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Autore: Glance    18/10/2023    0 recensioni
Non immagina che il suo viaggio la condurrà da qualche parte, perché non ha meta.
Ma un destino sopito si sta risvegliando e l'attende tra le stanze vuote di un luogo dimenticato. Il segreto della sua malinconia si svelerà nell'abbraccio che il tempo le ha promesso e precluso.
Genere: Dark, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“ Ares!”  Sussurra impietrita. “ Ares!” Chiama con più enfasi. “Ares!” E sente quel nome arrivarle in gola e uscirle dalla bocca come un grido disperato. Nello stesso istante in cui sente l’angoscia arpionarla facendole credere di essere senza scampo, due braccia l’afferrano e tutto torna a diventare luce; sente il calore ritornare a scorrerle nel corpo, l’aroma del brandy, la mano che le tiene il viso cercando di scuoterla. Lo fa con delicatezza e decisione. E’ il profumo impregnato negli abiti di lui che la riporta in se.
“ Avete perduto i sensi...direi che dobbiate riposare. Avete bisogno di stendervi … di un medico”
“No, per favore…”
“ Come volete per adesso, ma dovete riposare. Domani decideremo.” La solleva come se fosse priva di peso con il cane fulvo al suo fianco, la porta su per una scala di marmo elegante. Cammina piano, tenendola saldamente, lei avverte il tepore del suo corpo mentre si fermano davanti ad una porta; la apre continuando a tenerla tra le braccia, e l’adagia poi su di un letto.
Fissa i suoi occhi senza riuscire a celare la preoccupazione:“ Riposate adesso.” Le dice con una dolcezza che le toglie il respiro. E’ come se un ricordo, tornasse a scaldarle il cuore da un posto lontano dentro di lei. “Ares rimarrà con voi. Lascio la porta aperta, io sono in fondo al corridoio.” Non ha contezza del trascorrere del tempo in quel luogo. Riesce a rendersi conto solo che fuori la neve continuava a scendere lieve.
Il letto l’accoglie come in un abbraccio morbido, il cane fulvo è sdraiato sul tappeto ai piedi del letto, la guarda, è come se non volesse perderla di vista.
Non vuole chiudere gli occhi, cedere al sonno. Non vuole svegliarsi e non trovarli più lì.
Ma il sonno l’attrae a se, invitante come una lusinga, delicatamente l’avvolge con il suo torpore, facendola scivolare nell’incoscienza senza sogni, in una deriva silenziosa che l’accoglie bonaria e ingannevole.
Resiste, o crede di farlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La sveglia un frusciare leggero, la sensazione che qualcosa o qualcuno si muova. Riconosce il naso freddo e
umido sulla guancia che la costringe a voltare il capo per sottrarsi, ma il tocco deciso delle zampe le dice che deve svegliarsi.  Non vuole però rinunciare a quel posto caldo e morbido: le lenzuola ricamate profumano di sole e vento. Cerca di sfuggire alle attenzioni del cane fulvo che tenta di leccarle il viso.
“ Ares…non infastidire la nostra ospite.” Non lo vede; mentre parla rimane sulla soglia, non entra. “ Come vi sentite?” Pronuncia inciampando nelle parole e ne avverte l’imbarazzo. “ La colazione … ma se siete stanca potete...” Continua a rimanere fuori la porta in attesa di una risposta, discreto e sinceramente interessato.
“ Se non … ecco … vorrei alzarmi…” Il cane fulvo, segue quella conversazione.
“ Come desiderate. Sentitevi libera di fare tutto quello che volete. Qualsiasi cosa. Questa è casa vostra.” Sente adagiare quelle parole tra lo spazio che li separa. In quella loro conversazione, un’altra pausa come per raccogliere le idee.
Il silenzio scende nuovamente e quell’attesa la fa sentire obbligata a dare una risposta. Si guarda intorno, spaesata, incredula e in imbarazzo. “Grazie.” Ripete ancora con un filo di voce.
“ Vi aspetto allora. Fate con calma.  Ares vi mostrerà la strada.” Sente nella voce l’accenno di un sorriso, ne ascolta i passi mentre si allontana. Rimane da sola seduta sul letto, con una sensazione di vuoto, mentre lo sguardo curioso ed attento del cane fulvo la osserva. Sembra impaziente di raggiungere il suo padrone e, lei, non vuole farlo aspettare. La notte non ha portato vie niente e nessuno. E’ tutto lì. Questo, la incoraggia a muoversi.
