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Autore: _Frame_    10/03/2024    0 recensioni
[Pre-Canon]
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Valentina Milani è una ragazza come tante, una su un milione. Una inguaribile pigrona, golosa di pasta e gelato, solare e chiacchierona, anche se un po’ frivola, appassionata di meccanica e di motociclette, e affezionata ai suoi due migliori amici d’infanzia. Nata e vissuta nel piccolo paese di Portorosso, circondata dalle solite strade, le solite facce, il solito mare, le solite tradizioni, le solite leggende sui Mostri Marini, ha sempre sperato in una qualche novità in grado di stravolgere la sua vita e di strapparla a una quotidianità che ormai le calza sempre più stretta.
L’arrivo in paese di un giovane straniero potrebbe esaudire questo suo desiderio e cambiare per sempre non solo il corso della sua vita, ma anche l’intera visione del mondo che l’ha sempre circondata.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
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Dunque era vero – Atto II

 

 

Un altro giorno di pioggia, un’altra nottata insonne, e un’altra lunga mattinata di lavoro all’orizzonte. Ma questa giornata, già alle prime fioche luci dell’alba, si prospettava diversa dalle altre. Valentina fu capace di fiutare nell’aria quel presagio già quando, giunta sulla soglia dell’osteria, chiuse l’ombrello e lo scrollò facendolo sgocciolare prima ancora di aprire la porta d’ingresso del Gabbiano d’Argento. Riparata dal terrazzino del piano superiore, si guardò alle spalle – il grigio della strada, i vasi senza fiori, nessun panno messo a stendere sui balconi, le finestre chiuse, la cascatella d’acqua che zampillava rotolando dai gradini del carruggio –, e rabbrividì sotto il cappotto, maledicendo i brontolii del cielo che continuava a rigurgitare pioggia su pioggia, giorno dopo giorno, come una burla nei suoi confronti.

Valentina avrebbe preferito che non piovesse, almeno quel giorno.

Stringendo i pugni, raccogliendo un respiro bianco e tremante che poi soffiò dalle labbra intorpidite dal freddo e dall’umidità, tornò a fronteggiare la porta dell’osteria. Non permise a quella visione di demoralizzarla. Si caricò di determinazione lasciando che in fondo al petto si accendesse una fiamma di coraggio. Si preparò a tutto quello che la aspettava oltre la soglia.

Aprì la porta, accompagnandola con una lenta spinta di spalla. Si lasciò accogliere dal tepore dell’anticamera, dalla soffice luce del lampadario che le trasmise lo stesso avvolgente calore di un fuocherello appena acceso, lo stesso profumo resinoso e lo stesso colore ambrato. Respirò i profumi dolci della cucina, dell’olio e del vino, e quello mieloso della cera per legno con cui giusto ieri avevano lucidato tavoli e seggiole. «’giorno» biascicò, lasciando rimbalzare quel saluto nel vuoto silenzio della sala da pranzo. La voce era ancora impastata dal sonno, dalla bocca cattiva a causa della colazione saltata, e dal fiato umido che si condensò in un’ultima bolla sfumata fra i brividi delle sue labbra.

Valentina strofinò le suole sullo zerbino già sporcato da qualche incrostazione di fango e da una manciata di briciole di foglie secche. Ficcò l’ombrello bagnato nell’angolo. Si grattò la testa, sistemò il nastrino fra le ciocche gonfiate dall’umidità. Vedendola conciata così, qualcuno avrebbe potuto dire che avesse appena infilato l’indice in una presa della corrente. Abituandosi alla luce più calda della sala da pranzo, Valentina batté una palpebra alla volta, sentendole collose e insabbiate di stanchezza. Un’altra grattata alla tempia e una strofinata al nasino infreddolito. Aveva la testa ovattata dal sonno, pesante come una boccia piena d’acqua. Le orecchie fischiavano, assordate dall’incessante baccano dell’acquazzone e da quello ancor più doloroso dei suoi pensieri. Un tremolio costante le percorreva la schiena – brividi ancor più fitti e pungenti di quelli che le scivolavano sulla pelle quando le gocce di pioggia riuscivano a penetrarle gli abiti.

