Mi ristabilii nel giro di una
settimana. Mi sentivo
ancora molto fiacca, ero ancora anemica, e Carlisle insistette per
continuare a
somministrarmi farmaci in vena per assicurarsi che il mio organismo
riuscisse a
soddisfare le esigenze di mia figlia.
Infine, dopo numerosissime
insistenze, riuscii persino
ad andare a trovare mio padre a casa sua. Il patto con Edward era che
sarei stata
accanto a mio padre sul divano e mi sarei riposata per il resto del
giorno, mentre
lui ed Alice si occupavano del pranzo e della casa. Mio padre fu
davvero
sollevato di vedermi e capii quanto dovevo averlo fatto preoccupare.
«Come ti
senti?» domandai, indicando la gamba
ingessata.
«Non è
niente» borbottò, volgendosi a guardarmi, serio
«e tu, Bella? Stavi molto male, lo so. Ha a che fare con la
gravidanza o…» si
torse le mani in grembo «so che non deve essere stato facile
tornare in quel
posto, vedere Billy».
M’irrigidii. Mio padre
pensava che avessi avuto una
ricaduta dal punto di vista psichiatrico. Non potevo neppure immaginare
in che
stato mi avesse vista subito dopo il rapimento con Jacob. Ma la
verità era che
mi sentivo davvero meglio, nonostante la sospensione degli
antidepressivi.
Rosalie mi aveva avvisato che la gravidanza era un periodo molto
particolare e
che avrei potuto avere delle ricadute, ma a parte degli incubi, ogni
tanto, e
un po’ di inquietudine ad uscire all’aria aperta,
potevo dire che stavo bene.
«No, papà, davvero. Non è per
quello» tentai di rassicurarlo.
«Per cosa
allora?» fece serio, scrutandomi. «Non
sembri stare bene. Sei molto pallida».
Mi mossi a disagio sui cuscini, non
sapendo come spiegare
a mio padre gli effetti collaterali di una gravidanza vampira.
Per fortuna Edward venne presto in
mio soccorso,
venendo a sedersi accanto a me. «Bella ha avuto un
po’ di anemia. Era molto
stanca e per lei e la bambina abbiamo pensato fosse meglio che stessero
un po’
più a riposo».
Mio padre strinse le labbra,
incerto se credere alle
parole di mio marito. Di certo non avrei potuto essere più
rassicurante di lui.
«E adesso come stai?».
Gli sorrisi, portandomi una mano
alla pancia. «Molto
meglio, grazie».
«Sicura?».
Edward mi strinse con un braccio da
dietro, portando
anche lui la mano sulla mia pancia. Annuì.
Sospirai quando fummo di nuovo
nell’auto. «Mi ero
dimenticata quanto riuscisse ad essere inquisitorio mio padre. Sei
riuscito a
leggere i suoi pensieri? Hai riconosciuto il volto?» gli
domandai. Uno degli
scopi con cui eravamo venuti era proprio domandare a mio padre della
donna
sconosciuta. Aveva detto di averla fatta cercare dai suoi uomini, ma
che era
come se fosse scomparsa nel nulla. Un’ulteriore prova che mi
spingeva a pensare
ad un’immortale.
Edward crucciò la
fronte. «Solo un po’ meglio».
«Che
c’è?» domandai confusa, osservando il
suo sguardo
stanco e perso.
Scosse il capo. Aveva il viso teso
e pallido, le
occhiaie e gli occhi neri. «Forse ho un po’
esagerato» mormorò stringendo le
mani sul volante.
«Oh Edward»
sussurrai, preoccupata, capendo
finalmente. Aveva molta sete, ed io non potevo neppure immaginare
quanto stesse
soffrendo. Mi sentii davvero stupida ad avergli chiesto di
accompagnarmi. Il
fatto che fosse così bravo a controllarsi non voleva dire
che fosse altrettanto
semplice. «Scusami».
