Capitolo
IV
Aerith
Gainsborough chiuse la porta della chiesa alle sue spalle.
Sfiorò per un
momento il legno, avvertendone la superficie ruvida, poi
lasciò la maniglia in
ottone e volse lo sguardo verso l’appena sveglia Midgar dei
bassifondi. Il sole
non era ancora alto nel cielo; l’aria era fresca, come quella
della notte
appena trascorsa. Inspirò profondamente, cominciando a
camminare senza però
avere una meta precisa: non aveva programmi per quella giornata che si
preannunciava già soleggiata ed afosa come le altre, non
finché Tseng non
sarebbe nuovamente venuto a visitarla, nella sua chiesa.
Sapeva
che sarebbero passate parecchie ore. Il ragazzo se n’era
andato appena pochi
minuti prima e, se aveva un lavoro da fare per conto dei Turk, non
sarebbe
tornato prima di mezzogiorno, per essere sicuro che tutto fosse andato
liscio.
Di conseguenza Aerith, dato che in quella stagione non poteva
più far nulla
per accudire i fiori, aveva deciso di
uscire per un po’, e di respirare l’aria fresca del
primo mattino.
Non c’era ancora
molta gente, in giro: incontrò
prevalentemente uomini, contadini che si dirigevano ai margini di
Midgar con
grandi cesti di vimini per il raccolto. Le matrone con in braccio i
figli
sarebbero venute più tardi, quando il sole avrebbe raggiunto
lo zenit,
affollando le vie contigue al mercato.
Camminò
per qualche minuto, affondando i piedi nel terriccio che ricopriva le
strade e
i vicoli; ad ogni passo produceva un lieve tonfo, sollevando una
piccola nube
di terra che si perdeva nell’azzurro limpido del cielo
all’orizzonte.
Giunse
infine al vecchio parco giochi del Settore 5, solitamente teatro delle
gesta di
numerosi bambini ma a quell’ora così quieto,
deserto, quasi innaturale. Il
vento faceva cigolare le altalene arrugginite, ora piano, ora forte;
Aerith vi
si avvicinò, ne bloccò una con il palmo della
mano e vi si sedette sopra,
appoggiando la testa su una delle due catene. Al tatto, il metallo che
serviva
a mantenere in equilibrio l’altalena era gelido, come
indifferente all’afa del
mese di Luglio.
La
ragazza pensò a lungo, mentre era con il capo poggiato sulla
fredda catena; era
così assorta nelle sue riflessioni che non si accorse di
quando un paio di
bambini entrarono oltrepassando i cancelli in ferro del parco giochi,
né di
come il sole, in poco tempo, si fece alto nel cielo, illuminando
perpendicolarmente tutta la città che viveva sopra il
piatto. Si limitava a
pensare, con lo sguardo perso nel vuoto: pensava alla precedente notte,
quella
notte in cui qualcosa di nuovo era cominciato, qualcosa di vivo, e
guizzante,
che si era inserito nel suo rapporto con Tseng. Lo sentiva vicino,
vicino a lei
come non lo era mai stato; era da quella sera di ormai parecchie
settimane
prima che il loro rapporto progrediva, a volte lentamente, altre volte
a grandi
passi, come ad esempio nella notte scorsa. Ogni giorno sentiva sempre
qualcosa
di nuovo, che cresceva, dentro di lei, e che quella notte, per la prima
volta,
aveva sentito come parte di sé, come qualcosa da proteggere
e che richiedesse
costantemente cure e attenzioni. Era amore? Probabilmente si. Non ne
era però
così sicura, era una sensazione che non aveva mai provato
prima.
Il
rumore di una risata, particolarmente fragorosa, arrivò alle
sue orecchie; si
riscosse dal torpore nel quale era caduta e vide un gruppo di bambini
che
ridevano, giocando a pochi metri da lei. Sorrise, non riuscendo
più a trovare
il filo conduttore che fino ad allora l’aveva guidata per i
suoi pensieri, e si
alzò dall’altalena, con un altro cigolio.
