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Autore: SelfPreservation    10/03/2024    1 recensioni
"Ricordo la tua risata, le nostre confidenze, il cuore che mi batteva in petto impazzito, le guance rosse al risuonare dei tuo complimenti, la voglia di conoscerti da vicino, sfiorarti la barba incolta, capire chi fossi davvero. Perché io in quei giorni ci ho creduto davvero, sai? Ho pensato che potessi essere la mia salvezza, il mio futuro, un punto di luce da cui ricominciare dopo un decennio di buio fitto nel mio cuore. Mi sono lasciata cullare dal pensiero, o forse dall'illusione, che quella volta sarebbe stato diverso, che la mia mente non mi avrebbe ostacolata, che avrei ricevuto quel primo bacio che avevo sognato...che avrei fatto l'amore con un ragazzo che mi amava. "
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte 2



Ho scritto la prima parte di questa storia a metà strada tra ieri e oggi. Due anni dal nostro primo incontro, due anni da quella pagina di diario scaturita dal bisogno di testimoniare che da qualche parte nel mondo, tra le finestre e la luce delle nostre case lontane chilometri tra di loro, anche noi siamo stati qualcosa. Un qualcosa che è nato e si è consumato nel silenzio del mondo che stava cambiando, un mondo avvolto dalla paura e dal buio che ai nostri occhi, in quei giorni di primavera, sembravano meno tempestosi. E quattro anni dopo, nell’anniversario del giorno che diede inizio a tutto, sono ancora qui a pensare a te, dopo averti cercato negli occhi, nella risata, nelle braccia di un altro uomo che speravo sapesse colmare il vuoto che mi ero autoinflitta dicendoti addio per sempre. Un uomo a cui ho dato una possibilità per rimediare a uno dei più grandi errori della mia vita, al mio più grande rimpianto, perché mi ero ripromessa che mai più avrei commesso uno sbaglio simile. Ho affidato il mio cuore e il mio corpo a un uomo che l’ha calpestato e per cui, riesco ad ammettere dopo mesi, il mio cuore non ha mai battuto come faceva con te. Niente tonfi allo stomaco, niente sguardi lucidi…mani tremolanti di fronte al suo nome, sì, ma non per l’emozione quanto più per l’ansia, l’incertezza, la paura che del mio cuore, quella volta, non rimanessero che le briciole. La paura che non mi abbandona mai ma una paura diversa da quella che ho provato davanti al nostro “qualcosa” e che mi ha portato a dirti addio: allora era la paura di non essere all’altezza, di non essere abbastanza per te, la paura di non piacerti. In questo caso ha prevalso la paura di rimanere ferita, intrappolata, di espormi troppo senza che ne valesse la pena. E alla fine è stato così, mi sono buttata in una relazione per dimenticarti, per darmi una possibilità, per rimediare, ma senza rendermi conto che non era questa la volta in cui valesse la pena mettere in gioco i propri sentimenti, scoprire a nudo il proprio cuore.

Per mesi ho pensato che fosse il “karma”, il destino, chiamalo come preferisci, che mi stesse infliggendo una punizione per come mi ero comportata con te e ho pensato di meritare tutta quella punizione, quella sofferenza, dal primo all’ultimo giorno di quella strana frequentazione che l’uomo al mio fianco non aveva nemmeno il coraggio di chiamare con il suo nome. Fino a che un giorno di novembre, all’università, con la prima neve che imbiancava la città, i miei occhi non hanno incrociato di nuovo i tuoi e il mio cuore ha perso un battito, poi un altro, lo stomaco è scivolato in fondo e da quella stanza avrei voluto soltanto fuggire mentre i miei occhi si posavano sulle vostre mani intrecciate. Accanto a te, per la prima volta dal vivo, vedevo la ragazza che avrei voluto essere, quella che non aveva avuto paura di sceglierti e di camminare al tuo fianco. Avrei voluto scappare, sì, abbandonare quell’aula per lo più sconosciuta dall’aria soffocante che mi faceva mancare il respiro. Ma non ebbi nemmeno il coraggio di fare quello perché per la prima volta avrei condiviso con te, di persona, delle ore come mai ci era stato possibile fare. Tre ore, poi sei, poi nove e così avanti per settimane in cui con la coda dell’occhio ti osservavo, tendevo l’orecchio per riconoscere la tua voce più profonda e meno metallica, tesa come una corda di violino in attesa che mi riversassi addosso tutto il male che ti avevo fatto, che avessi il coraggio di mettermi di fronte, per l’ennesima volta 
e più di quanto non avessi già fatto autonomamente, alla scelta sbagliata compiuta.
I primi giorni non seppi nemmeno se mi avessi riconosciuta, eravamo distanti fisicamente e non solo, io in una parte più nascosta e buia dell’aula e tu al capo opposto, rischiarato dal tiepido sole autunnale. Un riflesso perfetto delle nostre personalità, dei nostri caratteri, delle nostre anime. Tu il sole e io la luna, tu il giorno e io la notte, distanti, consecutivi, impossibili da far incontrare e allo stesso tempo così impossibilmente attratti l’uno dall’altro. Della tua indifferenza ero persino contenta, in un senso malinconico e un po’ acidulo, che mi bruciava la bocca dello stomaco dandomi allo stesso tempo sollievo: ignorandomi davi conferma alla mia mente perversa che di me non ti fosse importato poi granché, le confermavi che non fossi una persona così memorabile, mediocre nel suo aspetto e nel suo carattere…invisibile. Mi crogiolavo in quella illusione che stringevo addosso come una coperta quando, uscita da quella stanza ogni giovedì e venerdì, tornavo a respirare.

