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Autore: aletheiamal    25/01/2024    0 recensioni
Una donna cammina per le strade di una città sconsacrata pensando alla sua vita e alle tragedie che la circondano, a ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà.
“Era stato un suono chiaro, improvviso, come quello di un campanellino in mano ad un chierichetto.
Una volta ritornata nel suo appartamento non era riuscita a pensare ad altro se non a quella che ormai nella sua mente era diventata un’orchestra, una cacofonia di suoni, l’impossibilità di ignorare quell’essere umano.
Il giorno dopo era entrata nel piccolo negozio di calzature e sacrificando i guadagni dell’ultimo mese aveva comprato quegli stivaletti.
Ed ora, in quel vicolo buio, camminava."
Genere: Dark, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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CAPITOLO III - HOMUNCULUS

 

Ogni opera d’arte ha una cornice.

Dorata o argentata, d’ottone oppure di semplice legno, nessuna creazione viene esposta senza che prima l’artista l’abbia abbellita: un quadro, una poesia, un graffito sul muro sporco di una stazione, che lo si voglia o meno tutto ha una cornice, una storia, un occhio vigile che osserva l’osservatore.

La vita di un essere umano è una cornice vuota.

Non importa di quale materiale sia fatta o quanto grande sia, confonde e affascina, è un diaframma tra realtà e finzione.

Quanto è dolorosamente reale e quanto è solo frutto della nostra mente? 

Se questa è veramente la vita di un essere umano allora l’umanità non sarà altro che una parete di cornici vuote, degli spazi che invece di essere abissi oscuri si trasformeranno in cieli pieni di possibilità.

Che cosa significa per gli altri esistere?

Anche lei per poter vivere veramente avrebbe dovuto essere vista, gettarsi a peso morto nel buio più totale per accettare tutto ciò che aveva rifuggito nella sua vita.

Come un’opera d’arte sarebbe stata osservata e giudicata, intrappolata in una stanza piena di altri insulsi disegni, e le sue emozioni ed i suoi pensieri (tutto ciò che era marcio) sarebbero stati gettati via come carne putrefatta.

Un corpo esanime appeso ad un muro, un’opera d’arte a cui nessuno avrebbe prestato attenzione. 

Quando era giovane aveva desiderato che la sua esistenza pesasse come una piuma, ma quella che era stata la sua più grande forza con il passare degli anni si era trasformata in una lama tagliente che le scavava nella carne: era diventata lei stessa la prima vittima della propria solitudine.

Ora la bambina del suo passato la giudicava, e la donna senza futuro non riusciva a smettere di guardare indietro. 

La sventurata teneva il capo chino e, rassegnata, aspettava che le sue mancanze iniziassero a piombarle addosso come un diluvio di pietre, sperava che il dolore potesse essere anche la sua più grande libertà.


***


Il luogo che non era un luogo non finiva mai di crescere.

La metropoli si ingrandiva con le sue case inospitali e con la sua aria irrespirabile, con le milioni di persone che vi esistevano e il miliardo di solitudini che continuavano a nascere. 

Qualsiasi viaggio tra le sue vie rasentava una sorta di laico pellegrinaggio e, sebbene non fosse una fedele, in quella giornata grigio antracite persino lei aveva iniziato a credere nei miracoli.
Anche se non si ricordava molto della donna dagli stivaletti marroni pensava a lei ogni giorno e sperava ormai da molto di reincontrarla: non aveva visto come fosse vestita, di che colore fossero i suoi occhi, se avesse una fede al dito o se fosse felice, eppure, l’impressione di quella donna si era fissata sul suo bulbo oculare ed era rimasta vivida come una sinfonia, vera come una ferita.

Come un bagliore nella nebbia, due mesi dopo quella fatidica mattina l’aveva rivista sull’ultima carrozza della metrò della linea 1, alla fine dell’ora di punta.

Se le sue scarpette non avessero risuonato in quello spazio claustrofobico non l’avrebbe mai riconosciuta in mezzo a quei redivivi stanchi.

Tac, tac, tac.

La donna era alta e sottile, il suo volto aveva degli occhi, un naso ed una bocca, due orecchie e una mascella: era lo specchio di ogni uomo e ogni donna in quella città, irriconoscibile nella propria indifferenza.

La donna senza volto era rimasta impietrita, aveva dimenticato tutto il resto mentre si trasformava in Perseo e Medusa, si rendeva conto di non poter scappare.

Di non volerlo fare.

Si era chiesta cosa avrebbe potuto dirle, in che modo avrebbe sorriso e regolato il tono della propria voce, come sarebbe riuscita a rendersi ai suoi occhi un poco più umana ed un poco meno se stessa.  
In realtà in cuor suo già si immaginava la conversazione che avrebbero avuto e per la prima volta nella sua esistenza lo desiderava e lo desiderava e non riusciva a desiderare altro.

In mezzo a quella carrozza i suoi muscoli avevano iniziato a somigliare a pezzi di ghiaccio e, nonostante l’impeto improvviso che l’aveva smossa dal torpore della sua esistenza, era rimasta immobile. 