Oltrepassò il cancello del parco
giochi e si incamminò nuovamente per la via principale,
verso il mercato, a
quell’ora parecchio affollato. Molta più gente,
adesso, passeggiava per le vie,
come lei; ai contadini e i braccianti agricoli si erano sostituite
donne di
tutte le età, che sbrigavano commissioni o altro e che erano
seguite da
bambini, più o meno trasandati e dall’aria
annoiata. Tenne gli occhi bene
aperti, adesso, per evitare di pestare i piedi a qualche donna o di
urtare
qualche bambino distratto.
In
quel bailamme di
gente, parole,
opinioni, di migliaia di passi che si susseguivano ininterrottamente,
un uomo,
poco più che un ragazzo, attirò la sua
attenzione. Era molto giovane, ma non
quanto lei; potevano avere due, al massimo tre anni di differenza.
La
prima cosa che notò, guardando i suoi occhi limpidi e
glaucopidi, fu che aveva
lo sguardo di un bambino, innocente ma con una sorta di guizzo
dispettoso che
s’intravedeva velatamente nei suoi occhi. Aveva capelli rossi
che sfumavano nel
cremisi, disordinati davanti e raccolti in una coda che scendeva fin in
mezzo
alle scapole.
Lo
osservò attentamente: era a pochi metri di distanza da lei,
e sembrava
interessato a qualcosa che un venditore ambulante aveva esposto su un
tavolo;
osservava con attenzione, diceva qualcosa, e poi tornava a guardare la
mercanzia, ridendo sotto i baffi. L’uomo aldilà
del bancone lo osservava come
se fosse del tutto fuori di testa.
Inizialmente,
non seppe dire perché quel bambino troppo cresciuto avesse
attratto così tanto
la sua attenzione; tutto ciò che sapeva di quel tipo, in
fondo, e che non
sembrava essere dei bassifondi, data la sua allegria e la sua apparente
giovalità.
Lo
osservò più da vicino; ora che ci pensava, in
effetti, gli sembrava di aver già
visto quel giovane, di riconoscere i suoi lineamenti, di aver
già sentito la
sua voce da qualche parte, prima di quel giorno. Vide il suo
abbigliamento:
giacca, cravatta, un distintivo ed una fondina attaccata alla cintura.
Roteò
gli occhi: avrebbe dovuto immaginarselo.
Quell’uomo
era un Turk.
Tuttavia,
non le sembrava che fosse mai venuto a farle da guardia nella chiesa, e
in
altri modi non avrebbe potuto conoscerlo. Non incontrava mica Turk
tutti i
giorni. Si avvicinò ancora alla bancarella. Adesso riusciva
a sentire anche le
parole e il tono di voce allegro del ragazzo.
“Mmm…
mi dica, a cosa serve questo?” chiese il Turk, adocchiando un
contenitore dalla
forma bizzarra.
“Ci
puoi conservare la carne di Chocobo in sottaceto”
sbuffò il venditore, sperando
che quel giovane se ne tornasse da qualunque luogo fosse venuto.
“E
basta?” esclamò deluso l’altro.
“Non potrei utilizzarlo, ad esempio, per
conservare sottaceto il fegato delle mie vittime? Sa, io sono un
assassino,
agisco di notte, incuto terrore!”
“Puoi
utilizzarlo anche come tagliacarte, se ci riesci!”
sbottò l’uomo sospirando.
“E
questo cos’è?”
“Uno
schiaccianoci”
“E
come funziona?” chiese il ragazzo dai capelli cremisi,
affascinato.
“Prendi
le noci, le metti qui sotto e poi le schiacci!” rispose il
negoziante,
esasperato.
“Interessante,
ma perché vorrei voler schiacciare delle noci?”
“Non
devo mica saperlo io, se hai voglia di noci puoi schiacciarne quante ne
vuoi!”
rispose l’altro, spazientito.
Il
giovane lo fissò, sbigottito. “Ma io non ho mai
detto di avere voglia di noci!”
“Allora
schiaccia le pietre!” urlò quello gettandogli lo
schiaccianoci tra le mani.
“Vedi? Te lo regalo, facci quello che ti piace, basta che te
ne vai!”
“Eh,
ma che modi!” esclamò il ragazzo, allontanandosi e
scoccando un’occhiataccia
all’uomo.
