2° Capitolo
Stiles
aveva una vaga idea della disposizione del campus, i vari edifici sparsi per tutta
la superficie, quindi sapeva di dover attraversare il fiume e percorrere un
lungo tratto di strada, ma sbagliò bivi diverse volte, non aveva il cellulare
con sé per controllare la mappa e dovette fermarsi a chiedere indicazioni.
Sulla
carta scoprì che la distanza tra l’appartamento di Derek ‒ in cui
credette di aver perfino adocchiato nel parcheggio la Camaro nera tanto amata
dal mannaro ‒ e il suo dormitorio era di soli quindici minuti a piedi, ma
dubitava che nella sua condizione di trance fosse proseguito per la direzione
giusta al primo colpo. Non riusciva a credere di aver vagabondato così tanto,
di aver perfino attraversato il corso d’acqua. Dov’era diretto prima che Derek
lo intercettasse?
Sentiva
il vuoto allo stomaco, la conoscenza di sapere che nemmeno in quella nuova vita
riusciva a liberarsi dei suoi demoni. Era costantemente in trappola.
Si
trovava davanti al padiglione di letteratura, la tracolla più pesante del
solito e la volontà di essere lì per una motivazione ben precisa. Osservava
piccoli gruppetti uscire ed entrare, parlucchiare tra loro, ridacchiare e
correre. Stiles aveva terminato le ore di lezione mattutina e aspettava
soltanto che il tempo trascorresse per seguire l’unica che gli era rimasta nel
pomeriggio. Ma era anche altro che stava aspettando.
«Stiles»
Derek apparve come se fosse una visione, molto più di come si era rivelata al
suo risveglio. Aveva percorso le scale del portone principale in discesa, con
la posa perfetta e senza sbavature, nessuna fretta. Non si era fermato stupito
di trovare il figlio dello sceriffo proprio lì, a pochi passi ad attenderlo;
tutto il contrario, sembrava sapere esattamente dove si trovasse e da quanto
tempo.
«Sei
davvero qui» Stiles non si era permesso di studiare tutte le variazioni fisiche
che erano toccate alla figura del mannaro. Erano trascorsi soltanto un paio
d’anni, ma apparivano come secoli, Stiles ne aveva passate troppe, si era
lacerato e aveva cercato di rincollare i pezzi da solo. Le memorie su Derek si
erano quasi cancellate, a volte si chiedeva se fosse esistito davvero, se in
qualche modo le loro vite si fossero incrociate, anche soltanto per pochi
momenti.
La
voce era sempre la stessa, ma gli zigomi erano più taglienti, lo sguardo
maggiormente severo, aveva più massa muscolare, dettaglio che Stiles trovava
piuttosto ingiusto ed irrealistico. Aveva anche una barba corta e nera, curata
e precisa, non vi era un solo pelo fuori posto. Era un elemento del tutto nuovo
e si chiese se fosse morbida al tatto o se gli avrebbe graffiato la pelle,
arrossandola.
«Non
sei ancora persuaso» la pacatezza di Derek era innegabile, ma Stiles riusciva a
sentire la leggera nota di burla nella sua direzione, come se ne fosse davvero
divertito.
C’era
un’altra cosa che non era cambiata, il modo intenso e disarmante con cui Derek
lo guardava. In qualsiasi circostanza, ma non c’era più nulla a celarlo,
adombrarlo. «Sto cercando di mettere insieme i pezzi. Di non essere impazzito»
ma impazzito lo era realmente.
Derek
lo osservò a lungo, nel silenzio che solo lui sapeva mantenere, ma non lo stava
giudicando, cosa che Stiles apprezzò. «Cos’altro ti serve?».
Il dolore attraversò le iridi di
smeraldo e Stiles si rese conto di essere stato più brutale di quanto avesse
pianificato nella testa. «È passato tanto tempo, Derek».
«Due
anni» specificò il lupo mannaro, era freddo, eppure sentì il sottofondo
dell’agonia che era rappresentata per lui, qualcosa che Stiles non sapeva
proprio spiegarsi. Insieme, però, suonava come se quel frammento di linea
temporale fosse una bazzecola.
«Sono
accadute molte cose dopo essertene andato» troppe. Stiles stentava a credere di
esserne uscito vivo, con ogni parte del corpo attaccato. Ma forse era
un’illusione della sua mente rotta.
«Lo
vedo» proferì serio il mutaforma, gli occhi boscosi
che percorrevano la figura dell’umano, i suoi vestiti che teneva ancora
addosso, memorando della notte agitata trascorsa, delle azioni che
obbligatoriamente si erano rese necessarie.
Gli
occhi di Stiles corsero alla maglia grigia e con un taschino all’altezza del
cuore che indossava, i pantaloni della tuta nera e morbidi che non aveva avuto
il tempo di togliersi e cambiarsi, ma qualcosa era riuscito a portarla a
termine. Dalla borsa regalata, uscì un sacchetto di carta senza marchio, in cui
erano contenute le scarpe sportive che Derek gli aveva intimato di prendere.
«Per ora ho soltanto queste da restituirti».
«Non
c’era fretta» Derek le accettò con riserva, non le controllò nemmeno.
«Mi
porto avanti» gli strizzò un occhio e uno dei suoi ghignetti tipici prese il
sopravvento.
La
creatura della notte non si fece scappare nulla e seguì ogni sua mossa con
parsimonia, era qualcosa che rendeva arida la bocca di Stiles. «Se non eri
sicuro, saresti rimasto ad aspettare all’infinito con le scarpe nella borsa?».
«Ah»
esclamò come preso in contropiede, le mani che andarono a toccare la lunga
tracolla sistemata sulla spalla, le dita che sfiorarono la sacca con
insicurezza. «In effetti, non credo di averci riflettuto attentamente».
«Ricordavo
fossi intelligente» la stangata arrivò dritta dritta,
insieme ad un angolo delle labbra che si alzò, in puro sarcasmo.
Il
figlio dello sceriffo si ritrovò spiazzato e punto sul vivo, irrigidendosi e
odiando perdere contro di lui. «Sei il solito Sourwolf».
Derek
rilasciò uno sbuffo di risa e Stiles aveva completamente rimosso come
risuonasse. Non era tornato indietro, era qualcosa di totalmente rinnovato.
«Ora devo andare».
Derek,
guardando il suo orologio da polso, aveva rotto la magia, anche se Stiles non
sapeva indicare esattamente di che magia si trattasse. «Sì, certo. Ciao,
Derek».
Derek
non proferì parola, si limitò ad un unico cenno del capo e si dileguò davanti
alle iridi caramellate confuse.
La
matricola rimase bloccata nel punto in cui il mannaro l’aveva lasciata, le
falangi che stringevano la cinghia della borsa e la difficoltà a metabolizzare
tutto quello che scorreva davanti a lei. Chi tra i due avesse più domande
Stiles proprio non lo sapeva individuarlo.
Derek
lo sentì più chiaramente rispetto alla notte precedente, la sua scia lo svegliò
dallo stato di dormiveglia in cui era immerso, ad un passo dallo sprofondare
nel regno di Morfeo.
