Titolo: The Light Start to Tremble
Personaggi: Derek Hale, Stiles
Stilinski, Un po’ tutti
Pairing: DerekxStiles [Sterek]
Rating: Giallo
Genere: Angst, Sentimentale, Soprannaturale
Avviso: AU, Slash, Slow Burn
1° Capitolo
L’aria era fresca e sopportabile, gli
riempiva i polmoni come se volesse comunicargli che quello era realmente un
nuovo inizio. Che poteva finalmente provare a respirare senza trattenere il
fiato, lasciarsi gli incubi alle spalle e ricominciare qualcosa che gli aprisse
le porte per il futuro.
Il Michigan State University brillava al
sole che si estendeva sui suoi ettari ed ettari di terreno, il verde rigoglioso
era visibile ovunque posasse gli occhi, centinaia di alberi all’orizzonte,
studenti di tutte le età che lasciavano le loro orme sui sentieri d’asfalto di
cui era disseminato l’intero campus; chi correndo impacciato, disorientato e
con le valigie al seguito, mentre altri apparivano già di casa, sapendo
esattamente come muoversi.
Arrivò
all’accettazione con un sorriso enorme sul volto, l’entusiasmo e l’adrenalina
che sgorgavano a fiumi, propenso ad assorbire ogni informazione che gli
avrebbero fornito; i dépliant in mano insieme alla mappa, un cerchio rosso che
gli indicasse l’ubicazione del suo dormitorio e l’edificio del dipartimento da
lui scelto diversi anni antecedenti, il College of Social Science, con
l’intento di specializzarsi in criminologia.
Rimase
incantato dallo stile gotico quando arrivò davanti al Mayo
Hall,
i compagni di dormitorio che si affollavano per inoltrarsi all’entrata per
raggiungere le loro rispettive camere.
Quando
entrò dentro la stanza che probabilmente, e speranzosamente, l’avrebbe accolto
per i futuri quattro anni, incontrò un letto a castello libero, un divanetto
situato al di sotto e un letto singolo classico collocato sulla parete di
fronte. Purtroppo appariva già occupato.
Le
mani di Stiles tremarono, i polmoni si chiusero e il panico minacciò di
sgorgare, senza dargli minimamente il tempo di reagire e trovare una soluzione
alternativa. «Scusa… posso prenderlo io?» provò a chiedere al suo coinquilino
sconosciuto con la trachea asciutta, l’affanno che tentava di controllare, il
terrore che si impadroniva di lui. «Ho difficoltà a prendere sonno, devo sapere
di avere i piedi per terra».
Il
suo nuovo compagno di stanza fu richiamato all’attenzione, distogliendola dai
bagagli che si stava sbrigando a disfare. Lo guardò con i suoi occhi scuri,
l’impassibilità nei tratti asiatici, lo sguardo che cadeva sulle dita
affusolate del suo interlocutore che ancora erano attraversate da spasmi
agitati. «Nessun problema».
Quando
il figlio dello sceriffo vide gli oggetti del neo coinquilino spostarsi per
dirigersi al divanetto verde bosco, il sospiro di sollievo lo colse
nell’immediato e la tranquillità si espanse lentamente per tutto l’organismo.
«Grazie» disse sentitamente, la nuova tracolla in tela rossa e dai dettagli
bianchi, che il padre gli aveva regalato quando la lettera di accettazione era
arrivata, che adagiava sopra il materasso, piantando la valigia nel metro
quadro in cui si trovava. «Mi chiamo Stiles» si presentò subito dopo,
rendendosi conto di non aver iniziato proprio nel migliore dei modi.
«Jiang»
si limitò a mormorare l’altro, concludendo la conversazione e dedicandosi alle
faccende domestiche.
Stiles
si chiese se la sua assente buona stella gli avesse fatto incontrare un altro
silenzioso e burbero ragazzo.
Non
resistette e si avviò a girare ed ispezionare tutto quello che poteva nel breve
tempo che quella giornata gli concedeva. Stette mezzora davanti il grande
portone del College of Social Science,
chiedendosi se potesse già entrare, anche se le sue leziosi sarebbero iniziate
soltanto il giorno dopo, alle dieci del mattino.
Nella sua
indecisione, si studiò la mappa in cui erano segnati tutti i padiglioni che
contenevano ogni dipartimento e corso di studio che il Michigan State
University offriva, ammirando ancora una volta l’enorme varietà che
conteneva dentro di sé.
Prese a
camminare alla cieca, le pupille che leggevano il nome delle strade, i vari
chioschi e negozi di cui era pregno il campus, la mappa che metteva in
controluce strizzando gli occhi e tentando di carpire i suoi segreti con più
facilità. Un nuovo edificio gli si presentò davanti, gli studenti che entravano
ed uscivano, il nome di autori famosi che vibravano l’aria. Dalla vista
periferica adocchiò un College of Arts & Letters e lo sovrastò con la stilizzazione che trovò
sul dépliant.
Era tra i
padiglioni più vicini al suo, senza alcun collegamento a lui se non le virate
casuali agli incroci per cui aveva optato. Non gli catturava alcun interesse
tuttavia era lì davanti immobile, chiedendosi se all’interno potesse esserci
qualcuno che un giorno sarebbe entrato tra le sue conoscenze. Pensiero che
formulava su qualsiasi edificio su cui posasse lo sguardo.
Eppure, se
esisteva un luogo papabile che lui avrebbe potuto frequentare,
rientrando tra le sue preferenze, era proprio uno come quello.
Nell’immobilità
delle sue speculazioni senza fondamento si chiese se non fosse giunto il
momento di fare una capatina al punto Starbucks che distava diversi metri da lì
e rischiarirsi la mente.
