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Autore: sailormoon81    21/11/2023    0 recensioni
*Sono morta.
Ecco la prima cosa che pensai quando, a mezzanotte, una luce invase la mia stanza e ai piedi del letto apparvero i contorni di una figura femminile.
Un leggero fumo bianco cominciò a espandersi dalle sue spalle, e questo mi rese difficile metterla a fuoco immediatamente; non potevo tuttavia negare che avesse un’aria familiare. [...] «Farà male?» mi sentii chiedere.
Che fine aveva fatto il NO GRAZIE che avevo sulla punta della lingua?
Avvertii il suo sorriso piuttosto che vederlo. «Non fisicamente. Ma non posso garantirti che non soffrirai. Ma sarà un dolore positivo, che è rimasto troppo a lungo chiuso dentro di te, e una volta liberato ti permetterà di essere a tua volta libera dai ricordi. E dai rimpianti.» [...]*
Genere: Generale, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Avevo diciassette anni e frequentavo l’ultimo anno alla Boston Trinity Academy: situato nel cuore del quartiere di Hyde Park, la BTA era tra i migliori istituti scolastici che la città di Boston potesse offrire.
A sostegno di quelle teorie, c’è da dire che alcuni dei migliori studenti del Paese provenivano da lì, e ovviamente i miei genitori avevano colto al balzo la palla per iscrivermi quando avevo appena compiuto cinque anni: erano dodici anni, mese più, mese meno, che frequentavo la BTA, e dovevo ammettere che non era poi tanto male.
Tuttavia, per quanto apprezzassi la varietà dei corsi proposti, quello che sopportavo a stento erano i compagni di… avventura. Negli ultimi anni, si erano trasformati quasi tutti in cloni di Barbie e Ken: bionde ossigenate le ragazze, con vitini da vespa e gambe chilometriche; addominali scolpiti e capelli “alla Elvis” i ragazzi, tanto da sembrare usciti da quei telefilm anni Cinquanta che ogni tanto trasmettevano in televisione.
Non che fossero tutti così, anzi a dire la verità la maggior parte degli studenti era pressoché formata da normali studenti, con interessi diversi dall’ossessione per il proprio aspetto, decisi a combinare qualcosa nella vita che non fosse rovinare la giornata al malcapitato di turno.
Eppure, era questa crème di studenti a dettare le regole alla BTA.
E ovviamente io non ne facevo parte.
Non che fossi brutta, o roba simile. Semplicemente ero di una bellezza comune, con capelli castani, senza alcun segno di mèches o colpi di sole che tanto andavano di moda, e un fisico tendente più a una taglia dodici che a una sesta.
Ciò che i primi anni di scuola sembrava attirare l’attenzione su di me era il nome: Rivera non era un tipico cognome americano, e inizialmente gli altri studenti credevano di trovarsi di fronte un’esotica studentessa sudamericana, aspettative ben presto messe a tacere quando hanno capito che nelle mie vene scorreva sangue americano quanto e in alcuni casi più del loro.
A dire la verità, credo che le poche gocce di sangue latino presenti in famiglia siano evaporate un paio di generazioni fa, ma onestamente la cosa non ha alcuna importanza per me.
Arrivata all’ultimo anno di liceo, ero solo la “ragazza seduta avanti” che forniva un ottimo scudo dai professori durante le verifiche in classe.
La verità era che stavo bene in quel modo. Non mi andava di essere diversa solo per essere al centro dell'attenzione. Mentire per essere accettata dagli altri non faceva parte del mio carattere, e non l'avrei cambiato per nulla al mondo.
In ogni caso, non si può dire che fossi asociale: avevo delle amiche, anche loro ovviamente escluse dai vip della scuola.
Insieme a Ilary, Josey ed Abby, sentivo che prima o poi tutto sarebbe andato per il meglio, e la loro amicizia più che tutto il resto mi aiutava ad affrontare gli scontri con quello che nella scuola era conosciuto come il “terzetto”.