Aerith
aveva assistito divertita al siparietto, con un timido sorriso che le
increspava le labbra. Quando il ragazzo la notò, diresse su
di lei il suo
sguardo da ragazzino indomabile e si avvicinò.
Quando
i due sguardi si incontrarono, Aerith, d’un tratto, si
ricordò dove aveva
incontrato quel ragazzino: i ricordi che la legavano a quel volto
sorridente
erano intrisi di sangue, e mettevano le loro radici in una giornata
d’Inverno
di parecchi anni fa, quando aveva perso sua madre
nell’oscurità di quel vicolo,
tra le sue lacrime ed i vapori delle caldaie, tra
quell’assassino senza volto
che odiava e quel ragazzo, allora più giovane, che aveva
cercato di fermarlo.
“Salve!”
esclamò il ragazzo non appena fu a qualche metro da lei.
Aerith
non rispose al saluto. Le era venuto un cerchio alla testa, come se
avesse
l’influenza, si sentiva debole, non riusciva a ragionare con
lucidità…
“Si
sente bene?” chiese il ragazzo, guardandola preoccupato.
“Non ha mica una bella
cera!”
Non rispose. Le girava la
testa…
“Venga,
si sieda un momento!” esclamò quello, prendendola
per un braccio e cercando di
accompagnarla verso una panchina lì vicino.
“N-no,
grazie” sussurrò lei, con una voce tremante che
non riconobbe come sua. “Mi
lasci andare…” cercò di sottrarsi alla
presa del ragazzo.
“Ma
non sembra stare molto bene! Se solo mi lasciasse chiamare
un…”
“Ho
detto di no!” rispose lei, forse un po’
più forte di quanto avrebbe voluto. Un
paio di curiosi si voltarono verso di loro, prima di ritornare alle
loro
occupazioni abituali.
Il
ragazzo sembrava mortificato. “Mi scusi… volevo
solo aiutare…” bofonchiò, a
testa bassa. Quando rialzò il capo, incontrò
nuovamente il volto della donna,
ed i suoi luminosi occhi verdi, in quel momento così
spaventati e pieni di
incertezza… li aveva già visti?
“Ci
conosciamo?” chiese, con un po’
d’incertezza nella voce, scrutandola inclinando
la testa, come fanno i bambini quando osservano qualcosa di strano con
attenzione.
Aerith
abbassò gli occhi, biascicando qualcosa sul fatto che non si
conoscessero e che
doveva andare subito. “Mi dispiace di averla fatta
preoccupare” aggiunse, prima
di voltarsi e scappare via.
Il
ragazzo la osservò allontanarsi. Ne era sicuro, conosceva
già quello sguardo
spaventato nei suoi occhi.
Poi
un nome risuonò nella sua mente, ma era un’idea
così assurda e così improbabile
che la accantonò subito. Eppure… quel nome,
così improbabile ma al tempo stesso
così ovvio, gli risuonò di nuovo in mente,
così spontaneo che non si accorse
nemmeno di averlo lasciato sfuggire tra le labbra…
“Aerith
Gainsborough”.
La
ragazza si voltò, con il terrore misto a rabbia negli occhi.
Sembrava sul punto
di piangere.
“Tu
sei Aerith Gainsborough!” ripeté il ragazzo, con
stupore.
Lentamente,
lei annuì, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche.
“Mi
chiamo Reno. Sai… sai chi sono io?” chiese il
Turk, serio.
Aerith
annuì di nuovo, mentre una prima lacrima solcava il suo
volto.
“Sediamoci
qui” disse lui, indicando la panchina che le aveva
già precedentemente consigliato.
Questa
volta, Aerith non oppose nessuna resistenza. Si asciugò le
lacrime con il dorso
della mano e attese che Reno parlasse, i pugni ancora serrati.
“C-come
stai?” chiese Reno, incerto su che cosa dirle, con lo sguardo
chino.
“Non
mi lamento” rispose lei, con un tono di gelo nella voce.
“Si…
mi fa piacere… davvero…”
Entrambi
rimasero in silenzio, chi per rabbia e chi per imbarazzo.
