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Autore: Non Molto    09/11/2023    0 recensioni
«M-ma Lei è pazzo» biascicò Ella tra i singhiozzi, mentre le lacrime avevano cominciato a scenderle copiosamente lungo le guance arrossate. «L-lei non può demolire in questo modo la vita di una persona, lo capisce?!».
«E invece posso, dottoressa» obiettò Wammy, calmo. «E, come già Le accennavo prima, se c’è qualcosa che posso prendere, perché non allungare semplicemente la mano e afferrarlo? Comunque, il bambino di cui Le ho parlato finisce lezione verso mezzogiorno, ma riprende subito dopo la pausa pranzo e, in ogni caso, ora Lei mi sembra fin troppo provata per incontrarlo, dunque potrete conoscervi stasera. Nel frattempo la signora Sybil, la nostra governante, Le mostrerà i Suoi alloggi. Ah, e non disfi completamente la valigia: domani sera ripartirà per Sydney e vi rimarrà per circa un mese e mezzo. Naturalmente potrà continuare a vedere i Suoi cari e i Suoi pazienti, seppur sorvegliata. Dopodiché lascerà permanentemente l’Australia e farà ritorno in Inghilterra, e dunque renderemo pubblica la Sua morte, sui cui dettagli La informerò in un secondo momento. Da lì in poi, Lei sarà sotto completa sorveglianza e a completa disposizione del bambino, il piccolo L».
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Watari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa: Anni fa ho pubblicato una storia simile a questa su questo sito con il nome di "Alumina", il titolo era: "Ma in blu". All'epoca ho dovuto eliminare la storia per alcune problematiche che ho avuto con il profilo ma ora, poiché alcuni lettori erano affezionati al mio racconto, ho deciso di rivisitarla e ripubblicarla. Dunque, se questa trama vi suona familiare è per questa ragione, non si tratta di un plagio. Buona lettura!   

 

 

 

 

 

 

 

The Blue Side of The Story


 

Prologue

 

Southampton, 1988. 

Una donna sui trent’anni sedeva rigidamente su un vecchio letto, tenendo un logoro cuscino frapposto tra la propria schiena e la testiera in ferro battuto.

Era una ragazza oggettivamente bella, di una bellezza notevole ma ordinaria. E di bellezze notevoli ma ordinarie ne è pieno il mondo, un po’ come di musei d’arte ne è piena Parigi: ciascun museo straripa di meraviglia e cultura, ma si perde in mezzo ad altre centinaia di musei che straripano di meraviglia e cultura e dunque, in fin dei conti, non ha chissà che di speciale.

Ella, questo era il nome della giovane donna, si sentiva a suo agio anche nella propria bellezza oggettiva e ordinaria. Sapeva di non avere quei dettagli particolari che rendono la bellezza di una persona indimenticabile come, per esempio, l’aria androgina, bambinesca e sbarazzina di Lady D, ch’era tipicamente sua, e che dunque la rendeva una bellezza soggettiva. Ella, però, era serena così.

Era alta più o meno un metro e settanta, e portava i capelli color nocciola lunghi fino a metà schiena, impeccabilmente lisci grazie alla stiratura chimica effettuata appena cinque giorni prima. Aveva la carnagione chiara, la fronte leggermente spaziosa e folte sopracciglia scure, che conferivano un po’ di ferocia al taglio affilato e sensuale dei suoi occhi, color del cioccolato. Infine, le labbra di Ella erano carnose e lattee, il naso sottile e all’insù, e i lineamenti del volto delicatamente squadrati.

«Cazzo, Nordahl, tua moglie potrebbe davvero sfilare per Vogue» se n’era uscita una volta Jenna Gillberg, durante una serata di beneficienza a cui Ella aveva accompagnato Heath, suo marito.

«Già» le aveva risposto lui «però, evidentemente, risolvere i casini degli altri le piace di più», e così era: Ella Nordahl infatti non era una modella, ma una psicologa. Una psicologa che, in quel momento, se ne stava tesa come una corda di violino su quel letto dalle lenzuola sgualcite, con una sottoveste in raso color bianco perla che le ornava i seni piccoli con del pizzo, e ben due coperte di lana ad avvolgerle le gambe longilinee.

«Via, signorina, ne prenda un’altra! Viene dall’Australia, laggiù è mica estate ora? Abituata al caldo com’è morirà di freddo, se non si copre bene. Anzi, sa che Le dico? Lei è proprio una bambolina graziosa. Le alzo il riscaldamento stanotte, tòh! Così dormirà bella tranquilla, al calduccio. Le sembrerà di essere a Sydney, parola mia!» le aveva detto la signora Mary, l’affittacamere da cui aveva ricevuto asilo. In tutta risposta, Ella aveva soffocato l’impulso di dirle: “non sa quanto vorrei tornarci, a Sydney” e di piangere, e le aveva risposto con un sorriso esitante e tremulo, frutto dei suoi maggiori sforzi.

Ella soffriva molto il freddo. In altre circostanze, l’offerta di Mary l’avrebbe resa felice come una bambina nel giorno di Natale, ma non quella sera. Non quella notte, non quel mattino. Il mattino del 9 novembre 1988.

Ella sapeva già che avrebbe trascorso una notte insonne, e non per la temperatura o per il fuso orario.

Aveva fatto qualunque cosa per provare a calmarsi: era sfuggita il prima possibile alle curiose domande della signora Mary sull’Australia e sul suo viaggio nel Regno Unito; sotto la doccia, bollente come piaceva a lei, aveva provato a portare l’attenzione su ogni gesto, lento e meticoloso, che compiva per lavarsi e poi per asciugarsi; e sempre così aveva fatto una volta coricata, concentrandosi prima sulla propria respirazione e poi sul proprio battito cardiaco, e infine su ogni singolo arto del proprio corpo, focalizzandone bene la posizione e ciò con cui era a contatto, così come suggeriva di fare ai suoi pazienti che soffrivano d’ansia. 