Inspirò, sentendo quel singhiozzo di fiato tornarle su e costringerla a massaggiarsi la gola e il petto. Il cuore di Valentina era strozzato da un cappio d’ansia che si stringeva ogni volta in cui lei provava a guadagnare una boccata di fiato più profonda, ogni volta in cui tentava di visualizzare le future immagini di quella giornata – mostro marino, zanne a punta, squame taglienti come gusci di conchiglia, coda a lancia capace di sfasciare una barca e di abbatterla con un colpo solo, occhi da rettile che brillavano nel buio come braci, fauci spalancate e alito putrescente che odora di carcasse di pesce – su cui aveva vegliato per tutta la notte. Una notte trascorsa a fissare il soffitto con occhi spalancati, le mani strizzate sulla coperta, i piedi arricciati in fondo al letto, e grovigli di nausea a sobbalzarle nello stomaco.

Ma oggi non aveva intenzione di farsi fermare dall’ombra dei dubbi o dalla voce della paura. Valentina aveva trascorso tutta la notte a riflettere su come approcciarsi a Bruno, su come potergli porgere una domanda tanto assurda. In conclusione, aveva realizzato che la soluzione migliore sarebbe stata quella di affrontarlo di petto, senza mezzi termini, senza giri di parole che comunque lei non sarebbe stata in grado di formulare. Sarebbe quindi salita al piano di sopra, avrebbe bussato alla porta della camera di Bruno, avrebbe aspettato che lui la facesse entrare, permettendole di sedersi sul letto. Poi lo avrebbe guardato negli occhi e gli avrebbe chiesto: “Bruno, sei o non sei un mostro marino che viene dal mare?” Sì, era proprio così che gli avrebbe chiesto. E quando Bruno le avrebbe risposto…

«Tina?» Angelo attraversò la sala da pranzo e posò su Valentina uno sguardo stupito. Sorresse la pila di tazze sporche che aveva sistemato sul vassoio che teneva sollevato con una mano sola. «Sei già qui?» le domandò. «Come mai così presto?»

Valentina accennò un sorriso di circostanza, sperando che il cupo grigiore che le cerchiava le palpebre non tradisse quella gessosa maschera di buonumore. Sfilò dalla manica la scusa migliore che si era già preparata durante il tragitto da casa all’osteria. «Ho preferito uscire di casa prima che si mettesse a diluviare forte come ieri.» Ma sta già diluviando forte come ieri, sciocca!

Ignorando la vocina della coscienza – quel giorno aveva voci ben più sagge e importanti da ascoltare – Valentina sbatacchiò la gonna sgualcita dalla corsa, strinse il nastrino fra i capelli dando una pettinata alle ciocche già crespe e gonfie, e attraversò anche lei la sala da pranzo accolta dai soliti e familiari profumini provenienti dalla cucina, quello del caffè appena schiumato dalla moka, quello del latte caldo che ancora fumava nel pentolone, e quello della crostata di amarene che Angelo aveva sfornato di mattina buonora.

Respirando quei profumi tiepidi e dolci, camminando attraverso l’aria asciutta e riscaldata dell’osteria, a Valentina sembrò di star galleggiando in una dimensione sospesa in cui non era padrona né del suo corpo né dei suoi pensieri. Quella mattina, ogni più piccola parte di sé era rivolta solo a Bruno. «Si sono già alzati tutti?» Si è già alzato Bruno? ecco quello che avrebbe voluto chiedere. «C’è già qualcuno a fare colazione?» Si disfò del cappotto, si strofinò le maniche del maglioncino che aveva indossato assieme alla gonna, la prima che aveva pescato dal guardaroba, e raggiunse la dispensa della cucina senza nemmeno essersi allacciata il grembiule in vita. Recuperò un vassoio, una manciata di cucchiaini, tazze asciutte, bicchieri puliti. «Se vuoi do una pulita ai tavoli.»

Angelo la raggiunse, scosse la testa. «No, stai tranquilla, li ho già preparati io.» Trasferì le tazze sporche dal vassoio all’acquaio, aprì il rubinetto evocando un vaporoso scroscio di acqua calda. «Tira fuori le tazzine da espresso, piuttosto, e dai una pulita a quelle grandi da caffellatte.»

