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Autore: Glance    09/10/2023    0 recensioni
Non immagina che il suo viaggio la condurrà da qualche parte, perché non ha meta.
Ma un destino sopito si sta risvegliando e l'attende tra le stanze vuote di un luogo dimenticato. Il segreto della sua malinconia si svelerà nell'abbraccio che il tempo le ha promesso e precluso.
Genere: Dark, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“ Respira … è tutto quello che devi fare. Respirare profondamente.”
Ripeterlo la fa sentire al sicuro, protetta dai ricordi.
Deve solo respirare e non cedere alle lacrime, perché se mai dovesse permettersi di piangere potrebbe andare in mille pezzi, frantumarsi.
La stazione è vuota.
Quando arriva, l’ultimo treno è in attesa e gli invisibili che la popolano compiono gesti lenti di un rituale che li tiene ai margini.
Guarda il treno con le porte aperte e ha l’impressione che voglia ingoiarla.
Per un attimo sente un brivido attraversarle il corpo.
Quello che vede non è più una fantasia, non sta accadendo nei suoi sogni, è reale. Forse decidendo di salire si perderà, oppure sarà il primo passo che le permetterà di raggiungere se stessa.
Pensa alle conseguenze, agli equilibri che andranno in frantumi, ma non le importa, vuole solo allontanarsi, andare via da tutto quello che conosce, che l’ha tenuta prigioniera in una gabbia dorata di ipocrisia.
Sa che però i ricordi la seguiranno e non le daranno tregua, forse ogni tanto si prenderanno una pausa, ma solo quello.
Mentre sale si aggrappa alla maniglia: sente la testa svuotarsi e una vertigine rendere precario l’equilibrio.
Percorre il corridoio, le luci che lo illuminano emettono uno strano ronzio e hanno un tremolio intermittente. Sembra un alfabeto Morse: forse in quel tremolio si nasconde un messaggio lasciato dal caso.
Sa che non funziona in questo modo, ma pensarlo la distoglie per qualche istante.
Ha paura, sente tutte le sue insicurezze avvinghiarla e costringerla, dandole la sensazione che l’aria intorno a lei diventi liquida.
Ha bisogno di trovare un posto che la tenga al riparo dalla possibilità di avere qualcuno seduto accanto, vuole essere sicura che non accada. Avere qualcuno seduto al suo fianco le direbbe che tutto quello è reale, e credere che sia un sogno lo fa sembrare più facile.
L’altoparlante gracida qualcosa di incomprensibile e a cui non presta ascolto mentre si siede in un posto in fondo allo scompartimento.
Sente chiudersi le porte; l’aria che entra ha l’odore ferroso del metallo mescolato al grasso di parti meccaniche, pezzi surriscaldati e polvere.
Il treno si muove con uno strappo, come qualcosa di vivo che si ribella ad un comando che interrompe l’ozio di un riposo meritato. All’inizio sembra muoversi controvoglia, cigolando la sua disapprovazione con un rumore di articolazioni irrigidite dall’età, come un vecchio che ascolta le sue ossa raccontargli del tempo che è passato.
Cerca di affondare nel sedile e tentare di sfuggire ad uno spiffero d’aria gelida che si insinua tra il colletto del cappotto e il maglione di lana.
In maniera graduale ascolta aumentare la velocità, e si rende conto che sta succedendo davvero.
Uno alla volta i vagoni si spostano trascinandosi gli uni con gli altri e ne percepisce lo sforzo.
Il mondo è fuori, dietro lo spessore sottilissimo del vetro freddo, appannato dalla condensa che scivola via come lacrime incapaci di essere trattenute.
Il mondo, pensa, nonostante tutto continua a girare, incurante, diventando notti stellate o cieli carichi di nuvole di piombo, capaci di rendere l’aria densa di elettricità dall’odore pungente che annuncia temporali. Continua distratto la sua corsa, perpetuo, indifferente ad ogni singola vita.
La traccia delle vite che sono scivolate via non sono nient’altro che condensa sull’enorme vetro dell’universo.