Avvicinandosi all’armadio, lo apre lentamente, con stupore: dentro, appesi ordinatamente e, con cura, gli abiti più belli che abbia mai visto. Allunga una mano per toccarli. Le stoffe sono pregiate, preziose, alcune quasi impalpabili. Abiti che, sembrano usciti da un baule, dimenticato. I colori sono tenui; li osserva, e non ha il coraggio di toccarli. Continua ancora a fissarli, quando sente abbaiare il cane che la ridesta da quella sua contemplazione. “ Non posso. Potrei rovinarli.” Dice sottovoce. Su di una mensola accanto ai vestiti, vi sono dei candidi asciugamani di lino, ne prende uno: ha bisogno di lavarsi.
I passi sono esitanti quando scende i gradini di marmo bianco. Ancora una volta segue il cane fulvo. Dall’armadio ha scelto un abito color lavanda, dal colletto di pizzo impalpabile come l’aria. Ha una lavorazione di fiori e volute di rami. Sembra fatto su misura per lei.  Ai piedi ha delle scarpe con le quali fatica a trovare un andatura stabile, si sente barcollare, ma forse le scarpe non c’entrano nulla. E’ quella sottile emozione che le si insinua sotto la pelle quando lui è nelle vicinanze. La stessa che prova anche adesso che sa che lo vedrà.
Quando entra nella sala, lui è girato di spalle e guarda fuori, verso il giardino.
Nevica ancora. Il cielo è plumbeo e irradia una luce grigia che accentua il bianco della neve.
Si ferma sulla soglia, mentre il cane raggiunge il suo padrone.
Lui lo accarezza senza guardarlo.
“ Lei dov’è?” Chiede sottovoce. Il cane abbaia facendolo voltare. “ Eccovi, siete qui.” Quasi sussurra, per poi aggiungere: “ State decisamente meglio. Vi prego, sedete e mangiate qualcosa.” Indugia con lo sguardo su di lei solo un momento, e in quell’istante, l’ombra di un pensiero lo incupisce. E’ solo un attimo che, però, lo porta altrove, lontano da lì;  poi, rivolge l’attenzione verso la tavola apparecchiata per la colazione. L’aria, è impregnata dei profumi del cibo, e di  tepore.
La invita a sedersi e, si siede di fronte a lei: la osserva. Sul viso un sorriso appena accennato; gli occhi però, sono velati di tristezza che, sembra, occupargli la mente in maniera invadente.
Davanti ha una tazza di fine porcellana, da cui si alza un filo di fumo, segno che il contenuto caldo, è stato appena versato.
La casa è silenziosa, oltre loro sembra non esserci nessuno.
Un lieve senso di disagio la pervade, rimane con il busto eretto e le mani in grembo intrecciate; aspetta qualcosa, un cenno che le faccia capire come potersi comportare.
Sente il suo sguardo, ma tiene gli occhi bassi, continua a farlo anche quando lui si muove sulla sedia.
“ Cosa gradite, del latte o del the?” Si è alzato e attende che lei risponda. Non lo guarda dice solo: “ Del the, grazie.” Ascolta il liquido cadere nella tazza, e osserva la sua mano porgerla.
Le sue tremano quando la prende e spera che lui non se ne accorga, ma il tintinnio prodotto è inequivocabile e la tradisce.  Lui fa finta di nulla e torna a sedersi e il silenzio sembra riempire tutta la stanza.
Il cane fulvo sbadiglia, sdraiato accanto alla sedia del suo padrone.
Le sembra di stare sognando uno di quei sogni talmente vividi da sembrare reali, ma il dolore datole dal the caldo sulla mano la fa trasalire, dandole la conferma che non sta sognando.
“ E’ caldo, mi dispiace. Vi siete bruciata.” Lo vede protendersi verso di lei nel gesto istintivo di volerla aiutare, la guarda negli occhi e aspetta di leggervi un accenno di consenso; quando lo scorge le prende la mano tra le sue. Lo fa in un modo così gentile, che quasi non ne sente il tocco delle dita.
Le osserva la mano, trattenendola tra le sue e assicurandosi che il liquido caldo non le abbia procurato danno.
Immerge allora un tovagliolo candido in un bicchiere e lo avvolge intorno alla mano arrossata. “Così andrà meglio.”
L’acqua le dà immediatamente sollievo, e in quel momento alza il viso e lo guarda, i loro occhi si incontrano, si sfiorano, leggono parole sospese, vite altrove. E’ un attimo, e frammenti delle loro esistenze sembrano combaciare, incastrarsi, incatenarsi: riconoscersi.
Si osservano, curiosi, stupiti, indugiano sguardo dentro sguardo.
Ha gli occhi di un grigio piombo, lo stesso colore del cielo carico di pioggia. Sono leggermente cerchiati, il viso segnato da un velo di preoccupazione; osservandolo così da vicino comprende che qualcosa lo affligge.