Indossò
il primo capo che afferrò, una maglietta a maniche corte che a lui non
provocava nessun disagio, ma con le temperature che scendevano radicalmente
lontane dal sole, ne avrebbe provocati alla gente comune. Si fiondò sulla
strada, il naso come unica guida, che annusava e spingeva, attirando tutta
l’aria nei polmoni come se avesse potuto fare la differenza. Ma forse la fece,
perché Stiles era ancora sulla sponda opposta, lontano di qualche metro dal
ponte che univa i due fianchi.
Indossava
lo stesso pigiama della sera precedente, i piedi nuovamente scalzi, gli occhi
vitrei e assenti, procedeva senza uno scopo da raggiungere. Derek non era in grado di capire quale fosse il problema.
«Stiles».
Ma era inutile chiamarlo, il figlio
dello sceriffo era completamente sordo alla sua voce, probabilmente a tutte.
«Sta arrivando».
Derek si guardò intorno, una mano sul
braccio di Stiles ad arrestare la sua avanzata, a cercare ed individuare se una
minaccia si stesse avvicinando, ma non sentiva nulla, c’era soltanto il totale
silenzio e la brezza congelata che smuoveva le foglie degli alberi. «Non sta
arrivando nessuno».
«Sì»
Stiles scosse con forza la testa a negare e Derek credette che si sarebbe
finalmente svegliato, ma non c’era verso che ciò accadesse. «Il Nogitsune. È in
attesa. Tornerà per riprendermi. Non mi lascerà mai andare».
Derek
fu folgorato, le sue sinapsi si attivavano con fatica, a richiamare delle
conoscenze mai approfondite. Un nogitsune era uno spirito di una volpe oscura,
ma che correlazione aveva con Stiles? Che cosa era successo a Beacon Hills dopo
averla abbandonata? «Qui non c’è».
«No,
no» Stiles cominciò a dibattersi, ad alzare la voce e dimenarsi, scappare alla
presa di Derek e portare le mani alla testa, prendendola a scuotere e
conficcando le unghie con forza, come se potesse scavare e strapparsi il
cervello, disfarsi del suo problema. «Non si arrende mai. Non si arrenderà mai.
Mi intrappolerà e mi userà».
Era
una scena agghiacciante, Derek che era fatto di puro sangue caldo lo sentì
raffreddarsi tutto insieme, schegge che lo ferivano.
Sentì
il liquido plasmatico cominciare a scorrere, l’odore ferroso che gli appestò
l’olfatto, coprendo l’odore spumeggiante e frizzante di Stiles; correre a
bloccare i suoi gesti avventati e dannosi a se stesso
fu l’unica azione che si permise di portare a termine. «Va tutto bene. Non le
permetterò di trovarti» si macchiò del fiume vermiglio dell’umano, le dita che
teneva maldestramente tra le sue, bloccandole in aria, lontano dalle ferite
superficiali che si era infetto. «Resta con me, sarai al sicuro».
Stiles
scoppiò a piangere, scosso da singhiozzi silenziosi, ma nemmeno quello lo
svegliò e Derek se lo strinse tra le braccia, stretto al petto, protetto dal
freddo di cui era ricoperto il suo organismo vestito da un pigiama primaverile.
«Non ti farà del male».
Derek
era terrorizzato dalle circostanze, da ciò che non conosceva, dalle azioni
lesioniste di Stiles che prendevano il controllo quando lui era completamente
assente, ma non poteva permettersi di esserlo e condusse nuovamente la
matricola all’interno del suo appartamento, all’ultimo piano del 1855 Place,
sistemandolo sul divano e cominciando a ripulire tutto il sangue che risiedeva
su entrambi e sui piedi tagliati dal percorso; un asciugamano bianco che si
impregnò di cremisi, abbandonato sullo schienale di una sedia attorno al tavolo
da pranzo. Cicatrizzò le ferite a cui aveva assistito venir create, assorbendo
il dolore fisico di Stiles, le vene nere che si tingevano per privarlo di quel
fardello, ma non poteva fare niente per il dolore mentale ed era qualcosa che
lo faceva sentire completamente superfluo.
Lo portò di
peso sul letto, a scalciare malamente le coperte per distenderlo al meglio,
accomodandosi di fronte a lui, coprendolo con accuratezza e rimanendo a
fissarlo per qualche istante. Nel momento in cui Stiles aveva toccato il
materasso era sprofondato in un sonno autentico, che non aveva la pretesa di
distruggerlo o di tentare di esorcizzare i suoi demoni a modo proprio.
Il viso era
ancora rigato dalle lacrime e Derek le asciugò con le punta dei polpastrelli,
respirando pesantemente d’angoscia. Si inoltrò verso di lui, il fiato di
anidride carbonica su di sé, le braccia che lo strinsero leggermente a sé, con
la speranza che quello potesse evitare futuri attacchi ai danni di se stesso che Stiles poteva compiere in qualsiasi momento e
gli schioccò un bacio proprio al centro della fronte, in un gesto di
depurazione e conforto, accostando la propria alla sua, le iridi verdi incapaci
di separarsi dal viso dell’umano più forte che avesse mai incontrato.
Ma qualcosa
stava lacerando Stiles, così tanto da perdere il controllo quando era senza
barriere con cui difendersi. «Ti tengo al sicuro».
Non voleva
aprire le palpebre, affacciarsi al nuovo giorno, si sentiva talmente stanco,
come se avesse vissuto cento vite nella notte. Era anche sicuro di avvertire il
ricordo di un dolore che in quel momento non riusciva più a captare, i suoi
sogni non erano mai stati gentili con lui, somatizzava tutto quello che nella
linea vitale si era ritrovato ad affrontare, rielaborando ogni attimo,
bersagliando la mente al limite della sopportazione. Svegliarsi si collegava
automaticamente alla domanda che continuava a ripetersi, non certo di nulla:
era reale?
Il fruscio
accanto a sé lo scalfì e gli occhi si specchiarono in quelli di giada, attenti
e svegli. «No» proferì con orrore, la concretezza che gli veniva
gettata addosso, senza dargli l’illusione di poter fraintendere. «È successo
ancora» si nascose la testa tra le braccia che andarono a circondarla. Non ne
poteva più, non riusciva a liberarsi.
Derek
perdurò nel silenzio, fermo nella sua posa statuaria, la meditazione che si
prorogava. «Da quanto va avanti?».
Il
capo dell’umano scattò e gli arti superiori si scostarono appena, mostrando le
iridi del nettare degli dei. Apparvero interrogativi per un primo momento, ma
sapeva che quella domanda era dietro l’angolo, sopita, indecisa se prendere
vita. Il giorno prima Derek gli aveva mostrato un rispetto che nessuno gli
aveva mai dedicato, come tante cose che provenivano dalla sua direzione, eppure
per quanto tempo avrebbe potuto rimanere in silenzio e limitarsi a guardare?
«Sei mesi, perlopiù» era consapevole che il mannaro non fosse stupido o
sciocco, che avesse capito che Stiles fosse ben consapevole di che cosa fosse
accaduto nelle due notti trascorse, quale morbo lo stesse bersagliando. Fingere
era solo uno spreco di energie che non si poteva permettere.
