Legame a
Idrogeno
Pomeriggio in giro. Il cielo
è pesante come un coperchio di peltro.
Il Nerd e Kurt sono a casa a
studiare, Weed tace e se ne sta con gli occhi fissi nel vuoto, Ginger cammina
canticchiando, io cerco di girare un drummino e Daphne se ne sta con gli occhi
persi nel vuoto. Non ha affatto superato il trauma, e noi abbiamo deciso di
portarla fuori per farle respirare, almeno, un po’ d’aria fresca.
“Entriamo in questo
negozio?”propone entusiasta Ginger, strattonandoci in un negozio di vestiti usati,
dove è sparato a palla David Bowie, Changes.
“Ch-ch-ch-ch-changes! Don’t wanna be a richer man…time may change me,
but I can’t chase time!” canta Ginger, mentre fruga tra montagne di capi
vintage.
Daphne si guarda allo
specchio e sentenzia, ispirata dallo Spirito Santo-Bowie: “Tanto la nostra vita
non cambierà mai. Le persone non cambiano mai. Ci speriamo tutti, ma non
succede mai niente. Può solo andare peggio.”
Un paio di occhi celesti la
fulminano da trenta centimetri più in basso, segno evidente che Theresa Cassidy
Bell è arrivata al limite della sopportazione del pessimismo cosmico che Daphne
si spalma intorno con cinismo e perversa goduria.
“Cazzo, Daph, non ti va mai
bene niente! Se tu non hai il coraggio e la voglia di cambiare la tua vita,
allora abbi almeno il buongusto di non rompere i coglioni a quelli che, invece,
si sono fatti un culo come una casa per prendere in mano la propria esistenza e
migliorarla. Io sono felicissima di essere viva, di essere qui, e visto che ho
notato che abbiamo davvero troppo poco tempo a disposizione, le cose che mi
fanno stare male le risolvo, le elimino, o almeno trovo una soluzione
provvisoria. Hanno tentato di stuprarti, è vero, ma è passato, e tu comunque
non puoi farci niente, puoi solo cercare di andare avanti, con le tue forze,
cercando di capire che certe cose capitano, punto, e che non avresti potuto
prevederlo. Non ci sarà sempre la mamma a proteggerti dal mondo, è ora che
impari a farlo da sola! Apri gli occhi per piacere…sempre che tu voglia essere
mia amica.” Ginger la guarda con odio. E’ la prima volta che si affrontano,
così direttamente.
“Senti, risparmiati la
morale edonistica per qualcun altro, non si risolve tutto così facilmente.
Ah no, scusa!, dimenticavo
che per te non ci sono problemi, a te va sempre l’acqua per l’orto, sono solo
io quella che se la prende nel culo dal mondo intero.
Sono sempre io a sbagliare
tutto!”
Gli occhi acquosi di Daphne
si diluiscono con le lacrime, che naturalmente non servono.
“Ma fai un po’ come ti pare,
per quanto mi riguarda sei una ragazzina che vuole essere compatita.
Piantala di crogiolarti nel
dolore e rimboccati le maniche, prenditi le tue responsabilità.
La vita è quello che scegli,
ricordatelo bene. Io con quelle come te non ci perdo nemmeno tempo, anzi, fai
una bella cosa: ripassa quando cresci!”
Io e Weed ci guardiamo, e
sembra quasi di sentire il crack sordo tra le due.
Due amiche così non si erano
mai viste: sempre a ridere, sempre a confidarsi.
Probabilmente, Daphne è
l’unica persona che conosca una percentuale della vita di Ginger, oltre la
facciata.
Naturalmente, neanche lei sa
tutto della piccola Bell.
Cresciuta da una madre
tossicodipendente e da un padre freddo, insensibile all’allegria della sua
bambina e alla sofferenza della moglie.
Il divorzio e la distruzione
sono gli elementi che hanno fatto divenire Ginger quella che è.
Una bambina che ha sofferto
troppo, che è cresciuta facendo da spettatrice allo show penoso della sua vita,
e adesso è diventata un demiurgo che riesce a plasmare la sua esistenza a suo
piacimento con un’abilità invidiabile.
