CAPITOLO 8
IL FILO
SOSPESO
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Vittoria
staccò le dita
dal pianoforte, mentre l’ultimo accordo di un brano tratto
dalla colonna sonora
della Città incantata si spegneva
nell’aria. Si sgranchì le mani. Mentre
riacquistava consapevolezza del mondo intorno a lei e del suo stesso
corpo si
accorse che aveva un crampo alla mano destra, un dolore sordo che
lentamente
diventava bruciante. Le succedeva spesso, quando
suonava così a lungo da
perdere la cognizione del tempo. Doveva essere seduta al piano da quasi
un’ora,
senza avvertire nulla se non le note che la circondavano e la
sensazione dei
tasti sotto le dita. Adesso, di colpo, sentiva tutto insieme: il dolore
che le
aggrediva la mano, molta sete, un po’ di fame e un gran
bisogno di sgranchirsi
le gambe. Era sempre così. Il ritorno alla realtà
non era piacevole.
Si alzò e fece qualche
passo nel salotto del baglio. Si avvicinò a una vetrina in
un angolo che
ospitava una collezione di porcellane dipinte: un giovanissimo
pescatore con un
pantalone rosso che trasportava una cesta di pesci, una lavandaia dal
sorriso
lezioso, due ninfe tra i fiori. Intanto eseguiva alcuni piccoli
esercizi di
stretching con la mano destra e il dolore si attutiva lentamente, ma
aveva
comunque bisogno di una pausa.
Era lunedì mattina ed
era il terzo giorno che trascorreva lì a suonare. Suo padre
la accompagnava
sempre e mentre lei era al piano lui lavorava. Quando poi Vittoria
saliva a
salutare Edoardo, la scortava sulla terrazza dove il vecchio passava le
giornate guardando il mare, come una silenziosa, impassibile guardia
del corpo.
In quei tre giorni, Vittoria era riuscita a scambiare qualche parola di
poco
conto con il nonno, ma nulla di più. Non era più
vicina al suo obiettivo di
quando si trovava a Milano. Edoardo stava troppo male per parlare a
lungo e la
presenza di suo padre era un ostacolo: non poteva fare domande scomode
davanti
a lui, che le evitava da quindici anni, con i suoi occhi attenti che le
perforavano la schiena. Vittoria era delusa e, da come suo padre la
guardava,
si rendeva conto che lui lo capiva, sebbene non facesse commenti.
Eppure, se
anche Edoardo fosse stato più in forze e Stefano non fosse
stato sempre
presente, doveva ammettere che non avrebbe saputo da dove cominciare.
Iniziava
a pensare che non sarebbe stato affatto semplice, che forse era
impossibile.
Con un sospiro passò nella sala da pranzo e uscì
sul ballatoio.
Stefano era seduto a un
tavolo circolare di ferro battuto che Rosalia aveva fatto portare
lì perché
avesse una postazione di lavoro. Aveva il Mac aperto davanti a
sé, scorreva un
grafico colorato con il mouse incorporato e intanto parlava al telefono
con
voce sommessa. Vittoria fece un mezzo sorriso. Le ferie per lui erano
sempre
state un concetto nebuloso: anche quando era in vacanza con la
famiglia, si
portava dietro il computer e il tablet e trovava il modo di lavorare un
po’. Le
era capitato spesso di alzarsi di notte per bere un bicchiere
d’acqua e
trovarlo al computer. Eppure non toglieva mai neanche
mezz’ora di tempo a lei e
a sua madre. Faceva in un’ora quello per cui i suoi colleghi
impiegavano giorni
e Vittoria non ricordava che le avesse mai detto di no quando lei gli
chiedeva
di guardare una serie tv insieme o di andare a mangiare un gelato. Si
avvicinò
al tavolo e Stefano le rivolse un sorriso rapido senza smettere di
parlare al
telefono.
«L’affare Durings era
praticamente già nostro. Sarà chiuso tra dieci
giorni al massimo e avremo
raggiunto gli obiettivi» disse con tono tranquillo. Una breve
pausa. «Sì,
Alessandra, ho sentito Patrick» continuò e la sua
voce cambiò appena,
impercettibilmente. Vittoria capì che stava parlando con
Alessandra De Angelis,
il CEO italiano della banca. Era una specie di grande capo ed era una
buona
amica di suo padre: si davano del tu, prendevano il caffè
insieme e
organizzavano cene con le rispettive famiglie. «Ma non so
quanto sia utile:
insomma, è il risk manager, ma ha deciso
che non vuole rischiare. È come
se un ristorante vegano mettesse bistecche sul menù: non sta
facendo quello che
dovrebbe fare.»
