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Autore: _Alcor    06/02/2024    4 recensioni
La fine del mondo è già passata.
Di preciso il mondo di Yuuki Shinomiya è morto insieme a sua sorella, cinque giorni prima. L'assassino è uno dei robot che hanno seminato panico in città nelle ultime due settimane. L'unica cosa che le rimane è trovarne il creatore e ammazzarlo con le sue mani.
Perché se non lo fa… che altro le rimane?
{sorella maggiore con il cuore in pezzi elabora il lutto | lo elabora male, e lo rende un problema per tutti quelli che conosce | companion fic per l’Ottantesima Vittima di Mixxo | minilong}
Genere: Angst, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Chimere'
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Ignizione.

[Yuuki Shinomiya]





Sono passati cinque giorni dalla morte di Kojo e papà non ci ha ancora dato il via libera per agire.

Stacco la puntina dalla bacheca di sughero, la planimetria di chissà quale edificio scivola sulla scrivania insieme agli altri appunti. Sono tutte informazioni che sono già state sistemate in file più ordinati e salvati nel cloud di famiglia per usi futuri.

Le appallottolo e lancio nel bidone accanto al letto sfatto, la palla batte sul bordo ma scivola fuori, rotola davanti al comodino. Il portachiavi di Erion, ali del corvo è ancora lì sopra, impacchettato nella carta trasparente e circondato da sette stecche di liquirizia. Ne spacchetto una e la prendo tra i denti, non sa di niente.

Ne strappo un pezzo e lo mando giù, che cliché.

Sulla bacheca rimane solo il vecchio selfie scattato a Marton, allungo la mano ma la chiudo senza fare niente. Non me ne riesco a liberare. Al tempo avevo tredici anni ed ero circondata su entrambi i lati da amici con le facce spolverate di brufoli, lo scatto mi aveva colto a metà di una risata isterica per colpa di chissà quale commentino idiota di Gareth.

Nessuno si era accorto che la sera prima avevo sparato per la prima volta a un essere umano. E mancato, ma mamma mi è rimasta accanto per assicurarsi che non fallissi.

Stringo la stecca rimanente e stendo le labbra in un sorriso, giusto per non dimenticarmi come farlo; non è perfetto ma ci sono abbastanza persone disattente nel mondo da non accorgersi la differenza tra uno sincero e uno no.

Tiro fuori dalla tasca degli short l’articolo di cinque giorni fa sugli attacchi robot che hanno sconvolto la città e lo appendo con una puntina gialla. Il foglio è spiegazzato, sbiadito da diverse macchie di bagnato; ci passo una mano sopra per stenderlo.

Il necrologio a lato elenca i nomi delle settantanove vittime: solo una manciata di loro sono mercenari pagati per tenere al sicuro la città o forze di sicurezza della Kaiser, i più sono civili coinvolti per caso negli scontri.

Non c’è il nome di Kojo Shinomiya tra di loro, ma le persone che vivono ai margini della società come noi non meritano di essere ricordate.

La ferita sulla palpebra sinistra prude, faccio due passi indietro e passo i polpastrelli sui punti di seta che chiudono il taglio fino allo zigomo. La pelle è secca e ruvida di sangue rappreso, stamattina mi sono dimenticata di metterci l’unguento oftalmico sopra.

«I disattenti muoiono giovani,» borbotto, finisco di mangiare la stecca.

Il foglio solitario attaccato alla puntina mi dice pochissimo: gli attacchi sono iniziati da due settimane, sono stati registrati almeno tre robot in movimento allo stesso tempo in punti diversi della città.

Progettare solo uno di quegli affari infernali avrà preso anni e fondi considerevoli, non è un lavoro per un privato qualsiasi. Ci avranno lavorato esperti di robotica, intelligenza artificiale, fornitori di materiali e chissà chi altro. Avranno un tale traccia cartacea alle loro spalle che sarà impossibile non risalire a chi li ha creati.