Mentre continua a guardarlo riconosce in lui quel dolore che le appartiene; vorrebbe sapere, domandare, essergli di conforto in qualche modo, ma sente morire le parole sulle labbra, mentre tutto torna ad essere distante, intriso di nebbia densa e fumosa. Vede distorcersi le immagini di ciò che la circonda ed è come se venisse risucchiata all’indietro, al centro di un vortice. La testa le gira e rimonta la nausea.
Tutto, quando riapre gli occhi, è scomparso ed è nuovamente in una stanza vuota, silenziosa, immersa in tutto l’abbandono del tempo che è trascorso, tra la polvere e le rovine di ciò che è stato, tra l’odore di muffa.
Non ci sono più né lui, né il cane fulvo, ma continua a sentirli, a percepirli in quella rovina.
Si guarda intorno è ha l’impressione di avere sognato ad occhi aperti, o forse il sogno è quello, quel suo trovarsi in una casa abbandonata, dove a guardare bene le tracce di lui sono visibili ovunque. Quella è la sua casa, il suo mondo, ma ora è lì, preda dell’incuria del tempo che è trascorso inesorabile su tutto.
Si domanda quale sia la realtà, perché si trova in quel luogo disabitato e decadente, che un attimo prima era caldo, accogliente e la teneva al sicuro.
Il suo profumo è qualcosa che le evoca la dolcezza di ricordi che non le appartengono, le sue braccia l’hanno accolta e lei le ha riconosciute come il luogo a cui fare ritorno.
Quelle immagini sono di un tempo che non conosce, ma che le appartiene in un modo di cui non ha memoria, ne fa parte e non riesce a capire, ma è qualcosa che è certa è sempre stato in lei: In quei suoi momenti intrisi di solitudine e di malinconia.
Il vuoto, l’assenza, hanno sempre dimorato in un male sottile che spegneva sorrisi, creava nodi che si scioglievano in pianti che non avevano ragione.
La comprensione del suo dolore è in quel luogo e in quel tempo che sembra giocare con lei ad un gioco perverso e crudele.
Ci sono destini che non sempre si compiono, rimangono sospesi, in attesa, ma il tempo non dimentica ciò che si perde nelle sue pieghe. Le tracce di promesse disattese tornano tra le crepe di pensieri che non smettono di sembrare ricordi, tra quel dolore che sentiamo per qualcosa che non conosciamo.
Si sente come se avesse sognato, preda di allucinazioni e istintivamente cerca di proteggersi stringendo le braccia intorno al corpo e il vestito lilla impalpabile è ancora su di lei e la sua mano è avvolta dal tovagliolo: sotto, la pelle arrossata brucia ancora. La conferma che non ha sognato, ma non riesce a capire cosa stia succedendo.
Si guarda intorno e tutto è silenzio e abbandono, esce dalla stanza dove appena un attimo prima la  tavola era apparecchiata, il profumo di pane e burro impregnava l’aria e la luce del giorno entrando dalla finestra illuminava ogni cosa.
Al posto di quel calore accogliente ora c’è una stanza vuota e si trova immersa nel buio della notte. L’assenza, il vuoto, tiene in ostaggio ogni angolo della casa. I gradini dell’elegante scala sono sconnessi e il marmo rimasto macchiato.
Istintivamente li sale piano, cercando di tenersi alla ringhiera priva di corrimano. Aveva sceso quelle stesse scale per raggiungerlo seguendo il cane fulvo e aveva lasciato scorrere la mano sul legno lucido. Ne aveva apprezzato la superficie liscia. La sensazione sotto le dimora ancora sotto le dita.
Sale a fatica, con il cuore in gola e gli occhi gonfi di lacrime. Non comprende cosa le stia accadendo e come sia possibile, che si ritrovi nuovamente in una casa abbandonata.
Sale per cercare la camera che l’ha accolta, dal cui armadio ha preso quel vestito che le è rimasto indosso.
Quando arriva davanti alla porta, la trova chiusa, l’umidità ha gonfiato il legno e non riesce ad aprirla.
Prova ripetute volte a vincerne la resistenza.
Alla fine riesce e quando entra il cuore le si stringe dandole una fitta di dolore. La muffa ha annerito e consumato. Le lenzuola che lei ricorda candide sembrano il sudario di una tomba, i tarli hanno eroso il legno dei mobili. Nell’armadio non ci sono che brandelli degli abiti eleganti che aveva visto, da cui ha scelto quello che ancora indossa.
Ha un conato, ha bisogno d’aria, di poter respirare. A  fatica esce, ma qualcosa la ferma: il ricordo delle sue parole: “ La mia stanza è in fondo al corridoio …”
La sua stanza è lì ed è determinata a trovarla.
Deglutisce, ricaccia in gola nausea e lacrime e avanza incerta, cercando di orientarsi tra quello che vede.