«Non è colpa
tua» mormorò con un sorriso mesto. «Ma
è
momento che tenga fede alla promessa. Tu stai meglio ed io devo
nutrirmi. E poi
volevo spingermi a nord con i ragazzi, sono l’unico oltre a
tuo padre che ha
visto il volto di quella donna e che potrebbe riconoscerlo. Le ragazze
sono
andate a caccia la scorsa settimana. Potresti stare con loro, va
bene?»
domandò, incerto.
Come se dovesse chiedermi il
permesso o sentirsi in
colpa a lasciarmi per un paio di giorni. «Portami subito a
casa e vai» riuscii
solo a dire.
Annuì, poi si
bloccò, teso. «Se solo…».
«Cosa?»
domandai.
Rilassò a fatica i
muscoli. «La tua vicina di casa. Il
suo odore, i suoi pensieri. È così concentrata su
di noi che non riesco a
distogliere l’attenzione».
«La mia
vicina?» domandai sorpresa, seguendo il suo
sguardo.
Era sul vialetto di casa, facendo
finta di ritirare la
posta mentre intanto ci scoccava per nulla discrete occhiatine di
soppiatto.
Presi un respiro, arrabbiata. Aprii lo sportello e scesi
dall’auto «Ehi» la
chiamai a voce alta, facendola trasalire «Adesso sono
incinta, contenta? Io sì,
molto. Se vuoi la prossima volta ti porto una foto
dell’ecografia. Smettila di
spiarci!» sbottai, rimettendomi seduta e sbattendo la
portiera. Feci un cenno
con il mento «Parti».
Edward mi fissò
sgomento. «Pensavo che non volessi che
la gente pensasse che fossi incinta».
«Quello era prima che
fossi realmente incinta. Sono
molto orgogliosa di mia figlia. E mi dà molto fastidio che
ti diano problemi»
spiegai, incrociando le braccia sul petto.
Scosse il capo con un mezzo
sorriso, mettendo in moto.
«La mia moglie protettiva».
Edward mi lasciò con un
lunghissimo bacio, facendomi
promettere che non mi sarei stancata, che non sarei stata troppo tempo
in piedi
e che lo avrei chiamato subito se avessi avuto un problema di qualsiasi
tipo.
Gli feci promettere che avrebbe fatto altrettanto e che non sarebbe
stato
sprovveduto con quella donna probabilmente immortale.
Partì quasi subito con
Jasper, Emmett e Carlisle e le
ragazze vennero a farmi compagnia. Non era solo della compagnia che
avevo
bisogno, ma di sentirmi protetta, e mio marito lo sapeva. Volevo
provare a me
stessa di essere in grado di stare da sola, ma sapevo che avevo bisogno
di
ancora un po’ di tempo per arrivare a quel punto.
«Tesoro, vuoi dei
biscotti?» mi chiese Esme,
porgendomi un vassoio ricolmo di ogni tipo di biscotto al cioccolato.
«Sì, grazie!
Sto morendo di fame» confessai,
mettendone uno in bocca.
Rosalie ridacchiò.
«Ma se hai appena finito di
mangiare! Passata la nausea?».
«Mmm»
feci, con un biscotto
in bocca, prendendone un altro «no, nienfe
affaffo… ma
ho fame».
«Bella!»
esclamò Alice vendendo verso di me con una
pila immensa di giornali, che si sollevava dalle sue braccia fin sopra
la
testa.
Afferrai un altro biscotto,
osservandola con curiosità
mentre posava tutti i giornali per terra, formando una pila di
Il suo viso
s’illuminò. «Riviste di ultima
generazione
su gravidanza e bambini!» esclamò contenta
«abbiamo tutto il pomeriggio per
leggerle!».
«Tutte?»
chiesi esterrefatta, indicando la pila.
«Certo! Edward si
è raccomandato di non farti
stancare, così potrai startene comodamente distesa sul
divano. E poi così
potremmo fare qualcosa tutte insieme, è divertente, non
trovi?» chiese
euforica.
Esme venne in mio soccorso.
«Magari Bella vuole
riposarsi, dev’essere abituata a dormire di
pomeriggio».
Intervenni prima che il broncio di
Alice si
trasformasse in vere e proprie lacrime silenziose. «No, va
bene, cominciamo e
poi magari vediamo fin dove riusciamo a leggere» feci
titubante.
