Two Pairs of Chilling Eyes
13: Luck of The
Irish
Quello
non era uno dei normali terremoti che scuotevano il Giappone quasi
quotidianamente: La terra vibrava a
colpi, come se fosse calpestata da un gigante, e i latrati che squarciavano
l’aria, alzandosi sopra le urla della gente terrorizzata, non facevano di certo
parte di un evento sismico.
Nina
corse fuori dall’arena, schivando i vari detriti che le cadevano davanti.
Vedeva Lee pochi metri più avanti, anche lui impegnato in quella corsa
accidentata verso la salvezza. Si dovette fermare perché qualcuno le afferrò un
braccio: era Steve, trafelato e con gli occhi azzurri spalancati dal panico. Gli
fece cenno di venire con lei, ma il ragazzo scosse la testa: “Devo trovare
Julia!”
Gli
avrebbe rifilato volentieri un paio di ceffoni, per poi trascinarlo via con sé,
ma si trattenne, cercando di essere comprensiva verso l’eroismo, per lei
alquanto stupido, del figlio: “Corri verso l’hotel, ci vediamo li!” Steve annuì,
lasciandola andare, per poi precipitarsi anch’egli verso le uscite di
emergenza.
Per
prima cosa Nina riuscì a recuperare le armi nascoste. Dentro alla cassa vi era
anche uno zaino militare, che riempì con i fucili e le munizioni, per poi
infilarselo in spalla.
Un altro latrato attraversò l’aria, e la donna si chiese nuovamente che diavolo
stesse succedendo.
Che fosse?
Oddio, l’Arma X di Alexandersson? Che fosse il suo amichetto Deimos? Magari era scappato dal loro controllo.
Le venne in mente che Jin Kazama annoverava, tra i suoi
film preferiti, anche Cloverfield, un’insulsa storia
americana su un mostro misterioso che distruggeva New York.
No, non poteva essere così:
Neppure il più deficiente dei Mishima avrebbe
lanciato un mostro scatenato a distruggere la città.
Gettò un’occhiata fuori dalla porta, prima di uscire dal suo
nascondiglio e attraversare le strade ormai deserte, intasate di auto
abbandonate dai proprietari.
Da megafoni agli angoli delle
strade, una voce femminile squillante consigliava un’evacuazione veloce ma
ordinata, senza panico. Nina ne fece saltare uno con un colpo di fucile, giusto
per sfregio verso il regime.
Si precipitò verso l’Hotel
Supreme, correndo a perdifiato: aveva tentato di mettersi in contatto con il
Comando Russo, ma il cellulare non aveva campo e nell’attrezzatura Pavlov si era dimenticato di fornirle una radio.
Quando arrivò davanti al lussuoso
albergo, ciò che vide le mozzò il fiato:
Una gigantesca orma a tre dita,
grossa quasi quanto un autobus, era impressa sull’asfalto sfondato della
strada, proprio davanti all’entrata dell’hotel. Ne seguivano altre due, dirette
dalla parte opposta all’Arena. Un grosso segno orizzontale sfregiava il palazzo
restaurato dell’albergo, attraversando i due balconi all’angolo, che erano
crollati a terra insieme all’elegante insegna.
“Cazzo” mormorò tra sé e sé,
riconoscendo uno dei due balconi come quello della camera di Lee e Anna. Girò
attorno all’orma, e per passare l’entrata di vetro, crollata, dovette stare
molto attenta ai detriti. Entrò nella hall deserta, calpestando i cocci delle
vetrate infrante per terra guardandosi attorno.
“STEVE!” chiamò. Nulla. “ANNA!” niente. “LEE!”
Con un vago senso di panico che
le faceva tremare il respiro, corse sulle scale, raggiungendo il corridoio
della stanza di sua sorella.
Le lussuose applique alle pareti
erano cadute, insieme a molti calcinacci e alle rifiniture di pregio.
“ANNA!” chiamò nuovamente. Udì un rumore di passi veloci dietro
all’angolo del corridoio, e la figura impolverata di Lee Chaolan
che faceva capolino. “La porta della camera è bloccata, non riesco ad entrare.
Ho sentito la voce di Anna, sta bene, ma non riesce a spostare quello che c’è
davanti all’uscita.” Spiegò tutto d’un fiato.