Un’altra pausa, un po’
più lunga, questa volta. Vittoria sedette di fronte a suo
padre. Sul tavolo
rivestito di maioliche bianche e rosse che tracciavano il disegno di
una grande
stella marina c’era un vassoio con un piatto di biscotti, una
caraffa di cristallo
piena di limonata e due bicchieri alti. «Il rischio
c’è sempre, ma è calcolato,
fino all’ultimo centesimo. E poi lo sai che per me la
prudenza è
sopravvalutata. Io credo nel fare la cosa giusta al momento giusto e
allora non
serve essere prudenti. Dobbiamo vendere e dobbiamo farlo
adesso.» Altra pausa.
Vittoria versò un po’ di limonata in uno dei
bicchieri di cristallo lavorato e
ne prese un sorso, poi fece una smorfia: non era più
deliziosamente fresca come
aveva sperato. «Certo, senz’altro. Ti richiamo
quando avrò guardato gli ultimi file
che mi ha mandato Patrick. A dopo.» Stefano chiuse la
telefonata, fece un
sospiro come per buttare fuori qualcosa e le sorrise di nuovo.
«Ehi, piccola.
Ti sei decisa a fare una pausa.»
«Anche tu avresti
bisogno di una pausa, mi sa.»
«Una connessione
decente, ecco di cosa ho bisogno. Questo posto è il mio
inferno personale. Non
riesco neanche a lavorare» ribatté lui in tono
secco, scorrendo il grafico sul
computer con il mouse.
Vittoria abbassò gli
occhi, mortificata. Per Stefano non c’era niente di peggio
che non poter
lavorare al massimo delle sue possibilità ed era colpa sua
se stava succedendo.
«Mi dispiace.»
Lui le lanciò
un’occhiata e il suo volto cambiò immediatamente.
«No, non ti preoccupare. Lo
sai che mi piacciono le sfide.»
Vittoria assentì.
Sapeva che stava cercando di rassicurarla e di solito sapeva sempre
come
riuscirci, ma questa volta era tutto così strano e
complicato. Guardò la caraffa
ricoperta da una leggera condensa.
«Da quanto tempo è qui
questa roba? Non l’hai nemmeno vista?» chiese,
ironica, accennando al vassoio.
I biscotti erano ancora tutti lì e il bicchiere di suo padre
sembrava intatto. Mentre
lavorava, Stefano dimenticava spesso la realtà e si isolava
completamente,
proprio come lei quando era al pianoforte. Lui scoccò
un’occhiata al vassoio
come se davvero lo notasse in quel momento per la prima volta, ma
invece di
ridere o di rispondere a tono, come avrebbe fatto normalmente, si
incupì.
«Erano i preferiti di
mia madre. I biscotti, intendo.»
Vittoria li fissò a sua
volta. Li aveva già assaggiati nei giorni precedenti: erano
a base di miele e
pistacchio, con una doratura croccante e un profumo che riempiva
l’aria. «Pensi
più spesso a lei da quando siamo qui?»
azzardò, un po’ incerta. Stefano non amava
parlare molto neanche di sua madre. Quando Vittoria chiedeva di lei gli
compariva una ruga tra le sopracciglia e gli occhi si riempivano di
tristezza.
Tra tutti gli argomenti del passato, però, era
l’unico che riuscisse ad affrontare
più liberamente, senza alzare un muro.
Lui rimase zitto per
qualche secondo, lo sguardo rivolto al cortile deserto e soleggiato.
C’era
sempre un’atmosfera immobile, in quella casa, sospesa nel
sole accecante e nel
caldo soffocante. Il baglio sembrava disabitato, addormentato sotto un
incantesimo.
«Mi sembra di vederla
ovunque» rispose Stefano, con tono calmo e controllato.
«Ho stampata nella
mente l’ultima immagine che ho di lei, quando sono partito,
da bambino. Era un
giorno d’estate come questo. Mi ha svegliato prestissimo,
quando il cielo era ancora
grigio, e mi ha accompagnato al porto. Qui tutti dormivano ancora e lei
mi
aveva detto che sarei andato via solo la sera prima, così
non ho potuto
salutare nessuno. Ma mia madre voleva così, credo. Pensava
che sarebbe stato
più facile per me. Mi ha abbracciato soltanto una volta,
così forte da farmi
male. Poi mi ha detto “Vai”. Non le è
uscita neanche una lacrima. Non piangeva
mai, ma io ho capito che in quel momento si tratteneva per me, per
darmi forza.