«Chi
altri lo sa?» non si perse in giri di parole, non lo faceva mai e si ritrovò da
Stiles uno sguardo perplesso, di chi non capisse a cosa esattamente si
riferisse. «Ti conosco, i tuoi problemi li tieni per te».
Lo
conosceva? Stiles era piuttosto dubbioso di essere mai stato sotto il mirino
delle attenzioni di Derek. In realtà, il mannaro non ne aveva per nessuno, era
troppo chiuso in sé, nel cordoglio che portava avanti da solo. Nemmeno Laura
fin troppo spesso riusciva a scalfire la barriera che aveva istaurato. Era
amareggiata, cercava di dare il meglio di sé, scuotere il fratello minore
dall’oscurità in cui si era rinchiuso; finché erano rimasti a Beacon Hills non
aveva mai riscontrato dei risultati vincenti, ma era cambiato qualcosa
cambiando aria? «Soltanto mio padre» eppure Derek l’aveva descritto così
diligentemente, riassumendo un aspetto caratteriale che difficilmente altri
avevano notato, come il suo branco, che aveva dovuto sbatterci contro prima di
capire con che cosa avessero a che fare.
La
creatura della notte serrò le labbra, come se dovesse trattenere un commento
acido e di rimprovero che avrebbe espresso se non si fosse contenuto, Stiles
sapeva di meritarselo, ma era una sua scelta e non la voleva contestata. «Devo
uscire presto oggi» disse invece, rimandando la conversazione che Stiles sapeva
un giorno avrebbero intrapreso, ma non voleva che quell’occasione arrivasse
mai. «Prendi quello che ti serve» Derek si alzò immediatamente, il torace
scoperto ed i pantaloni sempre presenti.
Stiles
lo vide volatilizzarsi, con un cambio in mano, nella direzione della doccia e
senza aggiungere altro.
Rimase
allibito sul letto, il fiato trattenuto dentro la trachea e la pesantezza della
mente che non demordeva. Si nascose con tutta la testa sotto le coperte
confortevoli per un tempo riguardevole, ancora impregnate dal calore che lui e
Derek avevano creato.
«Non
posso credere che Derek ci abbia messo un’intera settimana per dirmi che eri
qui» Erica gli arrivò alle spalle, seduto ad uno dei tavoli dello Starbucks
principale del campus.
Si
accomodò davanti a lui, un libro di storia dell’arte a far presenza, i lunghi
boccoli dell’oro che oscillavano, insieme al rossetto rosso che immancabilmente
chiudeva il cerchio, rappresentandola. «Ci sei anche tu?» forse era stato
colpito da un ictus e non si era ancora svegliato.
«Certo»
affermò con ovvietà la bionda, sminuendo la situazione. «Non potevo lasciare
quel lupo musone da solo».
Già,
nemmeno Stiles l’avrebbe fatto se fosse stato in lei. «È bello vederti»
improvvisamente era lui a sentirsi meno solo.
«È
bello anche per me» Erica ammiccò spudoratamente e il figlio dello sceriffo non
ne fu per niente turbato.
Erica
non era di Beacon Hills, ma della città vicina. A tredici anni fu morsa da un
Alpha di un branco di passaggio che voleva soltanto divertirsi, sminuire la
fragilità umana, vedere se sarebbe sopravvissuta al morso, al veleno che le
avrebbe iniettato. Si fecero delle grasse risate mentre lei pativa atroci
sofferenze per vincere sul morso, controllare la trasformazione e avere la
meglio. Quando il morso attecchì, non si presero alcuna briga nei suoi
confronti e la abbandonarono a se stessa senza
insegnarle nulla, come sopravvivere in quel mondo di pazzi che li prendeva
continuamente di mira.
La
trovò Talia Hale soltanto giorni più tardi, mentre Erica cercava di portare
avanti la sua classica vita, non far preoccupare i genitori, inserendo problemi
su problemi.
Talia
la condusse all’interno del branco Hale, le insegnò tutto quello che le serviva
conoscere e divenne la sua Alpha. Aveva la stessa età di Derek e lo seguiva
ciecamente come se fosse lui il suo capo branco. Anche quando tutto era andato
in fumo, Erica non aveva abbandonato il lupo divenuto orfano. Stiles ne
riceveva una prova perfino in quel momento così distante dal tempo.
«Come
procede lì a Beacon Hills?» gli chiese la mannara, l’interesse che si faceva
strada.
«Per
adesso meglio» non voleva dilungarsi, dirle esattamente cosa fosse accaduto,
fin dove si fossero spinti.
Erica
lo scrutò svisceratamente, come se sapesse che non fosse affatto vero, che
qualcosa Derek doveva averle farfugliato. «È andata così male?».
«Sì»
la sopravvivenza era l’unica medaglia che avevano ottenuto e non tutti c’erano
riusciti.
«Mi
dispiace di non essere stata presente» lei lo disse con sincerità, c’era
rammarico e tristezza.
«Ognuno
doveva seguire il proprio branco» erano stati loro a suggerirgli di andare, di
riscostruirsi una vita lontano dalla cenere che non gli permetteva di
respirare, che se la sarebbero cavata alla grande e che non avevano più bisogno
dell’ala protettiva in cui li avevano messi.
«Sì,
e Derek è il mio» non c’erano mai stati dubbi su quello, tuttavia Stiles si era
sempre chiesto la motivazione. Era stata Laura ad ereditare gli occhi rossi del
potere, il ruolo da capo branco, ma non li aveva mai usati se non in situazioni
strettamente necessarie, come quando doveva insegnare a Scott a controllarsi
durante la luna piena o in attacchi d’ira improvvisi.
Erica
provava affetto e rispetto per la maggiore degli Hale, eppure non aveva seguito
lei.
«Ehy»
due nuove figure si presentarono accanto alla mannara, uno era un ragazzo
afroamericano molto massiccio e possente e l’altro era un ragazzo dalla
carnagione pallida che poteva fare a gara con la sua.
«Ciao»
li salutò Erica con affabilità, agitando una mano per rincarare la dose. «Oh,
questi sono Boyd e Isaac» li indicò diligentemente, come se non potesse non
presentarglieli. «E lui è Stiles».
«Stiles?»
ripeté interrogativo quello che la matricola individuò dalle indicazioni
gestuali della lupa come Isaac. Non era sorpreso che la gente trovasse strano
ed ostico il suo nome, non era lusinghiero, ma non l’avrebbe mai scambiato con
quello che era stato depositato all’anagrafe. «Quello Stiles?».
Sulla
bocca cremisi della mutaforma si dipinse una curva piena di sottintesi,
pericolosa fino al midollo. «Proprio lui».
Stiles
era sicuro di essersi perso qualche frammento per strada, soprattutto quando
Isaac e Boyd indirizzarono entrambi i loro sguardi sulla propria persona,
scrutandolo come se dovessero attingere a tutti i segreti che erano racchiusi
in lui. Non riusciva proprio a decifrare che tipo di interesse gli avesse
scatenato. «Ti prendiamo il caffè» annunciò Boyd nella sua pacatezza, tagliando
corto e trascinandosi l’altro ragazzo appresso. Erica li salutò con un ciao
ciao della mano.