Nina camminò velocemente verso di
lui, superandolo e dirigendosi verso la porta. “Hai visto Steve Fox?” domandò,
mentre si avvicinava alla loro camera. Lee scosse la testa bianca.
“Stai sanguinando dalla fronte”
lo informò, mentre appoggiava lo zaino a terra. L’uomo si toccò la testa, ma
non sembrò dargli molto peso. “E’ un taglietto.”
Nina provò a dare due spallate
alla porta. Niente da fare. Doveva esserci qualcosa di molto grosso a
bloccarla. “Anna, mi senti?”
“Nina?” La voce ovattata della
sorella aveva una nota incredula. “Che ci fai qui?”
“Ti tiro fuori, imbecille.”
Rispose, acida. “Che diavolo c’è davanti a questa porta?”
“Un pezzo della balaustra. E’ in cemento, non riesco a spostarlo.”
“C’è una parte di legno libera?”
Dall’altro lato, la donna rispose
affermativamente, picchiettando sulla superficie lignea, in alto.
“Bene, spostati di li, devo farci
un buco” Avvisò, imbracciando il fucile. Quattro colpi ridussero il pannello
superiore della porta ad un colabrodo, e un paio di calci di Lee e di spinte
aprirono un varco. L’uomo si inerpicò al suo interno, seguito da Nina.
Abbracciò la moglie sollevato, trovandola sana e salva.
“Alla televisione si è visto
tutto. Sembrava subito un terremoto, nel panico generale il cameraman ha
inquadrato l’esterno dell’Arena, e si è visto questo mostro sbucare da uno dei
padiglioni e far crollare tutto l’edificio. Quando ho sentito che si stava
avvicinando stavo per uscire, ma la maniglia si era bloccata, nel panico,
sapete com’è…” prese un bel respiro, controllando la
ferita di Lee sulla fronte. “Mi sono chiusa nell’armadio. Ho sentito un rumore
assordante, pensavo crollasse tutto, e quando sono uscita, ho trovato tutto
questo macello.” Concluse, con un cenno alla breccia che si era aperta sulla
porta finestra e all’arredamento distrutto dai detriti.
“Sei stata fortunata
Principessa.”
“Luck of the Irish, te l’ho sempre detto.” Si rivolse poi a Nina
con un sorriso grato. “Un armadio resistente, un marito veloce e una sorella
attrezzata.”
Seppur si sentisse lusingata e
rinfrancata, Nina le voltò la schiena, alzando le spalle. “Non ero qui per te.”
Spostò un paio di calcinacci
dalla porta, aiutata da Lee, e poi, dopo essere riusciti ad aprire la porta, si
diresse verso la sua camera senza dare ulteriori spiegazioni.
Ritornò nella hall dell’hotel
imprecando tra sé e sé: aveva tentato di connettersi ad internet dalla sua
camera, ma nulla da fare, la rete era completamente fuori uso. Aveva bisogno di
una radio. Che diamine doveva fare?
Tenne premuto il bracciale al
polso per dieci secondi: almeno l’avrebbero localizzata. Uscì in strada,
sentendo dei rumori di aerei che sfrecciavano al di sopra dei palazzi. Cercò di
focalizzarne uno: americani.
La sua attenzione fu catturata da
una mano che spuntava da un cumulo di macerie dei balconi. Spostò un pezzo di
macerie, notando disgustata che era il corpo, pressoché maciullato, di uno dei
bodyguard che le avevano impedito di uscire dall’hotel due sere prima. Notò che
indossava ancora l’auricolare di servizio, e ne tirò il filo, per raggiungere
la radiolina, fortunatamente ancora intatta.
Luck of the
Irish.
“Sai potenziare quest’affare?”
disse, lanciando la radiolina in direzione di Lee, entrando dentro uno dei
salottini. L’uomo la prese, guardandola come se fosse un gioco da ragazzi. “mi
serve un cacciavite e qualche altra piccola stupidatina
elettronica.” Rispose, iniziando a gironzolare qua e là alla ricerca di
qualcosa di utile, non prima di essersi raccomandato con Anna di rimanere
seduta sui divanetto. Per tutta risposta, lei alzò un braccio in segno
affermativo. Nina notò che era impallidita quasi improvvisamente. “Stai male?”