Si era illusa più volte di stare per addormentarsi ma, così come aveva previsto, ciò non accadde. In quel momento era seduta sul letto, e teneva i muscoli delle gambe, ch’erano accavallate, così in tensione che temeva non sarebbe più stata in grado di rilasciarli.

Le sue dita, sottili e affusolate, erano arpionate alla copia curata de “Brain Surgeon, The Autobiography of William Sharpe”, libro che apparteneva a Heath, che però lei aveva portato con sé. 

Aveva riletto cinque o sei volte la storia in cui il dottor Sharpe, alticcio, lasciava morire sul tavolo operatorio un operaio haitiano perché, quando il sangue del paziente si era fatto nero, al chirurgo era parso ovvio che lo fosse, in quanto l’operaio in primis aveva la pelle nera. L’aveva riletta cinque o sei volte, ma senza capirci un’acca. Eppure, a Ella piaceva la medicina, soprattutto quand’era Heath a spiegargliela e raccontargliela.

Credeva che leggere l’avrebbe aiutata a distrarsi, perciò aveva tenuto l’abat-jour accesa per tutta la notte. Però, dopo aver letto qualche riga, le giungevano al naso i profumi di cui erano impregnate quelle pagine: il profumo di bucato, ch’era quello di Heath, e quello dei golden wattles, che entrava dalle finestre aperte e si diffondeva per le stanze di casa loro, a Elizabeth Bay… e a Ella veniva da piangere. Così chiudeva in fretta il libro e lo allontanava, perché quel libro era parte di Heath, e piangerci sopra avrebbe voluto dire scaricare l’intera mole di dolore e paura che provava in quel momento sul povero ignaro, che probabilmente a quell’ora si stava recando alla spiaggia di Double Bay con Maggie e Sarah, le loro nipotine che ogni domenica portavano al mare.

A un tratto, dei prepotenti colpi s’infransero contro la porta della stanza di Ella. La ragazza sobbalzò, e il suo cervello mandò in circolo talmente tanta adrenalina da offuscarle la vista per una frazione di secondo.

«Bella signorina, buongiorno! È sveglia? Forza, si alzi e si vesta, ché L’aspetta una bella colazione!».

Ella ricordò di aver domandato la sera prima alla signora Mary di chiamarla alle 6:00. «Sì, grazie signora Mary, scendo subito!», la voce le uscì gracchiante e roca, a causa delle ore passate senza usare le corde vocali e in preda al pianto.

La ragazza balzò agilmente fuori dal letto, determinata a ignorare quell’emicrania che le reclamava almeno dieci ore di sonno, e s’infilò in bagno, prendendo a lavarsi con cura ma in modo estremamente veloce.

Quel mattino non tentò di calmarsi: voleva crogiolarsi nell’illusione che, facendo le cose più in fretta, il tempo sarebbe trascorso più velocemente e che, dunque, la sua visita a Winchester sarebbe stata istantanea e indolore.

Si lavò i denti con energia e si spalmò sul viso un velo di crema solare, così com’era abituata a fare durante le mattine estive. Certo, era pressoché inutile, dato che in Inghilterra il tempo era perennemente uggioso ed era pure autunno, per di più. Ma in Australia no. In Australia, a Sydney, a casa, era estate. Faceva caldo, c’era il sole, si andava al mare e si faceva surf. E proprio per questo Ella se l’era messa ugualmente, la crema solare. Per avere un po’ di estate, un po’ del calore di casa a sostenerla in quella giornata orribile, in cui si sentiva spaventata poiché si trovava da sola in un paese straniero, ch’era dall’altra parte del mondo, per motivi che, al solo pensarci, le facevano contorcere le viscere per il terrore.

Si truccò appena le ciglia con del mascara e si passò sulle labbra un rossetto color mattone, per poi precipitarsi in camera da letto ed estrarre dalla valigia di cuoio gli abiti che aveva intenzione di mettersi. Esitò un istante, indecisa se optare per la gonna o per un pantalone. Poi, le sfuggì un ghigno amaro: sì, pantalone, figurarsi. La sua meta erano le sperdute campagne inglesi, non Regent Street: se si fosse presentata in pantaloni, non avrebbero esitato a scambiarla per una prostituta. S’infilò pazientemente i collant color carne, si abbottonò con le dita tremanti la camicetta di cotone, s’infilò la gonna del tailleur color blu notte e poi la giacca abbinata.

Infine, calzò gli stivaletti di vernice dal tacco non troppo alto, raccattò i propri effetti personali e li scagliò in valigia.

Quando fu pronta si avviò energicamente verso la porta, trattenendo il respiro fino al momento in cui non fu fuori dalla camera.

«Eccola qui, la nostra giovane australiana! Sydney!» la investì la signora Mary, non appena la vide. «Sarà abituata alla vita di città, altro che la vita spenta che facciamo qui in periferia, eh? Ma venga, su! Deve mangiare, è talmente magra! Poi, col vento che c’è oggi, una folata un po’ più forte e La porta via. Bacon e uova strapazzate, che ne dice? Oppure una bella tazza di porridge! Anche tutt’e due, se vuole. E tè nero a volontà, naturalmente!».

«Mi dispiace tanto, signora Mary, ma devo proprio andare» si scusò Ella, scendendo cautamente con la valigia in mano la stretta e pericolante scala a chiocciola in ferro battuto che portava al pian terreno. Ella amava fare colazione, al mattino si svegliava sempre con una gran fame. Mangiava più o meno quello che le aveva proposto la signora Mary, a parte il porridge. Il porridge sarebbe sempre rimasto un mistero per lei: gli inglesi lo amavano, eppure a Ella non sembrava chissà quale delizia. Comunque, la ragazza già sapeva che avrebbe saltato la colazione: l’ansia le stava rosicchiando le viscere, e i suoi organi digestivi si sarebbero rifiutati di smaltire anche la più piccola porzione di uova strapazzate.