E’ un attimo, e Daphne
scappa. I suoi capelli rossi scompaiono dal negozio, come una saetta, lasciando
me e Weed basiti, e Ginger rigida, a far scorrere tra le labbra la pallina del
piercing sulla lingua. Poi, pesca svelta una magliettina cortissima, di velluto
lilla, ed un top semitrasparente leopardato rosa shocking, e li porge alla
cassiera.
“Prendo questi” cinguetta,
fingendo indifferenza.
“Cinque euro e settanta”
risponde quella, ancora sotto shock per la sfuriata consumatasi.
Usciamo tutti insieme,
l’atmosfera imbarazzata si fa sempre più evidente.
In momenti così Ginger
diventa inavvicinabile.
Weed le porge una sigaretta,
esitante, che lei accetta e accende con movimenti meccanici.
“Mi dispiace.” Mormoro,
mettendole una mano sulla spalla.
“A me…– vorrebbe dire , ma qualcosa la trattiene – anche a me.” Stringe la mia mano con la
sua, piccola e umida.
“E’ solo che lei deve
imparare, non può continuare a stare così per tutta la vta. Io…credo che non
vorrei vederla, ora, quindi magari è meglio che vada a casa.”
“Vuoi venire a casa mia?” mi
mordo il labbro, aspettando che decida.
“Sì, va bene…forse è meglio
così.” Mi stringe ancora più forte la mano.
Weed fa un cenno con la mano
per salutarci e se ne va, lasciandoci sole per strada.
Avanziamo silenziose,
lanciandoci d tanto in tanto uno sguardo. Una volta davanti alla porta di casa
mia, giro la chiave nella toppa e la lascio entrare.
Quello che trovo in cucina è
allucinante, restiamo tutte e due senza parole, ad occhi sbarrati: Katie è
accasciata a terra, con un grande ematoma sullo zigomo, gonfio e deformato, a
pochi metri da lei c’è una pozza di vomito, e la cucina nel caos più assoluto.
Dopo cinque secondi riesco a
realizzare e salgo le scale, facendomi i gradini a tre a tre, e piombo nella
camera di Stan.
E’, come sospettavo,
sdraiato sul letto, la maglietta lurida di ogni schifezza tra chiazze di
sudore, olio da macchina e schizzi di rigurgito.
Oddio, oddio, oddio. E
adesso che faccio?
La mia Katie, la mia
piccolina, l’unico pensiero mentre tremo di paura, girando per la stanza di
quel porco disgustoso di mio fratello.
Tre bottiglie vuote di Jack
Daniels’ mi sembrano una spiegazione più che sufficiente alla vicenda: Stan va
a prendere Katie a scuola, arrivano a casa, lui la manda a lavarsi le mani e a
prepararsi per il pranzo, e visto che mia madre gli ha nascosto il whiskey lui
fruga e rivolta le credenze. Una volta trovate le tre bottiglie, se ne scola
una come fosse acqua.
Quando Katie scende, lo
trova già alla seconda e gli grida di smetterla, magari mettendosi a piangere.
Lui non la ascolta, e quando la piccola si fa troppo insistente e lo
infastidisce, le tira un pugno in faccia, che la fa cadere come un sacchetto di
patate. Siccome Stan è già bello che suonato, dopo aver sferrato il colpo, non
avendo controllato la forza, ha un conato e rovescia. Alla fine, si rialza, si
sciacqua la bocca due o tre volte con gli ultimi sorsi della rimanente
bottiglia di whiskey e riesce miracolosamente ad arrivare alla sua stanza e a
sdraiarsi sul letto.
Scendo di corsa le scale per
controllare Katie, e la trovo tra le braccia di Ginger sul divano.
“E’ tutto a posto?” le
chiedo.
“Io credo che tu debba
chiamare un medico, un’ambulanza, quello che ti pare: dall’aspetto, lo zigomo
dev’essere rotto.” Ginger tasta piano la zona del viso illividita.
Aggrappata alla cornetta del
telefono, digito velocemente il numero del pronto soccorso.
“Pronto?...C’è
un’emergenza…una bambina ha ricevuto un pugno sul viso, è svenuta, la parte è
piena di sangue pisto…Sì, l’indirizzo è 34, Brenton Road. Va bene, grazie.”
“Allora, che dicono?” chiede
la biondina.