Anna sospirò. “Il bambino è molto
grosso e pesante. E ho avuto un paio di contrazioni nell’ultima mezzora”
“Non avrai mica intenzione di
partorirlo ORA.”
“E’ normale avere qualche
contrazione al nono mese.” Rispose la sorella, cercando di trovare una
posizione più comoda. “E anche dolori qua e là.”
Rimasero un istante in silenzio,
con Nina appoggiata al muro di fronte all’altra, il fucile appoggiato al suo
fianco. Fu Anna a parlare nuovamente per prima. “Ho paura” quasi bisbigliò.
“Avresti dovuto pensarci prima,
idiota.” Sbottò Nina acidamente. “Quando imparerai gli effetti delle tue azioni
stupide?”
La sorella le rivolse il suo
sguardo azzurro, innervosito e rabbuiato. “Quando tu imparerai gli effetti
delle tue parole.” Voltò la testa dalla
parte opposta, posando lo sguardo per terra.
Nina rimase senza parole: cercò
qualcosa da replicare, senza riuscirci, e rimase con le labbra schiuse per
qualche secondo, prima di voltare anche lei gli occhi gelidi da un’altra parte.
“HEY!” una voce maschile, che
Nina riconobbe immediatamente, provenne dalla Hall attigua. La donna lasciò il
muro, avvicinandosi all’entrata del salottino. “Steve!” chiamò. Vide il ragazzo muoversi in mezzo ai detriti,
vederla e sorridere sollevato, prima di chiamare Julia, che sbucò da uno dei
corridoi laterali.
I due le si avvicinarono, mano
nella mano. “Immagino che voi due vi conosciate già” disse il pugile,
grattandosi la testa impolverata, un po’ imbarazzato.
Dietro di sé, Nina sentì la
sorella emettere un verso incuriosito. “Si, l’ho lanciata fuori dal quarto
torneo” ricordò.
Anche Julia sorrise imbarazzata.
“E’ un piacere vederti in una circostanza diversa”
“Si, gli incontri casuali in
città distrutte da un mostro sono sempre i migliori” ironizzò la donna. “Come
mai ci avete impiegato così tanto?”
“All’arena c’era il caos. È
crollato tutto. Ci siamo salvati per miracolo, e non riuscivamo a trovarci. Ci
abbiamo messo un po’.” Spiegò Steve. Nina gli chiese se fosse ferito. “No,
mamma, va tutto bene.”
“…Mamma?”
Lee Chaolan
sbucò proprio in quel momento, la radiolina in mano e gli occhi spalancati. “In
che senso Mamma?”
Steve si sbatté la mano sulla
fronte, Julia scosse la testa. “L’ho sempre detto che parli troppo…”
Nina cercò di sintonizzarsi sulle
frequenze utilizzate dai russi. Sapeva poche parole della lingua di Sergei, quanto bastava per farsi riconoscere. “Agente Williams all’ascolto, rispondete.” Ripeteva
ad ogni frequenza, tra i sibili e i fruscii fastidiosi. Aveva intercettato
qualche messaggio americano, che parlava di massicci bombardamenti e della Cosa che li respingeva. Pareva che
liberasse anche dei parassiti, grandi quanto un bue, che attaccavano qualsiasi
cosa gli capitasse a tiro. Persino Julia, che si trovava vicino a lei, trovò
lampante la somiglianza con Cloverfield.
Nina le domandò come fosse finito
il film
“Hanno bombardato New York, i
protagonisti sono morti, ma da una frase detta velocemente durante i titoli di
coda si capisce che il mostro è ancora vivo.”
“…voi
americani e i vostri stupidi film…” sbuffò Nina. “Agente Williams all’ascolto, rispondete.”
“Non posso davvero crederci che
tu sia mio nipote.” Continuava a mormorare Anna, scrollando la testa. “E’
davvero terribile quello che vi hanno
fatto.”
“Già, però ho avuto la fortuna di
essere adottato da un’ottima famiglia, non mi hanno fatto mancare davvero
nulla, per quanto fosse loro possibile”
“E io due anni fa ho tentato
addirittura di sedurti!”
“Beh, si, in effetti quello è
stato un po’ traumatico…”
“…mio
dio, ti ho anche messo la mano sui pantaloni…”
“A pensarci bene, è stata una
delle cose più imbarazzanti della mia vita…”
“…Potrai
mai perdonarmi…?”
