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Autore: Cathy Holland    12/03/2024    1 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
A causa di un problema tecnico, l'aggiornamento della storia è sospeso fino a martedì 21 maggio, poi riprenderà regolarmente.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 8
IL FILO SOSPESO

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

Vittoria staccò le dita dal pianoforte, mentre l’ultimo accordo di un brano tratto dalla colonna sonora della Città incantata si spegneva nell’aria. Si sgranchì le mani. Mentre riacquistava consapevolezza del mondo intorno a lei e del suo stesso corpo si accorse che aveva un crampo alla mano destra, un dolore sordo che lentamente diventava bruciante. Le succedeva spesso, quando suonava così a lungo da perdere la cognizione del tempo. Doveva essere seduta al piano da quasi un’ora, senza avvertire nulla se non le note che la circondavano e la sensazione dei tasti sotto le dita. Adesso, di colpo, sentiva tutto insieme: il dolore che le aggrediva la mano, molta sete, un po’ di fame e un gran bisogno di sgranchirsi le gambe. Era sempre così. Il ritorno alla realtà non era piacevole.
Si alzò e fece qualche passo nel salotto del baglio. Si avvicinò a una vetrina in un angolo che ospitava una collezione di porcellane dipinte: un giovanissimo pescatore con un pantalone rosso che trasportava una cesta di pesci, una lavandaia dal sorriso lezioso, due ninfe tra i fiori. Intanto eseguiva alcuni piccoli esercizi di stretching con la mano destra e il dolore si attutiva lentamente, ma aveva comunque bisogno di una pausa.
Era lunedì mattina ed era il terzo giorno che trascorreva lì a suonare. Suo padre la accompagnava sempre e mentre lei era al piano lui lavorava. Quando poi Vittoria saliva a salutare Edoardo, la scortava sulla terrazza dove il vecchio passava le giornate guardando il mare, come una silenziosa, impassibile guardia del corpo. In quei tre giorni, Vittoria era riuscita a scambiare qualche parola di poco conto con il nonno, ma nulla di più. Non era più vicina al suo obiettivo di quando si trovava a Milano. Edoardo stava troppo male per parlare a lungo e la presenza di suo padre era un ostacolo: non poteva fare domande scomode davanti a lui, che le evitava da quindici anni, con i suoi occhi attenti che le perforavano la schiena. Vittoria era delusa e, da come suo padre la guardava, si rendeva conto che lui lo capiva, sebbene non facesse commenti. Eppure, se anche Edoardo fosse stato più in forze e Stefano non fosse stato sempre presente, doveva ammettere che non avrebbe saputo da dove cominciare. Iniziava a pensare che non sarebbe stato affatto semplice, che forse era impossibile. Con un sospiro passò nella sala da pranzo e uscì sul ballatoio.
Stefano era seduto a un tavolo circolare di ferro battuto che Rosalia aveva fatto portare lì perché avesse una postazione di lavoro. Aveva il Mac aperto davanti a sé, scorreva un grafico colorato con il mouse incorporato e intanto parlava al telefono con voce sommessa. Vittoria fece un mezzo sorriso. Le ferie per lui erano sempre state un concetto nebuloso: anche quando era in vacanza con la famiglia, si portava dietro il computer e il tablet e trovava il modo di lavorare un po’. Le era capitato spesso di alzarsi di notte per bere un bicchiere d’acqua e trovarlo al computer. Eppure non toglieva mai neanche mezz’ora di tempo a lei e a sua madre. Faceva in un’ora quello per cui i suoi colleghi impiegavano giorni e Vittoria non ricordava che le avesse mai detto di no quando lei gli chiedeva di guardare una serie tv insieme o di andare a mangiare un gelato. Si avvicinò al tavolo e Stefano le rivolse un sorriso rapido senza smettere di parlare al telefono.
«L’affare Durings era praticamente già nostro. Sarà chiuso tra dieci giorni al massimo e avremo raggiunto gli obiettivi» disse con tono tranquillo. Una breve pausa. «Sì, Alessandra, ho sentito Patrick» continuò e la sua voce cambiò appena, impercettibilmente. Vittoria capì che stava parlando con Alessandra De Angelis, il CEO italiano della banca. Era una specie di grande capo ed era una buona amica di suo padre: si davano del tu, prendevano il caffè insieme e organizzavano cene con le rispettive famiglie. «Ma non so quanto sia utile: insomma, è il risk manager, ma ha deciso che non vuole rischiare. È come se un ristorante vegano mettesse bistecche sul menù: non sta facendo quello che dovrebbe fare.»