In cielo una stella cadente si perde dietro l’orizzonte e gli occhi la seguono, istintivamente curiosi: scompare dove la luce del giorno appena trascorso si può solo percepire. Dalla prigione dorata da cui è uscita senza voltarsi indietro, ha portato con sé solo la foto di una bambina seduta con le mani in grembo e lo sguardo già velato di tristezza che guarda lontano. Una bambina che, se la si guarda bene, ancora le somiglia, in quel suo modo di stare seduta e tenere le mani in grembo, come un dipinto di quelli che si vedono nei musei, o in quelle vecchie fotografie color seppia dove le bambine hanno i vestiti candidi adornati di pizzi e nastri.
Non ricorda a cosa pensasse o cosa  stesse immaginando.
A cosa può pensare una bambina di tre anni con lo sguardo triste affamata d’amore?
Non lo sa, non lo ricorda; forse le stesse cose semplici che vorrebbe per sé oggi che cammina verso un treno per andare in un posto lontano disposto ad accoglierla, mentre si sente come il gemello sopravvissuto. Somiglia in tutto e per tutto a qualcuno con cui ha avuto per anni un legame profondo e conflittuale che non esiste più.
Non ha pianificato, e non riesce a vedere nulla oltre ciò che ha davanti; forse è un bene, l’unico modo di non rimanere delusi è non aspettarsi niente. Fatica a rendere il suo respiro regolare, stringe i pugni fino a sentire le unghie premere nei palmi.
Piano piano, un respiro per volta, l’aria torna ad entrare nei polmoni con un ritmo normale, i muscoli perdono la loro posizione d’allerta e le pupille non rimangono fisse, in attesa di vedere una minaccia che non c’è.
Il treno fa muovere il paesaggio circostante facendolo scorrere dietro i finestrini, è come osservare delle diapositive, tutto cambia così rapidamente come un nastro che si avvolge su se stesso.
Si allontana, lo sente scivolare lungo i binari, inciampare ad ogni congiunzione del ferro, strattonarla ad ogni inclinazione data dalle curve, sente ogni salita e ogni discesa, quando entra in galleria è come venire risucchiati nell’oscurità della terra, quella che ne cela i segreti, dove le tracce di ciò che è stato si sono stratificate.
Tutto viene nascosto per un tempo più o meno lungo, chi cerca magari non sarà in grado di trovare e chi non cerca un giorno senza volerlo s’imbatterà in quello che è stato perduto.
Il treno continua la sua corsa e, anche se non c’è nessuno, si ferma ad ogni stazione. Vede scendere qualcuno, reduce forse dall’ultimo turno di lavoro, ma non vede salire nessuno, neanche il controllore è passato; ne è sollevata, quasi temeva il momento in cui avrebbe dovuto rispondere al suo saluto e porgergli il biglietto.
Non ha contato le fermate, a tratti il tempo si è sospeso strappando immagini al passato, immagini frammentate, fatte di buchi in cui i ricordi sono stati risucchiati. Ci sono episodi della sua vita che non ricorda.
L’unica cosa che le è rimasta di tutto è una sensazione di vuoto e di rimpianto, qualcosa nel profondo si è spezzato e quel dolore l’ha svegliata, costringendola a vedere, guardare con altri occhi la sua vita.
Anche per lei il tempo, come per tutti, era passato, non sarebbe tornato indietro, e ciò che si era rotto non poteva essere riparato; aveva capito che le cose perdute sono perdute per sempre, non tornano, e i ricordi possono riuscire a tenerti aggrappata al passato facendoti credere di avere vissuto quello che non è mai accaduto.
Nella sua bolla aveva visto dilatarsi il tempo fino quasi a rallentare e farle credere che in effetti non fosse poi andato così distante da lei, ma inevitabilmente come per tutti era passato.
Alle volte sentiva il bisogno di urlare, disperarsi e poi non lo faceva per un pudore che affondava le radici in quel suo non voler essere irriconoscente.
Aveva scavato intorno a se un fossato e si era rifugiata nel silenzio e nella solitudine, come in una torre, rimanendo in allerta, in ascolto in una maniera del tutto differente da come era abituata, da come sapeva, in un modo che scopriva per la prima volta. Questa solitudine, era qualcosa di se che ricercava e in cui si era immersa e non lo aveva mai fatto prima, ne aveva sempre avuto paura.