“Non sapevi di essere mia zia e...”
“AH!”
Lee scattò in piedi, come se
avesse ricevuto una scossa elettrica, guardando Anna come se fosse una boma ad
pronta ad esplodere da un momento all’altro. “Che cosa c’è?”
La donna si era afferrata la
pancia tra le mani, gli occhi spalancati e il respiro affannoso. “E’ ufficiale,
tesoro. Sto per partorire.”
Il marito sembrava sull’orlo di
uno svenimento. “Stai scherzando, vero?”
“E’ la quinta contrazione
nell’arco di mezz’ora. Il bambino sta arrivando.”
Anche Julia era scattata in
piedi, ordinando a Steve di correre a prendere dell’acqua calda. “Nina, tu devi
chiamare un dottore!”
“Agente Williams all’ascolto, rispondete. PER FAVORE”
Doveva ammetterlo: Lee era
sorprendete. Dopo lo spavento iniziale aveva mantenuto il suo self control, aiutando Anna a stendersi, fornendole dei cuscini
come supporto e andando a recuperare, dalla loro stanza, una piccola busta dove
aveva preparato, da bravo futuro genitore molto previdente, lo stretto
necessario nel caso sua moglie avesse deciso di partorire con dieci giorni
d’anticipo.
“Tuo figlio ha un tempismo
perfetto per nascere, non c’è che dire…” cercò di
sdrammatizzare. Un’altra contrazione aveva lasciato Anna senza fiato. “Anche se
ci hai messo solo la parte divertente, ti ricordo che è questo è TUO figlio.”
“Agente Williams all’ascolto,
rispondete.”
“WILLIAMS!” Quella
voce rara l’avrebbe riconosciuta tra mille, alta e chiara sopra ai rumori dei bombardamenti
e dei latrati del mostro. Sergei Dragunov,
proprio lui. Un caso? Luck of
the Irish.
“WILLIAMS, DOVE SEI?”
Era in mezzo ai combattimenti, in
prima fila. Il suo posto, il suo ruolo perfetto, tra le sue armi e i suoi
uomini da comandare. “Mi trovo all’Hotel
Supreme, ho con me altri quattro civili.” Rispose, sempre in russo,
voltandosi verso Anna, che cercava di controllare il respiro, pallida come un
cencio. “Quasi cinque, per la precisione.”
“Feriti?”
“Negativo” Pensò un attimo alla parola corretta da utilizzare, ma
non ricordandosela in russo, rispose in inglese: “Una partoriente.”
Seguì un istante di silenzio
dall’altro capo della radio. “In che senso partoriente, Williams?”
“Mia sorella Anna ha deciso che
questo fosse il momento più opportuno per scodellare il primo figlio.”
Dal tono della voce ne dedusse
che a Dragunov fosse scappata una imprecazione ben
definita nella sua lingua madre. “Gli americani non vi hanno recuperato?”
“Negativo, non si è visto
nessuno”
“L’ho sempre detto che sono dei buoni
a nulla.” Dragunov imprecò nuovamente: “State fermi
dove siete. Mando una pattuglia a recuperarvi con un medico, se riesco.”
Tra sé e sé Nina sorrise: “Grazie,
comandante.”
“Va bene. Facciamo così: nell’attesa
che vengano a prenderci, Steve e Julia controlleranno la hall. Rimanete
nascosti dietro al bancone, e se sentite il mostro avvicinarsi…
beh, scappate alla svelta. Io pattuglierò l’entrata sul retro. Lee a te
l’ambito ruolo di ostetrico.”
Vide Anna tirare un braccio del
marito, per farlo chinare verso di sé, e bisbigliargli qualcosa nell’orecchio.
“Sicura?” Anna annuì. L’uomo si rivolse a Nina “Vado io sul retro, per ora.
Rimani qui con Anna. Tornerò al momento opportuno.”
La donna fece per protestare, ma
Lee, dopo averle soffiato il fucile di mano, corse fuori dalla stanza.
“Non vuoi la tua dolce metà in
questo momento?”
Anna scosse il caschetto castano,
un piccolo sorriso tirato sul viso candido. “Le contrazioni possono durare ore,
quando sarà il momento decisivo, richiamerò Lee.” Le fece segno di avvicinarsi.