«Agli ordini.» Ma Valentina avrebbe saputo essere delicata con Bruno, certo che sì. Si sarebbe premurata di fargli capire che lei non temeva di conoscere la verità, e che non avrebbe avuto paura del Mostro Marino Bruno esattamente come non aveva paura del Bruno Umano. Anche Bruno non avrebbe dovuto avere paura di condividere il suo segreto con lei.

Valentina sfilò un ultimo bicchiere dalla credenza. Una scia di tremori percorse il braccio ancora sollevato, la costrinse a stringere la presa per non far cadere il bicchiere. Impietrita, l’ultima sorsata d’aria a premerle sul petto, si morse il labbro, assorbì il pungente e ferroso sapore del vento piovano che aveva respirato per le strade del paese. Forse è un rischio. Posò il bicchiere sul vassoio, assieme al resto delle posate, e si strofinò le mani per sciogliere quella zampettata di brividi che, come una pioggerellina di spilli, le aveva accapponato la pelle. Forse sto davvero rischiando di essere divorata. Ma quella fredda scossa di paura non riuscì comunque a spegnere la fiamma, a privarla del desiderio di rischiare. Lo stupido e irresponsabile cuore di Valentina conosceva la verità: la paura di perdere Bruno era ben più terrificante di quella di finire sbranata da un mostro marino.

Guardò in alto, verso il soffitto che la divideva dalle camere del piano di sopra. Il peso sul petto si alleggerì, i brividi scivolarono via dalla pelle, i respiri successivi furono tiepidi e appaganti. Solo sapere che Bruno era lì vicino le colmava il cuore di fiducia e sicurezza. Valentina socchiuse gli occhi, si alzò sulle punte dei piedi per raggiungere la sua presenza anche solo col pensiero – il tocco della sua pelle ruvida e indurita dai calli, la tenerezza dei suoi rari sorrisi che poi si trasformavano in baci dolci e premurosi, le carezze sprofondate nella morbidezza dei suoi riccioli, tutto il mistero celato dietro quegli occhi grigi e gentili avvolti dalla costante penombra dei suoi segreti.

Valentina sorrise pensando che entro poco sarebbe stata assieme a lui, in quella camera profumata di legno, di lenzuola pulite, di abiti da lavoro e di saponetta al limone, dove si era sempre sentita al sicuro e dove lei e Bruno, abbracciati, le mani intrecciate e le guance vicine, avevano trascorso i momenti più indimenticabili di tutta l’estate. Non c’era assolutamente nulla di cui avere paura.

«Bruno è ancora malato, vero?» Valentina sistemò bicchieri e posate sui tavolini ancora vuoti, eccezion fatta per tovaglie e tovaglioli. Compì una mezza piroetta sulle punte dei piedi, saltellò fino a raggiungere Angelo. Raccolse la sua pila di tazze pulite e se la caricò sul vassoio per occuparsi anche di quelle. «Immagino non sia sceso a fare colazione. Gli porto io qualcosa.» Buttò un rapido sguardo verso la porta socchiusa della cucina. «È avanzato un po’ di caffè? E il latte è ancora caldo? Oggi per colazione c’era la crostata, vero? Gli porto una fetta anche di quella.»

Angelo strinse e riaprì le mani rimaste vuote, batté gli occhi ancora fissi sui palmi, compì un piccolo rimbalzo con la testa come se si fosse visto esplodere le tazze fra le dita. «Ma…» Un rauco sospiro di stupore gli tremolò fra le labbra rimaste socchiuse. «Ma come?» Rivolse lo sguardo a Valentina. Le sue sopracciglia si flessero verso l’alto, stropicciarono le rughe della fronte in un’espressione mortificata che gli fece luccicare gli occhi bagnati da una profonda compassione. «Non dirmi che non lo sai.»

Valentina fece per posare una delle tazze sul tavolo più vicino, ma la sua mano raggelò, bloccando il gesto a mezz’aria. Il tono sconsolato con cui Angelo aveva pronunciato la frase le trapassò la pancia come una coltellata, spezzandole il fiato nel petto e succhiandole il calore dalle guance.

