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Autore: Ragazzamagica    09/10/2023    0 recensioni
(La storia è in revisione, e perciò sospesa)
Samuel Filder è un individuo dalle molteplici qualità.
Infatti è miserabile, passivo e condannato a un destino gramo, come confermato da tutti coloro che lo circondano.
Ma è Samuel stesso il suo più grande, fiero sabotatore. Gode nel vedere come tutto possa andare sempre peggio e ogni notte, prima di coricarsi, si gusta l’inasprimento della propria miseria, felice come non mai.
Perciò, avendo a disposizione armi raffinate come la tendenza all’auto-flagellazione e la determinazione ad andare incontro al suo destino, Samuel Filder non vede l’ora di scoprire fino a quanto la propria vita possa peggiorare!
(ǫᴜᴇsᴛᴀ sᴛᴏʀɪᴀ ᴘᴀʀᴛᴇᴄɪᴘᴀ ᴀʟ ᴡʀɪᴛᴏʙᴇʀ ᴅɪ ғᴀɴᴡʀɪᴛᴇʀ.ɪᴛ)
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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» Prompt: Ancora

Capitolo 4: Ringhiatemi contro, e io vi mostrerò la tenera carne


Uno, due, tre.
Quattro, cinque, sei.
Non stava tenendo il conto dei colpi. Stava tenendo il conto delle coppie di colpi.
In particolare, la combinazione pugno e calcio era sorprendentemente efficace nel tirargli fuori le strilla più patetiche. I suoi assalitori erano così talentuosi!
Era strano a cosa si aggrappasse la sua mente, nel tentativo di sfuggire al dolore…
Sette, otto, nove…
In ogni caso, si era chinato a terra quasi subito e questo gli aveva permesso di prendersi quella dannata mazza solo alle spalle, prima di essere bombardato di calci una volta steso a terra. Grazie a Dio avevano evitato di colpirlo con la mazza sulla schiena, o avrebbe rischiato di rimanere paralizzato.
Sì, per una volta era riconoscente nei confronti della propria fortuna.
Strano a dirsi, ma il dolore fisico aveva sempre una valenza trasformativa.
Non è che si sentisse particolarmente cambiato, mentre i numeri perdevano i loro contorni nitidi nella sua mente…
Dieci, undici, dodici…
Però sentiva che dentro di lui stava accadendo qualcosa. Qualche incrinatura. E non erano solo le costole rotte.
Tredici, quattordici, quindici…
I colpi erano palle di fuoco e lui solo una massa di erba secca pronta a diventare cenere una volta consumata…
Sedici, diciassette, diciotto…
Tanto presto sarebbe diventato incosciente. E di nuovo, maledisse la sua mente, sempre tremendamente attiva, che avrebbe già dovuto tacergli il dolore da un pezzo e invece continuava ad elaborare tutte quelle sensazioni – maledizione, quel calcio sembrava quasi un colpo fatale e il sibilo strozzato che gli uscì dal petto, così simile al lamento di un cigno in agonia, non gli piacque per nulla.
Ehi, dico a voi, ma pensate forse che io meriti il vostro tempo?
Questo avrebbe voluto dirgli, per metterli in guardia – proprio come la brava guardia che era, no? – e invece lo pensò soltanto, perché parlare era fuori discussione.
Aveva smesso anche di contare.
A cosa si stava aggrappando? Qual era la parte di lui che continuava a rimanere sveglia, e perché?
Qualche flash, qualche pensiero vagante dalla dubbia utilità…
Gli ricordarono la miseria degli uomini soli…
E lui era solo…
“Mi hai abbandonato, amico mio” pensò, un unico pensiero distinto su una valanga di idee e immagini confuse.
Non era nemmeno rivolto a Finnegan. Non sapeva a chi fosse rivolto. Forse era una rappresentazione generale. Mi avete abbandonato, tutti. “Ma tutti chi? Chi è questa massa indistinta da cui mi sento giudicato? Forse sono solo io, che mi sono abbandonato molto tempo fa”.
Non era arrabbiato con gli assalitori.
Dopotutto loro facevano il loro mestiere di persone che picchiavano e ti facevano sputare anche l’anima.
Non ce l’aveva con Finnegan.
E nemmeno con il proprio lavoro.
Forse, per una volta, non era arrabbiato neanche con se stesso. Quel corpo ce la stava mettendo tutta pur di resistere… riusciva solo a fargli compassione, come se fosse stata un’entità separata da lui.