Un’altra pausa, un po’ più lunga, questa volta. Vittoria sedette di fronte a suo padre. Sul tavolo rivestito di maioliche bianche e rosse che tracciavano il disegno di una grande stella marina c’era un vassoio con un piatto di biscotti, una caraffa di cristallo piena di limonata e due bicchieri alti. «Il rischio c’è sempre, ma è calcolato, fino all’ultimo centesimo. E poi lo sai che per me la prudenza è sopravvalutata. Io credo nel fare la cosa giusta al momento giusto e allora non serve essere prudenti. Dobbiamo vendere e dobbiamo farlo adesso.» Altra pausa. Vittoria versò un po’ di limonata in uno dei bicchieri di cristallo lavorato e ne prese un sorso, poi fece una smorfia: non era più deliziosamente fresca come aveva sperato. «Certo, senz’altro. Ti richiamo quando avrò guardato gli ultimi file che mi ha mandato Patrick. A dopo.» Stefano chiuse la telefonata, fece un sospiro come per buttare fuori qualcosa e le sorrise di nuovo. «Ehi, piccola. Ti sei decisa a fare una pausa.»
«Anche tu avresti bisogno di una pausa, mi sa.»
«Una connessione decente, ecco di cosa ho bisogno. Questo posto è il mio inferno personale. Non riesco neanche a lavorare» ribatté lui in tono secco, scorrendo il grafico sul computer con il mouse.
Vittoria abbassò gli occhi, mortificata. Per Stefano non c’era niente di peggio che non poter lavorare al massimo delle sue possibilità ed era colpa sua se stava succedendo. «Mi dispiace.»
Lui le lanciò un’occhiata e il suo volto cambiò immediatamente. «No, non ti preoccupare. Lo sai che mi piacciono le sfide.»
Vittoria assentì. Sapeva che stava cercando di rassicurarla e di solito sapeva sempre come riuscirci, ma questa volta era tutto così strano e complicato. Guardò la caraffa ricoperta da una leggera condensa.
«Da quanto tempo è qui questa roba? Non l’hai nemmeno vista?» chiese, ironica, accennando al vassoio. I biscotti erano ancora tutti lì e il bicchiere di suo padre sembrava intatto. Mentre lavorava, Stefano dimenticava spesso la realtà e si isolava completamente, proprio come lei quando era al pianoforte. Lui scoccò un’occhiata al vassoio come se davvero lo notasse in quel momento per la prima volta, ma invece di ridere o di rispondere a tono, come avrebbe fatto normalmente, si incupì.
«Erano i preferiti di mia madre. I biscotti, intendo.»
Vittoria li fissò a sua volta. Li aveva già assaggiati nei giorni precedenti: erano a base di miele e pistacchio, con una doratura croccante e un profumo che riempiva l’aria. «Pensi più spesso a lei da quando siamo qui?» azzardò, un po’ incerta. Stefano non amava parlare molto neanche di sua madre. Quando Vittoria chiedeva di lei gli compariva una ruga tra le sopracciglia e gli occhi si riempivano di tristezza. Tra tutti gli argomenti del passato, però, era l’unico che riuscisse ad affrontare più liberamente, senza alzare un muro.
Lui rimase zitto per qualche secondo, lo sguardo rivolto al cortile deserto e soleggiato. C’era sempre un’atmosfera immobile, in quella casa, sospesa nel sole accecante e nel caldo soffocante. Il baglio sembrava disabitato, addormentato sotto un incantesimo.