Immediatamente si
rallegrò trascinando con sé Rosalie
e anche Esme. Passammo molto tempo a leggere articoli di giornale sulla
gravidanza e sui neonati. C’erano moltissime cose che
ignoravo completamente
essendo una ragazza appena diciannovenne, ma me ne stavo rendendo conto
solo
allora. Tentavo sempre di smorzare il mio entusiasmo con Esme e Rosalie
nei
paraggi, non era mia intenzione farle intristire. Loro tuttavia
sembravano
tranquille e serene, felici di immaginare la piccola e di avere la
possibilità
di prendersene cura.
Quando fu ora di andare a dormire
ero molto stanca.
Sì, non ero più anemica come prima, ma il mio
corpo stava facendo gli
straordinari per stare al passo della gravidanza. Avevo sentito Edward
al
telefono poco dopo cena e ci eravamo reciprocamente rassicurati che
andasse
tutto bene. E sapevo che aldilà della porta
c’erano Alice, Rosalie ed Esme,
pronte a proteggermi e a rassicurarmi, ma sentivo
un’inquietudine dentro che,
mi rendevo conto, mio marito era l’unico in grado di
scacciare.
Presi il cellulare in mano ed
esitai. Gli avevo
promesso di chiamarlo per alcun genere di problema, ma sapevo che si
sarebbe preoccupato
tantissimo. E volevo che si nutrisse, che stesse con la sua famiglia e
che
uscisse, ogni tanto, non sentendosi in dovere di stare sempre con me.
Mi
rannicchiai sotto le coperte. Magari avrei potuto prendere dei
calmanti, ma non
volevo ricominciare proprio ora che mi sembrava di stare meglio.
Sospirai,
voltandomi da un lato all’altro nel letto. Ormai era notte
fonda, ed ancora non
avevo chiuso occhio. Mi carezzai la pancia, dolcemente, pensando alla
grazia
che avevamo ricevuto con quella gravidanza. Canticchiai alla bimba la
ninna-nanna che Edward aveva scritto per me, ma neppure quello
riuscì farmi
addormentare.
La verità era che mio
marito mi mancava terribilmente
ed ero molto preoccupata per la storia dell’immortale. Forse
mi ero creduta più
forte di quello che ero.
Decisi di andare a fare una doccia
calda, sperando che
mi sarei rilassata e che sarei riuscita a dormire. Sbadigliai,
stanchissima,
adocchiando nell’angolo del bagno la cesta con i panni
sporchi. Esitai, poi
afferrai la t-shirt di Edward, quella che aveva usato il giorno prima.
La
portai al naso: profumava ancora di lui. La indossai e mi accoccolai
ancora nel
letto. Canticchiai ancora e ad un certo punto, sfinita, dovetti
addormentarmi.
Non ricordai immediatamente di aver
sognato, ma mi
svegliai che ero piuttosto inquieta. Dovevo aver fatto un incubo.
Qualcuno, Esme forse, mi aveva
messo addosso una
coperta, senza svegliarmi. Notai intorno a me la luce soffusa del cielo
perennemente coperto di Forks. Doveva essere tarda mattinata. Dopo aver
mangiato tutti quei biscotti, la sera prima, avevo la bocca molto
secca. Di
solito Edward mi faceva bere dopo mangiato o appena mi svegliavo.
Un’attenzione
cui non avevo mai dato particolare peso; decisi di alzarmi per andare a
prendere un bicchiere d’acqua.
Misi dei pantaloni della tuta che
avrebbero
sicuramente fatto rabbrividire Alice, ma non me la sentii di rinunciare
alla
maglietta di Edward.
«Buongiorno» mi salutò Esme dalla
poltrona dove stava leggendo un
libro. Mi sorrise con dolcezza. «Hai dormito
tesoro?».
Mi massaggiai le palpebre stanche.
«Sì, grazie»
mentii. Beh, qualche ora dovevo aver dormito e la consideravo una
vittoria.
«Ti serve
qualcosa?» domandò attenta a rispettare i
miei spazi, ma accorta «Non ti stancare, chiedi a
me».
