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Autore: Milly_Sunshine    16/03/2024    2 recensioni
"Quando Sir Duncan lo adottò, ricordo i commenti sdegnati. In molti pensavano che, se Sir Duncan avesse desiderato un figlio, avrebbe potuto adottare me, che avevo nelle vene il sangue della sua famiglia. Anch'io fui indispettito da quella scelta, ma per ragioni ben diverse." /// Dopo essere stati scagionati dall'accusa di avere assassinato Sir Duncan, il nipote Nicholas e il figlio adottivo Duncan Jr ritornano alle loro vecchie vite. Il viaggio in treno che li porta, insieme, lontani dal luogo del delitto, dopo che ciascuno ha lanciato accuse rivolte verso l'altro, si prospetta difficile. I due riflettono sulla situazione che hanno appena lasciato e come l'accaduto abbia stravolto le loro esistenze per sempre. /// Il viaggio sul treno è ispirato a una vecchia poesia in inglese scritta diversi anni fa, il delitto e i personaggi no.
Genere: Drammatico, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buongiorno a tutti e ben ritrovati! Colta da ispirazione improvvisa, ho iniziato questo racconto, che sarà molto breve (due, al massimo tre capitoli), in cui c'è un nobile inglese degli anni '50 assassinato, ma in cui il fatto che questo nobile inglese degli anni '50 sia stato assassinato non costituisce di fatto il fulcro della trama.

Buona lettura! :-)




[Nicholas]

