò lentamente l’asciugamano sulle gambe come se all’interno ci fossero state scritte cruciali informazioni di pergamena.
Remus schiuse un occhio, il tempo di constatare la situazione, poi un sorriso pigro gli strisciò sulle labbra.
“Visto che avete spirito finlandese, che ne dite di birra e makkara?”
“Maracas?”
L’uomo scoppiò a ridere, era una di quelle risate che suonavano come un palloncino ansimante. “Salsiccia.”
“Certo,” Sirius allargò le braccia, “cosa se non la salsiccia?”
“Questo è lo spirito giusto!”
Sirius schioccò le dita e lo indicò, strizzandogli l’occhio.
Qualche minuto dopo, bevevano birra e mangiavano salsicce che sudavano il doppio di loro.
“Di dove siete, Londra?” domandò l’uomo rotondo. Riccioli di peli bianchi correvano su avambracci e spalle, la pelle arrossata dal calore.
James e Sirius annuirono.
“Bradford, vicino Leeds,” disse Remus, ripulendo il mento dal grasso con le nocche.
“Vi siete conosciuti lungo la strada?” Quando i ragazzi annuirono, l’uomo chiuse gli occhi e sorrise beato, come se un pomeriggio in sauna con birre, salsicce e tre ragazzi inglesi fosse stato il momento che aveva aspettato da sempre. “Mi riporta ai tempi in cui con la vita si era aggressivi, sapete, quando andavamo a…”
Li guardò, le sopracciglia contratte. C’era una possibilità che soffrisse di perdita della memoria a breve termine e si stesse chiedendo se i tre sconosciuti davanti a lui avessero in mente di rapinarlo di… be’, non c’era molto da rapinare se non i gioielli di famiglia.
“Avete da fare stasera?” disse invece.
Sirius si voltò verso Remus in tempo per vederlo distendere la fronte e serrare la mascella. Era un gesto minore della sicurezza, più incline alla vittoria. “No, vero?” chiese alla fine e nessuno ebbe da ridire.
“Bene. Presentatevi al tramonto. Vestiti.”
 