Il treno rallenta,  non sa quantificare il tempo, ma si appresta ad entrare nell’ultima stazione, l’altoparlante annuncia il capolinea.
Prendere con se la valigia, è stato un gesto fatto con un cenno impercettibile d’esitazione, come se la nebbia che vede salire e infittirsi fuori, sia l’anticamera di un monito. Si stringe nel cappotto, dal finestrino appannato si accorge della pioggia, il cappuccio la ingoia al suo interno quando lo alza sulla testa facendola scomparire e mettendola al sicuro.
Riuscire a sentirsi invisibile, un’ombra che si muove scivolando silenziosa senza lasciare nessuna traccia.
Scende dal treno sentendo il tonfo sordo delle suole sul marciapiede, l’aria compressa delle porte fuoriuscire con uno sbuffo insofferente come a volersi liberare dal peso dell’ultimo passeggero.
Si guarda intorno, non vede nessuno ed ha la sensazione di essere l’ultima anima di quel Caronte metallico verso la riva sconosciuta della sua destinazione.
Le ruote della valigia sul marciapiede procurarono un rumore amplificato dal silenzio, come un fantasma che trascina le proprie  catene.
E’ sola in un posto che non conosce e ha paura; per la prima volta nella sua vita è veramente sola e non sa cosa fare, la sensazione di fiato corto però stranamente non la paralizza.
Uscendo fuori nella luce del piazzale si accorge di non sapere dove andare.
Non vuole restare lì, ma considera l’ipotesi di aspettare che arrivi un mezzo per raggiungere un posto qualunque dove passare la notte.
Sente a quel punto lo stomaco contrarsi per il freddo e la fame, ma è determinata a non cedere alla moltitudine di sensazioni che la stanno invadendo.
Spaventata, sospesa senza tempo e senza spazio nel silenzio accogliente di quella notte che l’avvolge, nella quale si è immersa, decisa a non cedere, cerca in quel silenzio di ascoltare gli anni vuoti e perduti che la sua mente a tratti trova e riconosce, che continuano a scivolare in un mare scuro, che a momenti le era sembrato calmo e invitante.
Riuscire a trovare ciò che si è perduto dentro di noi non è facile, alle volte non lascia scampo.
Il ticchettio delle unghie di un randagio sul selciato la distoglie dai suoi pensieri.
Il cane le passa accanto, con il muso basso: mentre annusa il terreno sente il suo odore, lo riconosce come qualcosa di diverso e rallenta appena l’andatura, la guarda senza alzare il muso, drizzando le orecchie corruga la fronte, solleva lo sguardo, come a voler cercare l’origine di quella traccia, dargli una forma.
Si sfiorano appena e per un attimo finiscono occhi dentro  gli occhi, e in lei tornano prepotenti gli anni di sguardi che non avevano tempo di guardarla, di capire chi fosse o cosa era diventata.
Lo sguardo di un cane le ha riportato alla mente quei ricordi, il dolore che le ha impedito di respirare.
Il dolore è parte di lei, lo sente  attraversarla sotto la pelle, da sempre impigliata in quella  sofferenza.
Perché è sempre stato come se il mondo non la comprendesse e lei non fosse in grado di comprenderlo
Perché se si fosse concessa di ascoltare avrebbe lasciato andare, avrebbe capito che il dolore non ha una ragione.
Aveva guardato andare in frantumi ognuno dei sogni sognati, tutto era andato oltre il suo corpo, la sua vita, le sue speranze, otre quei ricordi che alle volte si perdevano e cercava di raggiungere, che scorrevano come acqua dentro acqua, mischiandosi e annullandosi nella sua mente.
Un giorno, tutto aveva preso impercettibilmente a mutare.
Sente ad un tratto il bisogno di muoversi:  come ubbidendo ad un richiamo che viene dalla parte più profonda della sua anima, un passo dietro l’atro s’incammina dietro il cane.
Il rumore delle ruote della valigia sull’asfalto palesa la sua presenza.
L’animale si ferma, si gira e la guarda più curioso che minaccioso.
Sotto la luce del lampione, si accorge del pelo lucido e fulvo. Non sembra un randagio, sembra avere una casa a cui tornare, il calore di carezze.