Passò qualche minuto
nel quale nessuno dei due parlò, poi Reno si fece coraggio.
“Tua
madre era una gran donna” disse, attirando su di
sé lo sguardo sia furente che
attonito di Aerith. “Quando è successo…
ho letto il dossier che abbiamo alla
ShinRa su di lei. Era una brava persona, sempre pronta ad aiutare il
prossimo,
e…”
“Tu non sai niente
di mia madre!” lo interruppe la ragazza, furente.
“Vero”
ammise Reno. “Non so niente di davvero importante su di lei.
Non conosco i
sentimenti che provava, né le sue emozioni, né le
sue speranze, ma so che era
una brava donna, che ti ha preso con sé e che ti amava
più di ogni altra cosa
al mondo! Non credi?”
Aerith
abbassò nuovamente lo sguardo, e, quando rispose, il suo
tono di voce era calmo
e controllato, velato dalla tristezza e dalla malinconia.
“Si. Lei… lei era
davvero eccezionale…”
Reno
cercò per un momento le parole più adatte per
introdurre un discorso delicato
come quello. Alla fine sospirò e si preparò ad
affrontare una tra le
conversazioni più impegnative della sua vita.
“Sai
cosa stavamo facendo, io e il mio partner per le missioni di quel
tempo?”
disse, guardando in basso per non incrociare il suo sguardo.
“Davamo la caccia
ad un malvivente che spacciava materie illegali nei piani alti di
Midgar, con
gente potente… era un pericolo per la comunità,
ed allora ci avevano dato
l’ordine di fermarlo. Di ucciderlo, anzi.” Si
interruppe un momento, guardando
Aerith che era rimasta impassibile.
“Lo
trovammo ed iniziò un inseguimento, che si concluse in quel
vicolo dove vi
trovavate anche voi… avremmo soltanto dovuto ucciderlo, e
sarebbe finita lì. Ma
il nostro nemico non era così stupido come
pensavamo… prese tua madre in
ostaggio, e quando il mio partner, per cercare di fermarlo,
sparò a vista…” non
concluse la frase, sapendo benissimo quante volte Aerith, dentro di
sé, aveva
rivissuto quella scena.
E
così, si disse la ragazza, quella era stata la dinamica dei
fatti che il
destino aveva messo in moto quando lo spacciatore di materie aveva
cominciato
il suo sporco lavoro. Era già stato tutto previsto quando
quel delinquente
aveva venduto per la prima volta una materia e la sua anima? Non era
stato
possibile far nulla perché il partner dell’uomo
che adesso le stava accanto
centrasse l’obiettivo o non sparasse affatto? Che sarebbe
successo se un solo
evento di quella catena fosse stato diverso? Sua madre sarebbe stata
ancora
viva, insieme a lei, e avrebbe abitato in quella casa che, senza la sua
presenza, era così vuota da far quasi male?
“Ti
senti bene?” chiese per la seconda volta il Turk, comprensivo.
“Si...”
rispose Aerith, senza pensarci troppo, perché era la
verità. Poi una domanda le
attraversò la mente. “Che ne è stato
del tuo partner?” chiese, osservandolo.
Reno
sospirò. “Venne allontanato dai Turk in quello
stesso giorno, poche ore più
tardi. Per aver messo in pericolo la vita di un’Antica,
sai” e la squadrò da
capo a piedi. “Di lui non so più nulla da quel
giorno. Alcuni miei amici dicono
di averlo visto di sfuggita qui, nei bassifondi…”
si guardò un attimo intorno,
nella speranza di intravederlo tra la folla. “Io, comunque,
non ne ho più
saputo nulla”.
Calò
nuovamente il silenzio tra i due, coperto dal brusio della folla che
passava di
lì. Entrambi erano immersi nei propri pensieri.
“Grazie”
sussurrò poi Aerith, guardando fisso davanti a sé.
“Per
cosa?” chiese il Turk, guardandola inclinando il capo.
“Per
avermi detto la verità” rispose Aerith, spostando
lo sguardo verso di lui.
Reno
abbozzò un sorriso paterno. Le sue mani si strinsero sullo
schiaccianoci che
quel negoziante, poco prima, gli aveva dato, e, improvvisamente, ebbe
un’idea.