Un freddo presentimento le artigliò le caviglie, si arrampicò su per le gambe e le fece tremare le ginocchia. «Non…» Valentina deglutì. Aveva la bocca impastata. Con ancora la mano stretta alla tazza e l’altra a sorreggere il peso traballante del vassoio, si girò verso Angelo, fronteggiando quegli occhi che sembravano chiederle scusa. «Non so che cosa?» E di nuovo ci fu quella vocina, quel pungente brivido soffiato dietro l’orecchio, che le disse di non voler per davvero conoscere la risposta che stava per arrivare.

Angelo guardò in basso. «Oh, Tina…» Si diede una nervosa grattata alla nuca, rimpicciolì le spalle, e di nuovo sfoggiò quella grigia espressione così avvilita e disarmata. Colpevole solo per sapere che… «Bruno è andato via.»

Attorno a Valentina si spalancò una voragine nera che inghiottì la luce del lampadario, soffiò un alito di ghiaccio sul tepore della sala da pranzo, sui profumi della cucina, e si riflesse nel baratro nero che aveva accerchiato i suoi occhi spalancati. I brividi di freddo aggrappati alle sue caviglie si arrampicarono lungo le gambe, le graffiarono la schiena, raggiunsero le spalle rattrappite, si tramutarono in un paio di mani viscide che si chiusero a strozzarle la gola. Le orecchie fischiarono, spensero il suono di ogni suo pensiero. Le venne da vomitare.

«Stamattina si è alzato all’alba» disse Angelo, senza sapere che Valentina non lo stava più nemmeno ascoltando. «Ha preso la sua valigia ed è andato subito alla stazione. Diceva che…»

Le pareti della stanza le trottolarono attorno, infittirono spire di ombre che, accerchiandola, sempre più strette e soffocanti, accrebbero quel nodo di nausea che le aveva ribaltato lo stomaco. Ancora frastornata dall’impatto improvviso di quella notizia, Valentina tremò. Tremò come se si fosse trovata sotto il diluvio che si stava consumando fuori dall’osteria. La pioggia a inzupparle le scarpe, a gocciolarle dagli abiti e dai capelli. La morsa di freddo a intorpidirle le guance, brividi incessanti a farle ballare le ginocchia. Non è vero. Socchiuse la bocca bianca e secca per guadagnare un filo di fiato e placare il bruciore scavato nel petto. Sbatté le ciglia per dissolvere la macchia nera che le aveva riempito la vista, fece scivolare un piede in avanti per tastare la solidità del pavimento e non sentirsi precipitare. Non è vero, sta mentendo, è una bugia, Bruno è di sopra, è di sopra e io adesso vado da lui. Urtò il tavolino, ansimò per lo spavento, e perse le forze sulle braccia diventate molli come gomma. Le mani, inerti, si schiusero e lasciarono scivolare il vassoio di tazze che precipitò sul pavimento.

Crush!

«… pensavo che tu – Tina!» Angelo si inginocchiò e si affrettò a raccogliere i cocci che erano esplosi sparpagliandosi fra i piedi di Valentina. Allungò una mano per tenere lontane le sue gambe immobili. «Non ti muovere, non calpestarli.» Si tastò la vita, le tasche vuote del grembiule, senza trovare lo strofinaccio. Si alzò dal pavimento facendo scricchiolare i cocci più piccoli sotto le suole. «Prendo una scopa e la pattumiera.»

Valentina non lo stava nemmeno ascoltando. Aveva ancora le mani aperte e lo sguardo fisso nel vuoto, vacillante come il suo respiro e come i battiti del suo cuore. Non si era nemmeno resa conto di quello che era successo. Non aveva nemmeno sentito il peso del vassoio scivolarle dalla presa e lo schianto delle tazze di porcellana frantumate sul pavimento. Le tazze si sarebbero potute rompere anche sulla sua testa – anzi, le sarebbe potuta crollare addosso l’intera osteria – e lei non avrebbe comunque battuto ciglio, non avrebbe mosso nemmeno un passo per schivare l’impatto. Bruno. Andato via? Cosa vuol dire che è andato via? «A…» Il nodo di fiato le si sciolse sulla lingua, spanse un calore pungente che risalì le guance e bruciò agli angoli delle palpebre già gonfiate dal primo sgorgo di lacrime. «Andato?» pigolò. La nera voragine di vuoto si annidò questa volta al centro del suo petto, come se la mano che prima l’aveva strangolata fosse penetrata in lei, strappandole il cuore e ogni suo battito di vita.