Le da l’impressione che sia abituato ad avere a che fare con le persone. La guarda più volte, fermandosi come per aspettarla, piegando la testa prima da un lato e poi dall’altro. La scruta con lo sguardo dolce scodinzolando, quasi contento di avere compagnia, per poi continuare a sfiorare il suolo tenendo il muso basso.
Sembra come se avesse rallentato l’andatura per aspettarla.
Continuando a camminare la strada li porta lontano dalla città: immergendosi nella campagna il paesaggio si trasforma.
Il cane fulvo prende un sentiero sterrato che si inerpica sulle pendici di una collina.
Le luci dei lampioni non si scorgono più, hanno lasciato il posto al chiarore della luna.
La notte si immerge sempre più nel suoi buio, come a voler consumare ogni traccia del giorno trascorso,
dandole l’impressione che quella oscurità l’accompagni da sempre. La faccia pallida della luna in cielo è come se li osservi sorridente e bonaria dal suo posto privilegiato. Sembra conoscere, sapere le sorti di ogni creatura della terra.
Il sentiero si restringe sempre più, i rovi lo invadono ostacolandone il cammino.
Il cane fulvo continua a camminare, si infila tra un groviglio di rami e scompare al suo interno.
E’ a quel punto, quando il cane scompare dalla sua vista che il freddo e la stanchezza la investono come uno schiaffo in pieno viso. La solitudine le piomba addosso, la sente nuovamente compagna tangibile, le lacrime prendono allora a scivolare copiose, rendendosi conto di essere incapace di trattenerle.
La vista è appannata  e non le permette di scorgere  tra i rami nessun movimento, ma dopo poco il muso fulvo del cane appare tra il groviglio di rami e l’animale le si fa incontro.
La sfiora annusandola, poggiandole il naso umido  sul dorso della mano.
Il cane fulvo è tornato indietro, e prende a scodinzolarle intorno, uggiolando per attirare la sua attenzione.
Sembra avere capito il suo dolore e volerla consolare rassicurandola della sua presenza.
Capisce che sta cercando una carezza. Poggia la mano sul pelo morbido e lucido e ne sente il calore sotto le dita. Lui le lecca la mano.
Nessuno  ha mai riservato tante attenzioni alle sue lacrime.
Le poggia il muso sulle gambe e rimane a guardarla con  gli occhi grandi ed espressivi , sembra aspettare che smetta di piangere, poi si volta e si dirige nuovamente verso il groviglio di rami, esitando e tornando a guardarla prima di attraversare la fitta cortina di rovi.
E’ chiaramente un invito a seguirlo, e si accorge guardando meglio che spostando uno dei rami può riuscire a passare.
Oltre, il sentiero continua delimitato da una staccionata di legno che in alcuni punti ha ceduto piegandosi di lato su se stessa in una sorta d’inchino.
Il cane continua a camminare, sincerandosi di tanto in tanto che lo stia seguendo; dopo una deviazione  la conduce all’inizio di un piccolo viale di ghiaia, dove sotto una grande quercia, c’è un sedile di marmo poggiato sulla schiena di due leoni.
Il cane si sistema sotto il sedile posando la testa sulle zampe e rimane a guardarla, placido, come se per lui quel posto fosse una consuetudine.
Guardare quella tranquillità le fa sciogliere la tensione, la rincuora. Si muove piano, un passo per volta nel timore che stia solo vivendo un sogno. Raggiunge il sedile, lo pulisce dalle foglie secche che vi si sono accumulate, ne stringe alcune nella mano, le danno la sensazione di essere senza peso, fragili, aumentando la stretta le sente sbriciolarsi, con un crepitio che si dissolve nel silenzio che la circonda.
Il cane istintivamente muove le orecchie,spostandole nella direzione da  cui proviene il rumore e aggrotta la fronte.
Nel profondo un sospiro di sollievo si fa strada, assapora quella sensazione data dall’aria che penetra nel petto senza fatica, dolcemente, come a colmare quella fame che ha da sempre.
Ha vissuto costantemente in apnea, con la sensazione incessante di non riuscire a respirare.
Avvicina le mani alla bocca per scaldarle.