Tra il riluttante e il curioso, Nina acconsentì, sedendosi sulla poltrona più
vicina. “Fa male?”
Sforzandosi di sorridere Anna
annuì. “Mi sento aprire in due. E il peggio deve ancora venire.” Sospirò,
accarezzandosi la pancia. “Non me lo immaginavo così: avevo già prenotato in
una clinica privata di Nassau un bel parto in acqua con epidurale. Il sogno di
ogni donna.”
“Dovevi pensarci nove mesi fa.”
“Ne vale la pena. Questi mesi
sono stati i più belli della mia vita.”
Nina titubò qualche istante sulla
domanda che voleva farle. Alla fine, si decise: “In che senso hai avuto un
periodo buio?”
Il sorriso di Anna si spense
lentamente. Spostò gli occhi azzurri sul soffitto, poi a terra, imbarazzata.
“Dopo il sesto torneo, io e Lee siamo scappati insieme alle Bahamas. Però io… io non riuscivo più a provare nulla. Avevo fallito di
nuovo nel mio obbiettivo, mi sentivo vuota. Non c’era nulla che mi
interessasse, nulla che riuscisse a scuotermi. Cercavo di non darlo a vedere,
ma avevo praticamente smesso di mangiare, e poi sono arrivati gli attacchi di
panico.” Si terse la fronte madida di sudore, sospirando. Non riusciva a
guardare Nina negli occhi. “Capitavano di continuo. Avevo il terrore di uscire,
ma stando sempre in casa non riuscivo a reagire e mi deprimevo sempre di più.
Lee ha cercato subito di aiutarmi, ma non glielo permettevo. Finché una sera, è
tornato a casa da una cena d’affari e mi ha ritrovato nella vasca da bagno con
un vetro in mano e il polso tagliato” alzò l’avambraccio: il polso, a pochi
centimetri dalla mano, era sfregiato da una lunga cicatrice bianca, Nina rimase
a bocca aperta. “Hai davvero fatto una cosa così stupida?”
“Non riuscivo a vedere nessuna
altra via d’uscita. Cercavo di impedire a me stessa di fidarmi di Lee, di
aggrapparmi a lui, conoscendolo. Ma da sola non riuscivo a riprendermi. Alla
fine mi sono resa conto di essere lo spettro di me stessa, e di aver davvero
bisogno di aiuto. E lui me l’ha dato. In pieno.” Recuperò un poco di sorriso.
“Ho conosciuto il suo lato migliore. Quando ho scoperto di essere incinta… ero al settimo cielo! Avrei avuto una persona da
amare, che non mi avrebbe mai lasciata sola in ogni caso. Sinceramente, pensavo
che Lee non la prendesse bene. In fondo, da amante della bella vita com’era,
avrebbe preso il bambino come un intralcio, no? Ma io l’avrei tenuto comunque.
E invece… Beh, ci siamo sposati in spiaggia. Ti rendi
conto? IO che mi sposo con LEE in spiaggia, in un romantico tramonto, solo noi
due con l’ufficiale?”
“Fantascienza”
“L’avrei detto anche io!”
Un’altra contrazione incrinò la voce della donna. “E tu? Cosa hai fatto in
questo tempo?”
“Lavoro per i russi” spiegò
brevemente. “Agente segreto.”
“Cavoli, è un bel passo avanti da
sicario a pagamento, no?”
Nina annuì. Non di certo una
professione invidiabile, ma comunque di gran lunga più remunerativa ed
interessante.
“E nient’altro?”
“Una sottospecie di relazione”
“Oh, questa è una cosa …” la
bocca di Anna si aprì ad O. “Nina, chiama Lee… mi si
sono rotte le acque!” Nina balzò in piedi, pronta a scattare verso l’uscita sul
retro, ma Anna la bloccò nuovamente. “Ti prego, dovresti controllare la
dilatazione.”
Oh,
no… non questo… Pensò Nina disgustata.
Gliel’avrebbe fatta pagare cara a sua sorella, figlio o no.
“Quanti centimetri è?”
“so che non è la prima volta che
te lo dico” rispose alla sorella dolorante e preoccupata. “Ma ce l’hai larga”
Dopo un’ora intera passata tra
urla e imprecazioni varie, dove Anna, nell’ordine, aveva maledetto di essere
nata donna, mandato il marito a quel paese ed invocato l’intervento di una
ventosa sturalavandini, Nina le comunicò che si vedeva la testa del neonato.