In fondo al corridoio, un’altra stanza. La porta è caduta dai cardini, dentro, contro la parete di fronte a lei, c’è un comò a cui manca un piede e sopra, un dipinto che ritrae un giovane in posa con indosso un’uniforme elegante. In alcuni punti è macchiato dall’umidità; il viso conserva ancora tratti da fanciullo, segno della giovane età, ma ne riconosce lo sguardo grigio e trasparente.
E’ lui. Più giovane, ma lui.
Si avvicina piano, con timore. Le lacrime le rigano il viso.
Lo osserva e non può credere a ciò che vede.
Perché quello che vede raffigurato nel ritratto non può essere lui.
Nel quadro c’è l’immagine di qualcuno che è poco più di un ragazzo, fiero nella sua uniforme, con i suoi stessi occhi; ma non può essere lui.
Quella ritratta è una vecchia uniforme. Tutto, di quel quadro, rimanda ad un’altra epoca.
Forse qualcuno che gli somiglia, da cui ha ereditato i tratti. Ma non riesce a spiegare l’aggressione del tempo che è trascorso su ogni cosa quando, poco prima, tutto in quella casa era vivo.
 
 
 
 
 
Le mani tremano e sente mugolare il cane fulvo, la fronte è imperlata di sudore, il respiro a fatica torna regolare.
Il profumo di colonia le impregna le narici,
E’ tra le sue braccia, ne avverte la stretta e il calore, il respiro caldo sul viso.
Ha freddo, la neve si posa con i suoi fiocchi sulle gambe e parte delle braccia.
Capisce di essere avvolta in una coperta.
Lui la sta portando in braccio, posa il suo sguardo su di lei, ne avverte l’ansia della preoccupazione.
E’ fuori, nel parco della casa, lui l’ha raccolta addormentata sulla panchina sorretta dai due leoni di marmo.
Il sole e’ sbiadito dietro l’orizzonte.
Non ha la forza di parlare, la testa le gira e le ronzano le orecchie, sente la sua voce e il tono rassicurante, ma non ne comprende le parole.
Il braccio scivola dal suo collo, lasciandone la presa, lo sente fermarsi, la voce concitata, accelera il passo, quasi corre.
Quando entrano in casa, ne percepisce il calore e il profumo.
Lui l’adagia sul piccolo divano di broccato turchese, le scansa i capelli madidi di sudore dalla fronte e la copre con un’altra coperta: “Resta con lei Ares.” Lo sente dire in maniera perentoria al cane fulvo, mentre si allontana.
La bottiglia del brandy tintinna sul bordo del bicchiere, ne sente versare il liquido ambrato e l’aroma la raggiunge quando lo avvicina al suo viso invitandola a bere: “ Bevete, vi farà stare meglio.” Lei ubbidisce a fatica, obbligandosi ad aprire la bocca. “ Da brava, così; bevete. Bene.” Lo ascolta sussurrare.
Il calore si insinua nuovamente nel suo corpo e riprende a circolare nelle vene, colorandole il viso, cancellando il pallore cereo. “ Mi avete spaventato, sapete? Sembravate morta.” Le dice mentre la voce cede incrinandosi per l’angoscia su quelle parole.
Un sospiro profondo riporta il piacere dell’aria nei polmoni, la vista si fa più nitida, gli occhi grigi di lui non smettono di scrutarla.
“ Cosa…?” Articolare quell’unica parola le costa una fatica che non credeva di provare.
“ Non parlate. Riposate. Parleremo dopo.” Sente la sua mano poggiarsi delicatamente sulla fronte. Continua a guardarla preoccupato, negli occhi domande a cui non trova risposte, le stesse che legge sul suo viso pallido e segnato.
E’ esausta, gli occhi cerchiati, le mani ancora sono percorse da un tremore lieve. Lui non la lascia un momento, le si è seduto accanto.
“ Vi va qualcosa di caldo?” Le domanda quasi timoroso che la sua voce possa ferirla.
Lei fa cenno di si. “ Mangerei volentieri la minestra.” Dice piano arrossendo.
Lui sorride, sollevato. Le prende la mano tra le sue e la sfiora con le labbra in un bacio discreto.
“ E minestra sia.” Il sorriso gli illumina il viso, e gli occhi si accendono. Lo vede scomparire oltre la porta.
Nel camino il fuoco danza al suono dello scoppiettare della legna.
Il tepore l’aiuta a fare riaffiorare i ricordi: l’assenza, il silenzio, l’odore pungente di muffa.
Le mani stringono le coperte nel tentativo istintivo di rimanere ancorata a quel luogo il più a lungo possibile.
Non sa quanto tempo sia passato, non lo sa mai ogni volta che tutto ritorna.