«Gabi, per fortuna sei arrivata!» mi accolse una Ilary in piena crisi di nervi. «Devi aiutarmi con chimica prima della terza ora, altrimenti sono spacciata!»
I suoi occhi verdi sembravano riempire tutto il volto paffuto della mia amica.
Okay, è vero che quella di ridursi all’ultimo minuto con i compiti era diventata una costante per Ilary, e che ogni volta mi toccava tirarla fuori dai guai… ma come potevi dirle di no, quando ti guardava con quegli occhioni imploranti?
Sospirai e feci per dirle di non preoccuparsi, che l’avrei aiutata nell’intervallo, quando Josey inveì contro di lei: «Ma se abbiamo passato tutto il pomeriggio in biblioteca! Che diavolo hai combinato dopo che sono andata via?»
Nonostante non arrivasse oltre un metro e cinquanta centimetri di statura, in quel momento Josey sembrava un gigante pronto a schiacciare chiunque le capitasse a tiro. Nella fattispecie, Ilary, diventata se possibile ancora più piccola di quanto già non fosse.
Le mie amiche presero a discutere, l’una adducendo scuse per non aver terminato, l’altra smontando sillaba per sillaba quanto sentiva.
Mi voltai verso Abby, che con un’alzata di spalle mi fece capire che anche lei ormai non faceva più caso ai loro battibecchi.
Mi piaceva Abby: anche se sembrava destinata a diventare popolare, col suo metro e settanta di altezza e un’espressione di eterna innocenza sul volto, non sembrava curarsene affatto, e credo ciò fosse dovuto alla perenne insicurezza che provava nel confronto con gli altri.
Quasi fossimo d’accordo, prendemmo sotto braccio Ilary e Josey e ci avviammo verso l’aula di algebra.
«Oh, attenzione ragazze: c’è puzza di perdenti nell’aria.»
Avrei riconosciuto quella voce tra mille altre, e lo stesso le mie amiche.
Joanna era il leader indiscusso del terzetto: anche volendo tralasciare la ricchezza che contraddistingueva la sua famiglia, aveva la capacità di farti sentire a disagio anche solo guardandoti, e nei rari casi in cui qualcuno cercava di ribattere alle sue offese, in qualche modo lei riusciva a far passare l’altro nel torto. Sapeva il fatto suo, Joanna, e con lei anche Lucy e Luanne.
Pressoché identiche nei colori e nell’aspetto, erano invidiate da tutta la metà femminile della scuola. La metà maschile, ovviamente, bramava per una loro occhiata o parola gentile, pur temendole apertamente.
«Ignoriamole e basta» sussurrò Abby, e noialtre non potemmo che essere d’accordo con lei.
Le tre ci superarono senza smettere di ridere, per poi fermarsi di fronte a noi, bloccandoci il passaggio. «Pensate che divertimento quando nel pomeriggio ci sarà da scegliere le attività extra scolastiche. Chissà chi farà la palla, quest’anno…» stava dicendo Luanne, senza smettere di guardarci come se fossimo degli insetti schiacciati sul parabrezza: il suo sguardo sembrava gridare enorme fastidio.
«Di certo qualcuno sarebbe una buona candidata, ma troppo pesante per essere anche solo spostata» riprese Lucy, e non nascose un’occhiata sprezzante in direzione di Josey.
Al suo commento seguì una risata di Joanne e Luanne, e sentii il corpo di Josey irrigidirsi e prepararsi a colpirle. Strinsi la presa al suo braccio, sperando che questo bastasse a impedirle di commettere qualche sciocchezza, ma per fortuna le tre ci voltarono nuovamente le spalle e si allontanarono.
«Dio, come si fa a essere così grasse? Al suo posto, mi ucciderei.»
Era stata Lucy a parlare, e per un istante pregai che nessun altro avesse sentito quel commento; bastò un’occhiata in giro per capire però che quella preghiera era stata inascoltata.