“Arriverà tra poco
l’ambulanza, intanto devo farle degli impacchi col ghiaccio. Ginger, mi
dispiace, io ti avevo portata qui perché speravo di farti rilassare e invece…”
“Ehi, non c’è problema.
Anzi, dimmi come ti posso aiutare, che se faccio qualcosa almeno non ci penso,
no?” sorride.
“Va bene, allora fai una
cosa: legale i capelli e mettile una tuta. Le trovi al piano di sopra, nella
sua cameretta: la riconosci perché c’è scritto KATIE sulla porta. Io intanto
pulisco la cucina e preparo la borsa col ghiaccio. Lascia Katie sul divano,
cambiala lì.”
Do’ mano allo scopettone, un
po’ titubante, mordicchiandomi la mucosa delle labbra, e sento i veloci passi
di Ginger. La vedo toccare mia sorella con una delicatezza insospettata, così
riesco a tranquillizzarmi.
“Ecco, questo è il ghiaccio.
Puoi farle l’impacco tu mentre io chiamo mia madre?” le allungo la sacca, piena
di cubetti gelati.
“Certo, fai pure!”
“Pronto, mamma? Ciao sono
io, Shelly…Senti sto aspettando l’ambulanza per portare Katie
all’ospedale…Perché Stan le ha mollato un pugno, lei è svenuta e forse quello
stronzo le ha anche rotto lo zigomo…Lo so, è che ha bevuto come una spugna, ha
trovato le bottiglie di Jack Daniels’…Va bene, appena so qualcosa ti avverto.
Tu però vieni appena esci dal lavoro.”
Finalmente, arriva
l’ambulanza. Racconto tutto a uno dei paramedici, un ragazzo biondo e bello da paura,
anche lui sconvolto dall’aspetto bizzarro di noi due. Probabilmente gli diamo
l’idea di essere due giovani ribelli di buona famiglia che manifestano la loro
anima sovversiva con abiti da poco, acconciature bizzarre, piercing e droghe
occasionali provate a un paio di rave. Insomma, due diciassettenni che hanno
l’apparenza navigata, ma che tutto sommato sono protette dalla calda copertina
dei soldi di papà. Ha, ha, ha. No.
Però, è bello, bello, bello
da fare schifo.
“Scusami, dov’è tuo
fratello?” chiede lui.
“In camera sua. –mi
interrompo per masticare la gomma- Piano di sopra.” Gli faccio cenno con la
testa.
“Accompagnami.” Che occhi,
che occhi…! verde foglia, e pagliuzze dorate.
Mi segue per le scale, ed
entra con me in camera di Stan.
“Ah!” mi porto la mano
davanti al viso.
Lo troviamo buttato per
terra, con le gambe strette al petto, contratto, e vomito, vomito ovunque,
lezzo di acido ed alcool, nauseabondo. Senza rendermene conto, gli stringo il
camice. Lui resta rigido e prende, veloce, la ricetrasmittente, premendo un
pulsante celeste.
“Mi servono Paul e Steven al
secondo piano, ora!!!” poi, rivolgendosi a me “E’ la prima volta che beve così
tanto?”
“No…cioè, io lo vedo sempre
strafatto di pasticche o di alcool, ma non gli era mai presa così. Insomma,
Stan è il tipo che la sbronza la smaltisce durante la nottata, e la mattina è
come nuovo.” Mi passo le dita fra la frangetta, scompigliandola.
“E tu bevi? Ti
droghi?”chiede, in tono confidenziale.
“No, non come prima. Sono
pulita da un bel pezzo, la mia ultima pasticca se l’è presa lui mesi fa. Bevo
il giusto con le mie amiche, e ogni tanto ci facciamo una canna insieme.”
Diciamo che la mia versione è un po’ rielaborata, altrimenti chissà per chi mi
prende.
“Ok. Ragazzi, portiamolo
giù.” Lui e gli altri due si incollano mio fratello in spalla, e portano anche
lui sull’ambulanza.
Ginger ed io saliamo dietro,
con gli altri paramedici, ed una volta arrivati all’ospedale il ragazzo con cui
avevo parlato prima ci accompagna in una corsia bianca e tetra, fermandosi
davanti a una panchina sagomata anatomicamente.
“Dovrete aspettare qui
finché non vi chiamerà il primario. E’ tutto, per ora. I bagni sono in fondo a
destra, e proseguendo per il corridoio in quest’altra direzione trovate i
distributori automatici.”