Tra la nebbia della mente le si insinua la sensazione di una mattina  calma e tranquilla,  di una tavola su cui è stata adagiata una tovaglia bianca finemente ricamata, una tazza fumante, la sottile emozione che il suo cuore le palesa ogni volta che lui le è accanto. La mano che le trema e rivela ancora il tovagliolo avvolto a mo di fasciatura.
Lo vede tornare e quando la guarda lo sguardo gli si dilata di sollievo: entrambi sono ancora li, uno di fronte all’altra.
“ Siete … qui. Temevo … di non trovarvi.” Lo guarda, è come se avesse fretta di tornare a sederle accanto.
Sul vassoio le stoviglie tintinnano urtando tra di loro, mentre le poggia. Il profumo le solletica le narici, le fa gorgogliare lo stomaco. Istintivamente la mano si poggia a cercare di placare quel languore e si sente arrossire.
Lui la guarda e cerca di mitigare l’imbarazzo che le ha colorito il volto, adagiandole  la propria mano sulla sua.
Un gesto audace, che richiederebbe una conoscenza maggiore ne è consapevole, ma in quel loro incontro nulla segue la logica di ciò che può essere compreso.“ Dove … andate … ogni volta?” Le domanda tenendo gli occhi nei suoi. La voce è bassa, ma tradisce l’ansia di un’emozione.
“ Continuo a restare qui, ma … tutto … è, diverso.”
“… Diverso?”
“ Si…” La sente esitare, rimane a guardarla cercare parole e respiri. Nella voce la traccia di un affanno, come se avesse corso. “ … E’ come se tutto fosse abbandonato, come se non ci abitasse nessuno da tanto tempo.”
“ Vi spaventa. Avete paura?” Lo sguardo si vela di tristezza.
“ Si. La desolazione è ovunque …  la tristezza … sembra che ogni cosa sia …” Non riesce a finire la frase, il pianto le serra la gola, gli occhi si riempiono di lacrime. Lo sente stringerle ancora di più la mano.
“Non vi dovete sentire obbligata a parlare se non volete.”
“ E’ lacerante. Una sensazione di vuoto e perdita che non riesco a sopportare.”
“ E’ lo stesso per me, ogni volta che andate via.” Le parole escono inaspettate, ma non si pente di averle dette, si rende conto mentre le pronuncia di quella nuova realtà. Lei lo guarda, lo sguardo incredulo, le mani che tornano a tremare. Lui le prende tra le sue. Vi poggia sopra le labbra calde e morbide, ne percepisce il ruvido della barba. Quando si avvicina il suo profumo le dà una vertigine, la rassicura e nello stesso tempo è come se qualcosa le dilaniasse il cuore. Un dolore, quel dolore che porta in se da sempre, è di nuovo lì con lei, ma mille volte più forte e potente.
“ Ti perdo … ogni volta.” Sussurra quasi a se stessa, come una rivelazione. “Ti perderò … sempre e per sempre.” La voce rotta dal pianto.
Lui la guarda e le si fa ancora più vicino. “ Sono qui, adesso. Siamo qui insieme.”
“ Perché?” Chiede a fior di labbra. Fissandolo negli occhi.
“ Io non lo so. So solo che sei sempre stata in ogni mio pensiero, in ogni attesa; inconsapevole , desiderata amata.”
“ Ma come è possibile, non mi conosci … non ti conosco.” Lo vede sollevare le spalle e dilatare lo sguardo.
“ Io, davvero, non lo so.”
“ Cosa pensi che accadrà. Cosa succederà … credi?” la sua mano ha dita lunghe e affusolate che le si poggiano sulle labbra, per cercare di spegnere quel timore che le sente nella voce, nell’ansia che le allarga lo sguardo. Come se non pronunciate le parole non si possano compiere.
“ Siamo qui adesso, insieme.”
“ Si ma … dopo, cosa accadrà? Per quanto ancora io, noi…”
“ Non importa, davvero. Non importa adesso. Sei qui, ti vedo, mi vedi, le nostre mani si toccano … io ….” Lo vede muoversi impercettibilmente verso di lei, esitare come a valutare a fondo il gesto successivo. Lo percepisce parte di se, in ogni fibra del suo essere. Lo vede distogliere lo sguardo dal suo, abbassare gli occhi e sospirare profondamente. Si trattiene e il gesto di assottigliare le labbra le dà la misura di quanto sia combattuto. Non vuole ferirla, offenderla. Non vuole che tutto diventi più difficile, ma non riesce a rinunciare a quei momenti tra di loro. Desidera afferrarli, assaporarli, non vuole rimpianti, ma solo ricordi. Dolci, teneri, malinconici, ma è risoluto a costruirli, anela che rimangano memoria almeno in uno di loro due. Sa che non potrà fare promesse e non ne vuole. Per loro non c’è che quello, non ci sarà altro, lo sa, ma non gli importa. Qualunque cosa sia, gli va bene così. Non è il tempo delle domande e delle parole. Quello è semplicemente il loro tempo, quello che gli è stato concesso e non ha importanza il perché non segua la logica e le regole comuni. Lei è lì davanti a lui, tremante, stanca ma lo ama e la ama.