Allora mi sono costretto a imitarla, a non piangere, anche se avrei
tanto
voluto farlo. Sono salito sul traghetto con la signora che doveva
accompagnarmi
e sono rimasto sul ponte a guardarla fino a che il traghetto si
è allontanato
troppo e lei è diventata una macchia indistinta. Non si
è mai mossa, finché è
riuscita a vedermi. E dopo… non so perché, ma
ogni volta che pensavo a mia
madre la immaginavo ancora lì, ferma sul molo, a guardare
verso di me… le
braccia lungo i fianchi, i capelli neri lunghissimi sulle spalle e il
vestito
bianco.» Tacque, senza cambiare espressione. Sembrava perso
nei ricordi, come
se rivivesse quel momento che si svolgeva davanti ai suoi occhi di
nuovo,
proprio come lo aveva appena descritto. «Non l’ho
più rivista» aggiunse alla
fine.
Vittoria sentiva una
tristezza pesante che le era scivolata addosso e la avvolgeva come un
bozzolo.
Aveva sempre cercato di immaginare il dolore che doveva aver provato
suo padre
a essere strappato via di colpo, bambino, dalla sua casa, da sua madre,
dal
fratello-amico con cui era cresciuto per andare incontro a una vita
nuova e del
tutto sconosciuta. Non ci riusciva mai in modo soddisfacente.
L’ombra che
scorgeva negli occhi di suo padre quando ne parlavano restava qualcosa
di
insondabile per lei.
«È morta due anni dopo
che sei andato via, giusto?»
Stefano fece un breve
cenno di assenso. «Si è ammalata
all’improvviso e non è stato possibile fare
nulla. Volevo tornare, venire a trovarla, ma non me lo ha permesso. Ha
proibito
a sua sorella di riportarmi qui.» Fece una piccola pausa e
strinse le labbra.
«Quando mi ha mandato via, non lo ha saputo nessuno
finché non è stato troppo
tardi per impedirlo. Non so come abbia reagito Edoardo. Non gli
importava
chissà quanto di me, ma… sicuramente non gli
piace quando qualcosa che ritiene
che gli appartenga viene portata via sotto il suo naso.» Sul
suo viso si
disegnò un ghigno che scomparve quasi subito.
«Credo che mia madre… Credo che
avesse paura che se fossi tornato, anche solo una volta, Edoardo
avrebbe
preteso che restassi e dopo la sua morte chi avrebbe potuto fermarlo?
Pensava che
tutta questa situazione mi avrebbe rovinato la vita. E poi…
probabilmente, per
come era fatta lei, non voleva che la vedessi malata, così
diversa rispetto al
passato. Mi disse che era più felice pensando che io la
ricordavo come era
prima.»
«Secondo te aveva
ragione? Cioè, ha fatto bene a non farti tornare, neanche
per il suo funerale?»
indagò Vittoria con cautela. Non poteva immaginare niente di
peggio, ma non
voleva esprimere nessun giudizio. Avrebbe solo causato ulteriore
dispiacere a
suo padre.
Stefano espirò
lentamente, lo sguardo lontano. Alzò le spalle.
«Onestamente non lo so. Con il
tempo sono riuscito a capirla, a capire perché lo ha
fatto.» Le lanciò
un’occhiata rapidissima prima di proseguire. «Ma
all’epoca io… avrei voluto
solo abbracciarla di nuovo. Per un po’ di tempo sono stato
molto arrabbiato con
lei. Poi sono cresciuto. Sono diventato padre e… ho capito.
Vorrei solo averle
detto addio.»
Vittoria allungò la
mano sul tavolo e prese quella di lui e Stefano la strinse
automaticamente,
l’espressione ancora distante e pensierosa. Non era davvero
lì con lei, in quel
momento. Poi il suo telefono iniziò a vibrare. Lui si
riscosse, lo afferrò di malavoglia
e guardò il display.
«È Patrick. Devo
rispondere» mugugnò. «Scusa,
piccola.» Si alzò, portando il telefono
all’orecchio, e rispose in inglese, mentre si allontanava
lungo la terrazza dal
lato opposto rispetto alle scale che scendevano nel cortile.