Dove avesse pescato gli altri tre personaggi era rimasto un mistero. Quando il loro autista oviforme si era presentato all’appuntamento erano già lì.
L’auto sbandava, se avesse potuto avrebbe anche impennato. E poi era buio.
I fanali illuminavano un mondo circolare in cui esisteva solo la strada bordata di neve, qualche svolta e cartelli di tanto in tanto, la vernice catarifrangente gettava luci imprevedibili attorno a loro. Quasi nel punto di fuga si riuscivano a vedere i pini innevati, come guardiani di un mondo notturno ostile agli usurpatori. Paradossalmente, il cielo era di una tonalità appena più chiara della notte che gettava sulla Terra.
Si sentiva il rumore della neve sotto le ruote, spazzata ai lati al passaggio del minivan.
“Ci siamo quasi!” gridò l’uomo, il dito che picchiettava su un affare che aveva l’aspetto di un navigatore e una funzione assai più ampia.
L’esclamazione non lo incentivò a smettere di guidare come un pazzo.
“Lo spero,” commentò James, togliendosi gli occhiali. Forse sperava che non vedere abbreviasse i tempi.
“Questo è un lavoro duro, ragazzo, non è mica un safari.”
Sirius era d’accordo. Non era affatto un safari… così come non era un koala, un aquilone, una crema per piedi secchi. Non c’entrava nulla il safari.
“Inizio a pensare che abbia qualche rotella fuori posto,” Remus gli sussurrò all’orecchio.
“Inizi a pensa…? Adesso? Non quando ha messo piede nella sauna?”
Remus rise, sbuffi ritmici nel suo orecchio. Gli piacque, quindi lo guardò. “Io so cosa sta facendo.”
“Davvero?”
“Mh-mh. Ho studiato qualcosa sulla Lapponia prima di venirci, non ho seguito il primo sconosciuto con cui ho parlato.”
Sirius fece schioccare la lingua, uno sfarfallio di sguardo che passò dagli occhi alle labbra di Remus più velocemente del tempo che ci voleva a notarlo. “Non sei il primo sconosciuto con cui ho parlato, sei solo il primo che mi è piaciuto.”
“Mi raccomando,” l’autista lanciò una bottiglia di plastica nei sedili posteriori. Colpì James in fronte. “Non possiamo fermarci, se vi scappa fatela qui.”
Poi virò di nuovo di scatto, probabilmente a duecentomila chilometri all’ora. La bottiglia trovò il modo di colpire di nuovo James. “Se scappa cosa, una bestemmia?”
L’allegra combriccola rise.
“Ci siamo,” disse di colpo l’uomo. Era anche il caso, perché erano in macchina a scivolare nel vuoto da oltre due ore. Nello specchietto interno, sotto la luce soffusa dell’apparecchio simile a una mappa che aveva iniziato a sputare valori incomprensibili, il suo sguardo si congelò. Non era spento, tutto il contrario. Era quel tipo di concentrata determinazione di chi non poteva ancora cantare vittoria.
Per il resto, non era cambiato assolutamente nulla. Anzi forse il bosco si era fatto più buio.
“Scendete! Siamo in uno slargo.”
Con celerità anche superiore a quella con cui si alzavano le mani davanti a un arresto, i ragazzi scesero dal van.
Lo slargo c’era davvero, una chiazza innevata che avrebbe potuto essere con uguale probabilità un laghetto ghiacciato o l’impronta lasciata da un dinosauro millenni addietro. Il problema era che non c’era nient’altro.
Silhouette di alberi fatti solo di oscurità si stagliavano su un nero di un cielo vuoto. Le stelle lo osservavano come lui osservava la domenica pomeriggio i concorrenti dei reality americani mentre si rendevano ridicoli. Anzi forse, con tutti quegli anni luce di distanza, avevano addirittura la fortuna di non vederlo proprio; di vedere invece il loro autista, più giovane e spigoloso, oppure l’era glaciale, oppure una palla di fuoco che non era ancora diventata la gabbia e insieme la vittima di otto miliardi di animali in piedi su due zampe.
Il silenzio avviluppava quella visione spoglia nel sedativo della neve, finché quel pazzo scriteriato di James Potter non si mise a urlare.
“Oh cazzo!” disse, poi si spiaccicò una mano in faccia e con quella una deformazione tutta nuova. “CAZZO!”
Sirius seguì la direzione del suo sguardo. L’aveva sempre fatto perché era così che seminavano le grandi idee.
Una frusta sottile di luce camminava in punta di piedi da sinistra. Era una cosa discreta, quasi un trucco del buio, simile a quelli che ci si procura a volte quando si chiudono forte gli occhi e ci si preme gli indici sulle palpebre. Intenso quanto una promessa non mantenuta.
Si avvicinò, spargendo il suo colore sul resto del cielo, diluendosi in un’illusione che lasciava i suoi spettatori a chiedersi se in fondo il cielo non fosse sempre stato un po’ verde.