Guardò di nuovo verso il soffitto – occhi accerchiati da un’ombra grigia, i primi caldi grappoli di lacrime a vacillare fra i fili delle ciglia. Soffocò una pesante fitta al cuore che rispecchiava il vuoto lasciato da Bruno. Bruno che non si trovava più lassù in camera.

Angelo spazzò dentro la pattumiera anche l’ultimo bianco frammento di porcellana volato fin sotto le gambe del tavolo, usò lo strofinaccio umido per raccogliere dal pavimento anche le briciole più piccole e taglienti. «Fino a ieri non ne sapevo nulla nemmeno io.» Si aggrappò con una mano al tavolo, fece leva col braccio, e si rimise in piedi. Scosse la testa. I suoi occhi macchiati da una sincera compassione nei confronti di quella poveraccia di Valentina. «Non ha detto niente a nessuno. Stamattina ha fatto la valigia ed è andato alla stazione dicendo che la camera era libera e che non sarebbe tornato. Pensavo te l’avesse detto.» Le fu più vicino di un passo. Moderò il tono di voce come se qualcuno fosse stato lì a spiarli. «E pensavo che tu sapessi già qualcosa dato che tu e Bruno eravate diventati così…» Le parole gli vacillarono fra le labbra socchiuse. Angelo inspirò dal naso, strinse le spalle, rigirò il fagotto di cocci che aveva raccolto dal pavimento, e se lo infilò nella tasca del grembiule. «Ecco, amici.»

Gli occhi di Valentina si incendiarono gettandole sul viso un’ombra color carbone. Le goccioline di lacrime, ancora in bilico fra le palpebre, bruciarono di indignazione, accecandola davanti a quell’affermazione che avrebbe voluto fare a brandelli con le sue stesse mani.

Amici? Lei e Bruno? Era forse uno scherzo? Bruno non era un suo amico. Bruno era il suo ragazzo. L’ennesimo che mi pianta in asso, a quanto pare.

«Oh, Tina…» Accorgendosi dell’insorgere delle lacrime e del rossore delle guance, percependo il bruciore dei suoi brividi e udendo il gorgoglio della sua rabbia, Angelo le posò una mano sulla spalla. Un gesto paterno e protettivo. Anche lui soffriva nel saperla così sconvolta. Così umiliata. «Mi dispiace.» Strofinò una carezza gentile. «So che tenevi molto a lui, e che ti eri affezionata.»

Valentina inspirò a fondo dal naso. «Già.» Strizzò i pugni sui fianchi. Le nocche sbiancarono e le braccia ripresero a tremare come la sua voce. «Già, infatti.» E ora guarda come vengo ripagata…

Angelo strinse la mano che ancora teneva poggiata sulla spalla di Valentina. Soffiò un sospiro grave, amareggiato. Si strofinò la nuca e arricciò le labbra sotto i baffi. «Ora, ecco…» Mollò la spalla di Valentina e con la stessa mano gesticolò a mezz’aria, si allontanò di un passo da quei brividi scoppiettanti che temeva avrebbero potuto ustionarlo come l’olio che zampilla da una padella rovente. «Io non vorrei fare la parte di quello che rigira il dito nella piaga, ma noi te l’avevamo detto di non legarti troppo a lui. Sapevi che Bruno era qui solo di passaggio, e sai come funziona il lavoro degli stagionali.» Il suo sguardo tornò a luccicare, a esprimere una compassione sincera. «Sapevi che Bruno non sarebbe potuto fermarsi qua a lungo.»

A lungo…

Valentina aveva ancora addosso la maschera di quello sguardo impallato, fisso sul soffitto dove stavano galleggiando tutti quei pensieri che lei sentiva evaporare come nuvolette dalla sua testa rintronata.

