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Autore: Rumyantsev    12/09/2023    1 recensioni
Mentre Aziraphale è in Paradiso, intento a svolgere un incarico in apparenza fondamentale, Crowley subisce un attacco da parte di un essere misterioso e scompare dal creato. A questo punto, ad Aziraphale non resterà altro da fare se non tornare sulla Terra per cercarlo...
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Per rendere la lettura più scorrevole ho scelto di riferirmi ai personaggi che in canon sono non-binari (quelli che usano pronomi they/them) con il femminile, tranne che in un caso, nei capitoli che seguono, in cui ho usato il maschile. Non è mia intenzione negare il non-binarismo di questi personaggi e spero che nessuno si offenda, ma mi è sembrata la soluzione più immediata e fruibile che l'italiano ad oggi possa offrire.
Tutte le figure religiose presenti in questa storia sono scritte da me come personaggi di finzione, nello spirito provocatorio e parodistico di Good Omens. Non è mia intenzione offendere o prendere in giro chi crede. 
In questa storia è presente un personaggio originale che è già comparso qua. Le due storie comunque non sono consecutive né collegate in alcuna maniera, non è necessario leggerla per capire questa: ho solo riutilizzato il personaggio.

 

1. IL FUGGITIVO
 

Saint James Park sembrava un dipinto romantico più che un luogo reale nel centro di Londra. I sentieri di ghiaia si snodavano tra pioppi, querce e ippocastani. Negli scorci di lago incorniciati dai salici, le papere e i cigni solcavano l’acqua lasciando scie increspate, brillanti dei riflessi del sole. Nell’aria aleggiava un profumo di terra fresca, rose e gelsomini, mentre si udivano il verso stridulo di un parrocchetto, lo stormire del vento tra le foglie e lo scrosciare sereno della corrente, accompagnati dal festoso zampillio delle fontane. Ogni tanto qualche voce umana di passaggio.
Crowley osservava quella bellezza magica, seduto su una panchina con una bottiglia di vino tra le mani, nella luce soffusa di fine giornata, e pensava che non fosse giusto. Non aveva più un luogo dove andare a rifugiarsi ed era preda del proprio smarrimento. Si sentiva ardere lo stomaco di una rabbia che solo il vino era in grado di spegnere, annebbiandogli i pensieri. La Terra non aveva alcun diritto di essere così bella, non ora che lui se n’era andato.
Non stava pensando a cosa avrebbe fatto dopo. Per quel che lo riguardava, non esisteva neanche un dopo. La vita si era congelata nell’istante in cui lui era andato via e si era portato appresso tutto il senso dell’esistenza di Crowley. Avrebbe voluto che la libellula che gli stava passando sotto al naso prendesse fuoco, che il fuoco si propagasse rapidamente, avvolgendo gli alberi e tutto il parco, fino a lambire Londra, la Terra, e il creato intero. Che l'Inferno e il Paradiso svanissero mangiati dalle fiamme. Tutto sparito, tutto distrutto. Ma non stava accadendo nulla. La libellula si posò su un ciuffo d’erba in riva al lago, indifferente, e il tempo continuò a scorrere inesorabilmente.
Mentre era impegnato in quelle fantasie violente, Crowley non si accorse di ciò che stava accadendo a pochi metri da dove si trovava. Se avesse prestato attenzione, avrebbe avvertito un rumore, come uno strappo, e voltandosi avrebbe visto la figura che era appena comparsa tra i tulipani. Un gigantesco cavaliere in un’armatura che pareva medioevale, con lunghi nastri rossi che partivano dalla sommità della cresta. La visiera era calata ma non avrebbe fatto differenza se non lo fosse stata: l’elmo era liscio senza aperture per gli occhi. Sulla gorgera e sugli spallacci erano raffigurati in bassorilievo una serie di occhi stilizzati, al centro della panzera si distinguevano invece due ruote intersecate intagliate nel metallo. Nella cintura attorno alla vita teneva infilata una frusta e tra le mani stringeva una forca a due rebbi con punte affilatissime, che si stagliavano perpendicolari alla biforcazione.
Se Crowley l’avesse visto l’avrebbe riconosciuto, anche se quella sarebbe stata la prima volta che lo guardava con i propri occhi, e allora avrebbe potuto fuggire. Ma non lo vide finché il clangore metallico del suo incedere non fu troppo vicino, e udì il sibilo di qualcosa che si stava per abbattere sulla sua testa. Solo allora Crowley saltò giù dalla panchina, appena in tempo per evitare che la frustata lo centrasse in pieno. Lo schiocco fragoroso che risultò da quel colpo non portato a segno fece fuggire via tutti gli uccelli dagli alberi vicini.
Crowley era atterrato con la faccia nell’erba. Gli occhiali da sole che indossava erano volati via e la bottiglia gli era sfuggita di mano rotolando verso il lago. Non fece in tempo ad alzarsi che la frusta si era calata su di lui di nuovo, costringendolo a strisciare sul prato per evitarla. Lì si voltò tra l’erba, alzando lo sguardo sul suo assalitore. Allora in un secondo il terrore lo invase, riportandolo alla sobrietà senza bisogno di miracoli.
Il cavaliere si stagliava immenso su di lui contro al cielo rosso del tramonto, con il braccio sinistro alzato a mostrare la forca e la frusta nella mano destra, pronta a colpire ancora. Le foglie degli alberi tutt’attorno a lui e i nastri del suo elmo ondeggiavano sotto l'effetto della brezza che piegava i fili d'erba al suo passaggio.
«Tu…», sussurrò Crowley, per qualche istante troppo sorpreso e pieno di paura per muoversi. Poi, con la mente accelerata in un turbinio di pensieri febbrili, scattò da un lato, finendo dentro a un cespuglio di rosa canina, e si smaterializzò.
 
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Aziraphale trascorreva le sue giornate in Paradiso in maniera ben diversa da come si era immaginato. Come l’idealista che era, si sarebbe aspettato di riuscire a contagiare in fretta gli altri angeli con la sua sete di cambiamento, ora che aveva acquisito il titolo di Supremo Arcangelo. Tuttavia, si era presto scontrato con la realtà. Non solo gli altri Arcangeli lo ascoltavano svogliatamente: dopo un primo colloquio con loro in presenza di Metatron, gli era stato affidato un incarico che lo teneva ben lontano dal Concilio del Paradiso che prendeva le decisioni importanti.