Vittoria rimase ad
ascoltarlo per un po’, sorseggiando la limonata ormai tiepida
e mangiando un
biscotto. Suo padre aveva una pronuncia inglese perfetta, grazie ai
viaggi
frequenti a Londra e a New York per lavoro, e Vittoria aveva dovuto
sopportare
una valanga di battute delle sue amiche che parlavano di prendere
ripetizioni
di inglese da lui. Oltre che di matematica, dal momento che risolveva
problemi
ed esercizi semplicemente guardandoli. Alla fine era riuscita a
costringerle a
smettere. Avere genitori giovani e belli poteva essere un problema
enorme.
Giocherellò con il
telefono e scorse un po' le bacheche dei social e ogni tanto lanciava
uno
sguardo a suo padre, che era ancora al telefono, in piedi accanto alla
balaustra di pietra, e le dava di spalle. Sembrava che non dovesse
chiudere a
breve, così si alzò e tornò in
salotto. Sedette di nuovo sullo sgabello del
pianoforte e sfogliò con delicatezza gli spartiti ingialliti
e macchiati dal
tempo che aveva trovato sul leggio. In quei giorni aveva suonato quasi
sempre
brani presi da lì, perché immaginava che Edoardo
li conoscesse e gli facesse
piacere ascoltarli. Ogni tanto, però, faceva a modo suo e
suonava quello che le
passava per la testa, come la colonna sonora della Città
incantata.
Prese il telefono dalla
tasca e cercò uno spartito su Google, poi lo
sistemò sul leggio, sopra i vecchi
spartiti. Mosse le dita per riscaldarle, le posò con
leggerezza sui tasti,
prese un respiro profondo e attaccò le prime note del terzo
movimento della Sonata
n. 14 di Beethoven. Era un pezzo complicato, su cui aveva
iniziato a
lavorare dopo il saggio di fine anno, e le sembrava di essere ancora in
alto
mare. Suo malgrado, quando fosse tornata a scuola avrebbe chiesto
consiglio
alla Grandi sui passaggi che le venivano peggio.
Ogni volta che sedeva
al pianoforte a suonare le tornava in mente perché lo faceva
e perché non
avrebbe mai potuto smettere: solo quando le sue dita scorrevano sui
tasti
avvertiva quella sensazione, come un calore liquido che le scorreva
sulla
pelle, su tutto il corpo, simile a un milione di piccole scosse di
elettricità.
Era piacevole e al tempo stesso quasi doloroso. Aveva tentato
più volte di
spiegarlo alle persone che non suonavano, come i suoi genitori, ma
dalle loro
espressioni vacue capiva sempre di non esserci riuscita. Forse non era
una
sensazione che si potesse esprimere a voce. Solo la musica era in grado
di fargliela
provare ed era per questo che anche se a volte era esausta e faceva i
salti
mortali per conciliare il pianoforte con la scuola e il tennis e le
uscite con
le amiche e gli altri impegni, anche se a volte, dopo ore di lezione,
aveva
crampi così forti da dover mettere il ghiaccio sulle mani e
ancora non riusciva
a suonare come avrebbe desiderato e le veniva voglia di lanciare gli
spartiti
dalla finestra, alla fine tornava a sedersi sullo sgabello, dimenticava
tutto e
ricominciava.
Eccolo di nuovo, mentre
si sforzava sugli accordi velocissimi e ravvicinati di Beethoven simili
a una
cascata di note che si inseguivano, un po’ giocose e un
po’ arrabbiate: quel
brivido delizioso, tormentoso, che cresceva con la musica, le
percorreva il
corpo, le infuocava la pelle. Chiuse gli occhi quando arrivò
a un punto che
ricordava a memoria, eppure, stranamente, non riusciva a staccarsi
dalla realtà
come le accadeva sempre. Stavolta c’era qualcosa che la
teneva ancorata lì,
qualcosa che stonava e le faceva prudere la nuca, come se
all’improvviso stesse
premendo i tasti sbagliati, solo che non era così.