«Sai,
Derek ha incontrato Malia» la creatura della notte se ne uscì con una bomba
pronta ad esplodere senza avvisare. Posò i suoi occhi castani su di lui e vi si
inchiodarono.
«Davvero?»
non sapeva perché ne fosse così sorpreso, doveva essere un’azione automatica
dopo che lui e Scott la trovarono nella foresta trasformata in coyote, forma
che mantenne per nove lunghissimi anni. Peter Hale l’aveva cercata per
diciassette interminabili anni, ma non era mai riuscito a scovarla da nessuna
parte, con i ricordi che gli erano stati strappati da Talia, senza lasciargli
un nome o un volto, anche soltanto un palliativo di un odore. Era una ricerca
cieca infruttuosa. Ma dopo averla ricondotta a lui e atteso che si
ristabilizzasse, Peter le aveva chiesto di seguirlo a New York, dove voleva
trasferirsi per ricongiungersi alle vicinanze di Laura.
Malia
aveva guardato proprio lui, Stiles, come se si aspettasse che avesse una
risposta per lei, che la incitasse o le chiedesse di rimanere, ma il figlio
dello sceriffo sapeva cosa fosse meglio per lei e le suggerì di andare. Non era
mai tornata sui suoi passi e quello che era iniziato tra loro sotto l’influenza
del Nogitsune svanì com’era cominciata. «E com’è andata?» chissà che cosa si
provava a scoprire di avere una cugina persa di cui non si conosceva
l’esistenza. Dava una sorta di sollievo sapere che il ramo Hale in qualche modo
era ancora in piedi, che non erano soltanto in tre in tutto il mondo, ma che
qualcuno di nuovo si fosse aggiunto?
«Mh, non troppo bene» rivelò accigliata, anche se in qualche
modo sembrava comprendere perché non funzionassero. «È successo soltanto una
volta, poco dopo essersi trasferita» erano passati diciotto mesi da quel
giorno.
«Perché?
Cos’è andato storto? Sono piuttosto simili» silenziosi e bruschi, ma poteva
davvero stupirsi? Derek era la persona meno socievole che conoscesse, capace di
incenerire con un solo sguardo e Malia era parecchio particolare, molto
istintiva e diretta, non aveva freni inibitori.
«Già»
Erica fissò un punto imprecisato sulla parete accanto a loro, una mano laccata
di rosso sotto il mento a sostenerlo. «Forse è questo il problema, sono troppo
simili».
La
matricola di criminologia avrebbe voluto indagare, scoprire quale fosse la
problematica che li rendeva incompatibili, ma la voce soffusa e piena di
conoscenza della lupa mannara, che lasciava sottotesti inespressi, la fece
desistere.
«Vuoi
sapere la novità, Erica?» domandò retoricamente Isaac, sedendosi accanto a lei,
mentre la lupa si scostava per fargli spazio, con l’euforia nella voce. «Hanno
appena nominato Derek come capitano».
«Ma
è grandioso» esclamò euforica la ragazza, afferrando il bicchierone che
l’afroamericano le porse. «Due su due».
«Ci
ucciderà» realizzò Boyd rassegnato sedendosi accanto allo studente del primo
anno, osservando l’email di conferma sul cellulare, i giocatori presi
all’interno della squadra ed i ruoli che gli erano stati assegnati. I provini
si erano svolti soltanto quattro giorni prima ed era evidente quando avessero
fretta di ricominciare ad allenarli, in tempo per il primo campionato che
sarebbe cominciato di lì ad un mese. Derek era piuttosto severo come capitano,
come lo era in ogni campo, ma sapeva sempre come portarli alla vittoria.
«Mi
aspetto una tripletta il prossimo anno» si sbilanciò Isaac, euforico come se il
titolo fosse andato anche a lui ed Erica sorrise in accordo.
«Capitano?»
si vide costretto a chiedere Stiles, completamente esclusivo dalla felicità
orgogliosa dei tre, credendo ciecamente al ruolo che era toccato a Derek.
«Capitano di cosa?».
«Basket»
sintetizzò in una sola parola Boyd, l’essenziale che aveva valenza.
Ed
in effetti ne aveva, a Stiles non serviva altro. «Certe cose non cambiano mai»
disse con un sottofondo di stupore, anche se non avrebbe affatto dovuto
provarlo. Stiles l’aveva osservato giocare per due anni, sugli spalti a non
perdersi una sola partita, osservandolo vincere senza fatica, l’esclusivo
protagonista indiscusso. Era l’unico scenario in cui lo vedeva davvero felice.
«No,
certe cose non cambiano mai» asserì la lupa, un sorso che prese dal suo
bicchiere fumante, le iridi scure che si posavano pensierose ed assolutistiche
su quelle di ambrosia, in una verità incontrovertibile. Ma Stiles avrebbe
voluto sapere di quale verità si trattasse.
All’età
di sedici anni Scott fu morso da un Alpha solitario ed abbandonato che con
disperazione cercava l’antico branco Hale, all’oscuro della loro dipartita.
Non
l’aveva trovato ed era riuscito a beccare un indifeso Scott mentre era in balia
di un attacco d’asma. Laura non avrebbe mai potuto prevederlo né impedirlo.
Laura
e Derek erano rinchiusi nel loro dolore, mezzi ciechi e non completamente in
totale accordo con la natura che li circondava; erano completamente
sopraffatti, anche se la nuova Alpha cercava di tenere intero ciò che era
rimasto, occuparsi della grande responsabilità che le era toccata.
Alcuni
mesi prima della fine del primo anno da liceale di Derek, quindici anni, la
tenuta Hale aveva preso fuoco. Undici persone erano morte.
Laura
era tornata da New York, in cui frequentava il secondo anno di college, ed era
rimasta per diventare la tutrice del fratello minore, abbandonando gli studi e
rimanendo a Beacon Hills, continuando a portare a compimento il compito che
generazioni di Hale si erano ritrovati sulle spalle, a sorvegliare la cittadina
di cui erano i fondatori e protettori. Laura aveva fatto molti sacrifici e
nessuno le aveva dato la colpa quando non era riuscita ad intercettare l’Alpha
che aveva trasformato Scott – non l’aveva nemmeno sentito arrivare –; si era
impegnata e prodigata per essere la migliore guida per il nuovo lupo mannaro,
eppure non gli aveva mai imposto di aggregarsi al suo branco e Scott,
inaspettatamente, ne aveva creato uno proprio, in cui Stiles figurava al suo
fianco, rivelandosi un maestro perfino migliore di Laura stessa. Lei ne era
rimasta stregata.
Chi
invece rimaneva sul bordo, nell’ombra, sordo ed infastidito dalla loro
presenza, era Derek stesso.