Fermarsi qua a lungo. E infatti Bruno se n’è andato. Ma da quanto se n’è andato? All’alba, ha detto? Ma anche adesso è mattina presto, sono sicura che il primo treno non è ancora passato in stazione. Forse…

Una scintilla di luce schioccò davanti al suo sguardo, bruciò la fredda tensione che le aveva contratto le spalle, e rilassò la tensione dei pugni, quella delle unghie che avevano solcato profondi segni rossi nei palmi. Un caldo formicolio le riempì la pancia, pizzicò le guance e fece tornare i colori nei suoi occhi spalancati.

Forse c’è ancora una speranza. Una piccola. «I…» Valentina si bagnò le labbra da cui era soffiato quel sibilo. «Il treno…» Rivolse lo sguardo ad Angelo, non più allo spoglio soffitto. I suoi pensieri fecero ritorno a terra, dove dovevano essere. «Il treno» ribadì. «A che ora…» Valentina strofinò una mano sugli occhi per far riassorbire le lacrime che era riuscita a tenere imprigionate fra le ciglia. «A che ora ha detto che aveva il treno?» Era di nuovo padrona del rimbombo della sua voce, del fitto pulsare delle sue tempie, del sangue che le bruciava in gola e fra le guance, del battito del suo cuore che, accelerando, stava già minacciando di scappare dal petto e di volare in direzione della stazione. «Almeno questo te l’ha detto?»

Angelo strinse le labbra, sollevò le spalle. «Dunque…» A braccia conserte, si massaggiò il mento, sfregò il ruvido velo di barba arrampicato sulle sue guance. «Prendeva la prima corsa delle sette, se non sbaglio.»

La corsa delle sette.

Valentina torse il capo per lanciare uno sguardo fulmineo all’orologio appeso alla parete. La lancetta dei secondi batté e avanzò, segnò le sette meno dieci.

Il cuore di Valentina si spalancò e accolse la gloriosa speranza di quella visione, tutta quella luce che le ridonò fiato nel petto e forza nelle gambe.

Sono ancora in tempo!

«Ma non so nemmeno dove fosse diretto» borbottò Angelo. «Se verso Genova o verso La Spezia. Ma può anche darsi che stia tornando in Veneto dove ha lavorato la scorsa estate, quindi non – Tina!»

Più veloce del tempo che scorreva, Valentina era già volata via, seguita dallo sventolio della gonna e dal ruzzolante eco dei suoi passi in corsa.

«Tina, aspetta!» Angelo la rincorse attraverso la cucina, fino all’anticamera ancora macchiata dalle pozzanghere di pioggia che Valentina aveva seminato dietro di sé dopo essere entrata. «Non fare pazzie» la ammonì. «Non sai nemmeno se…»

Valentina scagliò una pedata sulla porta che rimbalzò sul muro esterno, tornò indietro solo di poco, e spalancò davanti a lei la grigia visione della strada, del paese inondato dal torrente di pioggia. Si tuffò sotto il diluvio come si sarebbe tuffata nel mare se si fosse trattato di andare a recuperare Bruno negli abissi più profondi. La pioggia le martellò il viso e le spalle, le rotolò fra i capelli e scivolò, viscida e fredda, sotto gli abiti, fino a gocciolarle di nuovo dentro gli stivaletti. Valentina frenò la corsa schizzando fangosi zampilli dalle pozzanghere. Tornò indietro, raccolse l’ombrello abbandonato sulla soglia, lo spalancò, si rimise a correre controvento. Una folata d’aria la investì, gonfiò il telo dell’ombrello tirandola indietro, la costrinse a fermarsi una seconda volta, ad aprirlo fino in fondo, a scuoterlo senza riuscire a far scattare la levetta della chiusura.

Valentina soffocò fra i denti un grido di frustrazione. I capelli bagnati a gocciolarle sulle labbra, la pioggia a pungerle le guance arrossate, e le dita pizzicate dagli scatti ripetuti della chiusura dell’ombrello. «Maledizione, stupido affare del…» Scagliò l’ombrello contro la parete della casa più vicina – il telo si spalancò come una corolla –, e lo calciò per levarselo dai piedi. Saltò oltre un rigagnolo di pioggia rigurgitato da una grondaia e corse in direzione della stazione, inseguendo quella speranza di essere ancora in tempo, di non averlo ancora perso.

   
 
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