Sirius rilassò le spalle, non si era accorto neanche che si trovavano più in alto di quanto dovevano. Spazzò con una mano alla cieca accanto a sé, per avvertire Remus di alzare la testa. Era un gesto stupido, perché lo stavano già facendo tutti.
La notte esplose.
Erano lance che dal basso sembravano fumo dritto, metro di quanto il cielo fosse ampio. Montagne di riccioli, forse si potevano toccare, forse bruciavano come un fulmine oppure come un bacio non dato.
Si muovevano come serpenti. Anzi come danze. Come sabbia lasciata cadere secondo la direzione del vento. Come ali di pappagallo, folle che cantano, onde che capitolano. Forse nessuna similitudine sapeva essere completa, forse non c’era nulla al mondo come l’aurora.
Più lenta di una bandiera, più veloce di una nuvola. Al ritmo della corrente? No, di un soffio di paura.
Si incendiò, bruciò su se stessa. Non era un grido, perché quello era un tratto quasi esclusivamente animale, la disperazione.
Il quarto stato della materia, la quarta dimensione, il quarto e ultimo stadio, dove si esibivano i più grandi, la musica che risaliva come fumo su per una città senza un nome. Che cosa c’era, lì dove finivano tutti i supereroi? Quale routine, quale vicino e con che prato, quale nota di violino, quale partita di calcio? Si salutava? E c’era un nome per ogni saluto? Una distinzione anche minima tra buongiorno, arrivederci, benvenuto, a dopo, a presto, bentornato… addio? A Dio non ci si pensa? Ha Dio il potere vero di plasmare tutto questo? Ha un dito inventato sia i Pilastri della Creazione che la depressione? O Dio sono due o cento, cinquemila, tanti quanti gli atomi? Se l’infinitamente grande era una stella e l’infinitamente piccolo una particella, perché bisognava tarare tutto sulla propria altezza?
Questo non lo posso scrivere in una lettera, pensò Sirius. Nella tasca del cappotto più infinito che avesse trovato prima di partire, il peso del taccuino lo tirava giù. Una tonnellata per ogni colpo d’inchiostro, una tonnellata per ogni rimorso. Lo tirò fuori nel buio rotto solo dalle luci più impossibili della Terra. Si tolse un guanto, il gelo lo morse.
Scappucciò la penna.
Sulla pagina nuova, ruvida per aver sorretto il peso delle parole incise su quelle precedenti, scrisse alla cieca: ‘Finlandia. Il prezzo di non vedere tutto ciò che non ho visto è il ricordo di tutto ciò che ho visto’. Poi intascò il taccuino.
Il verde là sopra vibrava, James si avvicinò e gli lasciò cadere un braccio sulle spalle.
“Questo è per tutti i verdi serpenti, prima gli vuoi bene e poi te ne penti,” disse James, “BLEEEH.”
Ci fu un attimo di silenzio. Poi inaspettatamente lo stoico danese si piegò in due e cominciò a ridere. L’aurora ondeggiò con frequenza simile.
“Ma come ti è uscito?” chiese Remus.
“Non lo so, ci ho pensato mentre guardavo. È stato un picco di ispirazione.”
“Io mi sento molto ispirato a metterti la neve nel letto, stanotte,” disse Sirius.
“Provaci e io ti metto la neve nel culo, stanotte.”
“Mh, sexy!” Sirius avrebbe continuato con le minacce, perché era più bravo di James ed era divertente vederlo perdere, ma Remus gli afferrò il mignolo e lo strinse al suo.
Era un contatto virtuale, perché i guanti non lasciavano passare quel genere lì di calore. Lo guardò, la luce c’era e non c’era, ma era abbastanza perché riuscisse a vedere i suoi occhi non tanto in alta definizione ma in riflessi di colori impossibili.
Il mondo non aveva senso.
Un mese prima James gli diceva ‘partiamo’ con il riflettore posto al di sopra del tavolo e una stanza di ombre grosse il doppio delle luci che pubblicizzava, ogni sorriso valeva due lacrime che non aveva mai pianto, perché sarebbe stato come chiedere al sole di coprirsi. Ora Sirius era lì, legato a doppio mignolo a uno sconosciuto con l’aurora boreale negli occhi, il braccio di James smollato su una spalla. Un ossimoro, che fosse lui a sorreggerlo. Non gliel’avrebbe mai detto, perché sarebbe stato come chiedere a un proiettile in volo di non colpire.
“Sirius,” gli disse James in un orecchio, era un’ombra di capelli disordinati e occhiali, “una domanda un po’...”
“Mi vuoi dire che mi ami?”
“No. So che è stupido, ma…” ridacchiò, vetro antiproiettile ma comunque trasparente, “ci hai pensato anche tu? Senza alcuna ragione, come se qualcosa te lo ricordasse… Non lo so.”
La cosa complessa delle amicizie così intense era che tre parole incoerenti erano abbastanza per capire un concetto, la sua implicazione e la sua genesi.
James se ne pentì, fece marcia indietro. “Lascia sta…”
“Sì, un po’,” lo interruppe Sirius.
Un po’ era riduttivo.
 