Il suono del silenzio ha la voce del vento tra i rami e le foglie della grande quercia.
Istintivamente apre la mano per sentire scivolare l’aria tra le dita, liberando  i residui di foglie che cadono al suolo.
Le osserva ondeggiare in quel loro breve viaggio.
L’aria profuma d’inverno, di nevicate copiose e silenziose.
Vorrebbe che il tempo si fermasse, che tutto smettesse di muoversi, vorrebbe che quel momento rimanesse sospeso in quella bolla sicura, in quell’angolo di mondo sconosciuto, incontrato per caso.
Sente di non avere bisogno di niente lì. In quel luogo, non ci sono ne ricordi, ne rimpianti.
Si sente per la prima volta intera, completa.
Rimane seduta, guarda verso un punto nel cielo, le nuvole ora hanno coperto la luna, il suo bagliore colpendole rilascia una luce lattiginosa che avvolge il paesaggio circostante. Il cane fulvo accanto a lei si è addormentato.
Non vuole andare da nessuna parte, ha solo voglia di dormire.
Il cane fulvo all’improvviso si desta, la notte continua ad avvolgere ogni cosa e il freddo l’ha quasi intorpidita. Guardandola si avvicina,  vuole che lo segua.
Facendo forza su se stessa, si alza per seguirlo. Decide di assecondare quella strana conversazione fatta di sguardi tra di loro.
Lui la conduce su un sentiero che porta ad un viale di ghiaia, lo capisce perché i raggi della luna lo fanno risplendere, ne sente il rumore sotto i passi che muove incerta, è costeggiato da alti cipressi. Mettendo un piede dietro l’altro procede senza sapere dove. Alla fine del viale si trova davanti ad un cancello imponente, chiuso da una catena arrugginita, sembra proteggere una grande casa che appare come preda di un incantesimo.
Davanti ai suoi occhi tutto sembra addormentato.
Poggia le mani sulle sbarre, mentre il viso le si inonda di lacrime e la malinconia le procura un dolore profondo nel petto.
C’è qualcosa lì, che riconosce e le appartiene. Lo sguardo scivola sulla desolazione di alberi spogli e su di una panchina divorata dalla ruggine; tutto intorno, quello che una volta è stato fiorente ora è solo silenzio e abbandono soffocante, come la morsa delle piante infestanti che s'insinuano ovunque, invadenti e oltraggiose.
Il sapore del tempo trascorso le arriva come un’onda.
Vuole entrare, per assecondare il bisogno di raggiungere quell’edificio, di toccarlo, per avere la conferma che sia proprio lì davanti a lei.
Sente le gambe venirle meno, il corpo accasciarsi senza forze: come se il vuoto le si fosse insinuato ovunque.
Il cane fulvo si muove curioso, le avvicina il naso umido alla guancia, la lecca, il calore del respiro sembra rinfrancarla.
Il chiarore dell’alba comincia ad accarezzare l’orizzonte: ancora le ombre della notte faticano a cedere il posto alla luce del mattino. I raggi del sole timidamente si aprono un varco tra le nuvole, portandole la sorpresa dei primi fiocchi di neve: freddi sul viso, è come se le bruciassero la pelle.
Ancora una volta il cane si allontana, lo cerca voltando lo sguardo in ogni direzione, ma non riesce a vederlo.
Nella luce del mattino tutto sembra diverso.
La neve comincia a cadere più copiosa, il respiro si trasforma in nuvole di vapore. Decide di volersi muovere senza però che le riesca di farlo, continua a sperare di vedere tornare il cane. Ha bisogno di stare al caldo, la notte passata fuori le ha tolto le forze;  la neve comincia ad aderire al suolo.
Non vuole però allontanarsi .
All’improvviso il muso del cane fulvo è nuovamente accanto a lei che l’annusa, lo sente uggiolare, sembra capire il pericolo, la lascia per un momento, nuovamente corre via, ma ritorna indietro, lo ascolta abbaiare verso la fitta vegetazione della sera prima, corre di nuovo via, continua ad abbaiare ed a uggiolare.
Il rumore delle zampe sul terreno le dicono che non si allontana mai troppo, rimane comunque nelle vicinanze, anche se si muove, accenna una corsa che interrompe come combattuto.