«Mi sembra di vederla ovunque» rispose Stefano, con tono calmo e controllato. «Ho stampata nella mente l’ultima immagine che ho di lei, quando sono partito, da bambino. Era un giorno d’estate come questo. Mi ha svegliato prestissimo, quando il cielo era ancora grigio, e mi ha accompagnato al porto. Qui tutti dormivano ancora e lei mi aveva detto che sarei andato via solo la sera prima, così non ho potuto salutare nessuno. Ma mia madre voleva così, credo. Pensava che sarebbe stato più facile per me. Mi ha abbracciato soltanto una volta, così forte da farmi male. Poi mi ha detto “Vai”. Non le è uscita neanche una lacrima. Non piangeva mai, ma io ho capito che in quel momento si tratteneva per me, per darmi forza. Allora mi sono costretto a imitarla, a non piangere, anche se avrei tanto voluto farlo. Sono salito sul traghetto con la signora che doveva accompagnarmi e sono rimasto sul ponte a guardarla fino a che il traghetto si è allontanato troppo e lei è diventata una macchia indistinta. Non si è mai mossa, finché è riuscita a vedermi. E dopo… non so perché, ma ogni volta che pensavo a mia madre la immaginavo ancora lì, ferma sul molo, a guardare verso di me… le braccia lungo i fianchi, i capelli neri lunghissimi sulle spalle e il vestito bianco.» Tacque, senza cambiare espressione. Sembrava perso nei ricordi, come se rivivesse quel momento che si svolgeva davanti ai suoi occhi di nuovo, proprio come lo aveva appena descritto. «Non l’ho più rivista» aggiunse alla fine.
Vittoria sentiva una tristezza pesante che le era scivolata addosso e la avvolgeva come un bozzolo. Aveva sempre cercato di immaginare il dolore che doveva aver provato suo padre a essere strappato via di colpo, bambino, dalla sua casa, da sua madre, dal fratello-amico con cui era cresciuto per andare incontro a una vita nuova e del tutto sconosciuta. Non ci riusciva mai in modo soddisfacente. L’ombra che scorgeva negli occhi di suo padre quando ne parlavano restava qualcosa di insondabile per lei.
«È morta due anni dopo che sei andato via, giusto?»
Stefano fece un breve cenno di assenso. «Si è ammalata all’improvviso e non è stato possibile fare nulla. Volevo tornare, venire a trovarla, ma non me lo ha permesso. Ha proibito a sua sorella di riportarmi qui.» Fece una piccola pausa e strinse le labbra. «Quando mi ha mandato via, non lo ha saputo nessuno finché non è stato troppo tardi per impedirlo. Non so come abbia reagito Edoardo. Non gli importava chissà quanto di me, ma… sicuramente non gli piace quando qualcosa che ritiene che gli appartenga viene portata via sotto il suo naso.» Sul suo viso si disegnò un ghigno che scomparve quasi subito. «Credo che mia madre… Credo che avesse paura che se fossi tornato, anche solo una volta, Edoardo avrebbe preteso che restassi e dopo la sua morte chi avrebbe potuto fermarlo? Pensava che tutta questa situazione mi avrebbe rovinato la vita. E poi… probabilmente, per come era fatta lei, non voleva che la vedessi malata, così diversa rispetto al passato. Mi disse che era più felice pensando che io la ricordavo come era prima.»
«Secondo te aveva ragione? Cioè, ha fatto bene a non farti tornare, neanche per il suo funerale?» indagò Vittoria con cautela. Non poteva immaginare niente di peggio, ma non voleva esprimere nessun giudizio. Avrebbe solo causato ulteriore dispiacere a suo padre.
Stefano espirò lentamente, lo sguardo lontano. Alzò le spalle. «Onestamente non lo so. Con il tempo sono riuscito a capirla, a capire perché lo ha fatto.» Le lanciò un’occhiata rapidissima prima di proseguire. «Ma all’epoca io… avrei voluto solo abbracciarla di nuovo. Per un po’ di tempo sono stato molto arrabbiato con lei. Poi sono cresciuto. Sono diventato padre e… ho capito. Vorrei solo averle detto addio.»
Vittoria allungò la mano sul tavolo e prese quella di lui e Stefano la strinse automaticamente, l’espressione ancora distante e pensierosa. Non era davvero lì con lei, in quel momento. Poi il suo telefono iniziò a vibrare. Lui si riscosse, lo afferrò di malavoglia e guardò il display.