Non
li guardava, non voleva mai stare in loro presenza, non voleva che gli
parlassero e non era mai nei dintorni quando loro giravano intorno a sua
sorella maggiore. Si limitava, a volte, a lanciargli sguardi di sufficienza, ad
esprimere quanto fossero ridicoli e se Scott, magnanimo ed ingenuo lasciava
correre, Stiles non era dello stesso avviso, rispondendogli con tono mordace e
sarcasticamente pungente. Laura rideva saputa e Derek si imbronciava tradito
perfino da lei.
Ma
Derek era un fantasma, la profonda ferita che si portava dietro il figlio dello
sceriffo la vedeva benissimo, come se fosse la propria – e ne possedeva una
simile. Il lupo era solo una linea tratteggiata su un margine o quantomeno era
quello che voleva essere. Non era mai a loro disposizione, non accorreva mai in
aiuto e era sordo ad ogni loro richiesta ed in realtà non avevano alcuna
aspettativa in proposito.
«Perché
sei qui?» gli aveva chiesto una volta Derek a denti stretti, esasperato di
trovarlo dove non doveva essere, una palla da basket tra le mani, appena
afferrata dopo il suo ultimo perfetto canestro nella palestra della scuola.
Era
il suo ultimo anno, Stiles non l’avrebbe visto probabilmente mai più. «Mi piace
guardarti giocare» non credeva fosse un segreto, si era ritrovato a tifare per
la squadra di basket fin dal suo primo anno da liceale – molto di più di quanto
facesse con la propria di lacrosse – e non aveva desistito nel secondo, anche
dopo aver scoperto quanto Derek Hale fosse una persona scomoda. Sapeva
riconoscere il talento e adorava ammirarlo. «È il momento in cui sei più
felice».
Derek
era ammutolito, come se tutta la saliva nella bocca fosse evaporata e fosse
troppo secca per poter articolare qualsiasi cosa avesse voluto comunicare. Si
ripresentò uno di quei momenti in cui il mannaro lo guardava in quel modo
speciale, come se riuscisse a vederlo davvero, mentre persisteva a ribadire il
contrario. «E qual è il tuo momento?».
Oh,
Stiles si era ritrovato piacevolmente stupito e sbalordito, ricevendo per la
prima volta una domanda di interesse dal grande lupo cattivo solitario. «Te
l’ho detto, mi piace guardarti giocare, Sourwolf» ammiccò senza pudore, le
labbra che si distendevano in una curva sfacciata, le gemme d’ambra che
scintillavano fomentate, a manifestare quanto fosse una volpe astuta che
adorava dilettarsi. «Mette tutto in prospettiva vedere un lupo acido come te
accogliere la vita» anche se era evidente che la disprezzasse e rinnegasse, che
si limitasse a far trascorrere il tempo, senza sapere davvero cosa farsene, se
avesse dovuto investirlo e trasformarlo in qualcosa.
Derek
roteò gli occhi annoiato dalla scaltrezza sporca che Stiles aveva palesato,
stuzzicarlo come si permetteva di fare solo per risultargli scomodo. O per
riempire un vuoto incolmabile. «Sei fastidioso come pochi».
Stiles
gli riservò il suo sorriso compiaciuto, la vittoria che sapeva essere dalla sua
parte. «Più tardi saremo tutti a casa vostra».
«Non
ci sarò» rabbrividì al solo pensiero di ritrovarsi l’appartamento che
condivideva con la sorella invasa da sedicenni senza limiti, infrangendo ogni
spazio personale.
«Lo
so» la piega sul viso del figlio della massima autorità di Beacon Hills si fece
più morbida ed accondiscendente, consapevole che la creatura della notte
avrebbe preferito essere ovunque nel mondo che con loro. «Ti aspetteremo lo
stesso» Derek non si presentò né quel giorno né in quelli futuri, evidenziando
il suo malcontento, eppure Stiles non desistette mai e continuò ad attendere –
era, infine, arrivato al Michigan State University
il momento in cui Derek l’avrebbe finalmente raggiunto?
Mesi
dopo avevano detto a Laura che era giunto il giorno di lasciare Beacon Hills e
riprendere la vita che aveva messo in pausa tre anni prima, che erano capaci di
cavarsela da soli e che gli aveva insegnato tutto quello che serviva loro. Che
era sopraggiunto il loro turno di badare a quella cittadina particolarmente
turbolenta attorno al sovrannaturale. Che l’avrebbero contattata se avessero
avuto bisogno del suo aiuto, di qualche dritta.
Lei
era quasi scoppiata a piangere per il sollievo, l’enorme macigno sul petto che
non le dava tregua.
Si
era presa del tempo prima di decidere di preparare le valigie, lasciare la
città dopo che Derek si sarebbe finalmente diplomato, pronto per affrontare un
nuovo capitolo: il college.
Ma
le cose si erano messe tremendamente male quando i due Hale avevano lasciato
quella località dannata e concordarono che il momento di chiedere aiuto a Laura
non arrivasse mai.
Stiles
non si sorprendeva più di ridestarsi accanto a Derek Hale, nel suo letto e nel
calore che irradiava. Era l’ottava mattina, di seguito, non era confortante.
Voleva significare che il suo sonnambulismo non si era preso nemmeno un giorno
di ferie e quello preoccupava l’umano oltre ogni misura.
Una
volta aveva delle tregue, notti in cui suo padre non doveva uscire nel cuore
della notte o abbandonare il posto di lavoro per riportarlo in casa,
all’interno di quello che si riteneva essere un posto sicuro. Riprendere fiato
e illudersi che l’alta marea fosse passata. I cambiamenti che aveva affrontato
in quelle prime giornate universitarie erano stati talmente grandi e
destabilizzanti da mandarlo completamente fuori fase?
Quando
aprì le palpebre, Derek le teneva ancora serrate, come se si stesse godendo gli
ultimi istanti di quiete. Si chiese quanti fastidi gli arrecasse, in che stato
lo trovasse e quanto tempo gli occorresse per guadagnarsi la sua fiducia,
conducendolo nell’appartamento. «Ho saputo che ti hanno nominato capitano»
sapeva fosse sveglio, aspettava soltanto un cenno dal suo ospite improvvisato.
A volte si domandava se Derek dormisse mai davvero, se riposasse con lui
accanto a riempire le sue preoccupazioni, i sensi sempre in allerta per captare
tutto quello che li circondava. «Per la seconda volta».
Le
perle di giada si mostrarono, la tranquillità che si dissolveva; Stiles si
sentì un po’ in colpa. «Sì?».
Non
era una vera domanda, Derek gli stava soltanto dando corda, come se non gli
importasse affatto la carica che era riuscito a ricoprire, ma Stiles sapeva
quanto in realtà ci tenesse, quanto fosse portato per quel ruolo. «Me l’ha
detto Erica e… le sue guardie del corpo» non sapeva davvero in che altro modo
avrebbe dovuto classificarle.
Il
mannaro innalzò un sopracciglio con scetticismo e quella era l’unica risposta
che avrebbe avuto da lui. «L’hai incontrata».
«Sì»
continuava ad essere incredulo. «È così strano avervi qui».
Il
viso perfetto di Derek si increspò e la percezione cambiò. «Sento la paranoia
che avanza».