Se ne era accorto in seguito, perché nel momento in cui Metatron gli aveva comunicato cosa avrebbe dovuto fare l’emozione era stata troppa. Se avesse posseduto delle ghiandole sudoripare, si sarebbe inzuppato di sudore. Era un compito di enorme responsabilità, gli era stato detto, qualcosa che mai nessun angelo prima di lui aveva affrontato.
Quello che Aziraphale doveva fare, in sostanza, era educare il bambino Gesù sulle cose della Terra in vista della sua seconda venuta. Una cosa grande davvero, aveva pensato, una cosa che avrebbe fatto la differenza.
Si era recato al primo incontro con Lui, pieno di entusiasmo, pronto ad assistere a ciò che avrebbe dovuto essere la meraviglia più incredibile di tutta la sua lunga esistenza. Il cuore gli palpitava in petto, impazzito, ma… nello spazio bianco e vuoto del Paradiso, seduto a un tavolino basso come quelli che si trovavano nelle scuole elementari sulla Terra, trovò semplicemente un bambino. Il bambino Gesù era un bambino come Aziraphale ne aveva già visti di infiniti nel corso dei secoli. Di circa dieci anni di età, con un viso rotondo di una pienezza tipica dell’infanzia, gli occhi a mandorla e una spazzolata di corti capelli neri. Era intento a far niente, in attesa. Qualcuno aveva pensato di vestirlo con un completo da uomo della stessa sfumatura di turchese che indossavano alcuni angeli, con tanto di cravatta bianca infilata nel panciotto. Aveva alzato su Aziraphale uno sguardo annoiato e aveva fatto un suono tra uno sbuffo e una pernacchia. Aziraphale si era sentito lo stomaco sprofondare sotto alle scarpe.
«Tu sei quello che mi deve insegnare? Possiamo fare presto?», aveva detto in tono lamentoso.
Aziraphale non aveva troppa pazienza con i bambini lamentosi. Sforzandosi di non mostrare alcuna traccia di delusione, si era seduto sulla sediolina accanto a lui e si era presentato. Non avrebbe voluto parlare a Gesù come si parla ai bambini umani, ma gli era uscito senza volerlo quel tono cantilenante e un po’ paternalistico: «Io sono Aziraphale, piacere di conoscerti».
Gesù l’aveva guardato da sotto in su battendo le palpebre: «Azipapale», aveva detto, dopo una piccola pausa, con un sorriso di sfida che gli scopriva una fila di denti in cui si distingueva un incisivo un po’ storto.
Oh no, aveva pensato Aziraphale, Santo Cielo no. «Non è molto… ehm, carino prendere in giro gli altri per il loro nome», quasi non ci credeva di aver redarguito il Cristo.
Non ci credette neanche il bambino: assottigliò gli occhi e fece una smorfia indispettita. «Sono Gesù», disse, «Non mi puoi sgridare».
Aziraphale voleva urlare. Il bambino Gesù, un piccolo arrogante?! Doveva trattarsi di uno scherzo!
«Be’, è importante che voi capiate come comportarvi con gli altri se dovete andare sulla Terra», ragionò nel tono più conciliante che riuscì a produrre.
«Non mi interessa, tanto gli altri devono fare tutto quello che voglio io», rispose Gesù.
Aziraphale capì che il suo sarebbe stato un lavoro lungo e tedioso, ben lungi dalle meraviglie ed episodi eccitanti che si era immaginato.
Negli incontri successivi, Gesù si era rivelato non solo arrogante ma anche completamente intrattabile e irragionevole. Aziraphale aveva preparato per lui tutta una serie di strumenti didattici, tra immagini, testi, musiche, pellicole cinematografiche, oltre che giochi, oggetti e strumenti elettronici, perché Gesù potesse provare con mano cosa voleva dire essere umani. Tuttavia, Gesù si ribellava in ogni modo possibile: quando le cose andavano bene, si limitava a sbuffare e a rifiutarsi di partecipare attivamente a qualsiasi attività avesse preparato per lui. Quando le cose andavano male... be', una volta aveva spazzato via tutti i bicchieri contenenti le bevande che Aziraphale cercava di fargli assaggiare, un'altra volta aveva fatto cadere un cellulare in una tazza di tè, e un'altra ancora si era tappato le orecchie urlando per non dover ascoltare un pezzo di Mozart dal grammofono.
Aziraphale era stato istruito ad essere ossequioso con lui, a chiamarlo Vostra Grazia e obbedire a qualsiasi suo ordine. Per questo motivo anche in quelle circostanze si era sforzato di reagire con condiscendenza e garbo, mantenendosi rispettoso. Finché una volta, semplicemente, non ci era riuscito.
Per la lezione di quella giornata, aveva scelto una copia de Il Giardino Segreto con illustrazioni pop-up che sperava l’avrebbero interessato e gli avrebbero insegnato qualcosa della natura, sia paesaggistica che umana. Ma Gesù lo aveva accolto con la solita insolenza. Gli aveva fatto una serie di boccacce mentre Aziraphale cercava di spiegargli i passaggi edificanti di quella storia e poi, quando aveva avuto il libro tra le mani, guardando l’angelo negli occhi aveva preso una delle pagine illustrate e l’aveva strappata a metà.
In Aziraphale si era acceso un furore che mai aveva provato nella sua intera vita. Era scattato in piedi, ergendosi in tutta la sua statura sul bambino seduto. «Tu», aveva tuonato, «Hai superato il limite! Sei un bambino discolo e insopportabile!». Gli aveva tolto il libro di mano.
Gesù si era fatto piccolo sotto al suo sguardo severo. «Non mi puoi mica sgridare», disse, ma era incerto. Nessuno gli aveva mai parlato in quella maniera.
«Oh posso eccome», esclamò Aziraphale, «Sai qual è il mio ruolo? Educarti, mio caro! E da ora in poi sarà ciò che farò. Niente più giochi, o torte, o cartoni animati. Te li dovrai sudare!».