Tra le proteste e i tentativi di convincimento dell’affittacamere, Ella riuscì a prendere la propria pelliccia color caramello dal guardaroba e a infilarsela. Indossò poi un paio di guanti neri in velluto, lasciò alla signora Mary una banconota da cinquanta sterline e se ne andò con un: «che Dio La benedica!», mentre la donna cercava di fermarla, gridandole che le aveva dato più soldi di quanto le spettassero.

Una volta fuori, Ella fu investita in pieno dall’aria pungente dell’autunno inglese, e cominciò a camminare speditamente verso la stazione dell’aeroporto di Southampton.

Il treno di Ella sarebbe partito alle 07:03, e arrivato alla stazione di Winchester trenta minuti dopo.

Forse sarebbe stato meglio prendere una camera direttamente a Winchester, ma Ella non voleva avere niente a che fare con quel buco di mondo dimenticato da Dio, e ci sarebbe rimasta lontana il più possibile.

Certo, anche dormire a Southampton aveva avuto i suoi lati negativi: il rumore degli aerei in decollo l’aveva fatta piangere dal desiderio di trovarsi su uno di quei Boeing.

Una volta giunta alla stazione, diede un’occhiata ai tabelloni. Il treno che doveva prendere aveva come capolinea Southall. Tramite il grande orologio lì accanto, Ella scoprì che mancavano ancora venti minuti alla partenza, venti minuti che la giovane psicologa trascorse dapprima andando alla biglietteria per ottenere il proprio titolo di viaggio, e poi piazzandosi davanti ai tabelloni, a cui continuava a lanciare occhiate mentre aspettava la comunicazione del binario.

Il numero 7 apparve proprio cinque minuti prima della partenza. Ella si recò spedita al binario indicato e montò sulla carrozza, sedendosi accanto al finestrino. 

Quando il treno partì, lo stomaco di Ella si strinse in una morsa. La giovane tentò di concentrarsi sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, reso abbastanza visibile da un accenno d’albeggio.

La ragazza osservò le case di periferia in stile inglese: le mura di mattoni, le finestre prive di persiane o tapparelle e i giardini stretti. Ella era stata una volta sola nel Regno Unito: era andata a Londra, con Heath, ed erano partiti verso giugno per sfuggire all’inverno australiano e godersi qualche altra giornata di caldo. 

Londra le era piaciuta molto, ma il Regno Unito le riempiva l’anima di malinconia. Forse per il cielo lugubre, oppure per quei piccoli cortili spogli, oppure ancora per l’asfalto perennemente bagnato.

07:36, fermata di Winchester.

Ella scese dal treno e si avviò verso l’uscita della stazione. L’e-mail che aveva ricevuto, oltre che a contenere istruzioni precise su quale treno prendere e a che ora prenderlo, le comunicava che, una volta uscita dalla stazione di Winchester, avrebbe trovato un’auto ad attenderla.

La ragazza si guardò intorno per qualche secondo, prima di scorgere nel piazzale un uomo di mezz’età con in mano un cartello su cui c’era scritto “Sig.ra Nordahl”. La giovane si avviò verso di lui: era piccolo di statura, aveva folti capelli bianchi e portava un completo elegante coperto da un lungo cappotto nero, con in testa un fedora del medesimo colore. A Ella ricordò una versione più vecchia e minuta di Humphrey Bogart in Casablanca. Infine, l’uomo stava vicino a un’automobile che fece sgranare gli occhi a Ella: sembrava proprio una Bentley, e anche dal design abbastanza moderno. Non fu tanto il fatto che si trattasse di un’auto di ultimo modello a sorprendere Ella, quanto più il marchio: la Bentley era probabilmente l’azienda automobilistica di fiducia della Casa Reale britannica, e chi si poteva permettere una macchina del genere faceva chiaramente intendere di avere un bel gruzzolo in banca.

«Buongiorno!» lo salutò sventolando una mano, mentre gli si avvicinava.

«Buongiorno, signora! È Lei che va al The Wammy’s House?» le domandò l’autista, cordiale.

«Proprio io» confermò Ella, mentre l’uomo apriva il baule della Bentley per caricarvi la valigia della giovane. Dopodiché, aprì con galanteria la portiera posteriore alla ragazza, e lei montò sul sedile. Quando anche l’autista fu salito, partirono. C’impiegarono pochi minuti a uscire dalla città, e s’inoltrarono poi nelle campagne inglesi.

The Wammy’s House. Era un orfanotrofio di proprietà di tale signor Wammy, un nome che era completamente nuovo a Ella. Dopo aver ricevuto quella maledetta e-mail una settimana prima, la ragazza aveva cercato informazioni sul conto del signor Wammy, e aveva scoperto che si trattava di un personaggio di estremo rilievo: era un inventore e benefattore di fama mondiale. Col denaro ricavato dai suoi innumerevoli brevetti aveva fondato orfanotrofi, scuole e ospedali pediatrici in tutto il mondo. Una sorta di Babbo Natale. Azioni splendide e degne di nota, che a Ella facevano sperare che quell’uomo, all’apparenza così caritatevole, non le avrebbe inferto la peggiore delle cattiverie, come invece temeva.

Dopo una decina di minuti, l’automobile imboccò un viale alberato che conduceva a quella che aveva l’aria di essere la sola costruzione lì attorno: si trattava di un edificio imponente, di chiaro stampo vittoriano. Forse un ex convento o un ex ospedale militare, o magari anche un ex grand hotel: l’intonaco era color crema, ed era circondato da un ampio giardino e delimitato da un’alta cancellata nera. 

«Eccoci qui, dottoressa» annunciò l’autista, appena dopo aver fermato il veicolo.

«La ringrazio» fece Ella, allungandosi verso la borsetta. «Le devo?».

«Niente, dottoressa. Questo non è un taxi, ma una delle auto private del signor Wammy» spiegò l’uomo.

«Ah, oh. Mi scusi».

«Si figuri, ci mancherebbe» rispose lui, scendendo dalla vettura per andare a scaricare il bagagliaio.