«Sono
solo i miei sensi che si attivano» Stiles abbozzò una piega ilare, il ghignetto
non davvero sentito che faticava a farsi strada. Lo destabilizzava realizzare
quanto il mutaforma fosse attento a lui, come
riuscisse ad identificare le sue particolarità e dargli un nome. «Sono successe
troppe cose per limitarmi a catalogarle come coincidenze, un mondo troppo
piccolo».
«Eppure
lo è» sentenziò la creatura leggendaria, imperturbabile.
Il
figlio dello sceriffo prese un lungo respiro, raccogliere le immagini che erano
rinchiuse in un cassetto speciale, uno che non doveva essere aperto. «Ti ho
parlato di questo posto soltanto una volta. Anzi, credo sia stata la nostra
prima ed unica vera conversazione».
«Magari
è l’unico college che mi abbia accettato» la voce era seria, eppure c’era una
nota di diletto nascosta sotto.
Stiles
sbuffò una mezza risata derisoria, non credendogli affatto. «Ritenta, sarai più
fortunato».
Derek
sembrò meditarci su per qualche secondo, ma era tutta una recita. «O mi hai
semplicemente ispirato».
La
trachea si svuotò e il fiato divenne rarefatto. C’era qualcosa che gli
sfuggiva, la riverenza con cui Derek gli sfiorava l’animo. «Non pensavo mi
vedessi in questo modo».
«E
come pensavi ti vedessi?» il mutaforma appariva
evidentemente interessato, in attesa. Stiles non sapeva proprio cosa si
aspettasse da lui.
«Non
mi vedessi affatto» lo sconforto e la stretta al petto che avvertì erano del
tutto inaspettate, non ne capiva minimamente la ragione, erano sfuggite al suo
controllo come tutto il resto di se stesso, incapace
di comprendersi. Continuava a perdersi, a non avere idea di chi fosse.
Un
pollice di Derek si avvicinò al setto nasale, poggiandolo all’altezza degli
occhi, a distendere delle pieghe contratte di cui era l’unico spettatore. Lo
stupore nella matricola fu grande, così come il beneficio di cui si appropriò.
Era mai stato toccato così? Le sue membra si rilassarono quasi immediatamente,
radicandosi in sé. Si rendeva conto che in quei giorni di convivenza forzata si
stava abituando troppo in fretta alle attenzioni che la creatura leggendaria
gli dedicava, si lasciava trasportare e ne traeva ogni vantaggio quasi il corpo
ne avesse accettato ogni contorno in una memoria che non gli apparteneva. Non
si poneva nemmeno più interrogativi su quanto fosse facile interagire in quel
modo tra loro due, perché non venisse colpito da un attacco di panico ogni
volta che veniva sfiorato dalla creatura della notte. «È necessario conoscere
la risposta?».
«Le
risposte sono importanti» essenziali, fin troppo spesso. Si accaniva a
discapito di sé per ottenerle, per trovarle e scovarle. «Mi aiutano a scoprire
il mondo, a svelarlo» a sapere cosa ci fosse in serbo per lui, da chi dovesse
guardarsi e chi trascinare con sé.
«A
volte, le risponde non sono la soluzione» il mannaro fu lapidario e c’era tanta
sofferenza in sé, l’incapacità di poter tornare indietro.
Stiles
si rimpicciolì sotto il suo tocco, alla consapevolezza che si accendeva
interamente in lui. A Derek non era servito conoscere perfettamente la risposta
del male che gli aveva sottratto la sua famiglia. Una verità che Derek
custodiva gelosamente dentro di sé, punendosi all’inverosimile e che, per
qualche stranissima ed improbabile ragione, aveva confidato soltanto a Stiles.
Erano i soli in tutto il mondo. «Derek».
L’afflizione
che fu rinchiusa nel pronunciare il nome del licantropo Derek la accolse e
scacciò via accarezzandogli una tempia stremata. «Non ho risposte, ma nessuno
sta complottando contro di te».
Stiles
aveva talmente tanti dubbi, che avrebbe voluto tormentarlo di domande, esigere
delle spiegazioni più approfondite, la sua paranoia aveva delle basi solide
dopo tutto quello che era accaduto, ma poi il mannaro gli avrebbe rivolto a sua
volta dei quesiti a cui non voleva rispondere. «Parlami degli energumeni che
seguono Erica» anche se definire Isaac in tale maniera era alquanto errata,
sembrava esile e altissimo, eppure dava la sensazione che potesse divenire
aggressivo in qualsiasi momento ‒ aveva afferrato che quest’ultimo
studiava veterinaria, mentre il colosso di muscoli medicina osteopatica. «Sono
dei lupi anche loro?».
Derek
persistette nel silenzio, era breve e calcolato, come se le sue sinapsi fossero
allenate a seguire il flusso di pensiero continuo della matricola nel caso
fosse stato necessario. «Sì» non sembrava preoccupato che la sua attenzione
fosse stata catalizzata da un’altra parte, era come se ci fosse un tacito
accordo, di non scoprire il vaso di Pandora. «Storia simile».
«Oh»
perché continuava a stupirsene? Di Alpha bravi ne esistevano davvero pochi e
lui lo sapeva fin troppo bene, oltre alla storia appresa su Erica e quella
vissuta sulla propria pelle attraverso Scott, si erano ritrovati ad affrontare
un branco di Alpha che voleva acquisire soltanto potere su potere, facendo del
male a tutti gli altri. Vite stroncate, vite distrutte. Era tutto sempre per
puro divertimento della fame di chi potesse permettersi di sentirsi superiore a
chi si aveva di fronte. «Per questo la seguono? Si sono trovati» anche se non
era di lei che avevano parlato per tutto il tempo che aveva trascorso con loro.
«Possibile»
il mannaro era distaccato com’era sua caratteristica, non c’era nulla che
potesse turbarlo. «Non mi pongo il problema».
No,
da Derek non si aspettava niente di diverso. A volte si chiedeva se ci fosse
qualcosa che potesse scuoterlo. «Sono stati loro ad informarci della tua
nomina» il cellulare in mano, a scorrere tutti i nomi appartenenti alla
squadra. A Stiles non era arrivata un’email del genere, dubitava gli sarebbe
mai giunta.
«Mh» mormorò Derek come se quello non avesse nessuna
importanza e gli scivolasse addosso, era catalizzato sullo studente di
criminologia, il polpastrello a sfiorargli quella tempia corrucciata. «Fanno
parte della squadra» non lo trovava insolito, come non lo erano i giochetti che
Stiles compieva per strappargli la verità.
Sì,
aveva senso. «Sono piuttosto orgogliosi di te» l’aveva notato subito, il
rispetto, l’entusiasmo, quella certezza cieca in cui confidavano.
«Sì?»
era un piccolo interrogativo, un desiderio di conoscenza che non aveva ancora
mostrato, le iridi verdi pizzicarono di blu e rosso e Stiles ne rimase
vivamente intricato, chiedendosi come potesse esistere un fenomeno come quello.
«Sì»
confermò con sincerità il figlio dello sceriffo, l’attendibilità della sua
capacità di osservare il prossimo. «Non è Erica che seguono. Seguono te».