E così fece. Gesù aveva cambiato atteggiamento, guardava ad Aziraphale con circospezione. Faceva quello che gli veniva detto senza entusiasmo, ma anche senza fiatare. Aziraphale gli leggeva brani tratti da testi di storia, biologia, fisica, geografia, letteratura e Gesù prima lo stava ad ascoltare e poi rispondeva alle domande che gli venivano poste con una vocina riluttante. Era un miglioramento, certamente, ma Aziraphale non era contento. Una pedagogia che non contemplasse il divertimento e il gioco, lo sapeva, era totalmente errata. Inoltre, da quando questi aveva smesso di essere un piccolo tiranno, aveva cominciato a notare in Gesù la tenerezza tipica di tutti i bambini.
Un giorno, Aziraphale gli propose di colorare insieme dei disegni con gli animali, e mentre li coloravano, parlò con dolcezza di quegli animali. Piano piano, Gesù, aveva cominciato a rispondere, prima incerto, poi facendo domande curiose. Alla fine, Aziraphale l’aveva premiato con un piatto di biscotti allo zenzero.
Durante le lezioni Aziraphale senza accorgersene si faceva scappare qualche parola di troppo. Come quando aveva spiegato a Gesù il concetto di spazio-tempo della fisica umana. Lasciandosi prendere dall’entusiasmo gli aveva fatto un monologo accorato riferendosi a problemi che il decenne Gesù non avrebbe mai potuto capire. In quel frangente si era lasciato sfuggire qualche battuta sarcastica sulla noia che avrebbe portato un tempo che non cambia mai, che non si piega con la gravità, che non si dilata né restringe, così come lo voleva il Paradiso. In un'altra occasione Gesù gli chiese perché sulla Terra esistessero le malattie.
«Perché Lei ha voluto così», aveva detto Aziraphale stringendosi nelle spalle.
«Ma di tante malattie si può morire! Perché gli uomini devono morire?», era stata la risposta risentita di Gesù.
«Perché ogni cosa ha il suo rovescio. Non puoi avere la vita senza Morte», aveva risposto Aziraphale.
«Ma se la Terra è così bella come dici tu allora gli uomini non vorranno lasciarla», aveva riflettuto Gesù, «Gli uomini odiano la Morte? È per questo che io li devo far risorgere?».
Aziraphale ci aveva pensato un po’ prima di rispondere: «Non tutti la odiano, no. Molti muoiono troppo presto e questo causa dolore, ma anche il dolore non è che il rovescio di qualcos’altro che vale la pena di avere».
A quel punto sentiva di aver conquistato la fiducia del bambino, finalmente. Il suo ruolo era più piacevole, senza dubbio, ma gli restava addosso l’insoddisfazione di non poter immediatamente realizzare ciò che si era prefissato. Ormai era passato troppo tempo dal suo arrivo in Paradiso e ancora non c’era traccia della rivoluzione che aveva sognato.
Soprattutto, non era scomparso in lui il dolore dell’addio che aveva dovuto dire a Crowley. Solo pensare quel nome gli causava una fitta lancinante al centro del petto.
Crowley era in tutte le cose che Aziraphale faceva. Mentre insegnava la Terra a Gesù lui c’era come un rumore di fondo. In ogni pianta, animale, tradizione, libro, film o angolo dell’Universo, c’era incastrato un ricordo di Crowley. Era intessuto nella trama dell’esperienza di vita di Aziraphale in una maniera inscindibile. Il senso di perdita, poi, si acuiva quando Aziraphale faceva qualcosa di nuovo, pensava un pensiero mai pensato prima, e l’istinto gli diceva chiama Crowley, dillo a lui! prima che la ragione potesse fermarlo o che i ricordi irrompessero con la loro forza distruttrice.
Le giornate in Paradiso non terminavano mai e Aziraphale non era quasi mai solo ma, non appena poteva, si recava nell’unico luogo del Cielo in cui valesse davvero la pena di stare.
Era l’Osservatorio dell’Universo. Una sala gigantesca immersa sopra, sotto e tutt’intorno, nei colori del cosmo. C’erano le nebulose come iridi scintillanti di rosso, porpora e verde, le galassie puntellate di bianco e di giallo, i buchi neri, le stelle che nascevano in vortici turbinosi o esplodevano in una luce accecante. C’erano tutti i pianeti e i loro satelliti. Quando Aziraphale camminava in quella sala, non poteva credere che quelle fantastiche architetture variopinte fossero create in funzione del rigore bianco e asettico del Paradiso, e che potessero smettere di esistere un giorno.
Lontano dall’ingresso, in un angolo remoto, c’era la Terra. Sospesa volteggiava tra il pavimento e il soffitto di stelle. Lì Aziraphale si fermava e lo cercava. Crowley era un puntino rosso di una grandezza infinitesimale, ma per Aziraphale non c’era luce in tutto il creato più brillante della sua. Si perdeva ad osservarla per tutto il tempo che poteva, consolandosi di sapere che lui, seppur lontano, era nel suo stesso Universo.
Di solito lo trovava in Inghilterra, a Londra, cioè precisamente dove l’aveva lasciato. Ma quella volta, quando andò a cercarlo, non riuscì a trovarlo. Girò attorno al globo per cercarlo altrove, ma di lui non c’era traccia in tutta la Terra. Si mosse allora a grandi passi verso la palla verde smeraldo che era Alpha Centauri, ma neanche lì c’era Crowley. Con un senso di panico crescente, scandagliò cercandolo tutti i pianeti vicini, e le stelle, i meteoriti… non era da nessuna parte. Ormai Aziraphale correva senza meta.
«Dove sei?», disse ad alta voce come se Crowley avesse potuto udirlo e rispondergli.
Alla fine si fermò, con la testa che gli girava e il batticuore che si sentiva ad altezza della gola. Crowley, il suo Crowley, era scomparso? Non era una cosa possibile in quanto nessuna creatura poteva essere separata dal creato se non da morta, e Crowley, un demone, era immortale. Allora dov’era? Che fosse tornato all’Inferno? Ma non poteva, pensò Aziraphale, era stato esiliato dopo aver sventato l’Apocalisse e, se c’era qualcosa che all’Inferno certamente non facevano, era perdonare.
Aziraphale capì che non avrebbe potuto continuare a svolgere il suo compito in Paradiso se non avesse prima avuto la certezza che Crowley stesse bene.