Lee chiese come fosse.
“Come diavolo vuoi che sia, razza
di idiota, quadrata?” fu l’acida risposta di Nina. “Avanti, Anna, un’altra
spinta, forza!”
Anna era allo stremo, sembrava
sul punto di collassare da un momento all’altro. Stringeva convulsamente la
mano di Lee, che ormai doveva avere anche qualche osso rotto, ed era paonazza
in volto. “Non ce la faccio più!”
“TSK! Me l’aspettavo, bambolina mollacciona.”
Fu come dar fuoco ad una tanica
di benzina. Anna strinse ancora di più la mano di Lee, che accusò la stretta in
silenzio, con le lacrime agli occhi e strinse i denti così forte che la
mascella si contrasse come se si stesse spezzando.
E un istante dopo, un piccolo
essere sporco e strillante era tra le mani di Nina.
No, non era bello.
Aveva la faccia schiacciata e
sembrava quasi un rospo. Non riusciva a trovare la somiglianza tra di loro come
stavano facendo i due neo genitori, commossi. “Oh, gli occhi sono i tuoi!” “Le labbra sono
le tue!”
Quella sua vocetta
rauca che dava sui nervi.
E poi era davvero grosso. Come diavolo faceva un bambino a
nascere cosi? Non era normale!
Per non parlare del nome: “James
Patrick Chaolan – Williams” aveva enunciato orgoglioso
Lee, pronunciando il lungo nome del suo primogenito come se fosse il principe
d’Inghilterra. Come mai James?
“Abbiamo scoperto che ci
piacciono a tutti e due i film di James Bond” aveva spiegato semplicemente
l’uomo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Patrick invece come il
patrono d’Irlanda. E Patrick Swayze, che piaceva molto ad Anna. E ci piaceva
mettere il doppio cognome.”
Il destino era stato proprio
inclemente con il piccolo Chaolan. Nascere brutto,
con una voce atroce, in mezzo ad una catastrofe, e con due genitori del genere.
Davvero un destino infausto.
E
allora perché non riusciva a smettere di guardarlo, senza poter impedire alle
sue labbra di stendersi in un sorriso?
Anna glielo rifilò in braccio
senza che lei potesse opporre resistenza. “Ti presento tua zia.”
Nina era impacciata, quasi non
respirava per paura di farlo cadere. Come diavolo faceva sua sorella a
maneggiarlo con tanta naturalezza?”
“Rilassati, è un bambino, non una
bomba”
“Appunto.” Si, gli occhi erano
proprio quelli di sua sorella. Azzurri, chiari, limpidi.
Forse erano come quelli di Steve,
quando era nato.
Si sentì una morsa al cuore al
pensiero di quel momento mancato tra lei e suo figlio: nessuno l’aveva
incoraggiata a farlo nascere, nessuno gliel’aveva appoggiato al cuore mentre
gli tagliavano il cordone ombelicale. Non si era nutrito tramite lei e non era
stato scaldato dal calore delle sue braccia. Nessuno aveva notato le sue
somiglianze, o il suo peso, o la sua lunghezza.
Non c’era stato nulla di ciò per
suo figlio.
Lo vide avvicinarsi a lei e
sedersi accanto. “Ma che bello che è il mio cuginetto!” esclamò, come se fosse
rimbambito, fotografandolo con il cellulare. “Non è vero mamma?”
Nina annuì lievemente, prima di
restituirlo ad Anna. “Grazie, davvero” mormorò. “Nostro padre non avrebbe mai
pensato a quanto potesse essere utile quel nomignolo così stronzo.”
Lee le passò un braccio attorno
alle spalle. Appoggiò la testa contro la sua, gli occhi persi sul proprio
figlio che si stava addormentando. Si baciarono, si sorrisero.
Con la coda dell’occhio vide
Julia avvicinarsi a Steve, e il ragazzo guidarla dolcemente a sedersi sulle sue
ginocchia, abbracciandola.
Si sentì inadeguata, fuori posto,
circondata da tutte quelle persone che si volevano bene. Si alzò dal divano, un
groppo in gola, prendendo il fucile. Teneva lo sguardo abbassato, celato dietro
il ciuffo di capelli biondi. “Vado a pattugliare l’ingresso” riuscì solo a
mormorare.