Le poggia le mani sui fianchi, sotto le dita la seta del vestito impalpabile come le ali di una farfalla, la tira a se dolcemente mentre le si avvicina; i capelli le profumano di vento e neve. La respira come a volerla nascondere nel profondo della sua anima. Quando apre gli occhi si ritrova riflesso infondo a quelli di lei e capisce che è sempre stato lì. Nascosto tra le pieghe di quell’anima tristemente inquieta come la sua. La guarda incredulo e riconoscente.
E lei è lì nei suoi occhi, adagiata da sempre nel suo sguardo grigio, che non ha mai guardato veramente nessuna, mai amato veramente nessun’altra che lei. Lo sa. Ora tutto ha un senso. Quella perenne attesa, il vuoto che non riusciva a colmare, quella ricerca di silenzio in cerca di risposte.
Il  respiro si mischia a quello caldo di lei. Ma ancora esita in quel gesto voluto, cercato e desiderato, comprende ora da tutta la vita.
Continua a guardarla invaso da una timidezza che non conosce, che non immaginava di poter provare. Il calore di lei sotto le dita lo raggiunge oltre la stoffa impalpabile del vestito. Incerto, prolunga quel momento tra di loro in una sofferenza sottile che attraversa tutto il corpo.
La decisione, dolce e sofferta, desiderata e attesa, è presa e lo spinge ad azzerare la distanza tra di loro.
Le labbra si sfiorano, i battiti del cuore sembrano fermarsi per poi riprendere impazziti.
A lei è come se mancasse l’aria, le mani si sollevano come a cercare un appiglio, lui si allontana quel tanto per permetterle di guardarlo negli occhi.
Le mani allora trovano approdo sul suo viso, le dita scorrono sulla barba, seguono la linea del naso, accarezzano la fronte ed i capelli morbidi. E’ come se volesse imprimere il suo viso sotto le dita. Ma si rende conto che la memoria di quei tratti è già in loro.
Le sue mani lo conoscono, ne conservano un ricordo, celato tra le pieghe della sua anima.
Lei appartiene a quel posto, a quel tempo, in un modo che non sa spiegare, appartiene a lui.
Lui le sorride e torna a poggiare le labbra sulle sue.
Questa volta in un bacio che è inizio e fine, attesa e arrivo, promessa e addio.
Assaporarsi, riconoscersi, sentire di tornare a casa respirandosi,  fondendosi l’una nell’altro, diventando una sola persona, un unico sentire.
Le distanze, tutte le distanze si annullano e il tempo tra di loro fluttua e poi si ferma sino a diventare immobile, per un breve infinito istante, rallenta fino quasi a fermare il suo moto perpetuo in quel luogo, racchiudendo tutto l’universo nello spazio condiviso dai loro corpi; testimone muto della promessa che si compie.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La neve non cade più si è trasformata in pioggia che, osserva scivolare sopra i vetri;
Scivola lentamente verso il basso.
Questo risveglio ha un sapore diverso, qui l’incuria del trascorrere del tempo ancora non ha preso il sopravvento
Ma lui non c’è, neanche il cane fulvo appare per rassicurarla. Tutto è immerso nel silenzio.
Lenzuoli bianchi coprono il mobilio.
“Lui non c’è”, si ripete mentre si guarda intorno, con il cuore in tumulto.
Non sa come il tempo si muova in quel loro mondo tanto strano.
Non riesce a capirlo.
Comprende solo che, in quella casa, la sua assenza è come una cicatrice. Si guarda intorno: è già qualche giorno che si sveglia e aspetta di vederlo comparire da un momento all’altro. Il suo profumo è ancora nell’aria, lo percepisce in quella nota così particolare. Non ha ancora accusato lo strano malessere che l’ha condotta lontano, in quel luogo d’abbandono e desolazione, ma sa che esiste, che rimane in agguato e può da un momento all’altro tornare ad essere la sua realtà, differente e brutale, così diversa da quella che l’accoglie in quel momento.
Lui non c’è, ma non sembra che manchi da troppo tempo, è solo che non hanno avuto modo di sapere molto l’una dell’altro e lei non sa.
Non sa se tornerà o se in serbo per lui c’era altro.
Torna ad avere paura, ad abbracciare lo smarrimento e l’inquietudine. Quel loro destino, tanto strano e irreale si è dipanato dal dolore che sente avvolgerla e stringerla in qualsiasi movimento, ad ogni respiro.  Sa che da sempre è ostaggio di attimi che fatica a trattenere.