Aprì gli occhi e smise
di colpo di suonare: sulla soglia della portafinestra, a
metà strada tra
l’esterno e l’interno, come se fosse indeciso se
entrare o allontanarsi, c’era
qualcuno. Un uomo, che la fissava. Vittoria incrociò il suo
sguardo. Capì chi
fosse immediatamente, d’istinto, e il cuore le si
fermò nel petto. Aprì la
bocca per la sorpresa, ma non ne uscì alcun suono. Poi la
figura si voltò in
fretta e uscì di nuovo sulla terrazza, tornando da dove era
venuta. Lei rimase
lì seduta per qualche istante, paralizzata, le mani ancora
sulla tastiera e la
bocca spalancata. Balzò in piedi, afferrò il
telefono così rapidamente che per
poco non le sfuggì tra le dita e gli schizzò
dietro. Uscì fuori, lanciandosi
tra le tende bianche, si guardò intorno. L’uomo si
stava allontanando a passo
svelto verso sinistra, in direzione della scala di pietra che scendeva
nel
cortile. Dalla parte opposta arrivava, attutita, la voce di Stefano,
ancora al
telefono. Dopo un attimo di indecisione, Vittoria andò verso
le scale, avvicinandosi
all’uomo che si allontanava.
«Enrico!» Lui si fermò
bruscamente, come se lei gli avesse lanciato qualcosa, ma rimase di
spalle.
Vittoria accelerò il passo e lo raggiunse.
«Enrico?» disse di nuovo, a voce più
bassa, come per avere conferma della sua identità.
Passò forse qualche
secondo, poi lui si girò piano e finalmente Vittoria
riuscì a vederlo bene in
faccia. La prima cosa che la colpì fu che non somigliava per
niente a suo padre
o almeno non a una prima osservazione superficiale. Condividevano
soltanto gli
occhi azzurri, il colore dei Falconeri che avevano anche i suoi occhi.
Rispetto
a Stefano era più basso, anche se di poco, aveva una
carnagione più chiara e
lineamenti meno perfetti, ma delicati e gradevoli. I capelli erano di
un
morbido castano. Eppure, nonostante le differenze, si percepiva una
vaga
somiglianza. Forse era per il fisico snello e forte o il portamento
elegante o
quell’aria inconfondibile da uomo d’affari,
accentuata dal completo blu chiaro
con una camicia azzurra e una cravatta bordeaux a piccoli disegni.
Vittoria
aveva osservato abbastanza il guardaroba di suo padre da intuire che
l’abbigliamento di Enrico doveva essere molto costoso.
Fece un respiro
profondo, all’improvviso imbarazzata, mentre si fissavano a
vicenda, immobili.
E adesso? Non lo aveva mai visto prima, non lo conosceva per niente,
eppure lo
aveva inseguito e bloccato e doveva per forza far uscire qualcosa dalla
bocca.
Possibilmente qualcosa di intelligente.
«Sono Vittoria. La
figlia di Stefano.»
Il primo tentativo
poteva considerarsi fallito. Certo che era la figlia
di Stefano. Quante altre quindicenni avevano
l’opportunità di girare in casa
sua? Arrossì. Enrico la osservò senza parlare
ancora per un attimo, poi fece un
secco cenno di assenso.
«So chi sei.»
Cadde il silenzio.
Vittoria spostò il peso da un piede all’altro,
sempre più a disagio. Come
sempre quando era in difficoltà, prese a giocherellare con
il ciondolo a forma
di farfalla.
«Io… ehm… non sapevo
che… Non eri via per… lavoro?»
«Sono tornato prima.»
Enrico abbassò lo sguardo. Aveva le mani nelle tasche e la
postura rigida e
doveva essere un po’ strano anche per lui, incontrare per la
prima volta sua
nipote così all’improvviso. Per qualche misteriosa
ragione, quell’idea la
tranquillizzò. Gli rivolse un sorriso impacciato.
«Pensavo che vi sareste
fermati solo per il week end. È lunedì.»
Il tenue sorriso le si
congelò in fretta. Una volpe che avvista un cacciatore
avrebbe avuto più
entusiasmo dello zio nel trovarla lì. Il suo sguardo azzurro
era freddo come il
mare in pieno inverno e sembrava chiuso, come se una tenda fosse stata
tirata per
nasconderne le profondità.
«Ehm… Sì, ci fermiamo
qualche giorno in più. Sto… suonando qualcosa per
Edoardo» provò a spiegare,
anche se di colpo, senza motivo, le parve una cosa molto stupida.
Esitò,
cercando qualcosa da aggiungere. «Pensavo che gli avrebbe
fatto piacere e…»
«Cosa?» la interruppe
Enrico. La fissava con la fronte aggrottata e l’aria
perplessa, come se lei
parlasse in cinese. In effetti non era stata molto brava a spiegare la
situazione. Vittoria prese fiato e riprovò.