«Non ci fare caso» disse Abby, «sono solo invidiose…»
Stavo per dirle che mai, in nessun universo, il terzetto avrebbe potuto essere invidioso di noi, ma mi trattenni: sottolineare la nostra inferiorità rispetto a loro non avrebbe giovato a nessuno.
«Il punto però resta» commentò Josey, con la voce che le tremava appena. «Dopo pranzo, dovremo scegliere un club a cui iscriverci per incrementare i crediti.»
Quel pensiero mi ossessionò per tutta la mattinata.
Nel corso degli anni le avevo provate tutte: non sapevo recitare, quindi il teatro era fuori discussione. Senza contare che stare su un palcoscenico davanti decine di spettatori già una volta aveva causato la… ehm… risalita del pesce che avevo mangiato a pranzo. Inutile dire che lo spettacolo fu un fiasco totale, in quanto gli altri bambini mi avevano seguita a ruota, e il palco era diventato impraticabile.
Avevo dieci anni all’epoca del disastro teatrale, ma da allora non misi più piede dietro il sipario.
Non avevo orecchio per la musica, e a undici anni mi cacciarono fuori dalla banda della scuola perché ero stata in grado di stonare anche con il triangolo.
Due anni prima avevo tentato con il club artistico. Non era stato un brutto tentativo, ma ben presto mi dovetti arrendere all’evidenza che, per quanto avessi un minimo di talento nel disegno, avrei avuto successo nella semplice copia di qualcosa piuttosto che nel creare un dipinto da zero.
 
Alla fine del pranzo, mi lasciai convincere da Abby ad accompagnarla al club del tennis: «Non riuscirei mai a farlo da sola: sei un’amica, Gabi» aveva detto, e mi ritrovai ben presto in fila in attesa di inserire il mio nome sotto il suo nella lista dei nuovi iscritti. Dopotutto, che male avrebbe fatto?
 
Fu in quell’occasione che conobbi Albert.
Di un anno più grande di noi, Albert era assistente del professore, nonché responsabile delle nuove reclute.
Quel giorno mi limitai a segnare il mio nome in lista e, dopo una veloce occhiata a quel ragazzo annoiato dietro la scrivania, seguii Abby nell’aula di chimica.
Non ero riuscita ad aiutare Ilary come avrei voluto, ma a quanto sembrava la fortuna era dalla sua parte, dato che la signora Mine si limitò a spiegare per un’ora e mezza senza alcun accenno alle relazioni da consegnare.
 
La prima lezione di tennis si tenne due giorni dopo, e posso dire con certezza che fu in quel momento che mi innamorai di Albert: carnagione leggermente olivastra, capelli ricci e profondi occhi scuri, facevano sì che nessuno riuscisse a togliergli gli occhi da dosso; emanava sicurezza ad ogni movimento, calamitava l’attenzione su di sé, e potei notare che faceva quell’effetto anche ai ragazzi.
Non eravamo molti, appena una decina, ma mi resi conto di non conoscere nessuno, a parte Abby.
«Bene, ragazzi» esordì Albert, afferrando una racchetta. «Oggi cominceremo con le basi di questo sport. Quanti di voi hanno mai giocato, prima d’ora?»
Un paio di mani si alzarono ed Albert invitò i ragazzi ad affiancarlo. «Per oggi, voi mi farete da assistenti, in modo che anche i vostri compagni possano prendere confidenza con le racchette prima di procedere.»
Seguì un cenno di assenso da parte di entrambi, ma non potei non notare l’espressione annoiata della ragazza che si era fatta avanti.
Aveva un che di familiare, ma non riuscii a collocarla in nessun corso che frequentavo.
Non fui in grado di distogliere lo sguardo da lei abbastanza in fretta e quando i nostri occhi si incrociarono mi sentii tremendamente in imbarazzo.
Lei al contrario sorrise e si avvicinò. «Ciao, sono Claire.»
«Gabriella… Ehm, scusami per prima, non intendevo…»
Claire afferrò due racchette e me ne porse una. «Figurati. Ti va se ci alleniamo insieme?»