Si recò immediatamente presso di Michael che, come tutti gli altri Arcangeli, passava il tempo a chiacchierare e non fare nulla di particolarmente produttivo. Era seduta su uno sgabello a goccia in mezzo al nulla, immersa, appunto, in una conversazione con Saraqael.
«Io devo andare», le disse Aziraphale appena fu alla portata del suo orecchio.
Michael e Saraqael si voltarono simultaneamente a guardarlo, sorprese. Non avevano mai smesso di guardarlo come se fosse un essere fastidioso e un traditore, neanche ora che Aziraphale era loro superiore.
«Andare?», Michael alzò entrambe le sopracciglia.
«Ho… delle faccende da sbrigare sulla Terra», si giustificò Aziraphale.
«Hai il permesso? Guarda che gli angeli non se ne possono andare in giro sulla Terra come pare e piace a loro», disse Saraqael, guardandolo come Aziraphale aveva guardato Gesù mentre faceva i capricci. Certo aveva ragione, gli angeli dovevano ottenere ordini precisi per poter camminare sulla Terra e lui, che era un Arcangelo, il Supremo peraltro, avrebbe dovuto avvisare con largo anticipo prima di lasciare il posto vacante anche solo per poche ore. Ma non era tanto sciocco da credere che gli avrebbero concesso di andare a cercare Crowley. Crowley era tollerato dal Paradiso ma per nulla amato. Meno Aziraphale lo nominava e più si sentiva sicuro che l’avrebbero lasciato in pace.
«Certamente», mentì. Un tempo mentire gli causava una fitta allo stomaco, tanto era contro la sua natura di angelo, ma ormai non sentiva quasi più nulla. Solo, forse, un pizzico di agitazione nel retro del cervello, più per l’idea di venire scoperto che per il fatto in sé.  
«Perché non ce lo fai vedere?», domandò Michael. Fosse stato qualsiasi altro angelo a chiederglielo, Aziraphale avrebbe creduto che avesse qualche sospetto, ma Michael era troppo ottusa per accorgersi che qualcosa non andava.
«Perché», Aziraphale fece un piccolo ghigno, «Io sono l’Arcangelo Supremo, e faccio quello che mi pare». Sentì l’eco delle parole di Gesù nelle proprie. Avrebbe potuto sentirsi ipocrita, ma la soddisfazione di dire quella frase a Michael era troppa per fermarsi a pensare ad altro.
«Tornerò presto. Nel frattempo voi due occupatevi di Gesù», ordinò.
Sui volti degli altri due angeli si dipinse una espressione di assoluta incredulità. «Noi?», chiese conferma Michael, indicando se stessa e Saraqael con un gesto esagerato delle braccia.
«Esatto», confermò Aziraphale, «E mi raccomando, siate rispettose». Dentro di sé non poté fare a meno di immagine come l’uragano Gesù le avrebbe rimesse a loro posto. Crowley sarebbe stato così divertito da quella idea, pensò, ma poi il suo pensiero si spostò su di lui, causandogli la solita stretta al cuore e una rinnovata preoccupazione. Senza più occuparsi delle proteste di Michael e Saraqael, raggiunse l’ascensore.
Verso la Terra, verso Crowley…
 
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Muriel aveva progettato di rinnovare l’organizzazione dei libri nel negozio. Dopo che il Supremo Arcangelo Aziraphale era andato via, lei aveva dato una sbirciata tra gli scaffali e si era accorta di come i libri fossero disposti secondo un criterio assolutamente incomprensibile. Né in ordine alfabetico, né per formato o per anno di pubblicazione, neanche per dimensione! In Paradiso, le era stato insegnato che ogni cosa doveva avere un posto e un motivo preciso, e Muriel intendeva applicare lo stesso principio ai libri.
Solo che poi, nel prenderli per rimetterli in ordine, aveva cominciato anche a leggerli… La situazione era peggiorata quando una bambina bionda di nome Olive aveva fatto la sua comparsa nel negozio. Olive affermava di avere il permesso da parte del signor Fell di leggere tutti i libri che desiderava. Muriel non sapeva chi fosse questo signor Fell, ma la bambina le era sembrata così sicura di sé che non era riuscita a contraddirla. Così Olive aveva cominciato a frequentare la libreria, ed erano diventate amiche.
Leggevano insieme, sedute sulle poltrone una di fronte all’altra nell’aria polverosa del negozio. Commentavano i libri, prendevano il tè e Olive l’aiutava a scacciare i clienti, dal momento che Muriel non era ancora molto brava ad essere sgarbata.
Quel giorno Metatron le aveva fatto l’onore di venirla a trovare mentre Muriel era ancora da sola e aveva appena aperto il negozio. Fuori pioveva e lui era entrato avvolto nel suo cappotto nero, con un ombrello gocciolante sotto il braccio. Muriel si era precipitata a toglierglielo di mano prima che inzuppasse il pavimento dell’Arcangelo Supremo e solo dopo averlo preso si era ricordata che quello era il suo negozio e che Metatron, la personalità più importante del Paradiso, ci era appena entrato.
«Oh mi scusi signore io…», aveva balbettato, cercando di rendergli l’ombrello.
Metatron aveva sorriso bonariamente sotto la sua barba bianca, e con un gesto indulgente le aveva fatto segno di tenerselo.
«Ricordi», le aveva chiesto, «Che avevo un compito importante per te?».
«Certo!», aveva risposto Muriel con entusiasmo.
«Ecco», disse Metatron, sempre sorridendo, «Si tratta di una cosa molto semplice, ma molto importante. Devi trovare il demone Crowley. Se mette piede sulla Terra, tu lo farai sapere a me come prima cosa».
Muriel non si era stupita di quella richiesta: già da un po’ le era stato ordinato, tramite un altro angelo, di tenerlo d’occhio. Non sapeva per quale motivo al Paradiso dovesse interessare tanto proprio quel demone, ma aveva capito subito di non dover chiedere nient’altro. Gli angeli comuni non sono fatti per conoscere l’ineffabile piano della Divina, ma Metatron sì. Aveva annuito con convinzione, senza riuscire a trattenere l’eccitazione che le causava l’idea di mettersi alla prova e rendersi utile a qualcuno di importante come lui.