“A posto. Io penso che
aspetteremo qui, per ora. Senti, se volessi fumare?” domando io.
“In questo caso, penso che
dovresti uscire nel giardino interno. Basta seguire le indicazioni per
raggiungerlo. Penso sia tutto per ora.- fa per andarsene, e si rivolta ancora
verso di noi – Per qualunque cosa, chiamatemi. Mi chiamo Edgar Fergusson.”
Edgar! Oh, insomma, si
chiama Edgar! Come Edgar Allan Poe, il mio scrittore preferito, ed è tutta la
vita che proclamo a destra e a manca che mio marito si chiamerà Edgar!
Scompare nei meandri dei
corridoi ospedalieri, mentre noi due restiamo sedute, a guardarci i piedi.
“Ti piace,eh?”sorride,
goduriosa, Ginger. Arrossisco in tutta risposta, trattenendo un brivido.
“Non sono il suo tipo –
dico, mentre mi stiracchio- temo che i miei capelli lo abbiano intimorito!”
afferro una delle ciocche rosa sparse tra i miei capelli neri,
sventolandogliela sotto il naso.
“Hahaha! Sei proprio
tremenda, bestia, più che dai tuoi capelli quel povero…come si chiama? Edward? Hermann?”
– “Edgar!” la interrompo io – “Ah sì, quel povero Edgar sarà terrorizzato dalla
tua lingua! Tu sì che hai un’arma contundente in bocca, mica io!” dice lei,
facendomi una linguaccia per mostrare ben bene il piercing rosso fuoco.
“Senti Ginger, se vuoi
andare…vai tranquilla, io resto qui.”
“No, no assolutamente, io
resto qui. E’ per questo che ci sono le amiche.”
Inavvertitamente, quasi come
fosse la cosa più naturale del mondo, ci stringiamo la mano.
“Hey, Shelly, quel tizio non
si chiama Edgar?” mi chiede di colpo Ginger.
“Sì, perché?”
“Come Edgar Allan Poe…non
volevi che tuo marito si chiamasse Edgar? Questo è pure sotto i duecento anni!”
“Già.”
Di colpo entra mia madre col
fiatone.
“Ciao amore, ciao, io sono
la madre di Shelly, mi chiamo Anne.” Dice, porgendo la mano a Ginger,mentre io
resto seduta immobile, gelida.
“Shelly, cara, si hanno
avute notizie?”mi chiede.
“No.”
“Shelly, cos’hai? Adesso ci
sono qua io, ok? Devi stare tranquilla.”
Di colpo mi sento infiammare
da un’incazzatura colossale, e i miei nervi partono completamente. Le prendo il
braccio e la trascino nel giardino con me, dove comincio a urlare : “TU! Con
quale faccia mi chiedi cos’ho? Sei tu, TU!, tu sei la causa di tutti i miei
problemi! Di tre figli che hai avuto due sono completamente deviati, e parlo di
me e Stan. Avanti guardami. GUARDAMI, ORA! Puoi salvare Katie, sei ancora in
tempo, a per farlo ci devi essere, a casa! Guarda Stan: l’hai lasciato in mezzo
a una strada tutta la vita, decisa che tanto da lui non ti saresti mai potuta
aspettare niente, ed ecco che cosa hai fatto di lui! UNA BESTIA! Ora guarda me,
guarda la tua Shu: quando hai deciso che era tutto inutile anche con me? Quando
ho preso la prima pasticca o quando hai scoperto che mi bucavo? Te lo ricordi,
Anne, quel livido sul braccio? Ti ricordi ancora i miei occhi rovesciati? –
ingoio un po’ di saliva e la guardo in faccia; le lacrime le rigano il viso. Se
la ricorda anche lei quella sera, in Utah, quando mi aveva trovata piena di
fori di siringa, e il livido sul braccio per un buco fatto male. -Era allora
che avevo smesso con l’eroina, ti ricordi? E lo sai per chi? Per Katie. Per la
figlia che tu hai abbandonato con quel lurido porco di Stan. Mamma, se solo tu
ci fossi stata vicina, forse…forse questo non sarebbe successo. Forse io sarei
diventata una brava persona, forse Stan studierebbe ingegneria al college
invece che lavorare in un’officina…-lentamente, mi calmo e sento la parte
razionale riaffiorare- Ok, va bene, noi non abbiamo avuto un’opportunità
–singhiozzo, inizio a piangere anche io- Ma Katie cosa ti ha fatto? Perché devi
condannare anche lei? Perché non puoi essere un po’ più presente con lei…è solo
una bambina! Ha bisogno di sentirti accanto…Va bene che non ti importi di dove
vado, cosa faccio, con chi io esca, ma perlomeno pensa a Katie. E’ tutto quello
che ti chiedo.”