Dopo averle riconsegnato la valigia, l’autista si congedò educatamente e risalì in macchina. Mentre percepiva il rumore del veicolo che si allontanava solleticarle le orecchie, Ella si voltò a osservare meglio l’orfanotrofio. La giovane si avvicinò lentamente all’inferriata, sentendo la ghiaia, di cui l’intero viale era ricoperto, scricchiolare sotto ai suoi stivaletti.

La ghiaia lasciava poi posto a un vialetto in pietra, che passava sotto al cancello e conduceva a quella che, Ella intuì, doveva essere l’entrata principale dell’istituto.

Il cancello era isolato dal resto dell’inferriata da due colonne in pietra, una delle quali portava una targa su cui era inciso il nome dell’orfanotrofio, The Wammy’s House. Al di sotto vi era un solo e singolo pulsante, che Ella ipotizzò fosse il campanello. Così, dopo aver raccolto il coraggio, lo premette.

Dopo qualche minuto, che a Ella parve un’eternità, il volto arcigno di una donna anziana fece capolino dalla porta principale. «È la dottoressa dall’Australia?!» le gridò poi.

«Sì, buongiorno!» rispose Ella, agitando una mano.

La donna annuì con un gesto brusco del capo, e poi s’incamminò speditamente lungo il vialetto per andare ad aprirle. Era alta e snella, e doveva avere sui settanta, settantacinque anni. Portava una lunga gonna color borgogna coperta da un grembiule bianco, e aveva lunghi e lisci capelli grigi, che teneva legati in una coda bassa. Il suo volto, solcato dalle rughe, era contratto in un’espressione abbastanza seccata, come se l’arrivo di Ella l’avesse interrotta dal fare qualcosa di importante. 

Quando arrivò davanti a Ella, l’anziana signora non la degnò neanche di uno sguardo. Con movimenti vigorosi infilò la chiave nella toppa e la girò, aprendo poi l’inferriata. «Prego, entri» borbottò la donna, ma le sue parole furono coperte dallo stridio dei cardini.

«Da questa parte», la istruì poi la vecchia, ripartendo a passo spedito in direzione della porta principale. Di sfuggita, Ella era riuscita a notare che la signora aveva dei meravigliosi occhi azzurri.

Quando entrò per la prima volta al The Wammy’s House, la psicologa percepì all’istante l’atmosfera lugubre di quel luogo. Certo, era sì inondato dalla luce solare, ma Ella non si fece ingannare: quei muri, scrostati qua e là, trasudavano freddezza e solitudine.

L’atrio era una stanza ampia, e sia a sinistra che a destra si diramavano due lunghi corridoi. Il pavimento era di lisce e lucide piastrelle chiare, che lì nell’atrio erano state quasi interamente coperte da un maestoso tappeto persiano, su cui si intrecciavano principalmente i colori avorio, vermiglio e blu notte. Sulla parete opposta alla porta d’entrata si trovavano quattro imponenti finestre che davano sul giardino, e altre due erano invece alle spalle di Ella, accanto all’uscio. Anche gli stretti corridoi che si diradavano sulla destra e sulla sinistra ne avevano, e parecchie.

«Se vuole darmi il bagaglio e il soprabito» borbottò la vecchia, ed Ella si sfilò in fretta la pelliccia, mentre ancora si guardava intorno, con un fare ch’era un misto tra il sospettoso e il meravigliato. 

«Grazie mille» mormorò, mentre la signora si recava verso un armadio in legno scuro e intarsiato, che si trovava sul lato sinistro della stanza ed era l’unico mobile lì presente.

«Prego, da questa parte» mormorò poi la donna. «L’ufficio del signor Wammy è di qua», e imboccò il corridoio di sinistra, sempre con passo celere. Sul lato sinistro del corridoio Ella contò sei finestre, e sul destro tre porte, che probabilmente conducevano alle aule. 

La stanza in cui sbucarono era un ampio e arioso salone, che Ella riuscì a malapena a scorgere perché l’anziana signora aveva preso a salire le scale, che si trovavano lungo la parete destra di quel soggiorno. Era un locale estremamente accogliente, doveva trattarsi di una sorta di area ricreativa: il pavimento era, anche in questo caso, ricoperto da tappeti persiani, e c’erano diversi divani, ampi tavoli e sedie, librerie colme di libri e un imponente camino. E giocattoli, tanti.

Alla vista dei giochi Ella si rese conto che, nonostante si trovasse in un orfanotrofio, non aveva ancora visto neanche un bambino. Certo, probabilmente erano tutti a lezione, ma l’ambiente era completamente silenzioso. Non si sentiva neanche uno schiamazzo, una voce, nemmeno quella di un adulto. 

Quando giunsero in cima alle scale Ella si ritrovò in un altro corridoio, illuminato da una finestra sul fondo, su cui si affacciavano cinque porte. La vecchia si diresse verso quella centrale, che portava una targhetta metallica su cui vi era inciso direttore Wammy, e bussò con colpi piccoli e veloci. «Signor Wammy?» gracchiò. «È arrivata la dottoressa dall’Australia».

«Prego, entrate», Ella sentì una voce profonda rispondere dall’interno.

L’anziana signora fece scattare la maniglia, e fece cenno a Ella di entrare mentre mormorava un: «prego». 

L’ufficio del signor Wammy era incredibilmente luminoso, inondato dai raggi del mattino: Ella c’impiegò qualche secondo per mettere a fuoco la figura in controluce che le si stava avvicinando garbatamente, tenendo le mani dietro la schiena.

Il signor Wammy era un uomo di mezz’età, e portava i capelli sale e pepe accuratamente pettinati all’indietro. Il suo volto, distinto dai baffi meticolosamente circoscritti al labbro superiore, cominciava a mostrare i primi segni della vecchiaia, e dietro a un paio di occhiali dalla montatura ovale c’erano gli occhi, il cui taglio era talmente stretto da dare l’impressione che fossero chiusi. Infine, indossava un elegante completo nero.