Fuori dal finestrino, solo campagne desolate, inumidite e ingrigite dalla nebbia: era questo che fissavo, mentre di fronte a me Duncan Jr leggeva un quotidiano. Io ero girato nel senso di marcia del treno, Duncan all'opposto. Non sapevo se fosse un beffardo scherzo del caso, oppure se il mio posto e il suo fosse stata la stessa cameriera di Sir Duncan e se li avesse prenotati insieme.
Tra noi, c'era il gelo più totale, ma del resto non poteva essere altrimenti, dopo quello che avevamo vissuto nelle ultime due settimane. L'esperienza ci aveva provati e forse Duncan ne era stato provato più di me. Al di là della brutta vicenda in cui ero rimasto invischiato, non potevo dire che le mie certezze fossero crollate. Fin da quando era arrivato il piccolo Duncan avevo capito di non contare niente per il Sir, mio zio, e le proprietà e la rendita che mi aveva destinato erano più che sufficienti per trascorrere il resto della vita a dedicarmi ai miei interessi, che differivano in gran parte da quelli di Sir Duncan.
Lo ammiravo, quando ero bambino. Ero convinto che, quando mi aveva accolto in casa sua dopo la morte di mia madre, l'avesse fatto per affetto nei miei confronti. Non era così. Ero semplicemente il figlio della sua defunta sorella e del suo altrettanto defunto cognato, tutto ciò che contava per Sir Duncan era che avessi un tetto sopra la testa, possibilmente quello di una dimora lussuosa, e che ricevessi un'istruzione degna di un ragazzino del mio rango. Avevo avuto i migliori insegnanti, nonostante la cultura servisse poco nell'ambiente in cui vivevo, pieno di uomini e donne senza occupazione alcuna che passavano le giornate a bere, fumare, giocare a carte e parlare dei loro costosi viaggi nei possedimenti dell'Impero Britannico.
Non facevano altro che parlare del fascino delle Colonie e delle ricchezze dell'Impero, senza mai astenersi dal fare smorfie di disgusto quando menzionavano la popolazione locale. Quando Sir Duncan adottò il giovane Duncan, ricordo i commenti sdegnati. In molti pensavano che, se Sir Duncan avesse desiderato un figlio, avrebbe potuto adottare me, che avevo nelle vene il sangue della sua famiglia. Anch'io fui indispettito da quella scelta, ma per ragioni ben diverse. Avevo dodici anni, la stessa età di Duncan Jr, ed ero ancora convinto di essere importante per mio zio, invece di essere solo un pacco postale da scaricare da qualche parte.
Mi sentivo ignorato e rifiutato, a non mi importava niente di dove fosse nato Duncan Jr, di quale fosse il colore della sua pelle o di quale nome, in realtà, avesse ricevuto alla nascita. Non avrei avuto nulla in contrario alla sua accoglienza come "figlio ufficiale" da parte di mio zio, se solo avesse riservato lo stesso trattamento anche a me. Invece mi ero ritrovato a interpretare la parte dell'estraneo, all'essere quel ragazzino che si intrometteva tra le dinamiche di padre e figlio. Gli zii amano i nipoti, ma soltanto finché sono nipoti.
I vari ricchi e nobili che frequentavano la casa di mio zio finirono per accettare la sua presenza, specie quando si resero conto che un giorno sarebbe diventato proprietario di un vastissimo patrimonio e, in quanto tale, sarebbe stato meglio essere con lui anziché contro di lui. Il piccolo Duncan divenne un vero e proprio gentleman inglese, una sorta di genio ribelle che, come da prassi, passava una parte del proprio tempo a giocare a bridge con la sigaretta in bocca e il bicchiere pieno, ma lontano dai salotti nobiliari amava la letteratura e l'arte.
Contrariamente alle aspettative di molti, Sir Duncan non aveva nulla in contrario agli interessi del figlio adottivo e, anzi, lo spingeva a non abbandonare le proprie passioni. Apprezzava le sue poesie e i suoi dipinti... e aveva ragione da vendere, perché il mio cugino adottivo era davvero bravo. Come al solito, mi sentivo uno scalino più in basso, ma nel corso degli anni avevo accettato l'idea che non sarei mai stato per mio zio quello che era quel ragazzino, ormai divenuto adulto, sbucato fuori chissà da dove e ormai considerato degno di rispetto, anche se inizialmente gli erano riservati gli stessi sguardi incuriositi che poteva ricevere un pappagallino tropicale.
In sintesi, il mio stile di vita consisteva nel vivere e lasciare vivere gli altri, in senso metaforico, ovviamente. Per ironia della sorte, invece, mi ritrovai invischiato in una vicenda in cui "lasciar vivere" si intendeva in senso letterale. Spesso succede nei romanzi polizieschi che il riccone bisbetico di turno venga assassinato e che fosse circondato da miriadi di persone che avrebbero voluto vederlo morto. I ricconi dei romanzi, per abitudini, somigliano sempre un po' a quello che era Sir Duncan: titolo nobiliare ottenuto chissà come, nessuna attività lavorativa, villone nelle campagne inglesi nel quale lavorano decine di camerieri e cameriere, improvvisa decisione di circondarsi di parenti diretti e alla lontana, magari con l'intenzione di condividere qualche informazione a proposito del testamento appena redatto, il tutto corredato da pipe accese e partite a carte disputate tracannando superalcolici. La differenza principale stava nell'animo di Sir Duncan: non ci minacciava di diseredarci se non ci fossimo adeguati alle sue volontà; certo, se qualcuno di noi avesse intrapreso strade molto discutibili magari ci avrebbe fatto un pensiero, ma fintanto che si trattava di preferire la pittura alla finanza, oppure le auto sportive alle carrozze trainate da cavalli, allora non aveva niente da ridire. O meglio, si limitava a borbottare e a fare qualche commento pungente, ma di certo non ci considerava indegni di spendere i suoi soldi, né in vita né dopo la sua dipartita.
Un uomo così, secondo le leggi non scritte dei romanzi gialli, avrebbe potuto vivere tranquillamente fino a novant'anni, se non di più, se avesse avuto la fortuna di godere di una buona salute. Invece non fu così e, a sorpresa, proprio quando al cospetto di amici di vecchia data e di parenti Sir Duncan annunciava che avrebbe dovuto fare un'importante rivelazione, che avrebbe cambiato per sempre le sorti della sua famiglia, finì per morire che di anni ne aveva solo settantadue, colpito dalla testa da un grosso vaso d'ottone che aveva sempre contenuto fiori finti, prontamente spolverati ogni giorno da un'anziana governante.
Trovò il cadavere un'amica di vecchia data, Lady Virginia, una sessantenne vedova che avrebbe volentieri sposato Sir Duncan per il suo patrimonio. Si dichiarò molto dispiaciuta dalla sua triste morte e puntò subito il dito contro Duncan Jr, inveendo contro di lui davanti a tutti, ispettore di Scotland Yard compreso. Altri presenti, invece, si scagliarono contro di me, tacciandomi di odiare mio zio perché mi aveva preferito un "mezzosangue uscito dal nulla" deprivandomi del diritto alla quota d'eredità più grossa.
Era una follia bella e buona, ma nessuno di noi aveva davvero la possibilità di difendersi dalle accuse infamanti che ci venivano rivolte. Chi avrebbe creduto a cuore leggero che Duncan Jr non avesse ucciso il padre adottivo per impossessarsi dell'eredità? E chi, invece, avrebbe dedotto che io non ero un nipote rancoroso che aveva deciso di fare piazza pulita, prima di essere definitivamente messo da parte e diseredato?
Ci stavo ripensando, in silenzio sul treno, seduto di fronte a mio cugino Duncan, quando inaspettatamente si rivolse a me con una domanda che mi lasciò senza fiato: «Secondo te perché è stato così difficile far capire che non avevamo niente contro di lui?»
Anche Duncan Jr stava pensando a Sir Duncan, a quanto pareva, o forse addirittura stava leggendo sul giornale un articolo sul delitto.
Mi sfuggì un sorriso, mentre affermavo: «Nei romanzi, tutti i parenti della vittima detestavano la vittima.»
Il giovane Duncan mi guardò quasi schifato.
«Romanzi? Non chiamare quel ciarpame con questo nome.»
Sospirai.
«Ciarpame? Lo dici proprio tu, che ami la scrittura?»
«Appunto, amo la scrittura» replicò mio cugino, «Non certo stupidi enigmi in cui la realtà è davanti agli occhi di tutti, ma nessuno si scomoda di guardarla da vicino.»
Non concordavo con il suo parere. In fondo le vicende poliziesche erano un'esasperazione di una realtà che esisteva. Bastava solo aggiungere qualche elemento in più, per rimescolare le carte in tavola. Era successo anche a noi, quando ci eravamo ritrovati entrambi sospettati di un omicidio che non avevamo commesso.
   
 
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