…Trenta.
Un numero a caso. Giusto? Erano coppie o numeri singoli?
Era quasi tentato di chiedere a loro l’ammontare esatto, ma poi, finalmente, la sua coscienza si spense.
 
A cosa aggrapparsi, allora, mentre la coscienza sprofonda nell’incoscienza?
Samuel, Samuel, Samuel… il suo nome era forse un appiglio a salvarlo dal nulla che lo circondava? Continuava a riecheggiare tutt’attorno…
No. Gli ricordava soltanto pressione, aspettativa, il peso del fallimento.
E poi c’erano l’Omone, la ragazza bionda, i suoi colleghi, Finnegan.
Non erano appigli.
Sua madre.
Sua madre era un appiglio?
L’aveva lasciata da sola a casa.
Il suo lenzuolo bianco così simile al sudario di un cadavere sulla pelle raggrinzita e tesa dalla sofferenza. Incartapecorita. E poi c’erano le ragnatele di vene su cui sembravano arrampicarsi, immaginari, gli insetti e i vermi della sua malattia che la succhiavano da dentro, con viscida e compiaciuta lentezza – gustandosela con cura, banchettando con i suoi lamenti sempre più inumani.
Gli faceva male guardarla – la morte incombente di lei gli ricordava ciò che avrebbero potuto fare e che invece non avrebbero mai fatto, come per esempio ricucire le fratture del loro legame madre-figlio, di gran lunga superiori a quelle inflitte da qualsiasi violenza.
Forse c’erano dolori che si potevano sopportare e dolori che, invece, erano intollerabili. Lei era uno di quelli, insieme alle botte.
Da lei non poteva avere nemmeno più il dolore.
No, sua madre non era l'appiglio.
Non c’era davvero niente, tranne lui se stesso.
Ma non gli servivano ancore o appigli. Né aveva mai avuto la presunzione di pensare al suicidio.
Somministrarsi il male per evitare altro male futuro… una scelta profondamente dissennata. Era meglio soffrire fino alla fine, senza cercare una via di fuga. Perché evitare la giustizia della vita?
E poi si rese conto di poter aprire gli occhi. Apparvero un letto bianco, tende bianche, tutto bianco.
“Oh, mi sono svegliato” realizzò, volgendo lo sguardo all’intorno.
Una stanza d’ospedale.
Ah, eccolo in un posto che disprezzava forsennatamente! Gli ospedali.
Chi poteva aver chiamato i soccorsi? E cosa ci faceva, lui, in una stanza d’ospedale? Non doveva essere curato.
Meglio tornarsene a casa…
Ma una sfilza di fitte glielo impedì, costringendolo a letto.
Osservò la stanza, cercando un modo per aiutarsi ad andarsene.
Non era tutto bianco come gli era sembrato all’inizio. In realtà le tende erano di un verde chiaro – e lui iniziava a riabituarsi alla realtà, focalizzando anche il dolore e la sua sconcertante, tormentosa pioggia di schegge.
C’era una leggera brezza profumata di fiori a soffiare dalla finestra aperta – riusciva quasi a coprire l’odore di disinfettante, un odore a cui non era abituato – e l’atmosfera era silenziosa, disturbata solo dal ronzio dei macchinari medici.
Si rese conto di essere parzialmente immobilizzato con steccature e fasce elastiche all’altezza del torace – erano i punti in cui gli faceva più male.
“Banale” commentò Samuel. Sarebbe stato più interessante svegliarsi a lavoro, oppure in una cantina di proprietà degli assalitori, mentre tiravano fuori degli strumenti di tortura.
Forse aveva troppa immaginazione.
Si sorprese ad emettere un profondo sospiro, riflettendo sul presente.
Il suo errore era stato cercare di avvertire Finnegan sull’inutilità di una vita spesa a sperare nelle cose.
Lui aveva messo in discussione il nuovo equilibrio della sua vita – quello che si era sforzato tanto di raggiungere, e che finalmente era tutto suo – cercando di inculcargli tutte quelle idee insulse. Finnegan era solo un miscredente, un fallito. L’errore era stato cercare di farlo ricredere, salvare il suo tempo.
Presto si sarebbe fatto molto più male di Samuel stesso.
“Peggio per lui”.
Lui invece era in quella stanza asettica, a godersi la sensazione delle pulsazioni viscerali, delle ferite aperte.
Aveva sofferto tanto, ultimamente.