Subito dopo che Metatron se ne fu andato, mentre Muriel stava per uscire per andare a cercare il demone Crowley, era arrivata Olive. Indossava il suo impermeabile rosa e aveva i capelli stretti in due codini ai lati della testa, gocciolanti di pioggia.
«Oggi non possiamo leggere, Olive», le aveva detto Muriel, cercando di non sembrare circospetta. Non poteva rivelare gli ordini divini a una bambina umana!
«E perché?», aveva chiesto Olive, già drizzando le orecchie per la curiosità, fiutando il nervosismo nell’atteggiamento dell’altra.
«Perché…», non aveva davvero pensato a una bugia, «Perché ho altro da fare!». Fu la scusa migliore che riuscì a trovare. La bambina arricciò il naso, poco convinta.
«Allora lo farò con te»
«Ma veramente io-»
«Il signor Fell ha detto che posso», chiuse la questione la bambina. Di nuovo, Muriel non aveva idea di chi fosse il signor Fell, ma quella combinazione di sillabe le comunicava un senso di autorità che non si sentiva di sfidare.
Uscirono insieme. La bambina camminava sotto la pioggia, saltando nelle pozzanghere con le sue galosce gialle a pois e schizzando tutti quelli che le passavano accanto. Nel frattempo, Muriel cercava rifugio sotto l'ombrellino rosa che Olive aveva portato. Non aveva infatti voluto prendere quello che Metatron le aveva lasciato, per paura di rovinarlo. Le sue scarpine bianche erano già tutte infradiciate e sporche. Se avesse saputo che gli umani potevano prendere il raffreddore, avrebbe avvertito Olive di fare più attenzione e coprirsi meglio, ma in quel momento non lo sapeva ancora.
«Allora dov’è che andiamo?», chiese la bambina.
Muriel recitò mentalmente tutti i posti di sua conoscenza in cui il demone Crowley andava: qualche bar lì intorno, il negozio del Supremo Arcangelo, vari negozi di scarpe, tanti ristoranti… tutti posti in cui però nell’ultimo mese non era stato, tranne… «Al parco!», esclamò illuminandosi.
«Parco? Ma piove! Cosa devi fare in un parco?», aveva protestato Olive.
«Ho qualcuno da cercare», si lasciò sfuggire Muriel, mettendosi una mano sulla bocca subito dopo che quelle parole erano state pronunciate, come se potesse spingerle di nuovo dentro.
«Le persone non vanno al parco quando piove, sarà da un’altra parte di sicuro», commentò Olive, tirando un calcio ad una pozzanghera e schizzando il cappotto dell’ignara signora che stava camminando davanti a loro.
«Non è una persona», rispose Muriel, anche questa volta per sbaglio.
«E cos’è? Un cagnolino?», Olive si sentiva già meglio disposta ad affrontare quella ricerca.
«Ѐ più un…», Muriel si trattenne prima di lasciarsi scappare la parola demone, «Un serpente», terminò, abbastanza soddisfatta di sé per come se l’era cavata senza neanche dover mentire.
Olive le rivolse uno sguardo allucinato da sotto in su attraverso la cortina di pioggia che le separava. «Hai perso un serpente nel parco?», disse incredula, poi scoppiò a ridere. La stravaganza della situazione la divertiva. «Ma quale parco?».
«Saint James», rispose Muriel con nonchalance.
Olive rise più forte: cercare un serpente in Saint James Park! Muriel era davvero la persona più strana che conoscesse, ancora più del particolarissimo signor Fell.
Nel parco il rumore delle gocce di pioggia che si abbattevano con violenza sulle foglie degli alberi e sulla superficie del lago era quasi assordante. Muriel camminava sulla ghiaia dei sentieri con le scarpe che le si riempivano di sassolini impastati dall’acqua, guardandosi attorno in cerca di una familiare chioma rossa. L’ombrellino le riparava la testa riccia ma poiché la pioggia cadeva in obliquo, aveva oramai le spalle fradice. La piccola Olive le saltellava attorno e, siccome pensava di star cercando un serpente, si piegava ogni due passi per guardare se non c’era una coda tra l’erba e tra i fiori, o negli arbusti. Chiedeva cose come: «Ma di che colore è? Ma è grande? È un pitone o è una vipera?». E Muriel distrattamente rispondeva: «Nero con la testa rossa, sottilissimo… direi né l’uno e né l’altro, ma più vipera». Le risposte non se le stava inventando, anche se non l’aveva mai visto da serpente: pensava al corpo umano di Crowley.
Erano arrivate in un punto in cui il sentiero si apriva su uno spazio ghiaioso sulla sponda del lago. Si trattava di un passeggio cadenzato di panchine e lampioni spenti. Olive si accovacciò sotto un cespuglio di rosa canina, mentre l’attenzione di Muriel fu attirata da qualcosa in riva al lago. Era una bottiglia di vino vuota, abbandonata per terra. Le dispiacque molto pensare che qualche umano avesse osato gettare un oggetto del genere in un luogo così incantevole. Con un piccolo miracolo, dopo essersi accertata che nessuno la stesse osservando, fece semplicemente sparire la bottiglia.
«Qualcuno ha perso questi!», strillò Olive per farsi sentire da sopra il rumore della pioggia. Muriel la vide, con il viso rivolto all’insù, tutto gocciolante. Aveva inforcato un paio di occhiali da sole neri con le lenti rotonde.
Muriel li riconobbe subito.
«Sono i suoi!», esclamò illuminandosi di gioia.
«Del serpente?», chiese Olive, sollevando le sopracciglia bionde da dietro al cerchio delle lenti nere, che coprivano più di metà del suo piccolo viso.
Muriel annuì, distrattamente, avvicinandosi per toglierli dal naso della bambina.