Non arrivò
mai allo Starbucks da lui selezionato, ma la sua attenzione fu
catturata dal suo viaggio senza meta e senza consultare la mappa, che lo
condusse a una caffetteria dal nome esilarante: Crescent Moon.
Luna
crescente, la sua vita non smetteva di essere ironicamente
malevola.
Vi
entrò comunque, forse perché era più sadico di quel che credesse o forse perché
sperava in qualche sorta di esorcizzazione.
Era
riservato e curato, il simbolo dello spicchio di luna in un lilla pastello che
sferzava in angoli strategici, l’accoglienza calorosa del personale che lo
fecero accomodare ad uno dei tavolini colorati, portandogli il suo bicchierone
di caffè, addolcito dallo sciroppo ai frutti rossi. Si domandò se fosse molto
frequentato dal campus o se fosse un posticcino tranquillo per pochi eletti.
Stranamente, lo trovò un luogo confortante in cui tornare.
«Mangiamo
qualcosa insieme?» ma la giornata continuava ad avanzare e l’ora della cena,
insieme al suo stomaco brontolante, si affacciò e quando tornò in camera per
indossare qualcosa di più pesante, si lanciò in una proposta vagamente
invitante al suo coinquilino.
Jiang
lo guardò notevolmente colpito e sorpreso, il computer portatile ancora
accesso, seduto su quel divanetto verde di cui si era appropriato. «Mi
dispiace, ho già preso un impegno».
«Oh,
okay, mi sembra giusto» Jiang non gli chiese se volesse aggiungersi al suo
impegno precedentemente preso, supponendo fosse una cosa veritiera, e Stiles
non era mai stato troppo bravo a farsi degli amici. Perlopiù dei nemici.
L’unico
amico che avesse avuto fino ai suoi sedici anni era stato Scott e prima di lui
era sempre stato solo. Poi qualcosa era cambiato, Scott si era innamorato di
una bella brunetta appena trasferita nella loro città natale, Beacon Hills, e
le cose si erano fatte più complicate, complesse. Il loro duo si trasformò in
un trio e quello a sua volta si allargò, finché tutto non sembrò prendere le
sembianze di un branco.
Ma
il branco arrancò quando Allison Argent, il grande amore del suo migliore
amico, morì e le ferite non si erano ancora rimarginate. Soprattutto quelle di
Stiles.
«Possiamo
fare domani» gli propose Jiang, forse cogliendo la sua malinconia.
«Va
bene» ma Stiles era fuori nella notte da solo, le temperature che si
abbassavano notevolmente, totalmente diverse da quelle calorose della sua
California.
Ritornò
al Crescent
Moon. Gli
serviva un posto con cui avesse un minimo di familiarità, qualcosa che non lo
sballottasse troppo, incidendo sui suoi nervi.
Sperò che
quella notte non gli giocasse degli scherzetti.
Quando il
sole sorse e la sveglia sul cellulare prese a squillare, Stiles sbadigliò,
nascondendosi sul cuscino ed assottigliando gli occhi, ancora frastornato e
incerto su dove si trovasse. Impiegò qualche minuto a carburare e riconoscere
le tre finestre lunghe e strette che permettevano alla luce di entrare nella
camera senza alcun problema.
Istintivamente
si toccò le gambe, controllò in che posizione fossero le scarpe e buttò
un’occhiata al suo nuovo compagno di divisione di spazi, trovandolo tranquillo
e non per nulla indispettito da suoi improbabili comportamenti.
Il battito
del cuore accelerò e poi rallentò lentamente; non era successo niente, era
tutto al suo posto. Lo era anche lui. L’ansia preoccupata allentò la presa e
Stiles poteva iniziare ad affrontare la giornata che si prospettava piena di
esperienze mai sperimentate.
L’ora
successiva, dopo aver fatto colazione alla caffetteria più vicina al suo
dormitorio, il figlio dello sceriffo poté finalmente oltrepassare la soglia del
suo dipartimento e si immerse totalmente nell’immagazzinare tutto quello che
avrebbe appreso nelle lezioni che lo attendevano.
All’uscita, la
sua intenzione era quella di raggiungere nuovamente il Crescent Moon,
semplicemente perché non era in possesso della pazienza di sperimentare troppo
in una volta sola ed aveva continuamente bisogno di avere a che fare con
qualcosa che conosceva, anche se frammentariamente. Era consapevole di che cosa
lo attendesse nel tragitto che aveva imparato, il ritrovarsi ancora una volta
davanti al padiglione di letteratura. Continuava a non capire che cosa lo
conducesse da quelle parti, che cosa si aspettasse di vedere. Un volto amico?
Una vaga conoscenza? Stiles non conosceva nessuno in quei dintorni, una singola
persona in tutto il campus. Tuttavia il suo subconscio stava sviluppando
qualcosa.
«Mi
incontrerò con alcuni miei vecchi compagni del liceo, vuoi unirti?» Jiang
l’aveva sorpreso quando l’aveva invitato nel tardo pomeriggio, ad unirsi per la
cena insieme a lui e altri ragazzi che frequentavano lo stesso college. Non
sapeva dire perché l’avesse fatto, l’aveva visto girovagare tutto da solo? Non
sapeva nemmeno se fosse una proposta sincera, se si aspettasse che rifiutasse,
ma quando Stiles accettò, al suo coinquilino andò piuttosto bene.
Erano
andati dalla parte opposta al loro dormitorio, lasciandosi il fiume alle spalle
e raggiungendo i suddetti vecchi compagni in un punto ristoro che le sue
tasche potessero fortunatamente permettersi; il numero presente al campus non
era molto vasto.
«Da dove
vieni?» Donovan e Theo erano i loro nomi, il primo appariva troppo eccentrico,
tutto indirizzato su di sé, mentre il secondo non sapeva ben inquadrarlo; ad
una prima analisi sembrava accomodante, forse troppo compiacente con chi
interagiva con lui, come se volesse entrare tra le grazie del suo
interlocutore. E Stiles si chiese che
tipo di grazie si aspettasse da lui.