Forse così tanto che, almeno per un po’ di tempo, avrebbe potuto riposarsi.
Appena prima che lui potesse rinnegare quest’ultimo pensiero, la porta si aprì.
“Oh, lei è Samuel Filder. Siamo felici che si sia ripreso” mormorò una delicata infermiera, entrando. Aveva un corpo sottile e il viso offuscato da una leggera apprensione. Gli occhioni blu.
Samuel puntò lo sguardo al soffitto, impostando il suo viso all’austerità. Sì, era una donna graziosa. Non doveva guardarla, per evitare a se stesso meschine tentazioni.
Non si poteva mai sapere. Non si fidava delle donne e delle loro macchinazioni. Il massimo che tollerava erano le sue colleghe, a cui cercava sempre di fare schifo, strategicamente.
“Buonasera”, salutò in tono neutro, rivolto ai quadrati regolari in alto.
“Signor Filder, è pieno giorno. Non vede la luce del sole?” Un velo di preoccupazione nella voce.
Samuel non rispose.
L’infermiera lo raggiunse. Samuel colse l’immagine vaga del suo camice bianco. Ridirezionò lo sguardo alla sua sinistra, in modo che rimanesse fuori dal suo campo visivo.
“Io sono Clary, l’infermiera di turno. Le porto subito dell’acqua, avrà molta sete! Come si sente? Sta bene?”
“Assolutamente sì” sentenziò Samuel, realizzando che se avesse mentito sulle sue condizioni, avrebbe potuto tornare prima alla vita di tutti i giorni. Con tutte quelle scariche tremende che il corpo gli stava inviando, sarebbe stato anche più angosciante lavorare. Una vera delizia!
“Eppure, non dovrebbe. In seguito all’incidente, ha subito una serie di ferite significative. Il nostro esame mostra che ha subito fratture ossee in diverse parti del corpo e contusioni estese. È anche svenuto, e ha continuato a dormire profondamente fino ad ora.
Fortunatamente, non ci sono danni permanenti agli organi vitali. Le stiamo fornendo il miglior trattamento possibile per garantire una pronta guarigione! Sarà necessario un periodo di degenza e riabilitazione per recuperare completamente.”
“Capisco” commentò Samuel, deluso.
Quella donna era così fastidiosa. Aveva una voce che cercava di trasmettere qualcosa come calore: un lodevole tentativo di finzione, ma lui aveva ben altri pensieri con cui tenersi impegnato.
Visto che non si affezionava a nessuno, nessuno poteva – purtroppo – fargli del male. Questo voleva dire che era pressoché alieno alle sofferenze delle relazioni umane e che, per rendere più complicata la propria esistenza, doveva cercare necessariamente fatiche e umiliazioni fisiche e pratiche.
Perciò quell’infermiera era solo un’inutile perdita di tempo. Piuttosto, sarebbe stato meglio concentrarsi sulla ricerca di un terzo lavoro.
“Comunque so che è pieno giorno” aggiunse ad un certo punto, fissando intensamente la porta della stanza. Comprese che, se non si fosse dimostrato perfettamente lucido, lo avrebbero trattenuto. Doveva convincerli della bontà delle sue condizioni, così avrebbe potuto tornare subito nella piena routine della sua vita quotidiana. “Ma ho pensato fosse passato mezzogiorno. In tal caso, è corretto anche dire buonasera”.
“Ma certo” rispose gentilmente l’infermiera. “Comunque, sono le dieci. Lei ovviamente si è svegliato da poco e non può ancora sapere che ora è…”
Quanta gentilezza rivolta verso una guardia notturna che non aveva adempiuto al suo dovere. E le case? C’erano state altre aggressioni? Tutto perché non era riuscito a muoversi.
Certo, soffrire era giusto. Ma questo non doveva comportare il mancato rispetto delle proprie responsabilità. Era già stato licenziato?
“Le ho messo una bottiglia d’acqua sul tavolino, per quando vorrà berla. Mi faccia guardare la pupilla, per favore”.
Samuel sgranò gli occhi, sentendo un’altra fitta al costato… e una fitta di amarezza. A malincuore, si costrinse a rivolgersi verso di lei.
L’infermiera si sporse su di lui, forse in cerca della lucidità rivelatrice impressa nello sguardo.
Samuel le fissò la punta del naso, dritto e piccolo… si distrasse – certamente un momento di confusione dovuto all'instabilità del fisico – e guardò un po’ più su. Gli occhi della donna erano luminosi e attenti.