«Grazie mille, signora Sybil», l’uomo si rivolse alla vecchia signora, che rispose a quel ringraziamento con un brusco cenno del capo e poi si dileguò, chiudendo la porta dietro di lei. «Buongiorno» si voltò poi verso Ella, porgendole la mano. «Quillsh Wammy, direttore dell’istituto» si presentò infine, formale ma cordiale.

La ragazza, sebbene si sentisse ansiosa, non si fece intimidire e ricambiò la stretta di mano con vigore. «Dottoressa Ella Nordahl».

«Prego, si accomodi», Wammy le indicò con un gesto morbido le due poltroncine color porpora che si trovavano davanti a un’ampia scrivania in legno di mogano, mentre lui andava a prendere posto dietro a quest’ultima. Ella si accomodò sulla poltroncina di destra, senza dire una parola.

L’uomo si schiarì la voce. «Dunque, dottoressa Nordhal» cominciò, con fare cordiale «le do il benvenuto al The Wammy’s House, orfanotrofio da me fondato quattro anni or sono, nel ’84. Qui ci occupiamo di bambini particolarmente dotati a livello intellettivo, fornendo loro una formazione che possa permettere loro di sviluppare a pieno le loro facoltà. In poche parole, offriamo un livello d’istruzione più alto, e dunque adeguato a dei bambini e adolescenti il cui QI oscilla tra il 120 e il 130. Come le ho già spiegato nell’e-mail, l’ho convocata qui oggi perché vorrei affidarle un incarico: un anno fa è stato trasferito qui un bambino da uno dei miei orfanotrofi su, al Nord, che presenta un QI di 130, il più alto tra tutti gli studenti di quest’accademia. Mostra una particolare attitudine per il campo investigativo, e io ho intenzione di far sì che lui ottenga la formazione adatta per diventare il migliore in circolazione. Il problema però, è che il bambino ha bisogno di assistenza. Non è come tutti gli altri: da quando è arrivato non ha proferito parola, se non in casi eccezionali; non interagisce né con i compagni né con gli insegnanti, gioca sempre da solo e predilige attività ripetitive e non creative. A volte ha degli scatti incontrollati di rabbia, che sfoga o sui compagni che vanno a stuzzicarlo o sugli oggetti che lo circondano. Non è raro infatti che si ritrovi coinvolto in una rissa o che abbia le mani rovinate da qualche taglio che si è inferto distruggendo qualcosa, e la notte dorme poco o niente. L’ho fatto vedere a diversi psichiatri a Londra, e la maggior parte di loro ha ipotizzato un disturbo autistico ad alto funzionamento, dato che il bambino non presenta alcun deficit cognitivo, anzi. Comunque, non essendo un vero e proprio normodotato avrà bisogno di assistenza continua, soprattutto in un percorso arduo come quello in cui ho intenzione d’instradarlo. Ed ecco qui il compito che Le affiderò: lo seguirà, aiutandolo laddove i suoi deficit sociali lo ostacoleranno: un buon investigatore dev’essere in grado di mettersi nei panni degli altri, e penso che il bambino avrà parecchia difficoltà a sviluppare quest’abilità, dato che pare non intenzionato a uscire dalla sua bolla. E poi, più generalmente, sarà per lui un pilastro. Una confidente, un’amica. Insomma, la sua figura di riferimento».

Quando il signor Wammy terminò di parlare, Ella rimase a fissarlo con espressione neutra per qualche secondo. Si sentiva sì spaventata, ma perlopiù confusa e irritata. “Un percorso arduo come quello in cui ho intenzione d’instradarlo”, aveva detto quell’uomo. Instradarlo?! Ma chi pensava di essere, un burattinaio?! O una divinità, forse. “Sarà per lui un pilastro”, “la sua figura di riferimento”… erano forse ordini?! Non c’era stato neanche l’accenno di una richiesta nel discorso di quell’uomo. No, Ella si era sentita come un soldato convocato a colloquio dal proprio superiore per ricevere nuovi comandi. Ma come si permetteva?!

La psicologa si schiarì appena la voce. «Mi perdoni, signor Wammy, dunque: se ho capito bene, lei mi sta chiedendo di prendere in cura questo bambino?».

«Sì, per dirla in maniera educata. Tuttavia, non ho bisogno di fare richieste: so già che accetterà la mia proposta».

Ella aggrottò le sopracciglia e scosse appena il capo, guardando il signor Wammy. Era ingenuamente sbalordita dalla sfacciataggine con cui quell’uomo le si stava rivolgendo, ma s’impegnò comunque per mantenere la conversazione su un piano civile. «Se so che posso aiutare un bambino in difficoltà lo faccio più che volentieri, signor Wammy. Tuttavia, come Lei sa, io risiedo a Sydney. Potrò certamente assistere il bambino, ma da lontano. E questa lontananza non mi permetterà di diventare la sua “figura di riferimento”» disse Ella, riportando le esatte parole del signor Wammy con fare discretamente canzonatorio. «Ma se troverà un tutore o una tutrice disposti a fornirgli l’assistenza di cui necessita, mi metterò più che volentieri a disposizione per qualsivoglia consulto».

«La ringrazio per il suggerimento, dottoressa. Come Le ho già detto però, sarà Lei a prendersi cura del bambino in prima persona. E, certo, questo comporterà il Suo trasferimento permanente qui, a Winchester, o in qualsiasi posto il bambino deciderà di stabilirsi una volta adulto. E se dovrà viaggiare per lavoro lo seguirà, naturalmente».

A Ella quasi scappò una piccola risata, per via dell’assurdità della situazione che stava vivendo. «Mi scusi, signor Wammy, sono abbastanza confusa e avrei diverse domande da porle».

«Prego» rispose lui, garbato.

«Lei ha intenzione di far sì che questo bambino diventi un investigatore di fama mondiale, ho capito bene?».