Poi un pomeriggio di dicembre l’incantesimo si è spezzato. Durante una pausa ti sei alzato, eri solo, lei non c’era e per puro caso non c’erano neanche i tuoi amici. Io avevo occupato uno dei pochi posti disponibili a causa del ritardo dei mezzi, tra le prime file ma a destra mentre tu, ancora una volta, occupavi le ultime file, a sinistra. Non ricordo per quale motivo o persona tu ti sia alzato in quella pausa, forse alla ricerca di un consiglio per superare l’esame successivo, forse semplicemente per sgranchirti le gambe dopo ore trascorse chino davanti a un pc. So che all’improvviso la distanza tra di noi si è rimpicciolita, che le tue gambe robuste sono entrate nel mio campo visivo, che il tuo respiro caldo ha sfiorato il mio orecchio e che il tuo profumo, fino a quel momento sconosciuto, ha invaso prepotentemente le mie narici ponendo fine a mesi di interrogativi. Era quanto di più vicino ti avessi mai avuto, mi sarebbe bastato allungare un po’ la schiena all’indietro per scontrarmi con una tua mano, se soltanto lo avessi voluto, se solo fossi riuscita a sbloccare la rigidità che in un istante aveva preso il sopravvento sul mio corpo. Rimasi immobile, con la testa rivolta alle piastrelle sporche, espiante, la schiena di legno e le mani impegnate a tirare i fili della gonna fino a rovinarla irreparabilmente. Poi il tuo respiro caldo si è fatto più pressante, il tuo corpo si è avvicinato scavalcando la fila di banchi e occupando la sedia due, tre postazioni più in là della mia. Era quanto di più concreto ci fosse mai stato tra di noi: condividevamo la stessa aria, la stessa fila, ma non avevo il coraggio di godermi il momento, di rivolgerti uno sguardo, un saluto. Fino a che non hai alzato tu per primo gli occhi, sempre il più coraggioso e spavaldo dei due, l’unico in grado di camminare a testa alta, con le spalle dritte e il petto in fuori, tronfio e orgoglioso al tempo stesso. Ho alzato gli occhi dal pavimento per la prima volta e ho incontrato i tuoi, buoni e gentili, ma soprattutto sereni, non una traccia della tempestosità dei miei aleggiava in loro. Mi hai guardato e l’illusione si è spezzata perché mi è bastato un solo secondo per capire che mi avevi riconosciuta dal primo passo all’interno di quella stanza, nonostante le posizioni distanti, il diverso taglio di capelli, gli anni più presenti sul mio viso, tu mi hai riconosciuto subito e non per un solo attimo hai pensato di farmi sentire una merda esattamente come mi sentivo io.
 No, tu hai continuato la tua conversazione quel giorno, mi hai coinvolta nel discorso, mi hai sorriso gentile e all’arrivo della Professoressa con il suo the bollente in mano ti sei congedato con un “Ciao”.

Quattro lettere, sospirate e gentili, le stesse quattro lettere che avevano dato inizio a tutto avevano messo il punto a quel qualcosa mai realizzato segnandone la fine che sapeva tanto di un tacito accordo: so chi sei, ti ho riconosciuto, non provo rancore ma quel momento è passato. Io non sono più lo stesso, nemmeno tu, andiamo avanti.

Quelle quattro semplici parole me le hai ripetute in tutte le occasioni in cui ci siamo rivisti, nelle settimane successive, per caso o per obbligo. E ogni volta mi sono resa conto di quanto tu fossi una persona migliore di me, capace di dimenticare e di perdonare, di quanto gli occhi che vedevo attraverso lo schermo di un telefono riflettessero solo una briciola della gentilezza che avevi dentro, il tuo animo grande e puro. Pensai che quella fosse una punizione ancora più grande, e infinitamente dolorosa, rispetto al silenzio, all’ignorarmi e al non vedermi. Perché tu eri esattamente come ti avevo conosciuto e immaginato in quelle settimane di sospensione primaverile nel mezzo di un lockdown nazionale, non era stata un’illusione, la mia, ed era forse questa la cosa che mi provocava più dolore.

In quei giorni ebbi la certezza che a rischiare, a mettermi a nudo per te, a mostrarti le mie debolezze…ne sarebbe valsa la pena.
 
Avevo sbagliato tutto e ne avevo avuto la conferma: vederti esattamente come ti avevo pensato, fu la punizione più grande.
Due mesi più tardi decisi che mi ero punita abbastanza rimanendo in una storia senza capo né coda, una storia destinata, quella sì, a naufragare ancora prima di iniziare, trainata da due vascelli vuoti e smarriti, ciascuno alla ricerca di qualcosa che, ne erano consapevoli fin dall’inizio, non avrebbero mai trovato nell'altro.            
Vorrei scrivere che quell’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale in cui ti ho visto da lontano salutare con le lacrime agli occhi cinque anni della tua vita accademica, mano nella mano con lei, sia stata la parola definitiva alla mia speranza, che me ne sia fatta una ragione. Vorrei dire che quella storia “appena nata e già finita”[1] avrebbe rappresentato per me la rinascita, la fine di un cerchio e un nuovo inizio, più consapevole, senza più finestre spalancate nella tua direzione.
La verità è che di finito, anche quella volta, non ci fu proprio nulla e per quanto mi ingannassi dicendo a tutti che non c’era più speranza, una volta che chiusi la porta davanti a quel ragazzo più grande, così diverso da te in tutto, continuai ad aspettare che in qualche modo, in qualsiasi forma, tu tornassi anche solo per un giorno, che mi dessi la possibilità di riprendere, di ricominciare, là dove avevo reciso il filo che ci univa.

Ma questa, di nuovo, è un’altra storia…
 

[1] Se telefonando (Mina, 1966)
   
 
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