Gli dicevano “si leghi a me. Si aggrappi a me. Potrei essere la sua ancora…”
“Non intendo farlo” pensò Samuel, e il suo volto si trasfigurò in un’espressione di sfida.
La donna si scostò.
“Ottimo, Filder! È a posto. Mi sono accertata anche dei suoi parametri vitali: anche dai monitor risulta che è in via di miglioramento. È fantastico che non le abbiano preso di mira il volto”.
Samuel riprese a fissare la porta.
Non condivideva l’ottimismo dell’infermiera. I quattro dovevano impegnarsi di più.
Ora che l’assalto era finito, aveva capito che poteva sopravvivere – più o meno – a qualsiasi dolore gli venisse inflitto. Era una sensazione fantastica, inebriante. Non doveva più avere la preoccupazione che il suo corpo, ad un certo punto, avrebbe ceduto.
Forse era questo che gli aveva fatto più paura, quando le aveva prese. La possibilità di non soffrire più.
“Continuate a farmi del male!”, mimò con le labbra, senza produrre suono, mentre l’infermiera era di spalle e armeggiava con la sua cartella clinica. “Tutti quanti!”
“Se sente dolore, posso somministrarle un antidolorifico” riprese la donna dai capelli castani, con un tempismo perfetto.
“No, grazie. Sto benissimo”.
Che scemenza, gli antidolorifici.
“Ne è sicuro? Le analisi delle fratture sono recenti e riportano che ha subito danni non indifferenti… non si preoccupi, se sta bene la faremo stare ancora meglio, d’accordo? Un breve periodo con noi e tornerà come nuovo”.
Samuel gemette mentalmente.
“Signor Filder, prima ho parlato di un incidente… Mi conferma che lo è stato? Sembra che lei sia stato coinvolto in una rissa. Ma ovviamente spetta a lei chiarirmi le dinamiche di quanto è accaduto. Cosa le è successo?”
Samuel ci pensò su solo un momento prima di rispondere.
“Solo una zuffa con persone che conoscevo”.
Non stava facendo un servizio alla comunità, scagionando all’istante quegli uomini. Eppure, in fondo voleva ringraziarli e quello era il suo modo per farlo. Gli avevano offerto la possibilità di passarsela ancora peggio… quanto ai membri della comunità, be', Finnegan era con lui, no? L’aveva mollato lì a vedersela con loro, ma sicuramente aveva compiuto il suo dovere difendendo il quartiere.
“Capisco” disse la donna dopo un momento. “Faccia più attenzione. Non è più un ragazzino, ormai è un adulto! Non dovrebbe più immischiarsi nelle risse, non crede?”
Samuel le concesse un sorriso grato e la osservò con più attenzione. Il suo tono di giudizio lo esaltava.
“Ha ragione, sono proprio un malandrino!” esclamò a cuor leggero. “Anzi, un caso perso. Ma è difficile rinunciare al piacere di una buona scazzottata”.
L’espressione di rimprovero della donna si approfondì. I suoi occhi si restrinsero e agli angoli delle sue labbra si aggrapparono delle rughe che rendevano il suo scetticismo evidente.
Quell’espressione era il ritratto della disapprovazione, del giudizio morale e sociale: era come una sfilettata al cuore. Un’espressione che gli ricordava molto sua madre.
“Questo purtroppo non lo posso capire. Ma si ricordi che per ogni posto occupato qui per le sue bravate, un altro paziente potrebbe attendere di più per avere il suo”.
Samuel gustò con gioia il contrasto tra quel disprezzo e il candore di poco prima.
Si sentiva così felice. Ora lo avrebbero anche creduto un teppistello e finalmente avrebbero smesso di trattarlo cordialmente, dando la priorità ad altri pazienti.
Ecco a cosa si ancorava lui: fare schifo era comunque un modo per fare ciò che si vuole e gli dava la rassicurante certezza che le cose potessero sempre andare peggio.
E in fin dei conti, questo lo metteva anche nelle condizioni di poterle controllare.
Tutto stava andando proprio come voleva lui.
Il suo corpo era logorato, ma lui era in pace con se stesso.
Tutti lo detestavano, ma lui si apprezzava per la sua fede strenua e per come, orgogliosamente, andava avanti.
Eppure, non poteva immaginare la crisi imminente che rischiava di vanificare tutti i suoi sforzi. Un test durissimo che avrebbe avuto luogo proprio in quell’ospedale.
  
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