 
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Aziraphale si trovava sulla strada che conduceva al suo negozio. Ritornare a Londra era stato quasi uno choc. Non appena le porte dell’ascensore si erano aperte era stato investito dai rumori delle auto, dal vociare delle persone e dallo scalpiccio di passi sul cemento. Aveva respirato l’odore sgradevole dei tubi di scappamento misto al profumo umido della pioggia sprigionato dall’asfalto. Aveva visto i colori variopinti delle giacche, dei capelli, delle scarpe degli uomini e delle donne che gli passavano davanti, i loro volti intenti, distratti, parlanti, tristi e felici. Un clacson aveva suonato e un’auto aveva fatto una brutta sfrenata stridente. Aziraphale aveva fatto un passo sul marciapiedi e aveva alzato lo sguardo: gruppi di nuvole grigie da temporale soffiate via dal vento stavano svelando un cielo azzurro solcato da un arcobaleno. Aveva sentito che qualcosa in lui stava tornando a posto. Quella scena sanava una sensazione sgradevole che aveva avuto addosso per così tanto tempo da non riuscire più a notarla finché non era sparita. Davanti alla porta del negozio aveva sentito una stretta di nostalgia al petto.
All’interno, l’atmosfera era la solita di sempre. Erano stati accesi i lumi e l’ambiente era riscaldato dalla loro luce dorata. Nell’aria aleggiava l’odore di tè nero e libri polverosi che Aziraphale portava scolpito nella memoria. Si concesse qualche secondo per riassaporare la sensazione di essere tornato a casa, ma la magia del momento venne interrotta da una specie di gridolino prodotto da qualcuno in fondo alla stanza.
Era Muriel, che aveva alzato lo sguardo su di lui non appena aveva udito suonare il campanello sulla porta. Lei e Olive erano rientrate qualche minuto prima, dopo aver continuato a cercare senza successo Crowley nel parco. Avevano abbandonato scarpe e giacche bagnate sull’uscio e ora si stavano frizionando con degli asciugamani per asciugarsi. Olive aveva i capelli biondi elettrizzati che le volavano tutt’attorno alla testa.
«Azi!», aveva gridato Olive, correndogli incontro, mentre Muriel ancora cercava di calmare l’agitazione.
Aziraphale riconobbe la bambina che per mesi aveva frequentato il suo negozio, leggendo sulla sua poltrona mentre lui si dava da fare a sistemare gli affari propri. «Care», disse loro, sorridendo, «Siete fradice!».
«Siamo andate al parco perché Muriel ha perso il suo serpente, ma abbiamo trovato solo i suoi occhiali», gli spiegò la bambina, indicando gli occhiali da sole in cima alla pila di libri sulla scrivania, sotto alla finestra. Muriel, dietro di lei, con gli occhi sgranati annuiva febbrilmente.
Aziraphale si sentì gelare. A grandi passi si avvicinò alla scrivania e sollevò gli occhiali con mani tremanti, portandoseli ad altezza del viso, come se fossero indossati da un Crowley in piedi davanti a lui. Una delle due asticelle di metallo era leggermente piegata, come se fossero stati schiacciati. «Dove li hai presi?», chiese a Muriel. La voce gli uscì roca e tremula.
«Erano per terra in Saint James Park», rispose lei, avvicinandosi. Lo guardava come un’adolescente guarderebbe il suo cantante preferito.
«Vicino a una panchina», precisò Olive.
«E non c’era nient’altro?», insisté Aziraphale.
«No…», disse Muriel, poi ci pensò, «Be’, c’era una bottiglia».
Gli occhi di Aziraphale scattarono verso di lei. «Una bottiglia di cosa? Dove?».
Muriel si agitò: «Io non saprei… era più o meno così», fece una serie di gesti per indicare forma e dimensione, «L’ho fatta sparire perché sporcava!».
Aziraphale a quel punto si sentiva tremare di paura. Una bottiglia e gli occhiali di Crowley per terra, nel parco, e lui irrintracciabile. Non se n’era andato volontariamente, non poteva essere. Qualcuno, pensò con angoscia crescente, lo aveva preso. Non c’era altra spiegazione perché se Crowley fosse semplicemente scappato, Aziraphale l’avrebbe trovato in qualche punto dell’Osservatorio. Doveva essere stato un altro demone: l’aveva rapito e condotto all’Inferno e ora forse Crowley stava per essere immerso nell’acqua santa, o forse era già successo... Non riusciva nemmeno a immaginare quella terribile possibilità.
«Devo ancora dirlo a Metatron. Mi dispiace signore ma io sono appena arrivata e non ho fatto in tempo a-», Aziraphale interruppe Muriel alzando una mano nella sua direzione. Aggrottò le sopracciglia.
«Cosa devi dire a Metatron?», le chiese.
«Che ho trovato un indizio!», rispose lei, entusiasta.
Aziraphale sentì un nodo di apprensione stringersi nella sua gola: «Metatron ti ha chiesto di cercare Crowley?», chiese, mentre il respiro si faceva pesante. Nella testa gli si affollarono una serie di idee, una più infausta dell’altra. Muriel, con un grande sorriso, annuì.
«Mi era stato chiesto di controllarlo finché era a Londra e l’ho seguito. Non faceva molto, stava in macchina quasi tutto il tempo», si strinse nelle spalle, «E aveva sempre sete. Ma comunque oggi mi hanno detto di cercarlo di nuovo».
«Pensaci bene Muriel: chi ti ha detto di fare che cosa e quando?», le fece pressione Aziraphale.
«Metatron è venuto oggi e mi ha detto che l’avrei dovuto cercare, e avvisarlo se mai avesse messo piede sulla Terra», rispose Muriel, un po’ spaventata per il tono perentorio di Aziraphale.
Aziraphale allora rifletté: Metatron doveva esserci accorto che Crowley era sparito. Lo stava controllando ma… perché? Da quando Aziraphale era andato in Paradiso, Crowley non aveva fatto nulla per attirare l’attenzione degli angeli. Se così fosse stato, infatti, Aziraphale l’avrebbe saputo in qualità di Arcangelo Supremo.
«Io… ho fatto bene, signore?», gli chiese Muriel con una vocina incerta. Aziraphale era troppo agitato per occuparsi di lei.
«Stammi a sentire cara: tu ora non dirai nulla a nessuno di ciò che hai trovato, o di avermi incontrato», le ordinò.
Muriel lo guardò, titubante. «Ma, signore», protestò debolmente, «Devo fare rapporto».
«L’hai fatto a me», dichiarò in tono definitivo e si voltò per uscire. La strada gli venne sbarrata dalla piccola Olive, che per tutto il tempo era rimasta in silenzio ad ascoltare ciò che si erano detti. Non aveva capito molto, solo che c’era un mistero e lei non voleva perderselo per nessun motivo al mondo.