Il sapore dei suoi baci è ancora sulle sue labbra, il tocco delle mani, il profumo che ancora l’avvolge,
sublimato in quella lunga attesa. I suoi occhi grigi le mancano da sempre.
Tutto questo è reale? Guardandosi intorno, cerca conferme e spera di poterlo vedere comparire.
Il silenzio che ha dimorato in lei, in modo doloroso è ovunque,  le si insinua sotto la pelle sin dentro le ossa.
Di lui non riesce a percepire più la  presenza.
Sapeva, aveva sempre saputo, lo aveva aspettato e rimpianto ogni giorno, lo aveva cercato negli occhi di chi la guardava, senza mai trovarlo.
Lui era sempre stato lì e, come lei, aspettava separato da quel mondo che si ostinava a scandire il movimento monotono delle stagioni, senza di loro.
Divisi, lontani, ma uniti dallo stesso sentire, dalla stessa consapevolezza di vivere incompleti.
Non è mai rimasta così a lungo.
La casa è vuota, desolatamente, irrimediabilmente .
Lo sconforto misto a rimpianto lo conosce, mentre la preoccupazione di sapere e capire, si insinua  tra i pensieri.
Lo scialle l’avvolge, lo stringe accostandolo maggiormente e dietro i vetri osserva la pioggia cadere, in quella sospensione, che è speranza e condanna.
Aspettare; aspettarlo. Perché ora sa che da sempre infondo a quell’attesa c’era lui, la sua voce calma e vellutata come una carezza, il suo profumo, il colore grigio dei suoi occhi trasparenti.
Ma l’attesa è sempre stata intrisa di quell’ansia sottile, un timore che le toglieva il respiro, che avvolte diventava paura angosciante: terrore.
Adesso sa che infondo a tutto c’è il suo viso; era sempre stato lì, ma non poteva vederlo, ricordarlo.
Il ricordo era sepolto dentro quella promessa che aveva intersecato rette, ricongiunto punti, per arrivare fin lì, dove erano diventati un solo respiro, un solo ricordo.
Appartenere a quella realtà, la medesima per entrambi: non pensava di poter essere riconoscente a quello strano destino, eppure se ne sente beffata. Ancora una volta, l’ennesima.
L’orologio rintocca sulla mensola tutto il vuoto che la circonda.
Lo sa, nel suo cuore lo ha sempre saputo: lui non verrà, non verrà più, e il dolore che ascolta, lo conosce, perché le parla da sempre di quella mancanza, nel rimpianto e nella rassegnazione.
Lui non c’è e non ci sarà, non sarà più per lei, per quel tempo e per nessun altro tempo.                                                                                      
Semplicemente, non sarà; forse di loro non rimarrà che l’eco di quel riflesso, comparso come pioggia su di un vetro destinato a frantumarsi, disperdendo frammenti che continueranno a riflettere tracce di loro.
 
 
Pensa a questo quando la vertigine torna a strapparla a quella malinconia.
Lo fa con spietatezza, senza fare sconti, portandola via definitivamente da quel mondo fatto di tutto quello che lui rappresenta, dove resterà per sempre l’assenza e l’impronta delle loro vite che sono riuscite appena a sfiorarsi.
La vertigine le riporta l’incapacità di muoversi, annebbiandole la mente, togliendole le parole.
La nausea torna e con lei l’odore pungente di muffa.
Quando riemerge dal buio tutto intorno a lei è segnato dall’ineluttabilità di ciò che è stato, che non può più tornare ne essere.
Trovare la forza di camminare e respirare è qualcosa di doloroso e vorrebbe non farlo, ma è come se una forza che non riesce a contrastare decidesse per lei, costringendola a gesti che sente slegati da ogni volontà.
Torna a salire le scale e come seguendo un filo invisibile si ritrova in una stanza dove tutto le parla di lui, vecchie immagini incorniciate in riflessi anneriti d’argento lo ritraggono in posa.
I sorrisi sono appena accennati, macchiati dall’umidità e la tristezza negli occhi. Con gesti lenti, come se le mani sapessero cosa fare cerca sotto il bordo della scrivania, facendovi scivolare sopra i polpastrelli che si fermano solo quando incontrano il freddo di una chiave.
Quando la sente scattare dentro la serratura, le lacrime le pungono gli occhi e un nodo le stringe la gola.
Il cassetto si apre piano, la busta ingiallita, è sistemata con cura e reca la scritta: “ Per Te”.
Le mani tremano e lo sguardo le si dilata, esita  a prenderla; quando lo fa è come se una scarica elettrica l’attraversasse.
E’ sul sedile di marmo sotto la grande quercia che decide di leggerla.