Questo se si tratta di creature che provengono dal nostro mondo.

Sfilo l’elastico blu dal polso e raccolgo i capelli in una coda, un odore acre mi pizzica il naso. Serro le labbra per soffocare il disgusto. Sono io? Alzo il braccio e avvicino il naso all’ascella, mi ritraggo come schiaffeggiata. Sono io.

Prima di continuare serve una rinfrescata. Accarezzo la foto sulla bacheca e imito il sorriso della bambina in primo piano: mi si appoggia alle labbra come una maschera troppo piccola per essere indossata.

Sta stretto.





Mi chiudo la porta del bagno alle spalle; il vapore vortica, si confonde con il bianco del corridoio. Tampono i capelli gocciolanti con l’asciugamano di tela, la canotta mi si è appiccicata alla schiena bagnata e dà fastidio, però ci voleva una doccia calda per calmare i nervi.

Dal soggiorno arriva il brusio del televisore acceso. Kaito è seduto sul divano ed è incurvato sul tavolino basso, dove ha rovesciato l’intero contenuto della cassetta del pronto soccorso. Dà una manata che fa cadere il rotolo di bendaggi sul tappeto, agguanta il disinfettante e lo rovescia sul dorso della mano martoriata, il liquido bruno scivola sulle nocche scorticate e macchia i piccoli frammenti luccicanti piantati nella pelle.

È vetro, fantastico. Faccio il giro del divano, butto l’asciugamano sul bracciolo e pesco le pinzette nascoste da un pacchetto di antidolorifici. «Dai qua.»

Kaito arriccia un angolo della bocca. «‘sti cancheri,» mastica un’imprecazione ma allunga il braccio, obbediente come un cagnolino. Gli stringo il polso per tenerlo fermo, anche se non si muoverà. Non lo fai mai quando gli puliamo le ferite.

Punto il primo frammento di vetro e lo stringo tra le pinzette.

La televisione sta dando una replica del bollettino delle riparazioni di Marton: un nonnino dall’aria fin troppo arzilla agita il bastone alle spalle dell’inviata, i figli lo trattengono a fatica. Puntano i piedi per trascinarlo fuori dall’inquadratura, ma il cameraman si sposta per seguirli.

Foto della vecchia università sfondata da uno sperone di roccia si susseguono al municipio, di cui è rimasto in piedi solo la facciata che dava sulla piazza. Poi il giardino naturale, l’orgoglio di Marton, ridotto a una distesa di cenere. La narrazione non la sto neanche ad ascoltare.

Tanto la favoletta è sempre quella, le riparazioni della periferia della città proseguono a rilento. Il centro città, dove sette mesi fa è apparso il drago demoniaco che ha distrutto tutto, è per ora irrecuperabile. Gli esseri umani che vi entrano sviluppano mutazioni nel giro di poche ore dall’esposizione, già un’altra persona si è tramutata in un mostro. E prima o poi lo faranno tutti i contaminati che sono stati costretti a rimanere dentro la zona di alienazione.

Fortuna che la Kaiser ha preso in mano la progettazione delle misure di prevenzione e reazione all’apparizione di creature interdimensionali.

Come avremmo fatto altrimenti.

Kaito stende le dita della mano, la pelle spaccata si muove e perdo di vista il frammento irregolare che stavo puntando. «Stai facendo di nuovo quell’espressione.»

«Quale?»

«Quella da la vita fa schifo.»

Accarezzo la possibilità di piantargli le pinzette nella pelle. «Non lo fa?» Il bastardello si confonde tra i lembi sanguinanti delle nocche, aguzzo gli occhi e lo stringo. «Il mio bel viso sarà deturpato da una cicatrice per un bel po’, sai quanto ti rende riconoscibile una cicatrice cartoonesca sull’occhio?»

«Non potrai più farti passare per me quando combini qualcosa, gran perdita.»

«È una tragedia! Metà dei volti nei bassifondi non mi danno fastidio perché credono sia te.»