«Dove vai, Azi?», gli chiese, a braccia conserte guardandolo da sotto in su.
Aziraphale restò interdetto: si era dimenticato completamente della presenza della bambina. Preso in contropiede le rispose: «Ho delle faccende da sbrigare».
«Allora veniamo con te», ribatté Olive, indicando se stessa e Muriel.
«Non potete venire! È un posto pericoloso».
Lo sguardo di Olive si accese di furbizia. «E quindi ci vai da solo?», chiese.
«Certamente», rispose Aziraphale.
«Ma tu una volta mi hai detto che non si può andare da soli in un posto pericoloso. Devi sempre portarti qualcuno che ti aiuti se dovessi farti male. Ricordi? Mi hai detto una bugia?», concluse, battendo le palpebre con aria innocente.
Muriel, stupita da quella rivelazione, si unì all'indignazione di Olive: «Davvero le avete detto questa cosa, signore?!» Non poteva credere che l'Arcangelo Supremo avesse mentito.
Aziraphale si trovò a dover cedere all'insistenza di Olive. Non aveva tempo di discutere e conosceva bene il carattere determinato della bambina. Se avesse tentato di dissuaderla, avrebbe soltanto perso ore preziose. La situazione era incerta, possibilmente molto pericolosa, ma non poteva rischiare di far aspettare Crowley più a lungo del necessario. Inoltre, lui era l'Arcangelo Supremo, una creatura di enorme potenza, se si fosse presentato un pericolo avrebbe certamente potuto proteggere una bambina e un angelo inesperto.
Con un sospiro rassegnato, acconsentì: «D’accordo. Mettetevi le scarpe e andiamo, forza».
Tuttavia, quando venne il momento di spiccare il volo guardò la bambina, incerto su come comportarsi. Non poteva mostrare a una umana i propri poteri in maniera così palese…
La bambina, notata la sua esitazione, gli sorrise: «Puoi fare tutte le magie che vuoi, Azi. L’ho capito da un pezzo che voi due non siete normali».
 
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Aziraphale aveva dovuto pensare in fretta a cosa fare. Se Crowley non si trovava sulla Terra e in nessuna altra parte del creato c’era poco che lui, come angelo, potesse fare per trovarlo. In realtà non poteva fare proprio niente. Gli sarebbe servito un demone che avrebbe potuto cercare Crowley all’Inferno al posto suo. Ma non c’era nessun demone che avrebbe reso un servizio al Supremo Arcangelo. Per fortuna però, Aziraphale conosceva qualcuno che non era un demone ma ci andava abbastanza vicino da poterlo aiutare.
Non era una sua conoscenza diretta. Si trattava di una figura che Crowley aveva sfruttato in qualche occasione durante il lungo periodo in cui lui e Aziraphale erano stati sulla Terra. Gliene aveva parlato una volta che erano a cena insieme. Crowley gli aveva raccontato della stranezza di quella creatura e anche della sua utilità quando c’era bisogno di certi servizi particolari che non si volevano far conoscere all’Inferno o al Paradiso. A quel punto gli aveva dato l’indirizzo e Aziraphale ne era rimasto offeso. Era un tempo in cui negava ancora il sentimento che lo legava a Crowley e l’insoddisfazione che provava nei confronti del Paradiso. «Non me ne faccio niente di questo, già è abbastanza male che parli con te!», aveva sbottato. Ora ripensava a quel momento con una fitta di dolore nel petto: come si era chiusa l’espressione di Crowley quella volta e tutte le altre in cui Aziraphale, ottuso e insensibile, l’aveva rifiutato! Come l’ultima volta, di cui conservava un ricordo che era una ferita ancora aperta e incancrenita.
Ora era atterrato sull’eremo indicatogli da Crowley, tenendo per mano Olive e Muriel.
Si trattava della cima impervia di una montagna rocciosa, caratterizzata da pietre irregolari e puntute che sembravano essere plasmate dalle incessanti sferzate di vento freddo. Nelle fenditure tra una pietra e l’altra crescevano un’erba bassa e verde e qualche arbusto coriaceo. Non c’erano zone d’ombra: l’intero paesaggio era battuto dalla luce del sole che si rifletteva, accecante, sulla bianca superficie delle rocce.
«Dove siamo?», chiese qualcuno. Aziraphale, distratto, non riuscì a distinguere se fosse stata Olive o Muriel a parlare.
«Non importa», rispose, «Venite con me». Lasciate le loro mani prese a camminare tra le rocce. Non c'era un sentiero definito; dovevano posare i piedi sulle sporgenze naturali della montagna e spesso aggrapparsi con le mani quando il terreno diventava più stretto e accidentato. Guardando in basso, vedevano un precipizio che si apriva per diverse centinaia di metri sulla valle alberata sottostante. Aziraphale cercava a tentoni l’incavo della roccia che, Crowley gli aveva spiegato, era l’accesso alla tana della creatura. Il vento gli gonfiava la giacca e i pantaloni. Dietro di lui Muriel e Olive lo seguivano osservandolo attentamente, per mettere i piedi laddove li metteva lui. Alla fine Aziraphale mise il piede su un terreno stabile: aveva raggiunto una insenatura profondamente scavata sul fianco della montagna, una sorta di grotta riparata dal sole. Notò sulla parete rocciosa una apertura verticale grande abbastanza da lasciar passare un corpo umano come il suo. Capì di aver raggiunto l’obiettivo. Fatto segno a Muriel e Olive di seguirlo, si avviò all’interno.
Entrare in quella crepa gli procurò la sensazione di immergersi in uno strato di gelatina: era chiaramente una forma di magia posta all'entrata. Non era un miracolo del Cielo né dell’Inferno, ma qualcosa di una natura terrena che Aziraphale non aveva mai avvertito prima.