Ci guardiamo per qualche
secondo prima che lei mi abbracci. Ed io mi lascio abbracciare.
“Sono una pessima madre…non
riesco nemmeno a preoccuparmi di dove vai, con chi sei..E’ solo che penso che
se ti lascio libera, senza scocciature, tu sia più felice.”
“Io sarei felice se
riuscissi almeno a preoccuparti per Katie.”
“Va bene…prometto che le
procurerò una baby sitter per farla prendere a scuola e poi cercherò di tornare
io nel pomeriggio. Ok?”
Faccio spallucce, prima che
arrivi un medico.
“Thucker?”chiede.
“Sì, siamo noi.”conferma
Anne.
“La bambina sta bene.
L’intervento per ricostruire lo zigomo è andato perfettamente. Si rimetterà
presto, ha solo bisogno di riposo e di starsene a casa. Niente scuola per
almeno due settimane, al termine delle quali verrete qui e vedremo come
ossifica. Se tutto va bene, tra un mese dovrebbe essere come nuova, ma comunque
niente sport. In linea di massima contiamo di dimetterla tra due giorni. Il
ragazzo invece non vanta le stesse condizioni. Il fegato ha ceduto, la milza
era completamente “spappolata”, per essere franchi, ed il rene destro è
compromesso definitivamente. Abbiamo asportato la milza, che non è vitale, e
per il momento è sotto dialisi in attesa dell’operazione al rene.
Fortunatamente, potrà vivere con un rene solo, ma mensilmente dovrà tornare
ogni mese per la dialisi. Per quanto riguarda il fegato, stiamo aspettando che
ci vengano date notizie dalla banca degli organi. Finora abbiamo trovato un
donatore compatibile quattro su sei, ma è comunque rischioso. Meglio attendere
e cercare qualcuno con una compatibilità totale.”
“Mi scusi, io sono la madre,
potrei sottopormi anche io agli esami per la compatibilità? C’è più probabilità
che io possa essere un donatore sicuro, giusto?”
“Se la mette così, signora,
venga subito con me.”
Mia madre si volta verso di
me e mi bacia la fronte. “Chiamate un taxi e andate a casa. Io starò bene.”
“Ok…in bocca al lupo,
allora.” Stavolta sono io ad abbracciarla.
Torno da Ginger e le
racconto l’accaduto, dopodiché ci alziamo e usciamo, andando al telefono
pubblico per chiamare il taxi.
“Chissà se rivedrò mai
Edgar” mi dico tra me e me, richiamando alla mente il suo viso sorridente.
.: Spazio
Cos:.
Tredici.
Questo
capitolo inizia con una situazione iniziale difficile, e sicuramente ora mi
rimprovererete la durezza di Ginger come innaturale, o sarà oggetto di ironia
di pessimo gusto. Ma Ginger, se ben ricordate la storia mentre la leggete, è
l’estremo positivo, ed era inevitabile che riguardo al trauma si scontrasse con
Daphne. Ora direte: “avrei voluto vedere lei!”, ma lei probabilmente avrebbe
fatto buon viso a cattivo gioco, ed avrebbe tentato di dimenticare.
Daphne,
invece, non riesce a dimenticare proprio perché non vuole.
Shelly
invece qui si vede davanti il chiaro spettacolo dello sfacelo della sua
famiglia, che rimprovera alla madre.
Giusto
perché questo capitolo non sembri una correzione del precedente, sappiate che
io sto pubblicando a storia ormai ultimata, quindi tutto ciò che leggete era
previsto.
Grazie a Black
Lolita per la recensione, e a nafasa per il comico commento che mi
ha fatta morire dalle risate davanti al pc.
PS. Sono
tornata.