«È Patrick. Devo rispondere» mugugnò. «Scusa, piccola.» Si alzò, portando il telefono all’orecchio, e rispose in inglese, mentre si allontanava lungo la terrazza dal lato opposto rispetto alle scale che scendevano nel cortile.
Vittoria rimase ad ascoltarlo per un po’, sorseggiando la limonata ormai tiepida e mangiando un biscotto. Suo padre aveva una pronuncia inglese perfetta, grazie ai viaggi frequenti a Londra e a New York per lavoro, e Vittoria aveva dovuto sopportare una valanga di battute delle sue amiche che parlavano di prendere ripetizioni di inglese da lui. Oltre che di matematica, dal momento che risolveva problemi ed esercizi semplicemente guardandoli. Alla fine era riuscita a costringerle a smettere. Avere genitori giovani e belli poteva essere un problema enorme.
Giocherellò con il telefono e scorse un po' le bacheche dei social e ogni tanto lanciava uno sguardo a suo padre, che era ancora al telefono, in piedi accanto alla balaustra di pietra, e le dava di spalle. Sembrava che non dovesse chiudere a breve, così si alzò e tornò in salotto. Sedette di nuovo sullo sgabello del pianoforte e sfogliò con delicatezza gli spartiti ingialliti e macchiati dal tempo che aveva trovato sul leggio. In quei giorni aveva suonato quasi sempre brani presi da lì, perché immaginava che Edoardo li conoscesse e gli facesse piacere ascoltarli. Ogni tanto, però, faceva a modo suo e suonava quello che le passava per la testa, come la colonna sonora della Città incantata.
Prese il telefono dalla tasca e cercò uno spartito su Google, poi lo sistemò sul leggio, sopra i vecchi spartiti. Mosse le dita per riscaldarle, le posò con leggerezza sui tasti, prese un respiro profondo e attaccò le prime note del terzo movimento della Sonata n. 14 di Beethoven. Era un pezzo complicato, su cui aveva iniziato a lavorare dopo il saggio di fine anno, e le sembrava di essere ancora in alto mare. Suo malgrado, quando fosse tornata a scuola avrebbe chiesto consiglio alla Grandi sui passaggi che le venivano peggio.
Ogni volta che sedeva al pianoforte a suonare le tornava in mente perché lo faceva e perché non avrebbe mai potuto smettere: solo quando le sue dita scorrevano sui tasti avvertiva quella sensazione, come un calore liquido che le scorreva sulla pelle, su tutto il corpo, simile a un milione di piccole scosse di elettricità. Era piacevole e al tempo stesso quasi doloroso. Aveva tentato più volte di spiegarlo alle persone che non suonavano, come i suoi genitori, ma dalle loro espressioni vacue capiva sempre di non esserci riuscita. Forse non era una sensazione che si potesse esprimere a voce. Solo la musica era in grado di fargliela provare ed era per questo che anche se a volte era esausta e faceva i salti mortali per conciliare il pianoforte con la scuola e il tennis e le uscite con le amiche e gli altri impegni, anche se a volte, dopo ore di lezione, aveva crampi così forti da dover mettere il ghiaccio sulle mani e ancora non riusciva a suonare come avrebbe desiderato e le veniva voglia di lanciare gli spartiti dalla finestra, alla fine tornava a sedersi sullo sgabello, dimenticava tutto e ricominciava.
Eccolo di nuovo, mentre si sforzava sugli accordi velocissimi e ravvicinati di Beethoven simili a una cascata di note che si inseguivano, un po’ giocose e un po’ arrabbiate: quel brivido delizioso, tormentoso, che cresceva con la musica, le percorreva il corpo, le infuocava la pelle. Chiuse gli occhi quando arrivò a un punto che ricordava a memoria, eppure, stranamente, non riusciva a staccarsi dalla realtà come le accadeva sempre. Stavolta c’era qualcosa che la teneva ancorata lì, qualcosa che stonava e le faceva prudere la nuca, come se all’improvviso stesse premendo i tasti sbagliati, solo che non era così.