«Beacon
Hills» fu la sola risposta che diede. Anche se aveva un disperato bisogno di
far conoscenza e trovarsi degli amici, non era certo di volere quelli girargli
intorno.
«E dove si
trova?» Donovan appariva confuso, era una località che gli era totalmente
estranea.
«California»
non era mai stato di poche parole, ma si ritrovava a contarle con il
contagocce, senza avere davvero una motivazione. Ma d’altronde era mai riuscito
a socializzare in vita sua partendo dalle basi?
«Sei molto
lontano da casa» Theo lo disse con un’inclinazione speziata, che prese
coscienza nei brividi che gli attraversarono la colonna vertebrale.
«È questo lo
scopo del college, allontanarsi» disse semplicemente Jiang, come se non capisse
perché andasse sottolineato.
Ciò che
Stiles aveva appreso era che venissero tutti e tre da Alexandria, Virginia, e
che ognuno si stava specializzando in settori diversi. Il suo compagno di
stanza in economia, Donovan in psicologia – anche
se aveva la netta sensazione che fosse la facoltà sbagliata per uno come lui –
e scienze politiche per Theo. «I nostri dipartimenti si incrociano» disse
quest’ultimo con le iridi dell’azzurro più incredibile che Stiles avesse visto
e che vennero stuzzicate dalla notizia dei suoi studi criminologici. «Ho
intenzione di proseguire con legge successivamente, ci incontreremo di sicuro».
Stiles
ingoiò malamente il nodo di saliva che aveva incastrato in gola. Non era più
abituato a quegli approcci, in realtà non credeva che gli fosse davvero mai
capitato, si era trovato a ballare senza nemmeno accorgersene, trascinato dagli
altri. «Sì, è possibile».
«Hai vinto
una borsa di studio? Per cosa?» Donovan non apprezzava di passare in secondo
piano, era quasi certo che ci fosse una contesa in corso tra lui e Theo, il che
era lusinghiero, ma il figlio dello sceriffo non sapeva gestire bene la cosa.
«Per merito»
anche se la sua vita era stata un calvario, soprattutto al giungere dei sedici
anni, non si era mai permesso di far abbassare la sua media da continue e
costanti A. Era stato difficile, non aveva idea di come avesse fatto a non
cedere e lasciarsi inghiottire dall’oscurità che l’aveva continuamente avvolto,
ma aveva stretto i denti, ripetuto che quella era l’unica opportunità che aveva
per realizzare i suoi sogni, seguire la strada che aveva tracciato e
raggiungere il college in cui aveva sempre desiderato studiare. Allontanarsi da
Beacon Hills.
«Oltre che
carino, sei anche intelligente» ammiccò spudoratamente Theo, il commento che
non riuscì proprio a tenere per sé né ne aveva le intenzioni.
Stiles se
non avesse smesso di bere il suo bicchiere chi Coca-Cola un minuto prima, si
sarebbe sicuramente affogato, non aspettandosi minimamente quella presa di
posizione così palese.
Jiang scosse
la testa trattenendo un ridacchiare leggero, conoscitore che presto le doti da
seduttore del suo vecchio compagno di scuola si palesassero, completamente a
carte scoperte. Se Theo era intrigato da qualcuno, difficilmente lo nascondeva
e Stiles rientrava interamente tra i suoi interessi.
La matricola
di criminologia spostò leggermente lo sguardo verso il suo coinquilino che non
appariva per nulla disturbato dal teatrino che i suoi due amici avevano messo
in scena e si ritrovò a spostarlo sulle gemme di zaffiro, che colpivano in modo
preciso; il ghigno spezzante come tocco finale. Stiles non riusciva proprio ad
identificare che tipo di persona fosse, quanto stesse recitando per attirare i
suoi favori, ma se le sue percezioni erano infastidite da Donovan, non si
poteva dire lo stesso per Theo. Quegli occhi azzurri avevano un insolito
ascendente su di lui. Si domandò, per la prima volta, se non avesse una sorta
di preferenza per le iridi chiare.
Il
corteggiamento da parte dello studente di psicologia e di scienze politiche
andò avanti per tutta la serata, facendolo ridere interiormente. Non è che
disdegnasse, semplicemente non pensava che avrebbe incontrato qualcuno che gli
prestasse interesse così presto, lasciandolo spiazzato. Non era quello che
cercava; in realtà non cercava proprio niente e quella situazione, se in
qualche modo lo divertiva, in un altro lo teneva bloccato. Non voleva più
sentirsi così. Così come non gli piacevano le emozioni
negative che l’invadevano ad ogni aneddoto del suo passato che condivideva con
quella cerchia pittoresca, accrescendo il malessere che tentava di seppellire
dentro di sé. Ti prego, anche per stanotte dammi tregua.
Derek non
l’aveva sentito arrivare, non aveva percepito la sua scia in quei primi due
giorni del nuovo anno universitario autunnale, i primi per le matricole che
riempivano gli spazi con la loro effervescenza, l’eccitazione e l’agitazione,
l’ansia e la costante paura, appestando tutti gli ambienti e facendo impazzire
il suo olfatto.
Ma il suo
olfatto in quelle ore notturne del secondo giorno del suo terzo anno di
college, captò bene quell’odore frizzante e penetrante che avrebbe saputo
distinguere in qualsiasi situazione.
Quando uscì
per strada, abbandonando il suo appartamento privato, si inoltrò per le
numerose vie del campus, preoccupato di sentire la sua essenza ad un
orario così tardo, con le vie deserte e la maggior parte degli studenti a
ronfare nei propri letti.