«Be’, io… Quando ha
saputo che suono il piano mi è sembrato felice,
così ho pensato…» Tacque,
mentre si rendeva conto che lui non la ascoltava più: i suoi
occhi avevano
catturato qualcosa alle spalle di lei ed erano diventati di pietra.
Prima che
Vittoria potesse girarsi per capire cosa succedeva, arrivò
una voce da dietro
di lei.
«Enrico.»
Era Stefano. Apparve
all’improvviso al fianco di Vittoria, silenzioso come un
gatto. Gettò
un’occhiata rapida e indecifrabile verso di lei, poi
spostò gli occhi sul
fratello e i due si studiarono in silenzio per qualche secondo. Suo
padre era
immobile, quasi una statua, eppure Vittoria aveva la sensazione che
fosse
pronto a scattare da un momento all’altro.
«Stefano» rispose
infine Enrico, il tono così gelido e distaccato che lei si
irrigidì a sua
volta. Mentre loro due se ne stavano lì a valutarsi a
vicenda, la colpì come
mai prima di allora la consapevolezza che non si vedevano da quindici
anni e
tutto quel tempo sembrava essersi solidificato tra loro, diventando un
muro
invalicabile. Spostò lo sguardo allarmato dall’uno
all’altro, attenta e
ansiosa. E se avessero iniziato a litigare? Sarebbe stata colpa sua,
soltanto
colpa sua, perché era stata lei a voler rimanere.
Poi suo padre parlò
ancora, tranquillo e controllato. «Che sorpresa. Non ci
aspettavamo di
vederti.»
«Riparto domani»
rispose subito Enrico e Vittoria pensò che lo avesse deciso
in quell’esatto
istante. Continuava a spostare lo sguardo dal padre allo zio, come se
seguisse
una partita di tennis. Nonostante i toni di ghiaccio e le espressioni
scure,
tra loro c’era qualcosa. Le parole che si scambiavano
sembravano viaggiare su
un filo sospeso e invisibile, almeno per lei. Era soltanto il legame di
sangue
che li univa, malgrado tutto, o c’era dell’altro?
All’improvviso sentì la mano
di suo padre sulla spalla, il braccio di lui che la stringeva con
fermezza.
«Buon viaggio, allora. Meglio
se andiamo, è tardi. Ciao, Enrico.» Se la
tirò dietro, piano, ma senza
esitazione.
Il filo sospeso si
spezzò.
Vittoria aprì la bocca,
sconcertata, e tentò di dire qualcosa, ma ancora una volta
le parole le
morirono in gola. Era troppo frastornata per reagire in qualche modo,
anche se
avrebbe voluto almeno salutare lo zio che aveva appena conosciuto. Era
successo
tutto troppo in fretta ed era stato tutto molto più strano e
imbarazzante di
quanto avesse mai immaginato. Era come un brutto sogno. Raggiunsero il
tavolo,
Stefano infilò il portatile nella borsa con gesti misurati,
ma determinati, e
la condusse verso le scale. Lei si voltò un attimo indietro
a guardare Enrico,
che era rimasto fermo e li seguiva con gli occhi: sembrava una statua
pietrificata sotto il sole.
«Papà… papà, non
è
tardi» provò a protestare debolmente, sebbene
sapesse che era inutile. Suo
padre stava soltanto scappando e nulla lo avrebbe fermato, ma lei non
sopportava di farsi trascinare via così, come una bambina,
senza una parola di
spiegazione. Lui non rispose e Vittoria pensò che forse non
l’aveva neanche
sentita.
Scesero
in cortile, salirono
in auto, Stefano mise in moto e un attimo dopo stavano già
sfrecciando a
velocità sostenuta lungo la strada, il baglio che si
allontanava rapidamente
dietro di loro. Vittoria si girò per lanciargli
un’ultima occhiata, come per
accertarsi che fosse davvero lì e che non fosse stato tutto
un sogno, poi
guardò suo padre: teneva gli occhi fissi sulla strada,
evitando accuratamente
di incontrare i suoi, perché sapeva che vi avrebbe letto
domande alle quali non
voleva rispondere. Non ci sarebbe stata nessuna spiegazione, neanche
questa
volta. Vittoria serrò le dita sul bordo del sedile del
passeggero e voltò la
testa di scatto per guardare fuori.