“Tieni!”
disse, porgendoglielo con un sorriso.
“Uno
schiaccianoci?” chiese Aerith, inarcando un sopracciglio.
“Si!”
esclamò Reno, come se il suo fosse stato il gesto
più ovvio al mondo.
“Scusami,
ma non riesco a capire!” esclamò Aerith, poco
convinta.
“Beh,
non ci riesci perché non c’è nulla da
capire!” rispose Reno, facendole
l’occhiolino.
La
ragazza lo guardò, per un momento, come se fosse un fenomeno
da baraccone. Poi,
lentamente, le sue labbra si incresparono in un lieve sorriso, che si
allargò
sempre di più.
“Vedi,
ci sono riuscito!” urlò Reno, ridendo.
Aerith
dovette ammettere che Reno, con quel gesto apparentemente senza senso,
era
riuscito a spazzare tutta la malinconia e la rabbia che aveva provato
vedendoselo davanti. D’altra parte, Reno non aveva nessuna
colpa, se non quella
di risvegliare in lei ricordi dolorosi. Ma anche in questo caso, non
era
davvero lui il responsabile, ma lei stessa.
“Sono
contento di averti fatto ridere” disse Reno, in tono mite.
Ed
a quel punto successe l’irreparabile. Il destino aveva
attuato la sua trappola,
tessendo una tela che li comprendeva entrambi: e l’aveva
elaborata per
giungere, finalmente, all’agognata verità. Non ci
fu nulla che poté impedire a
Reno di continuare quella frase e di decretare la fine di
un’illusione durata
fin troppo tempo. Mentre il sole cominciava il suo declino verso le ore
pomeridiane, Reno aprì nuovamente la bocca, e
pronunciò la prima frase di un
discorso che non avrebbe mai terminato.
“Sai”
disse. “Sono sicuro che anche Tseng
avrebbe…”
A
quel nome, istintivamente, Aerith si voltò verso di lui,
guardandolo con
attenzione.
“Tseng?”
“Si”
rispose Reno, guardandola sospettoso. “Era il nome del mio
partner di quel
giorno”.
Fu
come se avessero disattivato l’audio improvvisamente. Aerith
non fece più caso
alla folla, al sole che riscaldava quella giornata, al freddo della
panchina
metallica su cui s’erano seduti. Non ebbe più
consapevolezza di cosa stesse
accadendo attorno a lei, ma non le importava. Nella sua mente, ancora
la stessa
scena di quella mattina d’Inverno di 4 anni prima: ma
stavolta, l’assassino
aveva un volto, una voce, delle mani con cui commettere un delitto,
quelle
stesse mani che la notte prima l’avevano accarezzata.
Stavolta,
anziché di sedersi, ebbe il bisogno di alzarsi. Il sangue
gli ribolliva nelle
vene, provava l’impulso di farla pagare a Tseng, che aveva
distrutto la sua
famiglia, aveva ucciso sua madre… e che le aveva mentito.
Anni di bugie, un
continuo mentire per chissà quale motivo. Gli aveva detto di
lavorare nei Turk,
quando in realtà era stato licenziato. Perché,
perché lo aveva fatto? E perché
non gli aveva detto la verità sulla morte della madre,
perché non aveva mai
trovato il coraggio di fare la cosa giusta?
Si
sentì una stupida, per aver creduto che il loro fosse un
rapporto vero. Era
evidente che là dove aveva creduto ci fosse
l’amore c’era invece il nulla, e
mentre elaborava questi pensieri, un’idea, semplice come il
peccato, si faceva
strada nella sua mente.
Vendetta.
Per
un attimo, fu davvero tentata dal sottile brivido che quel particolare
sentimento
portava con sé. Subito dopo, si sentì solamente
un’idiota. Lasciò perdere i
suoi propositi.
Si
alzò in piedi, e mentre Reno gli urlava: “Ehi! Ma
dove vai?”, lei scappò via.
Lacrime silenziose solcarono le sue guance.
Era
tutto finito, ancor prima che qualcosa di reale fosse davvero iniziato.