Si ritrovò
nei pressi del fiume Red Cedar,
a pochi passi da uno dei ponti che lo attraversava e che collegava l’altra
parte del campus della Michigan State University, lì dov’era
collocato il suo dipartimento, a meno di venti minuti dalla sua abitazione. È
lì che sentì il suo odore farsi spaventosamente vicino, la sua presenza
farsi più palpabile, come se l’avesse sotto gli occhi e dovesse soltanto
strabuzzarli, dargli una forma.
Ma una forma
la prese ed era avvolta da un pigiama rosso, i piedi nudi e freddi che
camminavano alla cieca, senza minimante avere la percezione di cosa la
circondasse, le iridi di miele offuscate e vitree, così vuote che Derek si
spaventò. «Stiles» fu tutto quello che articolò, le lettere che
scivolavano dalla lingua, il suono che prendeva consistenza.
Lo
dividevano poche falciate e non riuscì a non notare quanto fosse cresciuto da
quando l’aveva visto l’ultima volta, due anni prima. I capelli si erano
allungati, l’altezza contava nuovi centimetri, i lineamenti del viso più
marcati, ma aveva ancora tutti i suoi nei al loro posto, la pelle diafana come
sempre, impossibilitata ad essere violata perfino dai raggi della calda
California, eppure sapeva che era tutto diverso, che qualcosa era mutato oltre
l’aspetto esteriore.
Il
figlio dello sceriffo non riusciva a vederlo, ad avvertire la sua presenza,
anche se era esattamente davanti a lui, a chiamare il suo nome per attirare la
sua attenzione. Perseverava a camminare nel buio senza una guida, i piedi
scalzi scorticati dal percorso intrapreso. «Stiles» chiamò di nuovo in allarme,
le mani che andarono a circondargli il viso gelido, fermando la sua avanzata.
Esigette che posasse gli occhi nei suoi, che prendesse consapevolezza di chi
avesse davanti, ma lo studente di criminologia non lo fece. «Che cosa
succede?».
«Sta
tornando» furono le prime parole di quello Stiles in catalessi, il fumo della
condensa fredda che usciva dalle labbra rosse. «Sento che sta tornando. Non mi
lascerà mai in pace».
«Chi?»
Derek contemplò la possibilità che Stiles avrebbe risposto a chiunque l’avrebbe
fermato, incontrandolo durante un episodio che decretò fosse probabilmente di
sonnambulismo. Ne aveva mai sofferto? Derek riusciva a sentire tutto il suo
dolore, l’affanno e la pena che stava provando in quel momento e non sapeva
minimamente da cosa fossero scaturiti.
«La
volpe oscura» rivelò in modo devastante, come unica verità, quella che non
smetteva di bersagliarlo e non gli permetteva mai di respirare davvero.
Le
gemme di smeraldo si spalancarono e Derek non credeva di aver capito bene. Di
aver capito davvero quello che Stiles intendesse. Un pollice gli accarezzò uno
zigomo e lo studente del terzo anno si rese conto di quanto la matricola fosse
completamente alla sua mercé e non c’era niente di più sbagliato di quello.
Appoggiò
la fronte contro la sua, il calore che sprigionava che invase i tessuti del
ragazzo che presto avrebbe compiuto diciannove anni, riscaldandoli e scacciando
il gelo di quelle iniziali notti di settembre. Sapeva che non fossero mai stati
così vicini, che non aveva mai permesso che accadesse, che sentire il suo fiato
sulla propria pelle avvalorasse la prova di quello che stava accadendo, ma
Stiles in quel momento aveva bisogno proprio di quello e non poteva
negarglielo, essere così negligente. «Andremo in un posto dove non potrà
trovarti. Va bene?».
Stiles
tacque per qualche attimo di troppo, tanto che Derek credette che si fosse
finalmente risvegliato, ma specchiandosi in quelle iridi d’ambrosia spente,
seppe che era molto lontano da quella consapevolezza di se
stesso. «Sì».
Condurlo
al suo appartamento, al 1855 Place, fu estremamente facile, talmente
tanto che Derek provava preoccupazione e rabbia al pensiero che Stiles avrebbe
potuto incontrare chiunque altro non fosse lui, essere introdotto in posti in
cui non sarebbe dovuto mai entrare, al cospetto di persone che avrebbero potuto
approfittare di quella momentanea fragilità.
Lo
accompagnò fino al letto a due piazze, gli scostò le coperte e lo coprì
malamente, impegnato com’era a curare le lacerazioni che la pianta dei piedi
riportava, togliendo e ripulendo ogni elemento estraneo che incontrava nel suo
percorso, dalla terra, all’erba ed ai piccoli sassolini del terreno e
dell’asfalto. Chissà per quanto tempo aveva camminato, chissà quanto lontano si
era spinto dal suo dormitorio, uscendone senza nemmeno essere notato, senza
notarlo lui stesso. Quanto ancora avrebbe proseguito prima che Derek lo
trovasse.
Quando
ripulì e rimediò ad ogni escoriazione, assorbendo un dolore che quello Stiles
sonnambulo non provava, ma che invece esisteva, Derek lo rimboccò per bene,
sistemandolo in modo da non interrompere quella fase REM precaria che poteva
causare maggiori danni. «Lei non ti troverà» ripeté con più
convinzione, la voce calda che l’accompagnava.
Stiles
sospirò di liberazione, abbracciando il cuscino su cui il padrone di casa
l’aveva adagiato e Derek seppe che stava finalmente dormendo come sarebbe
dovuto accadere fin dall’inizio.
Seduto
sul materasso in cui il figlio dello sceriffo stava riposando realmente, Derek
si prese il viso tra le mani, chiedendosi cosa si fosse perso in quei due anni,
lontano da Beacon Hills e da lui. Da quell’umano pittoresco che aveva
continuamente associato ad un’incantevole e astuta volpe dal manto infuocato.