Aprì gli occhi e smise di colpo di suonare: sulla soglia della portafinestra, a metà strada tra l’esterno e l’interno, come se fosse indeciso se entrare o allontanarsi, c’era qualcuno. Un uomo, che la fissava. Vittoria incrociò il suo sguardo. Capì chi fosse immediatamente, d’istinto, e il cuore le si fermò nel petto. Aprì la bocca per la sorpresa, ma non ne uscì alcun suono. Poi la figura si voltò in fretta e uscì di nuovo sulla terrazza, tornando da dove era venuta. Lei rimase lì seduta per qualche istante, paralizzata, le mani ancora sulla tastiera e la bocca spalancata. Balzò in piedi, afferrò il telefono così rapidamente che per poco non le sfuggì tra le dita e gli schizzò dietro. Uscì fuori, lanciandosi tra le tende bianche, si guardò intorno. L’uomo si stava allontanando a passo svelto verso sinistra, in direzione della scala di pietra che scendeva nel cortile. Dalla parte opposta arrivava, attutita, la voce di Stefano, ancora al telefono. Dopo un attimo di indecisione, Vittoria andò verso le scale, avvicinandosi all’uomo che si allontanava.
«Enrico!» Lui si fermò bruscamente, come se lei gli avesse lanciato qualcosa, ma rimase di spalle. Vittoria accelerò il passo e lo raggiunse. «Enrico?» disse di nuovo, a voce più bassa, come per avere conferma della sua identità.
Passò forse qualche secondo, poi lui si girò piano e finalmente Vittoria riuscì a vederlo bene in faccia. La prima cosa che la colpì fu che non somigliava per niente a suo padre o almeno non a una prima osservazione superficiale. Condividevano soltanto gli occhi azzurri, il colore dei Falconeri che avevano anche i suoi occhi. Rispetto a Stefano era più basso, anche se di poco, aveva una carnagione più chiara e lineamenti meno perfetti, ma delicati e gradevoli. I capelli erano di un morbido castano. Eppure, nonostante le differenze, si percepiva una vaga somiglianza. Forse era per il fisico snello e forte o il portamento elegante o quell’aria inconfondibile da uomo d’affari, accentuata dal completo blu chiaro con una camicia azzurra e una cravatta bordeaux a piccoli disegni. Vittoria aveva osservato abbastanza il guardaroba di suo padre da intuire che l’abbigliamento di Enrico doveva essere molto costoso.
Fece un respiro profondo, all’improvviso imbarazzata, mentre si fissavano a vicenda, immobili. E adesso? Non lo aveva mai visto prima, non lo conosceva per niente, eppure lo aveva inseguito e bloccato e doveva per forza far uscire qualcosa dalla bocca. Possibilmente qualcosa di intelligente.
«Sono Vittoria. La figlia di Stefano.»
Il primo tentativo poteva considerarsi fallito. Certo che era la figlia di Stefano. Quante altre quindicenni avevano l’opportunità di girare in casa sua? Arrossì. Enrico la osservò senza parlare ancora per un attimo, poi fece un secco cenno di assenso.
«So chi sei.»
Cadde il silenzio. Vittoria spostò il peso da un piede all’altro, sempre più a disagio. Come sempre quando era in difficoltà, prese a giocherellare con il ciondolo a forma di farfalla.
«Io… ehm… non sapevo che… Non eri via per… lavoro?»
«Sono tornato prima.» Enrico abbassò lo sguardo. Aveva le mani nelle tasche e la postura rigida e doveva essere un po’ strano anche per lui, incontrare per la prima volta sua nipote così all’improvviso. Per qualche misteriosa ragione, quell’idea la tranquillizzò. Gli rivolse un sorriso impacciato. «Pensavo che vi sareste fermati solo per il week end. È lunedì.»
Il tenue sorriso le si congelò in fretta. Una volpe che avvista un cacciatore avrebbe avuto più entusiasmo dello zio nel trovarla lì. Il suo sguardo azzurro era freddo come il mare in pieno inverno e sembrava chiuso, come se una tenda fosse stata tirata per nasconderne le profondità.
«Ehm… Sì, ci fermiamo qualche giorno in più. Sto… suonando qualcosa per Edoardo» provò a spiegare, anche se di colpo, senza motivo, le parve una cosa molto stupida. Esitò, cercando qualcosa da aggiungere. «Pensavo che gli avrebbe fatto piacere e…»
«Cosa?» la interruppe Enrico. La fissava con la fronte aggrottata e l’aria perplessa, come se lei parlasse in cinese. In effetti non era stata molto brava a spiegare la situazione. Vittoria prese fiato e riprovò.