Incapace di fare nient’altro aveva boccheggiato e dopo quella che era sembrata un’eternità aveva spostato un piede verso la donna, le si era avvicinata un poco di più.

Tac, tac, tac.

Le sue scarpette avevano fatto riecheggiare in quello spazio chiuso un do, poi un re, infine un sol.

Riuscendo a vincere il proprio terrore aveva mosso un altro passo verso la donna dagli stivaletti marroni ed il suo cuore aveva iniziato a riempirsi di un’emozione innominabile.

Lei era vicina, lei era viva e così vera, lei che era la sua musa e l’unica persona che era imprigionata nella sua memoria, lei che era così lei, si era girata ed era scesa dalla metrò.

L’omuncolo si era fermato ed aveva osservato quella schiena umana perdersi per sempre e, mentre le porte della carrozza si erano richiuse con un suono ovattato (un mi?), di colpo si era visto riflesso nel finestrino sporco, un profilo scuro che si stagliava sul nulla.

Un lampione alle prime ore dell’alba, un uomo che affoga: la sensazione luminosa e calda che aveva provato nel petto si era spenta per sempre.

La massa informe che esisteva con il nome di donna senza nome aveva iniziato a sgretolarsi ed era svanita da quella carrozza, inghiottita dal vuoto che la circondava.

Ancora una volta si era trasformata in un fantasma, per l’ultima volta si era resa conto di non essere mai esistita neppure per se stessa.


***

 

Non era la prima volta che attraversava quel vicolo.
Le strade si diramavano come vasi sanguigni per quel corpo esanime di metropoli ma la donna le conosceva ormai come i corridoi della sua vecchia casa.
Erano diventate il luogo della sua inconfutabile esistenza.
C’erano stati altri momenti di sconforto che le avevano impedito di rimanere rinchiusa nella sua prigione: quando si rendeva conto di non riuscire più a sopportare il silenzio, quando all’apatia prendeva posto la frenesia, in quel momento decideva di alzarsi, mettersi gli stivaletti, ed iniziare ad esistere.

Prima camminava, poi correva, ora zoppicava, le ombre del suo passato le voltavano le spalle mentre il futuro sembrava sempre più vicino. 
Avrebbe voluto tornare indietro e vivere in quell’illusione di luce che era stata la sua vita dopo quel primo incontro, dimenticare la propria inettitudine e continuare a camminare come se nulla potesse metterla in ombra.
Per quale ragione non si era lasciata rincorrere quella sensazione calda, quell’unico alito di primavera nella sua esistenza d’inverno?

Tac, tac, tac, tac, tac…

Più si muoveva e più le sembrava di rimanere ferma, più rumore faceva e più si rendeva conto di quanto silenziosa fosse.

Perché non era riuscita ad iniziare a vivere?

Aveva desiderato diventare una donna con un volto ed un passato, con un futuro costruito da sé, ma la metamorfosi ha bisogno di sangue e carne viva ed il suo corpo di cadavere non avrebbe mai potuto concederglieli. 

Tac, tac, tac, tac, tac…

Ora anche i suoi stivaletti erano diventati silenti e, nonostante il loro rumore riecheggiasse tra le pareti di cemento, lei non li sentiva più ai piedi.

Anche loro avevano smesso di esistere.

La donna senza volto e senza nome aveva aumentato il ritmo del proprio passo ed il rumore del suo respiro affannoso aveva iniziato a riecheggiarle nelle orecchie come il rintocco sordo di una campana. 

Tac, tac, tac, tac, tac,tac, tactactactactactactactactactactac…
Ciò che desiderava di più era vivere ma sapeva che non avrebbe mai potuto farlo: nel suo futuro c’era solo silenzio, ed il clamore del mondo non sarebbe mai riuscito a raggiungerla. 

…tactactactactactactactactactactactactactactactac…

Ora la sua era diventata una corsa sfrenata, e ad ogni passo aveva iniziato a sbattere i tacchetti degli stivali per terra come in un ballo forsennato: il suo era un valzer, un tango, un urlo disperato che scorticava la gola.

…tactactactactactactactactactactactactactac…

Nessuno la stava ascoltando.

…tactactactactactactactactactactac…

Qualcosa aveva illuminato di colpo l’oscurità.

…tactactactactactactactac…

Gli occhi della donna si erano spalancati improvvisamente e avevano iniziato a riflettere quel mondo buio, non riuscivano a vedere nulla eccetto quel bagliore freddo.
…tactactactactactac…

Il corpo si muoveva, ma il suo rumore era rimasto imprigionato in quel vicolo.

tactactacta–
I fari di un’automobile si avvicinavano sempre più veloci verso di lei, le ricordavano due soli scintillanti nella notte.

La donna esisteva nella luce.

 

Note di nessuno

Ho iniziato questa storia un anno fa ed ero certamente una persona diversa, ma non tanto quanto mi piace credere.

Spero che siate riusciti ad apprezzarla, ed anche se non lo avete fatto sarei molto curiosa di sapere quali sono i vostri pensieri a riguardo.

Grazie per avermi dato il vostro tempo!

Ritornerò, volente o nolente.

- Aletheia

 

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