Era
tutto grottescamente esilarante.
Anche
quella mattina Stiles fu svegliato dai raggi del sole che penetravano dalla
finestra, il tepore della coperta che l’avvolgeva e la sensazione di avere il
cuore più leggero. Ma fu solo un frammento del tempo che la sua mente impiegò
per rendersi conto che la parete su cui posava lo sguardo assonnato non era la
sua.
Era
piuttosto sicuro di non avere una finestra ai piedi del letto, da cui poi
partiva l’armadio aperto, pieno di roba non propria. In più era certo che di
finestre ce ne fossero tre e soltanto dove vi erano collocate le due scrivanie
su cui presto lui e Jiang avrebbero studiato.
Oltre
a quella serie di elementi piuttosto indicativi anche per la sua mente
annebbiata e ancora addormentata, vi era la concretezza che vi fosse un corpo
estremamente caldo dietro di sé, il respiro leggero e riposato che si scontrava
con il suo collo, solleticandolo.
Stiles
non condivideva il letto con qualcuno da diverso tempo, il fatto che non lo
trovasse disturbante lo preoccupava alquanto, perfino il fiato che lo
accarezzava era piacevole, eppure ne era terrorizzato allo stesso tempo perché
non ne aveva alcuna memoria.
Restò
immobile per attimi di troppo, spaventato da quello che avrebbe incontrato una
volta che avrebbe preso coscienza di sé, di quello che gli era capitato e con
chi fosse avvenuto.
Strizzò
gli occhi, la forza di volontà che lo spinse a girarsi una volta per tutte,
accartocciando le lenzuola con cui era evidente fosse stato rimboccato con cura
‒ un’attenzione che suscitò il suo stupore.
L’irrefrenabile
bisogno di mettersi ad urlare lo colse appena incontrò i tratti facciali del
ragazzo che era disteso al suo fianco, su quel materasso a due piazze che
sembrava più grande delle dimensioni a lui conosciute. Le labbra erano schiuse
e sgomente, ma colui che l’aveva ospitato teneva ancora le palpebre serenamente
serrate e non era ancora pronto per venire assordato dall’incredulità dello
studente di criminologia. «Derek» soffiò annichilito, le iridi del miele
sgranate ed incredule, l’impossibilità di quel nome che veniva pronunciato in
quel contesto, in quel luogo, dopo così tanto tempo dall’ultima volta che si
era permesso di farlo. Com’è che era solito dire? Era l’ultima persona che
si sarebbe aspettato di vedere? Sarebbe stato vero se Derek fosse
appartenuto ad una qualche lista ipotetica, ma Stiles non ne aveva nessuna in
cui figurava il suo nome. Non era mai esistita.
Le
iridi verdi del padrone di casa si mostrarono e Stiles si ritrovò a trattenere
il fiato, in apnea. Non erano assonnate come probabilmente apparivano le
proprie, erano semplicemente consapevoli di trovarsi al cospetto del figlio
dello sceriffo. «Sei davvero tu? Derek Hale?».
«Stiles»
fu tutto quello che Derek disse, a rispondere in modo nitido su chi fosse e
avesse perfettamente coscienza con chi avesse condiviso le lenzuola.
Era
anche la voce che ricordava, benché fosse leggermente rauca. Sicuramente era
dovuta alla chiarissima spiegazione che la matricola non si fosse mai
risvegliata accanto all’Hale, evento che l’avrebbe condotta direttamente alla
morte per le più svariate ragioni. «Ah» Stiles stava per essere sopraffatto da
un attacco di panico, diverso da quello che inizialmente lo minacciava,
terrorizzato dalla vaga consapevolezza con chi avrebbe potuto intrattenersi
nella notte, le figure di Donovan e Theo che non gli toglievano gli occhi di
dosso, chiaramente intenzionati a volerselo mangiare in ogni modo
inimmaginabile, approfittando della sua momentanea debolezza. «Cos’è successo?
Tu cosa ci fai qui? Dove siamo?» scattò a sedere, la spalla che colpì la parete
a cui il letto era accostato, le coperte che scivolarono, mettendo in mostra il
pigiama che indossava la sera prima. Sono vestito, fu l’unico pensiero
rassicurante che lo colse.
«Al
1855 Place»
rispose prontamente Derek, aspettandosi una reazione esagerata tipica dello
studente del primo anno.
«Al…
1855 Place» i gesti
avventati di Stiles si fermarono, disorientati. «Perché conosco
questo nome?» domandò più a se stesso che al suo
interlocutore, spremendosi le meningi e richiamando a sé ogni ricordo che gli
veniva alla mente, stupefatto della risposta che elaborò. «Siamo ancora dentro
il campus».
Derek
si limitò ad annuire, non scomponendosi in alcuna maniera e non abbandonando la
posizione da disteso che ancora teneva.
Apparentemente
i tessuti di Stiles si rilassarono, anche se non vi era alcuna ragione per cui
dovesse accadere. Si ritrovò a fissare Derek con più consapevolezza, il punto
interrogativo che si affacciava sul viso. «Perché sei qui?».
«Per
la tua stessa ragione, studio» Derek non si perse in spiegazioni, certamente
non si sarebbe prodigato per formulare qualcosa di più sostanzioso.
Stiles
non credette minimamente alle sue orecchie, dovevano essere ancora bloccate
alla fase onirica. «Studi qui? Proprio qui?» ma quante probabilità potevano
esserci?
«Questa
è casa mia, Stiles» oh, era tanto tempo che non sentiva il suo nome
essere usato come un rimprovero, Derek era un mago in quello. «Solo gli
studenti di questa università possono affittarla».
Sì.