Feci per obiettare, ma Claire era già diretta in campo.
Mi voltai verso Abby. «Vai pure, aspetterò il mio turno» rispose lei alla mia tacita domanda, e pochi minuti dopo ero di fronte a Claire, tentando di colpire le palle gialle che mi lanciava.
Sembrava andare tutto per il meglio, finché Albert non si avvicinò.
«Devi essere più rilassata» suggerì, «altrimenti i tuoi movimenti saranno troppo innaturali.»
Non avevo notato quanto fosse attraente…
Va bene, è una bugia.
Avevo già perso un battito quando aveva sorriso all’inizio della lezione, ma averlo a meno di dieci centimetri era qualcosa di completamente diverso.
Con la bocca improvvisamente secca, non potei fare altro che annuire, in attesa che Claire lanciasse una nuova palla.
La mancai clamorosamente, nonostante me l’avesse tirata praticamente addosso. «Dai, riproviamo» mi incoraggiò lei, ma in quel momento ero distratta dalla vicinanza di Albert.
Quasi leggendomi nel pensiero, mi sorrise e mi si fece più vicino. «Più morbida. Così, guarda.»
Si mise dietro di me, mi abbracciò, e guidò i miei movimenti colpendo più volte l’aria. Braccio destro spinto all’indietro, leggera torsione del busto, poi un colpo avanti veloce.
Sembrava facile, ma ero completamente rapita dal contatto tra i nostri corpi.
«Proviamo con qualche lancio, Claire» suggerì, e l’interpellata obbedì.
Uno, due, tre colpi perfetti.
«Wow, grazie» gli sorrisi, grata per l’aiuto e le sensazioni che mi stava regalando semplicemente standomi vicino. Talmente vicino che i nostri nasi quasi si sfioravano.
«Albert!» gridò Claire.
Tutto accadde come al rallentatore.
Vidi il braccio sinistro di Claire alzarsi e lanciare in aria una pallina; il braccio destro si tirò all’indietro e poi velocemente in avanti, scagliandoci contro un proiettile giallo.
Avvertii la presa di Albert alla mia vita farsi più stretta, e vidi il terreno rosso farsi sempre pericolosamente più vicino.
Che diavolo era successo?
«Claire! Ma sei impazzita?»
Sbattei le palpebre più volte cercando di focalizzare la situazione: Claire non si era mossa dal punto in cui era pochi secondi prima, ma la sua espressione prometteva guai; Albert era seduto a terra, mi teneva abbracciata, e il tono di voce era veramente minaccioso.
Ed io… io ero letteralmente seduta sopra di lui.
Mi profusi in mille scuse, rialzandomi più velocemente che potevo, iniziando a capire quale fosse realmente la situazione in gioco in quel momento.
«Stai bene?» tagliò corto lui, e a un mio cenno di assenso si rilassò visibilmente. «Sono contento: non mi sarei mai perdonato se ti fosse successo qualcosa.»
Mi accarezzò il viso e poi si allontanò velocemente in direzione degli spogliatoi. Claire non era più in campo. Guardandomi attorno, notai che l’attenzione di tutta la squadra era rivolta a quanto successo.
 
*
«Gabriella! Ehi, Gabriella.»
Il giorno dopo l’incidente, come l’avevo definito, Claire mi stava aspettando fuori dall’aula di scienze. Con gli occhiali leggermente calati sul naso, i capelli ricci tenuti insieme da una fascia, e un vestito corto floreale, avevo fatto fatica a riconoscerla.
Mi sforzai di essere naturale, ma mi riusciva difficile in quel momento.
«Senti, mi dispiace per ieri. Non sapevo che tu ed Albert…»
«Albert non è il mio ragazzo» mi interruppe, «non ora, almeno. Lo è stato l’anno scorso, e non è stata una bella esperienza.»