«Be’, io… Quando ha saputo che suono il piano mi è sembrato felice, così ho pensato…» Tacque, mentre si rendeva conto che lui non la ascoltava più: i suoi occhi avevano catturato qualcosa alle spalle di lei ed erano diventati di pietra. Prima che Vittoria potesse girarsi per capire cosa succedeva, arrivò una voce da dietro di lei.
«Enrico.»
Era Stefano. Apparve all’improvviso al fianco di Vittoria, silenzioso come un gatto. Gettò un’occhiata rapida e indecifrabile verso di lei, poi spostò gli occhi sul fratello e i due si studiarono in silenzio per qualche secondo. Suo padre era immobile, quasi una statua, eppure Vittoria aveva la sensazione che fosse pronto a scattare da un momento all’altro.
«Stefano» rispose infine Enrico, il tono così gelido e distaccato che lei si irrigidì a sua volta. Mentre loro due se ne stavano lì a valutarsi a vicenda, la colpì come mai prima di allora la consapevolezza che non si vedevano da quindici anni e tutto quel tempo sembrava essersi solidificato tra loro, diventando un muro invalicabile. Spostò lo sguardo allarmato dall’uno all’altro, attenta e ansiosa. E se avessero iniziato a litigare? Sarebbe stata colpa sua, soltanto colpa sua, perché era stata lei a voler rimanere.
Poi suo padre parlò ancora, tranquillo e controllato. «Che sorpresa. Non ci aspettavamo di vederti.»
«Riparto domani» rispose subito Enrico e Vittoria pensò che lo avesse deciso in quell’esatto istante. Continuava a spostare lo sguardo dal padre allo zio, come se seguisse una partita di tennis. Nonostante i toni di ghiaccio e le espressioni scure, tra loro c’era qualcosa. Le parole che si scambiavano sembravano viaggiare su un filo sospeso e invisibile, almeno per lei. Era soltanto il legame di sangue che li univa, malgrado tutto, o c’era dell’altro? All’improvviso sentì la mano di suo padre sulla spalla, il braccio di lui che la stringeva con fermezza.
«Buon viaggio, allora. Meglio se andiamo, è tardi. Ciao, Enrico.» Se la tirò dietro, piano, ma senza esitazione.
Il filo sospeso si spezzò.
Vittoria aprì la bocca, sconcertata, e tentò di dire qualcosa, ma ancora una volta le parole le morirono in gola. Era troppo frastornata per reagire in qualche modo, anche se avrebbe voluto almeno salutare lo zio che aveva appena conosciuto. Era successo tutto troppo in fretta ed era stato tutto molto più strano e imbarazzante di quanto avesse mai immaginato. Era come un brutto sogno. Raggiunsero il tavolo, Stefano infilò il portatile nella borsa con gesti misurati, ma determinati, e la condusse verso le scale. Lei si voltò un attimo indietro a guardare Enrico, che era rimasto fermo e li seguiva con gli occhi: sembrava una statua pietrificata sotto il sole.
«Papà… papà, non è tardi» provò a protestare debolmente, sebbene sapesse che era inutile. Suo padre stava soltanto scappando e nulla lo avrebbe fermato, ma lei non sopportava di farsi trascinare via così, come una bambina, senza una parola di spiegazione. Lui non rispose e Vittoria pensò che forse non l’aveva neanche sentita.

Scesero in cortile, salirono in auto, Stefano mise in moto e un attimo dopo stavano già sfrecciando a velocità sostenuta lungo la strada, il baglio che si allontanava rapidamente dietro di loro. Vittoria si girò per lanciargli un’ultima occhiata, come per accertarsi che fosse davvero lì e che non fosse stato tutto un sogno, poi guardò suo padre: teneva gli occhi fissi sulla strada, evitando accuratamente di incontrare i suoi, perché sapeva che vi avrebbe letto domande alle quali non voleva rispondere. Non ci sarebbe stata nessuna spiegazione, neanche questa volta. Vittoria serrò le dita sul bordo del sedile del passeggero e voltò la testa di scatto per guardare fuori.

   
 
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