Gli occhi di Roope

Il signor Roope da giovane inseguiva il cielo finché non esplodeva, finché non s’infiammava, finché anche nei mesi più bui non si riscopriva a sperare che il sole non prendesse mai il timone.
E poi aveva smesso di cacciare l’aurora.
Non era solito portare turisti in giro con Jukka, perché c’era sempre qualcuno con loro che non l’aveva mai vista. A volte una ragazza, a volte un parente, a volte un amico conosciuto solo una notte e poi dimenticato. Altre volte non servivano occhi nuovi, bastavano lui e Jukka.
E la caccia era una corsa, uno sgommare di rincorse, di previsioni, di svolte, di ‘a destra, veloce!’, di ‘non stasera, l’abbiamo persa’.
Ma non avrebbe avuto alcun senso, no? Correre da soli su una strada raffreddata, senza Jukka che gridava indicazioni, che sognava una vecchiaia passata a inseguire il momento fuggevole in cui la fisica si trasformava in spettacolo.
Roope non pianse, guardando la sfumatura esatta che trent’anni prima aveva visto un’ultima volta negli occhi del suo migliore amico, prima di perderlo in un tempo che era scaduto con anticipo crudele. Non pianse perché era cresciuto nello stesso tempo crudele in cui era rimasto intrappolato Jukka, quello in cui una lacrima era concessa solo ai deboli, alle ragazze che si innamoravano e alle creature che venivano al mondo.
Chissà perché si poteva piangere solo quando si era nuovi di zecca.
Però pensò che a portarlo lì quella notte fosse stato Jukka, con indicazioni più complesse e indecifrabili, traducibili solo nella frequenza identica che aveva udito nella risata di un ragazzo nudo che ne picchiava un altro con un asciugamano, nel modo in cui, per quanto il mondo andasse avanti, ci si legava più o meno sempre alla stessa maniera.
Quindi invece che piangere si voltò verso i due ragazzi inglesi, le facce fuse in un’ombra in cui nascondevano un sussurro, una confidenza.
Era sulle liste dei desideri di mezza popolazione, vedere l’aurora boreale, ma il fatto era che, come tutte le altre cose da vedere, di diverso da una fotografia aveva il fatto che era un’esperienza, che erano i contorni che si tagliavano nelle inquadrature dei video e dei time-lapse, il punto. Il punto erano le battute fuori luogo, la macchina che sfrecciava, l’incidente di percorso, la salsiccia nella sauna che sorprendeva ogni turista.
Li avrebbe voluti separare, gli amici che gli ricordavano lui e Jukka, dire: ‘se vi volete così bene, uno di voi dovrà portare sulle spalle tutto il dolore’.
Non li separò, però, perché era certo che lo sapessero, che ci fosse un indizio del motivo per cui erano lì, se non avevano capito finché non si era accesa l’aurora il motivo per cui andava forte come un treno nel minivan.
Guardò i suoi nuovi amici stranieri, guardò l’aurora. Guardò tutto quello che poteva, perché era un regalo e lo sapeva ora che l’aveva sprecato.






 

 


NotEl: Devo dire una cosaaaaa che avevo dimenticatooooo di direeee, quindi la dico anche qua, perché è nell'introduzione ma tanto nessuno la legge. Questa storia ha una ship non taggata perché è: spoiler OLE e di più non posso dire. Se siete il tipo di persone che morirebbero piuttosto che imbattersi per sbaglio in qualcosa che non amano vi rispetto ma questa fic non fa per voi perché io starei tentando di sorprendervi ahahah per l'efficacia vedremo strada facendo. Comunque non è una main ship cioè mo non è che tiro fuori una follia dal cappello, niente allarme.
Ciò detto io vi ringrazio per aver letto, anche i pezzi più wtf (ne sono consapevole) e ci vediamo prestooo (la storia è già finita, ci metto tempo a postarla solo perché tra un capitolo e l'altro tento di tradurreee).

El.

 


 
   
 
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