Continuavo a non capire. Se non era il suo ragazzo, perché per poco non mi aveva mandata in pronto soccorso, con quel missile di pallina?
«Il fatto è» continuò lei, «che non mi piace quando si comporta in quel modo.» Ci incamminammo verso la mensa e mi guardai intorno alla ricerca delle mie tre amiche, senza successo: sicuramente, erano chiuse in qualche aula a ripassare per la verifica di letteratura in programma per l’ora seguente. Cosa che avrei dovuto fare anche io…
«Albert non si cura dei sentimenti» stava dicendo Claire, e solo il sentirlo nominare fece perdere un battito al mio cuore. «Ci stava provando con te, in modo neanche tanto discreto. Ma non voglio che rovini la vita di altre ragazze. Non se posso evitarlo, almeno. Se non vuoi soffrire, faresti meglio a stargli alla larga.»
Provai a rassicurarla che non era affatto come sembrava, che Albert non avrebbe mai provato interesse per una come me, ma non mi lasciò senza prima avermi fatto promettere che sarei stata attenta.
 
La notizia dell’incidente aveva fatto, non si sa come, il giro della scuola, così come l’assurda teoria di Claire secondo cui Albert fosse interessato alla sottoscritta. Assurdità ben evidenziata da Lucy e le sue comari ogni volta che le nostre strade si incrociavano.
Commenti come «Poverino, deve aver battuto la testa», o «Magari ha qualche problema: chi mai sano di mente vorrebbe una come lei, potendo avere una come me», facevano male, ma mi sforzai di ignorarli e proseguire per la mia strada.
 
Non posso nascondere però che per tutta la settimana aspettavo con ansia i giorni dedicati al tennis: per quanto non amassi quello sport, l’idea di stare accanto ad Albert mi faceva andare al settimo cielo.
Le previsioni di Claire si dimostrarono giuste, e dopo neanche un mese dall’inizio delle lezioni mi invitò a uscire.
Sì, be’, non andò proprio così, non fu un’uscita romantica.
Semplicemente, i compagni di squadra avevano deciso di andare a mangiare qualcosa insieme, ed Albert mi si avvicinò e mi domandò se avessi voglia di unirmi a loro.
Cercai l’approvazione di Abby, che si limitò a un’alzata di spalle, e tra la folla tentai di individuare Claire, ma riconobbi i suoi ricci castani uscire dagli spogliatoi.
In ogni caso, potevo benissimo indovinare quale sarebbe stata la sua reazione, quindi non mi preoccupai di raggiungerla e chiedere il suo parere.
Rientrai negli spogliatoi per prendere le mie cose, quando mi sentii afferrare da dietro.
«Gabi.»
Era Albert, e sentirgli sussurrare il mio nome in modo così provocante mi fece venire la pelle d’oca.
«A-Albert. Stavo giusto recuperando la mia borsa.»
La voce tradiva la tensione che provavo a stargli così vicina, in uno spogliatoio vuoto e illuminato solo dalla luce esterna.
Mi voltai verso di lui con difficoltà, tanto salda era la sua presa ai miei fianchi; provai a protestare per quell’intrusione, ma lui non me ne diede modo: mi prese il volto tra le mani e mi baciò.
Dapprima un bacio lento, quasi a fior di labbra, poi sempre più profondo. Non opposi resistenza quando avvertii la lingua di lui farsi strada tra le mie labbra appena schiuse.
Quello era il mio primo vero bacio.
Mi sembrava di stare a tre metri da terra, tanto avevo la mente leggera. Fui riportata bruscamente alla realtà quando avvertii una sua mano farsi strada sotto la mia maglia e accarezzarmi il seno, mentre l'altra cercava di sbottonarmi i jeans.
Recuperai la lucidità necessaria a separarmi da lui; gli posai le mani sul petto e lo allontanai, ancora ansimante.
Non ero un’esperta, ma potevo leggere il desiderio nei suoi occhi.
Mi imposi di non cedere così facilmente, dicendomi che non potevo passare dal primo bacio alla prima volta d’amore in pochi minuti, e specialmente non in una palestra.