«Io…» non riusciva ad esserne persuaso, non aveva abbastanza elementi ed era
confuso, provato, la presenza di Derek lo destabilizzava come mai aveva creduto
potesse accadere. La necessità di raggiungere la finestra, spostare la tenda
corta che ammorbidiva l’invadenza dell’Astro d’Apollo e guardare ciò che si
affacciava davanti a sé, era vitale, non riuscì a trattenersi.
Le
strade, gli edifici bassi, le strade larghe e affollate di studenti, i
negozietti appositi, che dovevano rispettare i loro orari mattutini già attivi.
Non era un paesaggio che conosceva, non era ancora stato da quella parte del
campus e non era certo che l’avrebbe riconosciuto dal punto di osservazione in
cui si trovava, sul letto di Derek Hale ancora caldo. «Che cosa studi?».
«Letteratura»
nessuna esitazione, ma un dato di fatto.
Stiles
sentì perfettamente la contorsione al petto da cui fu investito, la testa che
si voltava nuovamente verso Derek, gli occhi giganti che non smettevano di
essere increduli, impressionati. No, non poteva essere. Era quella la
ragione per cui veniva continuamente attirato dal College of Arts & Letters?
L’incoscienza che sapeva figurarsi fin troppo bene quali fossero le sue
preferenze, il luogo a cui sarebbe dovuto appartenere se si fosse concesso una
scelta. Era il suo viso che sperava di scorgere nella folla? Da quali problemi
era affetto il suo subconscio? «Come sono arrivato qui?» doveva spostare i
pensieri, cercare di metterli in ordine e svelare il mistero sul perché si
trovasse avvolto tra le coperte di Derek Hale. Tutto il resto era secondario. Ma
lo era davvero?
Derek
esitò, incerto su quanto potesse dire e se il figlio dello sceriffo gli avrebbe
creduto. «Ti ho trovato» non riusciva a togliersi dalla testa perché fosse
stato necessario un’azione come quella. «Era notte fonda, eri gelato e
girovagavi con solo il pigiama addosso» non era per niente l’abbigliamento
adatto e lo spessore degli indumenti era quasi nullo; irrisorio sotto coperte
adeguate ai primi giorni di settembre, ma deleterio nelle ore buie, con i gradi
che si abbassavano notevolmente.
Ti
ho trovato. Girovagavi
con solo il pigiama addosso, l’istinto di ispezionarsi, toccarsi
le gambe e controllarsi i piedi fu qualcosa che non poteva frenare. Era tutto
intero, nulla faceva presagire che avesse vagabondato nell’ora delle streghe,
eppure il trovarsi nell’appartamento privato di Derek raccontava un’altra
storia. «Come mi hai trovato?».
«Ho
seguito il tuo odore» nemmeno quello era un aspetto che avrebbe voluto
condividere, ma non poteva tenerlo per sé, non aveva alcun senso, Stiles lo
avrebbe soltanto sommerso di più domande.
Le
iridi d’ambrosia brillarono e si ingrandirono, espandendosi così tanto da
essere sopraffatte dal nero delle pupille. «Già, sei un lupo anche tu» i
ricordi fiorirono tutti insieme, non che potesse dimenticarlo. Sapeva soltanto
che non si sarebbe mai liberato di quella vita. A volte si chiedeva se lo
volesse davvero. «Conosci il mio odore?» era la prima domanda che gli era
affiorata tra i pensieri, per la meraviglia incredula, ma riconoscere la vera
natura di Derek era stato più immediato, più importante, ma si chiese se in
effetti lo fosse. Non capiva come potesse Derek aver immagazzinato così bene il
suo odore, soprattutto alla luce che si fosse costantemente tenuto alla larga
da lui. Da qualsiasi cosa lo riguardasse.
«Sì»
era inutile negare l’evidenza né alla creatura della notte piacesse
sottolineare l’ovvio, ma capiva perché quello stupisse Stiles, forse più di
tutto il resto. «Ho pensato fosse meglio portarti qui».
«Qui»
l’essere umano ebbe bisogno di guardarsi attorno, controllare in un’ispezione
maggiormente prolungata, posare gli occhi su tutto l’ambiente che portava
l’impronta di Derek. Era tutto ordinato e pulito, nessuna confusione in vista,
dei teli lunghi a tentare di coprire l’armadio aperto e la scrivania dov’erano
sistemati alcuni libri molto spessi. Stiles non riusciva a quantificare cosa
significasse davvero qui.
Derek
non aggiunse altro e non sapeva proprio spiegarsi cos’è che indispettisse
davvero Stiles. La sua natura da lupo mannaro o l’essere stato trovato da lui
in un momento di debolezza? Ma il fatto che non gli chiedesse cosa fosse
esattamente successo, perché camminasse senza meta per le strade del campus
nelle ore più gelide, lo mise in allarme, quasi come se per Stiles fosse
qualcosa di quotidiano, ripetuto nel tempo.
«Che
ore sono?» la matricola sembrò svegliarsi, prendere coscienza delle lancette
dell’orologio che ticchettavano, andando avanti senza di lei.
Il
licantropo non fu davvero sorpreso e adocchiò la sveglia digitale che sostava
sul comodino. «Le otto e mezza».
«Merda!»
imprecò a denti stretti, alzandosi e camminando sul materasso, azione non molto
carina considerando che non era il proprio. «Ho lezione tra un’ora» ma quando i
piedi toccarono il pavimento freddo, si rese conto di dover affrontare delle
complicazioni. L’agitazione si espanse a macchia d’olio.
«Stiles»
lo richiamò la creatura della notte, seguendolo a ruota, ponendosi proprio
davanti alla sua strada.