«Sì, dottoressa, il mio progetto è più o meno quello».

«E se lui non vorrà diventare un investigatore?» domandò la psicologa.

«Come potrebbe non volerlo direi piuttosto, dottoressa. Gli autistici non hanno chissà quale prospettiva di vita, e io sto offrendo a questo bambino la possibilità di crearsi una carriera che gli permetterà di condurre una vita ben più che agiata. Le potenzialità le ha tutte, perciò a me il suo destino sembra più che segnato» spiegò il signor Wammy.

Ella piegò gli angoli della bocca all’ingiù. «Le persone con un disturbo autistico» proferì poi, glaciale.

«Come dice?».

«Non si dice “gli autistici”, si dice “le persone con un disturbo autistico”» puntualizzò la donna. «È sbagliato identificare una persona con il proprio disturbo o la propria sindrome, perciò cerchiamo di usare la terminologia corretta, per favore».

«Oh, sì, mi perdoni» si scusò il signor Wammy. «Comunque, dottoressa-».

«Mi scusi, signor Wammy» lo interruppe Ella, mentre faceva appello a tutte le proprie forze per mantenersi garbata. «Ma non credo che il suo ragionamento sia corretto. Avere le capacità per fare qualcosa non significa doverla o volerla fare per forza. Il bambino avrà anche attitudine per il campo investigativo, ma magari un domani vorrà fare il commediografo, lo stilista o l’astrofisico. Non crede che instradarlo sia sbagliato?».

Il signor Wammy guardò Ella per qualche istante, per poi liberare un sospiro spazientito. «Dottoressa, la prego, mi risparmi. Queste puntualizzazioni sono del tutto inutili: non L’ho chiamata qui per questionare le mie decisioni, bensì per affidarLe un semplice incarico».

«Un incarico che, come Le ho già detto, non posso accettare. La mia vita è a Sydney, e non ho alcuna intenzione di trasferirmi a Winchester» ribatté la psicologa.

«E invece lo accetterà» obbiettò il signor Wammy, con naturalezza. «Lo accetterà per lo stesso identico motivo per cui si è messa in viaggio dall’Australia e si è recata fin qui. L’allegato dell’e-mail che Le ho mandato parlava abbastanza chiaro, mi sembra. Dopotutto, non si sarebbe fatta una trentina di ore lungo la Kangaroo Route se non avesse inteso la, mi passi il termine, pericolosità della situazione in cui si trova».

«La pericolosità della situazione in cui Lei, signor Wammy, mi ha messa» puntualizzò Ella, velenosa.

«Il fine giustifica i mezzi, dottoressa» citò lui, liberando poi un sospiro. «Ha mai letto Il Principe di Machiavelli?».

«No, ma conosco la frase» tergiversò Ella. «Comunque, tornando all’allegato della sua e-mail, mio marito ha una laurea in medicina».

«Indubbiamente» ribatté Wammy. «Ma si tratta di una laurea angolana, non riconosciuta in Australia. Ergo, suo marito esercita la professione di medico chirurgo illegalmente. E, se Lei non accetta l’incarico che Le ho proposto, non mi rimarrà che denunciare Suo marito all’albo dei medici di Sydney, facendolo finire dietro le sbarre per chissà quanto tempo e, dunque, troncando irrevocabilmente la sua carriera».

A quelle parole, lo sguardo di Ella s’impregnò di rabbia e disgusto. Nei tre anni trascorsi con Heath, di cui due di matrimonio, la ragazza l’aveva sentito molto raramente parlare dei suoi genitori. Si ricordava di due volte, in particolare: la prima, stavano cenando all’Eden, che in seguito sarebbe diventato il loro ristorante di pesce preferito. Era il loro primo appuntamento, ed Ella per rompere il ghiaccio se n’era uscita con un: «raccontami la storia della tua vita», a metà tra la richiesta e il tentativo di prendere in giro le commedie romantiche americane. Fortunatamente per lei Heath aveva afferrato il riferimento, e dopo aver ridacchiato aveva iniziato a raccontarle un po’ della sua infanzia e adolescenza, vissute in Angola. Era nato là, in Africa, poiché i suoi genitori, i dottori Emily e Nathan Nordahl, vi si erano trasferiti per lavorare come medici missionari. Intenzionato a seguire le loro orme Heath li aveva assistiti sin da bambino, e una volta raggiunta l’età adatta si era iscritto all’Università di Luanda, laureandosi in medicina nel 1974, a 24 anni. L’anno dopo però, nel 1975, in Angola era scoppiata la guerra civile, e i suoi genitori l’avevano rispedito a Sydney con la scusa di fargli sostenere un tirocinio adeguato in un ospedale australiano, sotto la guida del dottor Ruch, luminare nonché primario del St Vincent’s Hospital di Sydney. I suoi genitori avevano lavorato per molti anni con Alan Ruch, si conoscevano sin dai tempi dell’università e si poteva dire che fossero amici di lunga data. Perciò, Emily e Nathan erano abbastanza sicuri che Alan non si sarebbe rifiutato di accogliere il figlio dei Nordahl nel suo ospedale, mascherando il fatto che il suo titolo di studio non fosse propriamente riconosciuto in Australia. Di quest’ultima parte però, del favore che Ruch aveva fatto ai suoi genitori e della laurea “illegale”, Heath ne aveva parlato tempo dopo a Ella, ovviamente, e non al primo appuntamento. Quella sera aveva concluso il racconto dicendo che i suoi genitori erano morti appena due anni dopo la sua partenza dall’Angola, poiché si trovavano nei pressi di una base militare cubana che un plotone di soldati sudafricani aveva fatto saltare in aria, ed erano rimasti coinvolti nell’esplosione. La seconda volta in cui Heath le aveva parlato dei suoi genitori, erano sposati da poco. Stavano facendo una delle loro lunghe passeggiate sul bagnasciuga, quelle in cui parlavano di tutto. «Io li ho sempre visti come degli eroi» le aveva detto. «Però, al contempo, credo di non essere mai riuscito a perdonarli per avermi abbandonato. Voglio dire, perché sono rimasti in Angola? Certo, comprendo il loro sentimento di devozione nei confronti della nobile causa a cui avevano deciso di dedicare la loro intera esistenza, ma… valeva davvero così tanto, quella causa? Insomma, più di quanto valessi io?». All’epoca Ella non aveva saputo cosa rispondere, e neanche tutt’oggi lo sapeva. Quel giorno, sul bagnasciuga, si era limitata a intrecciare le dita con quelle di Heath, a portarsi la mano di lui alle labbra e a lasciarvi un bacio sulle nocche.