Le
dita di Derek si fermarono e scivolarono tra le ciocche castane di Stiles,
immobili a trattenerle. Gli occhi erano più severi e non più permissivi, gli
intimarono di trattenere certe sciocchezze al suo interno. «Non sono un Alpha».
«Eppure
Erica ti vede così» a volte si era chiesto se lei riuscisse a sentire qualcosa
di particolare nel lupo tormentato, a cogliere qualcosa che agli altri non era
permesso ancora vedere.
«Erica
è invadente e non oggettiva» Derek in tutti quegli anni non se n’era ancora
fatto una ragione. «Soprattutto è inopportuna».
Inopportuna
perché in realtà quel ruolo lo ricopriva Laura? «Ti vuole bene» su quello c’era
poco da sindacare, Derek non avrebbe mai potuto negarlo o rinnegarlo. Stiles
aveva osservato spesso l’affetto che gli riservava, anche se normalmente la
cacciata via malamente. Penetrare quel cuore nero di pietra era una faticaccia
impari, ma la bionda rimaneva stabile nella sua posizione, a far sentire che
non l’avrebbe abbandonato mai.
«Così
sembrerebbe» lei c’era stata quando tutto era andato in malora, quando Derek
aveva perso ogni cosa, ogni parte di sé. Aveva rispettato il silenzio in cui si
era racchiuso, non permettendo mai che rimasse un solo spiraglio che concedesse
a qualcuno di insinuarsi. L’aveva seguito perfino lì, nella nuova vita che
tecnicamente avrebbe dovuto costruirsi.
Stiles
tacque per alcuni momenti, lo sguardo fisso in quello del mannaro a costatare
quanto potesse spingersi oltre. «Nemmeno a lei hai detto nulla?» era pericoloso
far prendere forma a quel quesito, ma della vita di Derek non sapeva niente da
quando aveva lasciato il suolo di Beacon Hills.
Le
labbra della creatura della notte si serrarono, in una linea sottile,
l’eloquenza nelle gemme di giada che si inasprirono. «No» tuttavia le sue
falangi erano ancora tra i capelli dell’umano, come incapaci di separarsene.
Stiles
si ritrovò ad annuire nella sua presa, aspettandosi esattamente quella
risposta. «Anch’io» non l’aveva mai ritenuta una cosa sana, ma era qualcosa che
apparteneva a Derek, al modo in cui si era aperto a lui, ritenendolo l’unico
meritevole a cui avrebbe potuto rivelarlo. «Ho mantenuto il segreto».
Il
pollice gli accarezzò il padiglione auricolare, con una tale delicatezza che
Stiles avrebbe potuto piangere. Delicatezza e Derek erano due
concetti che non potevano coesistere nella stessa frase, eppure Stiles ne stava
venendo ricoperto, come se fosse il solo catalizzatore su cui potessero
concretizzarsi. «Sei sempre stato bravo a custodirli».
Forse
lo era anche troppo, non sempre aveva giocato a suo favore, ma il segreto di
Derek era qualcosa che non poteva rubargli. «Sono ancora dell’idea che dovresti
dirle la verità» non stavano più parlando della bionda pericolosa che seguiva
il licantropo con fiducia, ma della Alpha che vegliava su di loro perfino a
chilometri di distanza.
La
mano di Derek questa volta si arrestò davvero e abbandonò la sua postazione,
lasciando la matricola completamente scoperta. «No» ribadì, scandendolo
chiaramente, l’incisività che prendeva piede. «Basti tu».
Non
sapeva bene come si sentisse al riguardo, oltre all’essere lusingato, l’eletto
che Derek aveva designato. Non era un segreto che potesse lacerarlo troppo, era
già rotto di suo, pezzo dopo pezzo aveva perso varie parti che lo costituivano,
ma era consapevole che invece quell’omissione avesse delle ripercussioni sul
ragazzo disteso accanto a lui, che ogni notte usciva dal caldo del suo
appartamento per trarlo in salvo dalle temperature rigide. «Va bene» spesso si
domandava se un giorno sarebbe arrivato a liberarsi da quell’enorme macigno che
lo studente di letteratura teneva per sé sulle spalle rigide da quattro
intramontabili anni.
Il
silenzio perdurò nell’ambiente circostante e Derek era ritornato nella sua
posizione impeccabile, a non invadere minimamente lo spazio personale
dell’umano; Stiles si ritrovò a realizzare che avvertisse in modo viscerale la
mancanza del calore del lupo invaderlo. Era ad un passo da lui, ma era come se
tra loro si intromettessero miglia e miglia di distanza. «Stavo pensando…»
Derek aggrottò le sopracciglia, a comunicargli che non si aspettasse niente di
particolarmente brillante dalla sua parte. «Non stai barando?» il licantropo
inarcò una delle suddette sopracciglia che lo invitava ad esplicitarsi e Stiles
sapeva bene che potevano intrattenere un’intera conversazione in quel modo. «A
Basket. Sei il capitano per il secondo anno di seguito e hai i migliori
risultati degli ultimi trent’anni. Sono sicuro che essere un lupo mannaro non
sia leale».
«Stiles,
non sto barando» si irritò la creatura leggendaria, un mezzo ringhio che chiuse
tra i denti, a trattenersi dal volerselo mangiare in un sol boccone.
«Come
no» la bocca scarlatta si curvò sardonicamente, l’ombra della volpe subdola e
attenta che si manifestava a sferrare il suo colpo. «Come fai a non farti
scoprire durante le analisi a cui siete obbligati a partecipare?» li scambiava
con qualcuno? Esisteva un trucco?
«Non
cercano variazioni genetiche» rivelò il mannaro, stranamente più propenso a
scambiare certe informazioni con lui. In realtà potevano ritrovarsi a parlare
di tutto e di niente, senza che gli sbalzi di umore intaccassero in qualche
modo la fluidità dei dialoghi continuamente modificati. «Ma anabolizzanti,
droghe e steroidi» qualcosa che Derek non avrebbe mai toccato nemmeno per
sbaglio e per cui provava disgusto, senza contare che non avrebbero avuto
nessun effetto su di sé. «E poi non si attivano, se non sono io a volerlo».
«Uao» esclamò Stiles stupefatto, la meraviglia che si
disegnava tutta sui suoi tratti facciali. «Siete delle creature incredibili,
tutto in voi è stato progettato per proteggervi» il che non era affatto un
male, con tutti le insidie che si ammassavano davanti al portone d’ingresso.
Avevano continuamente bisogno di essere tutelate e la natura e l’evoluzione
avevano fatto di tutto per tenerle al sicuro.
«Già»
proferì Derek con amarezza. Purtroppo c’erano dei difetti che non potevano
essere corretti, come il peccato di presunzione e il ritenersi invincibili,
inafferrabili, immuni a qualsiasi male. Ma il male esisteva ed era ovunque
intorno a loro, ad aspettare che abbassassero la guardia o facessero troppo i
gradassi. Derek quell’insidia malvagia la conosceva meglio di se stesso e gli aveva sottratto ogni affetto che avesse
conosciuto nella vita.