Una volta dentro, si trovò in uno spazio che assomigliava a una sala da ballo solenne dei secoli passati. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario con gocce smeraldo che rimandavano una luce acquosa e frammentata. Al di sotto del lampadario si trovava un’ampia scalinata in marmo verde scuro fittamente striato di blu e di azzurro, che copriva anche il resto dell’ambiente. Alzando gli occhi sul soffitto notò invece la pietra della montagna, da cui si allungavano stalattiti tutte di dimensioni diverse. Alcune di esse gocciolavano ma l’acqua non raggiungeva il pavimento: ogni goccia restava sospesa nell’aria per qualche secondo e poi spariva nel nulla. Nel marmo delle pareti, vide Aziraphale avvicinandosi, erano raffigurate in altorilievo immagini provenienti, sembrava, dalle mitologie di diversi popoli e culture. Riconobbe per esempio una Titanomachia, l’uccisione di Humbaba da parte di Gilgamesh ed Enkidu, la cacciata di Lucifero, la battaglia di Horus contro Seth.  Non sembrava esserci alcun ordine discernibile nella organizzazione di quelle scene. Poco lontano da lui Olive e Muriel si lasciavano andare tra loro ad espressioni di meraviglia che Aziraphale non ascoltò con attenzione, troppo assorto nella propria esplorazione.
Poi, nel vuoto della sala echeggiò il rumore di passi che si avvicinavano da sopra alla scala. Aziraphale alzò gli occhi per osservare la figura che stava scendendo lentamente verso di loro.
Era la creatura, così come l’aveva descritta Crowley tempo prima. Una donna alta, fasciata da un abito scuro, con due occhi grandi e profondissimi cerchiati da un nero strato di kajal e un prominente naso aquilino. Guardava verso di Aziraphale come se fosse l’unico nuovo venuto e come se lo conoscesse già. Aziraphale avvertiva da lei delle vibrazioni che non erano né umane né di demone.
Crowley l’aveva definita una strega, ma non era come le altre streghe che Aziraphale aveva visto durante la sua lunga permanenza sulla Terra. Aveva, con un patto, legato la propria esistenza a quella di diversi demoni e in lei scorreva un grandissimo potere infernale. Inoltre era vecchia, Aziraphale lo leggeva nelle sue pupille. Quegli occhi avevano visto passare davanti a loro quasi altrettante ere sulla Terra quante ne aveva vissute Aziraphale stesso.
«Sei antica…», Muriel e Olive si erano zittite alla comparsa della strega, ma Muriel, dopo aver notato le stesse cose che Aziraphale aveva pensato, non era riuscita a trattenere quel sussurro ammirato. La guardava completamente trasognata. La strega era arrivata sull’ultimo gradino e lì si era fermata ma ora, dopo aver posato il suo sguardo magnetico su Muriel, riprese a camminare verso di lei. Raggiuntala, alzò una mano e, sotto alla luce verde, si accorsero tutti di come le sue lunghe dita magre terminassero in artigli neri da rapace. Prese il volto di Muriel con delicatezza e lo voltò da un lato e dall’altro per studiarla. Muriel tremò sotto a quella ispezione, ma non si spostò. Non aveva motivo di temerla poiché qualsiasi strega, per quanto potente, non avrebbe potuto ferire un angelo, ma in lei c’era una qualità ammaliante che incuteva soggezione. Muriel non reagiva bene alle emozioni forti.
«Come lo sei anche tu», disse infine la strega, con una voce profonda che rimbombò nella stanza. Carezzò la guancia di Muriel con il dorso della mano prima di lasciarla cadere sul fianco.
«Sei Nunet», le disse Aziraphale, andandosi a posizionare accanto a Muriel. Poteva leggere nel cuore umano della strega e aveva capito che non avrebbe fatto loro del male, ma gli risultava ancora ambigua.
«E tu sei venuto per Crowley», rispose lei.
Aziraphale ebbe un tuffo al cuore. «Ѐ qui?», le chiese, nonostante sapesse che non era possibile.
«No, Arcangelo», disse la strega, senza cambiare la sua espressione intensa, «Ti ho letto dentro quando sei entrato come tu hai fatto con me. So perché siete venuti». Poi il suo sguardo scivolò su Olive: «Mi è meno chiaro perché vi siete portati anche lei».
«Allora puoi cercarlo?», Aziraphale ignorò l’ultimo commento.
«Posso farlo», rispose lei, «Ma ho due condizioni. La prima è che ognuno di voi sarà in debito con me, compresa la bambina», alzò un artiglio, «E la seconda è che mi forniate un oggetto di Crowley».
Aziraphale aggrottò le sopracciglia: non poteva permette che la piccola Olive stringesse un legame di alcun tipo con una strega. «La bambina no», scossa le testa, «Piuttosto potrai chiedere a me un doppio riscatto».
La strega ci pensò su. «La bambina è esentata. Ma i due debiti saranno suoi», e indicò Muriel, che sussultò per la sorpresa.
«Io sono il Supremo Arcangelo», protestò Aziraphale.
La strega si strinse nelle spalle, come se per lei quel titolo non valesse molto.
«Va bene», disse Muriel, determinata anche se ancora spaventata. Voleva infatti rendersi utile al Supremo Arcangelo, che era sempre stato gentile con lei. Avrebbe fatto tutto ciò che poteva per ricambiare la sua gentilezza e portare avanti il piano ineffabile della Divina.
«Ma non è giusto!», esclamò Olive, parlando per la prima volta da quando erano arrivati. La strega la guardò di nuovo, e Olive non riuscì a interpretare cosa pensasse. Di solito le veniva semplice capire cosa pensassero gli altri. L’incertezza le metteva un po’ paura. Se non fosse stata tanto orgogliosa si sarebbe andata a nascondere dietro la gamba di Azi per cercare la sua protezione. Aziraphale, intanto, le aveva posato una mano sulla testa bionda per ammonirla e per mostrare alla strega che non doveva fare brutti scherzi con lei.
«Ѐ tutto a posto, Olive», la rassicurò Muriel.
«Chiarito questo», riprese la strega come se non fosse mai stata interrotta, «L’oggetto».
Aziraphale si rese conto che non aveva portato nulla di Crowley e stava per precipitare nel panico più assoluto, ma Olive gli tirò una manica della giacca e gli porse gli occhiali da sole. «Li ho presi io», gli disse piano.
«Oh, benedetta bambina!», si rallegrò lui. Le prese gli occhiali di mano e li porse alla strega.
«Molto bene», disse Nunet, «Seguitemi».
   
 
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