«Come
esco di qui?» la domanda era sincera, Stiles continuava ad inciampare nel
proprio panico, nell’essere bloccato da una situazione da cui non trovava
soluzione. Si indicò, il pigiama rosso a scacchi blu, i piedi completamente
scalzi e nulla che gli venisse in aiuto.
Tutto
quello che Derek sentì fu quanto Stiles fosse rotto dentro. «Non è successo
niente. Non ti è successo niente» fu guidato dall’avventatezza di catturargli
il viso tra le mani come aveva fatto soltanto alcune ore prima, fargli sentire
che il mondo girava ancora per il verso giusto. «Stai bene».
Il
figlio della massima autorità della loro città natale trattenne un singhiozzo,
ma il lupo lo udì lo stesso. «Vorrei fosse così» non riusciva a registrare
nulla di quello che gli stava accadendo in quegli istanti.
Stiles
era sempre stato sfuggente, ma mai ad una tale dimensione. «Usa la doccia»
accarezzargli le guance con i polpastrelli fu conseguenziale, calmarlo
nell’unico modo il cervello gli suggerisse. «Ti darò un cambio. Tutto quello
che ti servirà per andare dove devi».
Stiles
lo guardò come se fosse un alieno e Derek dovette farsi forza per separarsi da
lui, smettere di essere la sua colonna portante. Prese la prima maglietta e
paio di pantaloni che gli capitarono sotto tiro e glieli porse in mano. «Vai a
sinistra».
Lo
studente del primo anno non sapeva che pesci prendere, rimase titubante per una
decina di secondi, indeciso su come procedere. Ma c’erano altre scappatoie?
Prese i capi che il mannaro gli offrì, avviandosi verso la direzione che gli
aveva indicato, oltre la voce, con un gesto della mano, a chiarire che si
riferisse alla sua sinistra.
Stiles
individuò la porticina che stava a fianco alla porta principale, lasciata
socchiusa come a comunicargli che era lì il luogo in cui doveva entrare. Quando
l’aprì e attraversò l’uscio, si ritrovò all’interno di un bagno privato. Non
era enorme e aveva l’essenziale, ma era confortevole, racchiuso, la possibilità
di chiudersi dentro e scappare alle avversità che la vita continuava ad avere
in serbo per lui.
Vi
era una tenda da doccia chiusa malamente, a mostrare la vasca e anche le
tubature che potevano essere usate esclusivamente per la doccia se lo si
preferiva. La plastica era stranamente di colori allegri, caldi, opposti alla
personalità buia e fredda del lupo che attendeva oltre la parete. La tonalità
dominante era un arancione rosso, che sfumava al bianco, per concludere con una
punta di nero quasi impercettibile. Ricordava talmente tanto la pelliccia di
una volpe rossa da farlo stare male. Lo atterrava ancora di più la certezza che
fosse dipesa da una scelta volontaria di Derek.
Stiles
avrebbe voluto sigillare la porta, dare un colpo di chiave, ma essa non era
presente e non doveva stupirsene. A cosa serviva una chiave in una casa abitata
da una sola persona?
Appoggiò
i vestiti sul mobile bagno su cui era incastrato il lavello ed in cui erano
riposti tutti gli effetti personali della cura giornaliera del mannaro. Aveva
le vertigini, non riusciva a realizzare di essere tra le mura private di Derek
Hale, all’interno del suo bagno che avrebbe usato, indossando i suoi vestiti.
Una sorta di sconforto lo invase, per l’ilarità di quel frammento di vita che
gli era toccata. Non sapeva davvero contabilizzarla, catalogarla. Non riusciva
a dargli un senso. Che progetto era previsto per lui?
Quando
uscì fresco e pulito, vestito di tutto punto con qualche taglia in più rispetto
alla propria, il telo doccia bagnato che aveva scovato nel mobiletto
perfettamente piegato, insieme ad un asciugamano per tamponarsi i capelli –
c’era perfino un phone, Stiles sapeva di starsi allargando troppo –, l’umano
raggiunse il padrone di casa nell’ala più avanti, i piedi avvolti perfino
dentro dei calzini.
Derek
era vispo, indossava soltanto i pantaloni del pigiama e beveva il suo caffè
appena preparato davanti alla macchinetta per la tostatura, il sole che
irradiava dalla grande finestra che illuminava tutto il piccolo soggiorno con
annesso di cucina, un divano a tre posti collocato proprio al di sotto,
regalando l’illusione che fosse un ottimo punto in cui studiare. Quello che
però Stiles notò, fu che si rese conto di quanto Derek fosse ancora
dannatamente attraente. Forse perfino di più rispetto ai due anni precedenti.
Si sarebbe superato ancora? Non era un pensiero logico che avrebbe dovuto
formulare, considerando la situazione precaria in cui si trovavano, ma la sua
testa non gli dava mai particolarmente retta, soprattutto davanti l’ovvio. E
Stiles stava per compiere diciannove anni, sì, ma i suoi ormoni non si erano
ancora dati una calmata. Probabilmente non sarebbe mai accaduto.
«È
per te» si sentì dire probabilmente dopo che l’aveva squadrato un po’ troppo.
Stiles
impiegò qualche attimo in più a focalizzare la tazza di caffè che Derek gli
stava offrendo. Il fumo usciva invitante, facendogli gola e il calore lo
sentiva già scendergli a riscaldarlo, a svegliarlo una volta per tutte. «Non
era necessario» disse quando alla fine accettò, ricevendo un alzamento di
spalle disinteressato dal suo salvatore. Lo fece scivolare sul tavolo e la
matricola lo afferrò, imprimendosi la sensazione del caldo che gli scorreva tra
le mani. Afferrò anche come Derek stesse azzerando la possibilità di contatto
fisico tra loro, diversamente da com’era accaduto soltanto venti minuti prima ‒
l’aveva registrato con ritardo, come il licantropo
l’avesse toccato con totale naturalezza e senza essere attraversato dal minino
dubbio per calmare la sua crisi di panico. La temperatura corporea si era
insinuata sottopelle, carezzandolo, ed era stata una sensazione così familiare
a cui abbandonarsi e lascarsi vezzeggiare da risultargli totalmente anomala per
la semplice ragione che Derek Hale non l’avesse mai toccato in vita sua.