Si concesse qualche lacrima.
Sola, nella Hall distrutta, avvolta nell’oscurità della notte che aveva
inghiottito la città, con i latrati e i rumori dei combattimenti in lontananza,
abbracciata al fucile. Tutto quello che si era meritata nella vita.
Le persone attorno a lei avevano
avuto una loro vita, si erano costruiti una storia ed una famiglia, potevano
contare sull’aiuto di qualcuno, sull’affetto di qualcun altro.
Lei era sola.
E fu proprio mentre si stava
asciugando le lacrime dagli occhi che il fascio di luce di una jeep fermarsi
pochi centimetri prima dall’entrata dell’hotel, e tre figure scure entrare
nella vetrata.
“Agente Williams?”
La sua voce. Avrebbe voluto
vederlo in faccia, avvicinarsi a lui, ma rimase al proprio posto, conscia che
in quel momento, lui era il suo comandante.
Un comandante che era venuto personalmente a prenderla, insieme a due
suoi uomini.
Il medico non aveva potuto far
altro che constatare le buone condizioni di Anna e del bambino. Aveva
disinfettato il taglio sulla fronte di Lee e controllato la sua mano, che stava
assumendo un certo color viola.
L’altro soldato che era con loro
aveva controllato l’uscita sul retro.
“Andremo verso il nostro campo base” riferì, rispondendo alla domanda di
Julia.
“Meglio prima controllare che gli
scontri siano a debita distanza” . Era la prima frase che aveva spiaccicato dal
suo ingresso nella Hall. Dragunov sembrava molto
stanco. Si era appoggiato al muro, più pallido del solito, massaggiandosi il
collo. La sua tuta da combattimento era lacera in più punti e sporca, e i
capelli sudici erano attaccati alla testa e alla faccia.
“Williams, andiamo a pattugliare
il tetto.” Si scostò stancamente dal muro, riprendendo il mitragliatore e
posandoselo sulla spalla, avviandosi verso le scale.
Nina lo seguì: Non le aveva
rivolto nessuno sguardo, nessun cenno di interesse, come se fosse davvero un soldato come un altro. Forse
in quei tre mesi era cambiato qualcosa. Che gli avessero ordinato di tagliare
tutti i ponti con lei? Non disse nulla, limitandosi a seguirlo sulle scale sino
al tetto, all’aria aperta e fresca di quella notte infernale.
Solo quando la porta antincendio
si chiuse alle sue spalle, Sergei Dragunov
si voltò verso di lei. Si avvicinò di un passo. Nina riusciva a malapena a
sostenere il suo sguardo intenso. Quando si trovò a pochi passi da lei, alzò il
braccio, sfiorandole il volto, scivolando sulle sue labbra, stringendola contro
il metallo della porta dietro di sé.
Nina lasciò che il fucile le
cadesse di mano, per poi avvolgere le braccia attorno al collo dell’uomo: Il
profumo del suo dopobarba era appena percettibile, sotto l’odore di sudore e
polvere da sparo. Si sentì sollevare e stringere, prima che le lasciasse la bocca.
“Buonasera, Nina.”
“Ciao Sergei.”
Forse non era sola.
Luck Of The
Irish.
Benvenuto,
James Patrick Chaolan-Williams! (O, meglio, il
piccolo Jamie.)
Eccomi
di nuovo con un luuungo capitolo. Preparatevi al
peggio!
Grazie
mille per le recensioni a Miss Trent, AngelTexasRanger e Sackboy97 (scusa per l’errore nel titolo
del cap. precedente). E anche a Nila Gor_kj e Goth girl, che non ho
mai citato personalmente nei miei ringraziamenti (scusate la maleducazione)
I
vostri commenti sono la mia linfa vitale!
Piccole
note:
NASSAU,
la città dove Anna aveva programmato di “scodellare il primo figlio” è la
capitale delle Bahamas.
LUCK
OF THE IRISH: (la fortuna dell’Irlandese) è un comune modo di dire, probabilmente
nato negli USA ai tempi della corsa all’oro: i primi minatori e cercatori d’oro
erano Irlandesi. Quanto pare, i primi erano anche molto fortunati.
Non
ho mai visto Cloverfield. Ma ho visto Godzilla.
Alla
prossima!
EC