«Poteva andare peggio.»

È morta nostra sorella da nemmeno cinque giorni, avrei accettato il non poter lavorare più in questo campo più che sapere che il suo cadavere sta venendo mangiato dai pesci. Mi si attorciglia lo stomaco. «Tipo?»

Scrolla le spalle. «Potevi perdere l’occhio.»

Mi sfugge una risata nasale, i punti su palpebra e guancia tirano la pelle. «Mi aspettavo una battuta, non la dura verità.» Getto il frammento sporco di sangue e disinfettante sul tavolo insieme ai suoi compagni. Prendo le bende.

La televisione è passata a un’immagine aerea di Marton, la distesa di case circonda un fiore aguzzo di pietra che copre il centro: la zona di alienazione. Anche dall’alto si vede la spessa barriera che la Kaiser ha eretto intorno al disastro per impedire ai contaminati di uscire e ai pazzi di entrarci.

E finché non si sa come risolvere il problema, gli sfollati sani saranno divisi tra qui a Yrff e la vicina Welt. Gli irriducibili che non si son voluti trasferire temono i ladri che potrebbero approfittare delle case vuote per razziare i pochi beni rimasti.

Stringo il bendaggio e ritiro le mani. «Quando pensi che papà ci lascerà agire?»

Kaito alza le spalle. «Quando ci sarà qualcosa da guadagnarci. Cercare di intercettare uno di quei robot è stupido, specie vista la probabilità di perderci un braccio o la vita.» Apre e chiude il pugno per saggiare la medicazione.

«Lo so anch’io.»

«E allora attendi ordini. Fatti riaddestrare come Takane, intanto, non lo so.» Prende fiato, ammorbidisce il tono. «Non siamo noi quelli con il distintivo, vabbe’ che ormai averlo non conta più un cazzo… ma hai altri due fratelli minori che contano su di te.»

Siamo passati da cinque a quattro.

«Hai ragione.» Batto le mani sulle cosce e mi alzo. Recupero dallo scaffale sotto la televisione un paio di volantini come malacopia e una biro, se non mi faccio qualche schema a mano rischio di non infilare mezzo pensiero. Saluto l’orso con un cenno.

Vado nell’ufficio, quello che Takao da bambino continuava a chiamare war room.

La voce di Kaito mi segue. «Fai schifo a medicare la gente!»

«La prossima volta t’arrangi!»

La porta si apre prima che stringa la maniglia, papà esce e se la chiude alle spalle. Aggiusta la cravatta grigia e distoglie lo sguardo, ma lo vedo stringere le labbra in una smorfia di disapprovazione.

Non ha ancora commentato il fatto che gli ho buttato il telefono in faccia.

«Fra quanto ti tolgono i punti?» chiede.

«Tre giorni, hanno detto.»

«Bene.» Con la giacca elegante e i capelli castani tenuti in ordine dal gel sembra più un dirigente che il capofamiglia di un gruppo di sicari. «Dopo che avrai recuperato, dovremo sistemare l’errore di Kojo. Il manufatto che doveva recuperare sembra che sia finito–»

«Potevi mandare me fin dall’inizio.»

Papà stringe gli occhi, sospira. «È cercando di preservarla dalle difficoltà che le hai impedito di essere abbastanza capace.» Abbassa gli occhi sull’orologio da polso. «Correggi il tuo comportamento entro tre giorni, o dovremo mettere in discussione il tuo ruolo in questa famiglia.»

Il suo viso si vela, i dettagli della porta tremolano come se fossi stata improvvisamente immersa nell’acqua. Qualcosa mi arpiona la gola e minaccia di far uscire un suono che non deve scapparmi. Non lo farò ora, avrò tempo dopo.

«Cosa devo correggere?» lo sfido.

Mi supera. Neanche mi degna di una risposta, stronzo.