Albert mi guardò confuso, poi riacquistò la sicurezza di sempre.
«Andiamo, gli altri ci staranno aspettando.»
La sua voce non tradiva alcuna emozione, e temevo che averlo respinto a quel modo avesse decretato la fine di qualunque cosa avrebbe potuto nascere tra noi.
Lo raggiunsi alla porta e lo guardai sottecchi. Anche lui mi stava guardando: il suo viso si distese in un sorriso e mi prese per mano, conducendomi verso il resto del gruppo.
 
*
 
Dopo due mesi di lezioni avrei dovuto imparare qualcosa, almeno a essere un po’ più coordinata.
Invece, la sola cosa che stavo imparando era fin dove riuscissi a spingermi con Albert senza intaccare il suo ego maschile.
Non ero ancora pronta a concedermi totalmente a lui.
Ciò che maggiormente mi dispiaceva era non riuscire a trascorrere molto tempo con Ilary, Josey ed Abby. Durante la settimana eravamo impegnate con lo studio, e a parte le chiacchiere scambiate durante le pause tra una lezione e l’altra sembrava non riuscissimo più a trovare un momento per noi.
Il fine settimana, lo ammetto, era dedicato ad Albert.
Sapere che ci saremmo visti anche solo per mezz’ora riusciva a rendere piacevole anche un intero week end a casa coi miei, che non mancavano di far notare quanto fossi una delusione per non aver scelto di studiare legge ad Harvard, e proseguire con la tradizione di famiglia.
«Vengo a prenderti stasera » mi stava dicendo Albert al telefono, «e poi andremo insieme alla festa del club di football.»
Era perfetto.
Avremmo trascorso, per la prima volta in due mesi, un’intera serata insieme.
Forse fu l’emozione dell’evento, o forse aver capito di amare Albert più di ogni altra cosa al mondo, ma decisi che quella sera avrebbe dettato una svolta nella nostra relazione.
 
Venne a prendermi alle ventuno in punto.
Dopo aver salutato i miei genitori con un semplice «Ci vediamo più tardi, non aspettatemi alzata» e aver ignorato i loro commenti non proprio lusinghieri, raggiunsi Albert e lo salutai con un bacio che quasi stupì anche me per l’intensità che vi avevo riversato.
Lui sembrò piacevolmente sorpreso dal mio gesto e questo mi fece sentire in grado di fare tutto.
«Ti dispiace se prima facciamo un salto a casa mia?» mi domandò mettendo in moto l’auto. «Ho dimenticato alcune cose per Byron.»
E senza aspettare risposta, da Webster Street svoltò a Central Avenue, e guidò fino a Mariposa Street.
«Mi accompagni?» chiese spegnendo l’auto davanti un edificio con mattoni a vista, con ampie vetrate e un piccolo portico a cui si accedeva a una graziosa porta rossa, di cui mi innamorai perdutamente.
Albert mi fece strada all’ingresso e fino al salotto, dove facevano della mostra di sé quelle che dovevano essere fotografie dei membri della famiglia Hunt.
Riconobbi immediatamente Albert da piccolo, e tramite quelle immagini potei quasi ricostruire la sua vita fino a quel momento: a quanto sembrava, era sempre stato un appassionato di tennis, e gli ultimi anni erano coronati da un successo dietro l’altro.
«Qualcosa da bere?» offrì, ed accettai un succo più per educazione che per effettivo desiderio.
Mi porse una spremuta d’arancia e mi propose un tour della casa.
Avevo i sensi all’erta, una vocina nella mia testa urlava di rifiutare, ma decisi di seguirlo in giro per la casa: avrei potuto imparare molto di lui visitando i suoi spazi.
Mi condusse attraverso il corridoio indicandomi le varie stanze che superavamo, senza fermarsi in nessuna di esse. Ne contai tre prima di sentire le sue braccia attorno a me e il freddo del muro alle spalle.