Stiles
scivolò verso il lupo che, al contrario suo, aveva l’abitudine di invadere lo
spazio altrui. Derek se lo ritrovò ad un soffio di distanza, il fiato bollente
che si mescolava. Le sue iridi cangianti risposero all’invadenza e Stiles
rilasciò il suo sorriso ammaliante, scacciando tutta l’oscurità che lo stava
prendendo di mira. «E dimmi, quanti di voi invadono i campi di gioco?».
Derek
ci impiegò qualche attimo a comprendere a cosa Stiles si stesse riferendo, a
quanto facile fosse perdere il filo del discorso per poi recuperarlo. «Molti
mutaforma giocano tra i professionisti».
«Questo
è davvero scorretto» Stiles si imbronciò come un bambino, le pieghe che si
disegnavano tutte sulla bocca carnosa.
«Pensi
davvero che tutti i mutaforma siano portati per lo sport?» Derek lo fissò con
sfida, l’intenzione che vibrava tra loro.
«No»
Stiles non dovette nemmeno pensarci più di tanto. Erano agevolati, ma il
talento e le capacità, il duro lavoro, erano tutto un altro discorso. «Tu sei
sempre stato bravo e guardarti mi piaceva tantissimo».
«Me
lo ricordo» nulla di nuovo sotto il cielo, ma aveva continuamente un certo
effetto sentirselo dire.
«E
anche come capitano sei strepitoso, il carisma non si apprende, lo si ha»
Stiles ammiccò impudico, come se avesse prove di quell’aspetto. In realtà
Stiles pensava che quella caratteristica carismatica e di perfetto capo Derek
l’avesse sempre avuta, ma che la celasse, tirandola fuori solo quando era
costretto. Nel basket non si era mai dovuto limitare, era libero di essere
esattamente chi era. «Anche tu ambisci a rafforzare le fila dei
professionisti?».
«Per
niente» l’aria accigliata che Derek assunse sembrava scaturita da un insulto.
«Oh,
questo è inaspettato» un po’ gli dispiaceva, ma evidentemente Derek aveva le
sue ragioni. «Certo, qualcuno potrebbe notare che non invecchi mai».
«I
lupi mannari non sono millenari, invecchiamo esattamente come te» Derek lo
riprese, perché non sopportava proprio le frivolezze che Stiles si lasciava
scappare, quando era ben consapevole che l’umano avesse fin troppo informazioni
sulla sua specie. «Stesso tempo vitale».
Chissà
come mai, ma aveva una certa impronta quella precisazione, il modo in cui Derek
l’aveva marcata. «Sì, certo, quelle sono le kitsune».
Gli
occhi di Derek si ingrandirono e il respiro divenne improvvisamente pesante,
come se qualcosa di troppo fosse stata rivelata inconsapevolmente. «Hai
incontrato una kitsune?».
«Due,
in realtà. Madre e figlia» meglio non specificare che la madre avesse cercato
di ucciderlo in ogni modo possibile e immaginabile, mentre la figlia le aveva
tenuto testa e avesse fatto di tutto per preservare la sua vita. Stiles
riteneva che il prezzo fosse stato comunque troppo alto, a volte si domandava
se fosse stato corretto pagarlo. «Scott e Kira, la ragazza, stanno insieme».
«Un
lupo e una volpe» la voce di Derek era immutabile, eppure l’entità con cui lo
disse Stiles la sentì perfettamente, quella cadenza incredula e anche
derisoria, ma non per i due citati, ma nei propri confronti.
«Sì»
Stiles purtroppo non era in grado di decifrare ciò che si stava creando nel
mannaro, ma era comunque troppo incentrato su di sé, alle memorie che gli
affioravano alla mente e che non gli davano tregua. Persino cambiare stato non
era servito a nulla.
«Non
era innamoratissimo della cacciatrice?» si vide costretto a chiedere il mutaforma. Gli mancavano dei tasselli, ma non credeva
così tanti.
«Ah»
in un certo qual modo quel innamoratissimo lo fece sorridere
internamente, non era per niente un termine che si sarebbe aspettato di udire
dall’insensibile Derek Hale dalle parole forbite e altolocate, ma immaginava
che volesse semplicemente sottolineare un concetto che entrambi conoscevano. In
più c’era quel dettaglio sulla figura della cacciatrice, quanto a Derek fosse
stretta e gli facesse male, considerando che fosse direttamente imparentata con
quella famiglia. Era una frase semplice, che non nascondeva niente, ma
era contenuta tutta la tragedia che Derek aveva affrontato e che ancora non
superava né mai ci sarebbe riuscito. «Allison. È morta» e Stiles aveva la sua
personalissima tragedia nel cuore.
Le
mani affusolate del figlio dello sceriffo tremarono, non riusciva a contenerle,
erano la rappresentazione di quanto sopraffatto fosse, quanto il suo corpo
reagisse immediatamente a ciò che lo faceva stare male.
Derek
lo guardò fisso al suono della sua voce sprezzata, mentre Stiles abbassava il
suo per fuggire da una verità che non avrebbe voluto rivelare, alle intuizioni
a cui il mannaro sarebbe potuto arrivare da sé, traendo le sue conclusioni.
Derek
quelle mani le fermò con le proprie, prendendole e tenendole, una poggiata sul
materasso e l’altra sul ventre dell’umano; gli spasmi non sparirono
all’istante, ma rallentarono progressivamente. «Basta» fu tutto quello che
disse, la voce imperiale e calda che si insinuava tra le sue membra esauste.
Era sbocciata la mattina, ma Stiles aveva già il fiato corto e non si era
ancora alzato dal letto.
Non
era un basta riferito alla situazione, ai
tremori che prendevano il predominio e manifestavano l’animo tormentato della
matricola, ma a ciò che Stiles era in grado di affrontare quel giorno, il suo
limite. Lo stanziò il lupo mannaro, non chiedendo minimamente spiegazioni,
quella parte di storia lunga due anni di cui era completamente all’oscuro. Gli
occhi d’ambra si aprirono e si ritrovarono a chiedersi chi fosse realmente
Derek Hale, il lupo con la morte nel cuore dai suoi quindici anni. «Der-»
Ma
non finì di pronunciare il suo nome, che il licantropo dinegò con il capo, a
spegnere qualsiasi parola. «Preparo la colazione».
Si
alzò soltanto quando i tremori alle mani terminarono, la calma che lentamente
serpeggiava dentro il figlio dello sceriffo a ridargli ossigeno.
Depositò
ai piedi del letto il cambio di abiti che l’essere umano avrebbe utilizzato e
che Stiles individuò come quelli che gli aveva riconsegnato soltanto due giorni
prima davanti al dipartimento di letteratura, sparendo subito dopo in direzione
della cucina nella sua grazia lupesca.
Stiles
era inebetito e non aveva mai provato quella sensazione di sollievo come in
quelle prime luci mattutine. La forma di rispetto e accuratezza che Derek gli
riservava, corrispondendo i suoi tempi e annullando l’invasività, era qualcosa
che colmava, tassello dopo tassello, il suo petto in tumulto e lacerato.