Comunque, a prescindere da come si sentiva Heath nei confronti del gesto compiuto dai suoi genitori, Ella era sempre stata “egoisticamente” grata ai dottori Nordahl per aver fatto sì che il loro unico figlio si salvasse, rispedendolo in Australia: Heath era l’amore della sua vita e, se Emily e Nathan non avessero agito come invece avevano fatto, lei non l’avrebbe mai incontrato. Perciò, Ella si sentiva in qualche modo in debito con loro: ecco perché non avrebbe permesso al signor Wammy di far finire suo marito dietro le sbarre e di troncare completamente la sua carriera, rendendo così vani i piani dei dottori Nordahl. 

Inoltre, Heath era un ottimo medico: era diventato un chirurgo d’urgenza parecchio rinomato, ed Ella non aveva dubbi che a breve sarebbe diventato primario. Tra tutti i medici del St Vincent’s, Heath aveva il più basso tasso di decessi: aveva strappato innumerevoli pazienti alle grinfie della morte, tra cui genitori di bambini, operai ingiuriati sul lavoro e adolescenti gravemente feriti in brutali incidenti stradali, e altrettanti ne avrebbe salvati in futuro. Heath non poteva finire dietro le sbarre, troncargli la carriera avrebbe voluto dire commettere un torto nei confronti dell’umanità intera.

Ella alzò lo sguardo sul signor Wammy. Aveva l’espressione di qualcuno che sa già di aver vinto, e che sta solo aspettando che l’avversario dichiari la propria resa.

La psicologa sospirò. «E va bene, signor Wammy. Scacco matto, la partita è Sua. Accetto l’incarico».

Wammy stava per replicare, ma Ella lo interruppe. «Mi tolga almeno una curiosità: perché proprio io? E poi, soprattutto, come mi ha trovata?».

L’uomo si schiarì la voce. «Lei ha studiato alla Columbia, dico bene?».

«Come se Lei non lo sapesse» replicò Ella, acida.

Wammy ignorò il suo commento, e proseguì. «La professoressa Andrea Kowalski è una mia amica di vecchia data. E mi ha descritto la dottoressa Ella Nordahl, Ella Korslund ai tempi della Columbia, come la sua più promettente alunna». 

«E quando ha scoperto tutta la questione della laurea di mio marito, e cioè un pretesto perfetto per ricattarmi, ha capito di aver vinto un terno al lotto» completò Ella.

«Si può dire che ho fatto jackpot, dottoressa. Comunque, tornando a noi, come già ha capito, Lei dovrà stabilirsi qui, al The Wammy’s House. Come potrà intuire da sé, i Suoi amici e familiari pretenderanno una spiegazione per questa Sua assenza. Ora, mi corregga se sbaglio, ma mi risulta che tra i Suoi affetti stabili rientrino: Suo marito, il dottor Heathcliff Alexander Nordahl; Sua sorella maggiore, Charlotte “Lottie” Liana Korslund, e le sue due figlie, Margaret “Maggie” Eileen e Sarah Elizabeth Huber; i Suoi genitori, John Michael ed Eleanor Maeve Korslund, residenti a Perth; e poi qualche amico stretto, quali Jenna Marie Gillberg e Peter Fedina, colleghi di Suo marito, le dottoresse Julia Carter e Mikaela Kirsten Little, sue colleghe, e la dottoressa Kayla Van Roekel, un’amicizia conservata dalla Columbia. Li ho elencati tutti?».

Ella schioccò le labbra. «Senza dimenticarne neppure uno».

«Bene, procediamo. Il dottor Nordahl, Suo marito, sarà il solo a sapere la verità: Lei si è trasferita qui, a Winchester, per seguire un paziente che Le è stato affidato ad vitam perché, se Lei si fosse rifiutata, io avrei consegnato Suo marito alle autorità, ed egli sarebbe finito in prigione perdendo credibilità, e dunque la possibilità di fare carriera, se non addirittura di esercitare come medico in futuro. I motivi per cui il dottor Nordahl sarà il solo a sapere la verità sono molto semplici: il primo, anche lui deve avere ben in chiaro la situazione di pericolo in cui entrambi vi trovate e, il secondo, informare anche il resto dei Suoi affetti sarebbe svantaggioso sia per Lei e per Suo marito, in quanto porterebbe a galla anche la storia della laurea illegale, sia per me, che preferisco sbrigare le mie faccende nell’anonimato».

Ella deglutì. L’aria di sfida, lievemente strafottente, con cui era riuscita a proteggersi fino a poco prima si stava pian piano sfaldando, lasciando posto a confusione, ansia e panico. Ella sentiva quegli stati mentali prendere poco a poco possesso dei propri occhi, che iniziavano a inumidirsi, e del proprio respiro, che andava sempre più velocizzandosi. «M-mio marito vi denuncerà» balbettò, ma non era una minaccia. Era una seria preoccupazione. «Così come io voglio il suo bene, lui vuole il mio. Cercherà di aiutarmi, di riportarmi a casa e se ne infischierà della carriera, dell’ospedale e del carcere. Come lo fermerà, in quel caso?».