«Lasciali
lì» proseguì il mutaforma, riferendosi ai teli in
panno che aveva utilizzato per asciugarsi, indicandogli una sedia in cui
poggiarli.
Stiles
individuò anche un’altra cosa, una piccola lavapiatti e di fianco una porta,
che supponeva fosse il ripostiglio, ma se era in possesso di una lavastoviglie,
dubitava che quell’appartamento non fosse accessoriato anche di una lavatrice e
asciugatrice. Aveva voglia di sorpassare Derek, spalancare la porta e scoprire
se fosse una lavanderia a tutti gi effetti. Era bello essere ricchi e
permettersi certi lussi, ma Derek aveva pagato un prezzo enorme per avere
quell’autonomia.
C’era
anche da specificare che Derek non avrebbe avuto problemi nemmeno prima, che il
denaro scorreva a fiumi nella sua famiglia, fondatrice e protettrice di Beacon
Hills, ma tutta quella beltà era finita e divisa tra le mani di sole tre
persone. Non c’era nessun altro.
Il
lutto persistente del lupo Stiles lo conosceva come nessun altro, era l’unico
con cui il mannaro si era permesso di condividerlo. Era qualcosa che aveva
privato perfino a Laura. «Grazie» la sua voce che gli comunicava con il dolore
nel cuore li ho uccisi io, è colpa mia Stiles non era mai riuscito a
sradicarla, in un momento esclusivamente loro, dove non esisteva nessun altro.
Stiles non gli aveva creduto, non l’aveva fatto nemmeno quando Derek gli aveva
sputato addosso la verità di cui era l’unico conoscente, la colpa di cui si era
macchiato. Ma era soltanto quello, l’avventatezza di essersi fidato della
persona sbagliata. Stiles non aveva mai saputo se fosse riuscito a farglielo
capire, alleviare il suo tormento.
«Prendi
anche quelle» Derek ignorò il suo ringraziamento, nulla di nuovo per lo
studente di criminologia, ma quando la sua visione periferica fu catturata dal
punto che il mutaforma voleva che guardasse, Stiles si
irrigidì.
«Derek»
la negazione era udibile, il suo dissenso evidente.
«Ti
servono, non puoi ferirti di nuovo» difficilmente il mannaro accettava un
rifiuto e quell’occasione non rientrava tra le rarità, era fuori discussione.
Una
scossa gli attraversò vertebra per vertebra e seppe che la sua abitudine di
controllare le condizioni della pianta dei piedi non era tempo perso. «Mi hai
curato tu» lo sconcerto gli sfuggì senza rendersene conto. Perché non era
arrivato prima alla soluzione? Era impossibile che Derek l’avesse trovato
incolume, che i suoi piedi non avessero nemmeno un graffio. Stiles se li era
feriti tante e troppe volte, nessun lupo che potesse alleviare le sue
sofferenze. Nessuno a cui Stiles volesse rivelarlo.
«Prendile
e basta» lo studente di letteratura non si preoccupò di confermare le
rivelazioni di Stiles, non gli importava affatto.
Stiles
odiava quella situazione, essere così in svantaggio da non potersi opporre, ma
che soluzioni gli rimanevano? Le calze offerte dal licantropo non potevano fare
miracoli.
Stiles
terminò il suo caffè preparato appositamente per lui, come tutto quello che
Derek gli aveva fornito, indossando finalmente le scarpe che gli aveva
sistemato pronte per l’utilizzo. Non erano perfette, probabilmente di un numero
superiore al proprio, ma erano gestibili. «Grazie» lo ripeté, ma per quante
altre volte avrebbe dovuto dirglielo? Avrebbe dovuto ringraziarlo da quando
aveva aperto gli occhi quella mattina sano e salvo, al sicuro, ma invece
l’aveva attaccato e Derek l’aveva ignorato, come lo caratterizzava.
Eppure,
consapevole di quello, si defilò senza proferire parola aggiuntiva. Uscì
semplicemente dalla porta principale, percorse il condominio e scese le scale
in fretta, diretto verso il dormitorio per cambiarsi ancora una volta e
prendere i libri che gli occorrevano per la lezione che lo attendeva.
Si
ritrovò ad essere curioso di quanto lontano fosse andato, quanto avesse
camminato, in che punto Derek l’avesse trovato e fermato la sua avanzata.
Perché l’avesse trovato.
Ma
un altro interrogativo bersagliava la sua mente acuta, irrefrenabile, a cui
aveva tentato di togliere voce: come poteva Derek essere così certo del suo
odore? Riuscire a percepirlo ad una notevole distanza, isolarlo da tutti gli
altri e condurlo esattamente al punto preciso.
Inspiegabilmente mi ritrovo da
queste parti, a scrivere ancora di questi due, convinta di aver già detto
quello che c’era da dire, ma non è mai vero. Le idee su di loro non terminano
mai, una si concatena all’altra e va avanti all’infinito. Alcune storie
riescono a sopravvivere, altre rimangono solo pensieri non espressi.
Questa è una storia che voleva
essere racconta e che ha richiesto molto lavoro, quasi due anni, partita da una
mia stessa domanda banale e che magari rivelerò alla fine di questo percorso.
Non è stata betata
da nessuno eccetto che da me stessa, non il miglior occhio critico per refusi o
distrazioni.
Spero possiate apprezzarla.
Buon San Valentino Sterek.
A settimana prossima,
Antys