E’ come se volesse attirare l’attenzione di qualcuno.
Nuovamente sente le forze abbandonarla.
Il cane fulvo abbaia, come per chiamare qualcuno  che dopo risponde con un fischio.
“ Ares…qui bello!”
La voce la raggiunge strappandola per un momento  a quel torpore.
Rimanendo aggrappata al cancello cerca di scorgere una sagoma, ma non riesce a vedere nessuno.
Tenta di alzarsi in piedi, ma le gambe cedono, si sente esausta, senza forze, come svuotata, preda della debolezza, come se avesse ingaggiato una lotta.
Sente il cane allontanarsi, e la voce continuare a chiamarlo.
Ha un tono morbido, rotondo, ma ne avverte la fermezza, l’autorevole indulgenza.
“ Qui bello, ma dove sei stato?”
Non è pronta per rivelare la sua presenza, per incontrare qualcuno, non vuole domande banali,  frasi fatte di circostanza. E’ quasi risentita con il cane fulvo: vorrebbe scomparire, diventare invisibile. Non riesce però a sollevarsi da terra, per quanto faccia sembra che il terreno la trattenga.
Si guarda intorno, e ha l’impressione che qualcosa sia cambiato, tutto sembra uguale, ma non lo è.
Tutto è allo stesso posto, ma ha un’aria più ordinata, più curata, non si avverte più quella sensazione di abbandono.
Non vede più la ruggine ricoprire il cancello, guarda attraverso le sbarre, le aiuole sono curate, le piante infestanti sono svanite, la casa sembra immersa in una tranquilla serenità: è come se da un momento all’altro qualcuno potesse uscire dal portone libero dall’edera.
Magari la stanchezza ,le ha giocato un brutto scherzo, oppure è stata la luce ovattata della luna o semplicemente la sua voglia di trovarsi in un luogo deserto, ma la notte appena trascorsa le ha raccontato di un luogo abbandonato da decenni, e non è così.
Si sente una stupida per averlo creduto.
Sente abbaiare il cane, dalla fitta vegetazione alle sue spalle.
La testa le gira, ha sete ed è come se avesse la febbre.
Si sente scivolare in un oblio, la vista le si appanna, per un istante vede nero, quando riapre gli occhi qualcuno la sta sorreggendo, l’ha solleva tra le braccia e la sta portando oltre il cancello aperto.
Il rumore della neve che si compatta sotto le suole le arriva attutito.
Stenta a tenere gli occhi aperti, riesce a vedere a tratti, e intravede il portone della casa, mentre le narici le si impregnano di un profumo che la tranquillizza, la scalda, sa di panni stesi al sole e sapone in un misto di colonia, cuoio e tabacco che non le è mai capitato di sentire prima d’ora.
Sente le braccia che la sorreggono sicure, il passo fermo, il respiro regolare, come se portarla non gli costasse alcuno sforzo.
E’ tranquilla, non sente timore, ansia, avverte un senso di protezione e accudimento che non conosce, che la rinfranca e cede a quelle sensazioni poggiando il capo sulla spalla di quell’uomo sconosciuto, di cui non riesce a vedere il volto. Al loro fianco il cane fulvo cammina, salta e abbaia nel tentativo di attirare l’attenzione. Non le riesce però di muovere neanche un muscolo  e pronunciare un qualsiasi suono anche se cerca di farlo. E’ come se avesse viaggiato attraverso il tempo, si fosse smaterializzata e ricomposta tra quelle braccia.
La neve copiosa continua ad adagiarsi senza fare rumore, la sente sul viso, impigliarsi nei capelli con la sua carezza fredda, mentre il cuore cerca di scoppiarle nel petto.
Un dormiveglia pesante, invadente, la costringe a chiudere gli occhi, sente perdere di nuovo il contatto con la realtà, cerca di resistere, ma è come se un sortilegio la costringa a dormire contro la sua volontà: l’ultima cosa che ascolta sono le parole che l’uomo che la sorregge rivolge verso il cane fulvo:  “Qui bello, entriamo in casa e capiamo cosa le è capitato. Dio com’è pallida!”
Lo sente esclamare e si convince di stare sognando.
 
 
  
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