Wammy sospirò, col fare di un padre che, seppur paziente, si sta stancando di dover spiegare per l’ennesima volta un concetto che il figlio si ostina a non capire. «Non si preoccupi, dottoressa. I sentimentalismi di Suo marito non mi preoccupano. Se scoprissi che sta tramando qualcosa, perché lo scoprirei se così fosse, non esiterei a liberarmi di lui. A ucciderlo, intendo» spiegò, con una naturalezza disarmante. «E, naturalmente, lui verrà informato anche di questo. Così come verrà informato del fatto che, per accertarmi che egli continui a comportarsi secondo le mie condizioni, la vostra abitazione, in cui lui risiede e risiederà, sarà sorvegliata da telecamere e microfoni, strettamente controllati dai servizi segreti britannici».

Sul volto di Ella comparve un’espressione arrendevolmente incredula. I servizi segreti britannici?! Quindi, quel sociopatico aveva agganci perfino nel governo. Perciò, Ella non solo non poteva sperare di riavere indietro la propria vita perché quel signore di mezz’età sembrava incredibilmente bravo a svolgere i propri affari loschi senza farsi scoprire dalle autorità, ma non poteva sperarlo perché erano le autorità stesse, a essere dalla sua parte. 

Quell’uomo aveva il potere di ucciderla lì, seduta stante, e di uccidere anche suo marito, sua sorella, i suoi genitori, la sua famiglia e i suoi amici, e nessuno avrebbe mai indagato. Non se lui avesse usato i suoi agganci e il suo potere per impedire alle forze dell’ordine d’indagare. Non c’era alcuna via d’uscita.

«All’esterno il dottor Nordahl sarà scortato, e sorvegliato quando scortarlo non sarà possibile. Anche in ospedale, è chiaro. Comunque, per me è molto importante che il legame tra Lei e Suo marito rimanga ben saldo: avrete a disposizione trenta minuti di telefonata a giorni alterni, e lui potrà venire qui, a trovarLa, una volta all’anno. Invece, per il resto dei Suoi affetti, Lei sarà morta» concluse, lapidario.

A quel punto, dalle labbra di Ella sfuggì un risolino isterico. «Come, scusi?» domandò. Doveva star avendo un incubo, per forza. Non c’era altra spiegazione. Non era concepibile che fino a una settimana prima lei era una persona ordinaria, come tante altre, con una casa, un marito, un lavoro e dei progetti per il futuro, che viveva spensieratamente le proprie giornate, e nel giro di letteralmente cinque minuti quell’uomo, che aveva incontrato un quarto d’ora prima, la stava facendo prigioniera, proprio come in un romanzo giallo o in un film d’azione. Non era concepibile che la sua esistenza potesse essere soggiogata in maniera così totalizzante — e semplice, per di più — da un momento all’altro.

«Be’, dottoressa, mi pare ovvio» fece Wammy, poggiando i gomiti sulla scrivania e unendo le mani. Aveva il fare di un dottore che comunica al paziente che, purtroppo, non c’è più niente da fare. Ed Ella era davvero incredula: il dottore non aveva colpa della malattia del paziente, ma il signor Wammy era pienamente colpevole della tragedia che le stava capitando. «È il modo più veloce e meno sospetto in cui Lei potrà distaccarsi dalla Sua vita a Sydney. Come spiegherebbe, altrimenti, ai Suoi cari il motivo per cui non tornerà più a casa? O per cui non telefonerà più?».

«M-ma potrei tornare» obiettò Ella. «Se accetto di mia spontanea volontà di rimanere qui, non ci sarà bisogno di sequestrarmi e di far credere ai miei cari che io sia morta!» latrò.

«No, no, si sbaglia» la contraddì Wammy. «Va bene, supponiamo che Lei decida da un giorno all’altro di trasferirsi dall’altra parte del mondo per seguire un paziente. E a Suo marito quale spiegazione darebbe, per averlo abbandonato di punto in bianco dopo due sereni anni di matrimonio? Non potrebbe. E, se lo facesse ugualmente, Suo marito s’insospettirebbe. Cercherebbe d’indagare un po’ più a fondo, e non sarebbe l’unico: Sua sorella si chiederebbe il perché di questa partenza improvvisa, i Suoi genitori ed i Suoi amici se lo chiederebbero. E parlerebbero tra loro, si confronterebbero, e la notizia si diffonderebbe. E, come Lei può ben capire, io preferisco che i miei affari rimangano privati». 

A quel punto, Ella non riuscì più a trattenersi dal piangere. «M-ma Lei è pazzo» biascicò tra i singhiozzi, mentre le lacrime avevano cominciato a scenderle copiosamente lungo le guance arrossate. «L-lei non può demolire in questo modo la vita di una persona, lo capisce?!».

«E invece posso, dottoressa» obiettò Wammy, calmo. «E, come già le accennavo prima, se c’è qualcosa che posso prendere, perché non allungare semplicemente la mano e afferrarlo?

«Comunque, il bambino di cui Le ho parlato finisce lezione verso mezzogiorno, ma riprende subito dopo la pausa pranzo e, in ogni caso, ora Lei mi sembra fin troppo provata per incontrarlo, dunque potrete conoscervi stasera. Nel frattempo la signora Sybil, la nostra governante, Le mostrerà i Suoi alloggi, in cui troverà un’agente che perquisirà sia Lei che il Suo bagaglio. Ah, e non disfi completamente la valigia: domani sera ripartirà per Sydney e vi rimarrà per circa un mese e mezzo. Naturalmente potrà continuare a vedere i Suoi cari e i Suoi pazienti, seppur sorvegliata, come Le ho già spiegato. Per l’appunto, al Suo rientro in Australia il dottor Nordahl sarà già informato e la sorveglianza sarà già attiva per Lei e per Suo marito, sia dentro casa che fuori. Dopodiché lascerà permanentemente l’Australia e farà ritorno in Inghilterra, e dunque renderemo pubblica la Sua morte, sui cui dettagli La informerò in un secondo momento. Da lì in poi, Lei sarà sotto completa sorveglianza e a completa disposizione del bambino, il piccolo L».

   
 
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