Stringo la maniglia e apro, le casse vicino all’entrata gracchiano sibili violenti. Mi ricorda quando l’aria viene tagliata dai coltelli di mamma.

Si è pure dimenticato di spegnere il computer prima di uscire. Premo l’interruttore della luce.

«A-aspetta.»

Mi congelo sul posto, i respiri lacerati dal dolore di Kojo riempiono il silenzio. Mamma è seduta allo schermo principale della scrivania, rigida come un palo e con le mani raccolte sul grembo.

La prospettiva della telecamera di sicurezza fa sembrare Kojo più piccola di quello che era. In ginocchio sul pontile turistico, tende la mano tremante contro la massa che la sovrasta. L’assassino è altissimo, produce uno strano fruscio metallico ad ogni movimento. È armato di una spada che brucia di un bianco pallido, è un’arma stupida in un mondo come il nostro dove qualcuno potrebbe cecchinarlo da cinquecento metri di distanza.

Fa un movimento rapido, neanche sembra colpirla. Il sangue le schizza dal collo, copioso, copre il robot di una macchia irregolare. Kojo si sbilancia indietro, sbatte sgraziatamente sul pontile e scivola in acqua.

Fili di rosso vengono portati via dalla corrente. Un minuto e dodici secondi di strazio, ma finalmente si è interrotto.

Mamma si sporge e fa ripartire il video. Kojo corre in direzione della fabbrica, spara alle sue spalle.

Distolgo lo sguardo, la schiena di mamma rimane salda e dritta. La luce dello schermo ne illumina gli occhi arrossati, ha a malapena iniziato a mostrare i primi cenni di rughe. Pare non essersi accorta della mia presenza, ma non sopravvivi così a lungo se sei il tipo da distrarti in casa tua.

Non dovresti deprimerti così.

«Ti hanno tolto i punti?» mormora dal nulla.

Scuoto la testa. «Lo faranno tra poco. Han detto che l’occhio non è stato danneggiato.»

«Ottimo.»

Kojo viene spinta al muro da un’esplosione, Kojo agonizza per terra. Kojo muore di nuovo, da sola.

Mamma tamburella le dita sulla gamba, l’unico tic nervoso che le ho mai visto lasciarsi scappare in casa. «Ha fatto troppi errori.»

Ho la gola chiusa, la voce rifiuta di uscire come dovrebbe. «Era una situazione da cui solo tu saresti stata in grado di spuntarla.» Non è una gran difesa.

Mamma si appoggia allo schienale e mi rivolge un’occhiata di sfuggita. «Avrebbe dovuto scegliere una vita normale, se non era adatta per sopravvivere in questo mondo. Se tu, Yuu, volessi–»

Alzo la mano; serra le labbra, gli occhi scuri le tremano.

Kojo crolla penosamente nell’acqua, come una bambola a cui hanno tagliato i fili. Scegliere una vita normale ora? Non saprei nemmeno come le persone normali vivono. Anche se di certo non riguardano ripetutamente lo snuff film dove loro figlia viene uccisa.

Le sorrido. «Mi stai dicendo che non sono adatta? Mi fai male.» Prendo il mouse e chiudo la registrazione, lo strazio si quieta.

Mi mette una mano sulla spalla, come a cercare conferma che sono davanti a lei, viva e tangibile.

Gli Shinomiya sono spettri che si confondono tra le persone normali, e come tutti gli spettri, prima o poi spariranno senza lasciare traccia.

Ma non ho intenzione di farlo ora.

La stringo in un abbraccio.





[.note a margine]

La bozza del prossimo capitolo è pronta, quindi sono lievemente avanti con la tabella di marcia rispetto al mio solito cronico yolo. Ma dal quattordici avrò personal stuff che mi terrà occupata per non so esattamente quanti giorni, quindi metto le mani avanti per dire che probabilmente non riuscirò a tenere il ritmo di un capitolo alla settimana.

Poi magari ci riesco lo stesso.

Grazie per essere arrivati in fondo o7

  
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