Mi baciò come non mi aveva mai baciata prima, con un’intensità tale da togliere il fiato.
Aprì una porta alla mia sinistra e mi guidò al suo interno, senza separarsi un istante dalle mie labbra.
Prese dalle mie mani il bicchiere e lo ringraziai mentalmente di avermi impedito di causare danni alla tappezzeria.
Mi spinse verso il letto, cominciando ad armeggiare con i bottoni della camicetta. La vocina nella mia testa continuava a lanciare segnali di pericolo, ma continuai a ignorarla.
Albert mi accarezzò il ventre con una mano, mentre con l’altra tentava di slacciare il gancetto del reggiseno.
Senza capire come, mi trovai stesa sul letto, con la camicetta aperta e Albert sopra di me, che tracciava baci lungo il collo, e scendeva sempre più fino a schiudere la bocca sul mio seno.
Sentivo che c’era qualcosa di sbagliato, ma non ero certa di cosa fosse.
Orami ero sicura di amare Albert, eppure il disagio che provavo era più forte di qualsiasi altra emozione.
Non sapevo che fare.
Mi balenarono per la mente le molte scene viste con Ilary durante i pomeriggi dedicati alle commedie romantiche, e mossi una mano ad accarezzargli i capelli e le spalle.
Nonostante i miei sentimenti per lui, non volevo andare oltre. Mi sembrava andare tutto troppo in fretta. Dopotutto, non avevamo mai parlato dei nostri sentimenti, non avevamo neanche definito cosa ci fosse tra noi…
Mi sentivo una sciocca: chissà quante ragazze avrebbero voluto essere al mio posto, in quel momento.
Ma io… Io volevo solo che tutto finisse.
Quando la sua mano si spostò dai miei fianchi fino al bottone dei jeans, gli posai una mano sul braccio, chiedendogli silenziosamente di non andare oltre.
Lui non accolse la mia muta preghiera, e in pochi secondi mi ritrovai con solo la biancheria a coprire il mio corpo.
Lui si stese nuovamente su di me e continuò a baciarmi il collo, mordicchiandomi il lobo dell’orecchio, ma il fastidio era l’unica sensazione che provavo; solo allora notai che anche lui si era liberato dai jeans.
Mi afferrò la mano e la guidò fino al suo ventre, invitandomi a proseguire nell’esplorazione del suo corpo, mentre lui stava facendo lo stesso col mio.
Tremavo, ma era paura più che desiderio.
Mi sentivo come in trance, non riuscivo a reagire alle sue carezze, ma quando avvertii la sua mano scostare le mutandine e con un dito farsi strada dentro di me mi svegliai dal torpore e usai tutta la forza di cui ero capace in quel momento per respingerlo.
«Fe-fermati.»
Lui mi ignorò, ma cercai ugualmente di divincolarmi dalla sua stretta.
«Che ti prende, Gabi?»
Non sapevo come spiegargli cosa stavo provando, e mi limitai a mormorare un «Non posso…» sperando che capisse e non chiedesse oltre.
Sembrò che passassero ore, e non secondi, prima che mi lasciasse libera del suo peso e mi permettesse di rialzarmi: mi sentivo un blocco di legno e rivestirmi sotto il suo sguardo era un vero tormento.
«Avevo capito che volessi divertirti, non pensavo fossi una bacchettona» mi derise, e non riuscii a replicare a quel commento: il tono che aveva usato mi aveva tolto il respiro, e non potei fare altro che guardare altrove, torturandomi il labbro inferiore con i denti.
«Se la pensi così» continuò aprendo la porta e incamminandosi lungo il corridoio, «non ha senso per te restare qua. E… Gabi?» Aprì la porta d’ingresso e mi fece cenno di precederlo. «Non credo abbia molto senso continuare a vederci.»

Non mi accompagnò a casa: dovetti prendere l’autobus e cambiare un paio di volte prima di potermi rifugiare nel silenzio di camera mia.
 
   
 
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