Le parole scritte la raggiungono trafiggendole il cuore.
 
Non posso fare a meno di essere riconoscente.
Essere grato a tutto questo, a quello che abbiamo e avremo per sempre.
Per quanto faccia non riesco a spiegare questo fato benevolo, ma non importa capire il perché di un  regalo inaspettato e desiderato.
Quando leggerai, se mai lo farai, sappi che ti scrivo con l’anima dilaniata dal terrore di non rivederti, di non trovarti la prossima volta che aprirò gli occhi.
Forse non sarò che assenza, vuoto e desolazione in questa casa, quando tu tornerai.
Devo, ho bisogno di dirti, che voglio che tu sappia quello che non sono riuscito a pronunciare.
Spero, con ogni parte del mio essere che sarai qui, a cerare risposte, e comprendere.
Mi ritroverai, ne sono sicuro, ho bisogno di credere che sia così.
Forse non sarò accanto a te, ma poter solo sfiorare questo tempo tra di noi, mi da  la certezza di riuscire a  tornare da te, raggiungerti, anche se sarà solo per un attimo; è questo l’unico desiderio.
Non potrò proteggerti, prendermi cura di te, e questo pensiero è insopportabile.
Saperti da sola, e senza speranza, mi tormenta e lacera.
Tornerai, perché la promessa dovrà essere mantenuta, qui dove noi siamo e saremo per sempre.
Mi hai chiesto: “perché. Perché a noi?”
Non ho risposte, solo che dovevamo essere l’uno il destino dell’altra nella promessa disattesa di un tempo che non dimentica.
Perché il tempo non può dimenticare.
Se non torneremo, porto in me la felicità di questi attimi, ricordi custoditi gelosamente nel cuore.
Le parole che vorrei dirti, tutto quello che sento, sono racchiuse in questo mio addio.
Affido, questi pochi pensieri a quel destino che ti ha condotto fino qui, sperando te le consegni.
Sappi che ti ho amata, anche quando eri in me solo come una promessa.
Se questo tempo, se tutto il tempo non tornerà più, se le sue porte non si apriranno ancora, allora sappi che le ombre nei miei occhi erano il timore di vedere le tue lacrime.
Non ho avuto il coraggio di dirti che, il mio destino, è in un campo di battaglia.
Non ho voluto e non ho potuto, oscurare questi nostri momenti così fragili, brevi, pronunciando un addio.
Se tornando non mi troverai, è perché  forse non sono più.
Una guerra mi stava reclamando a gran voce, mentre arrivavi da me.  
Ti amo adesso, che sei qui accanto a me e ti guardo dormire, ascoltando il tuo respiro.
Ti amerò sempre e per sempre, ovunque, comunque; sei la sorpresa, la promessa, il riscatto a tutto quello che è stato e sarà.
Perché non posso dimenticare, non potrò e, mai, vorrò farlo. Perché siamo sempre stati in un altrove, lontano, ma solo nostro, imperscrutabile e inaccessibile.
So che il vuoto che portavo in me come un male fisico era la tua assenza. Sentivo la tua mancanza; so, adesso, che a mancarmi, era il tuo viso, il profumo dei tuoi capelli, la tua pelle, il sapore delle tue labbra.
Non dimenticheremo,
Saprò trovarti sempre.
 
 
 
Tra le mani, il foglio leggero pesa come se fosse di piombo. Non riesce quasi a distinguerlo, tra le lacrime.
La sofferenza aggrappata al cuore come.
Infondo alla busta, una delicata catenina d’oro, trattiene un cammeo, la piccola chiusura scatta e all’interno è custodita una minuscola ciocca di capelli.
Le dita esitano tremando prima di sfiorarli.
Stringe l’oggetto delicato tra le mani e poi lo aggancia intorno al collo.
Non ha più niente che la trattenga lì, ha solo il bisogno di trovare una conclusione a quel racconto.
Il piccolo cimitero ha lapidi annerite che un tempo erano state di candido marmo.
Nomi, date, e vecchie fotografie.
I nomi sono ricorrenti, i cognomi uguali accostati alle volte con alcuni differenti.
Riposano tutti lì, erano stati una famiglia.
Cammina tra quelle tombe cercando quel volto a lei caro, quei tratti familiari.
Lo trova poco distante dal resto delle lapidi, sulla sua campeggia la figura di un soldato con la camicia aperta sul petto e uno sguardo greve di dolore per la ferita e la consapevolezza di stare dicendo addio alla propria vita.
Sotto una citazione che riporta a gesti eroici, un nome la sua fotografia e due date “1881-1918”.
Le dita accarezzano l’immagine così cara, raccolgono un bacio che viene depositato sull’immagine di quel volto amato.
 
  
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