Feci un mezzo sorriso.
«Vado solo a prendere un
bicchiere d’acqua» feci, dirigendomi verso la
cucina. Presi un bicchiere e
mischiai un po’ di acqua del rubinetto con quella in
bottiglia che avevamo in
frigo.
«Buongiorno Bella. Che
fai?» mi chiese curiosa
Rosalie, indicando il bicchiere.
Osservai le due bottiglie.
«È… perché mi dà
fastidio
il sapore dell’acqua appena sveglia, lo fa sempre
Edward» mormorai, bevendo
l’acqua e tentando di non pensare alle mie stesse parole.
«Torneranno fra poco,
vedrai» mi rassicurò lei,
intuendo i miei pensieri. Lo speravo, mi mancava davvero tantissimo.
Annuii, non riuscendo a nascondere
la mia insicurezza.
«Non so se ho più paura che la trovino o che non
la trovino».
Venne accanto a me, sfregando le
mani sulle mie
braccia come a rassicurarmi. «Hanno chiamato prima. Stanno
bene, torneranno nel
pomeriggio. Hanno corso, si sono divertiti e hanno cacciato. Vedrai,
Edward
starà molto meglio quando sarà qui, molto meno
burbero e rompiscatole del
solito».
«Oh, hanno già
chiamato» sospirai delusa. Avrei tanto
voluto sentire la voce di mio marito.
Rose colse la mia delusione. Mi
carezzò il mento con
una mano. «Puoi provare a richiamare se vuoi».
Alice saltellò verso la
cucina. «Adesso sono nel bel
mezzo della foresta, il cellulare non ha campo. Dai, Bella. Vieni a
riposarti
sul divano, non stare in piedi tutto questo tempo. Non fa bene
né a te né alla
bimba. Invece tuo marito sta benissimo» disse con un sorriso
«ha preso già due
puma».
«Ugh»
feci schifata «okay,
non volevo i dettagli».
Mi andai a sedere sul divano bianco
con Alice,
accendendo la Tv e cominciando a fare zapping; volevo trovare qualcosa
di
impegnativo, che mi distogliesse dall’assenza di mio marito. Infine
scovai un programma per bambini sulle storie delle fiabe. Era
divertente e
faceva ridere per la sua banalità, così rimasi a
guardarlo.
D’un tratto sentii
qualcuno schiarirsi la voce. «Mmm…
Bella, tutto bene?» fece Alice.
Solo in quell’istante mi
accorsi di aver posato la
testa sulla sua spalla e aver intrecciato le mie dita con le sue.
Divenni rossa
d’imbarazzo. «Oh, scusa, io…
è che sono abituata… non l’ho fatto
apposta… solo
che… ecco… Edward…»
balbettavo velocemente, a disagio.
Alice rise «E dai Bella,
non è successo nulla, volevo
solo prenderti un po’ in giro» disse abbracciandomi
e schioccandomi un bacio su
una guancia. «Ho una sorpresa per te, per distrarti un
po’» disse, scomparendo
e ricomparendo poco dopo con un bellissimo pacchetto bianco con un
fiocco
dorato.
«Oh, Alice. Sai che i
regali mi mettono sempre in
difficoltà» feci imbarazzata.
«Non questo, ti
piacerà» fece sicura.
Esme e Rosalie vennero da noi.
«È vero, ti piacerà
Bella».
«Okay» sospirai
incuriosita, scartando con attenzione
la carta. C’era stato già abbastanza sangue in
quei giorni. «Ma è… grazie!»
esclamai aprendolo. C’era un set nuovissimo di pennelli
italiani di cinghiale e
di colori ad olio con un bellissimo pigmento, insieme a tre libri
sull’arte. «È
un regalo bellissimo. Grazie» esclamai, abbracciandole di
slancio.
Esme ridacchiò.
«Sono contenta che ti piaccia. È un
po’ di materiale per il prossimo semestre in accademia.
Edward ci ha detto che
vuoi riprendere. Credo che la sorpresa non sia finita
però» disse guardando
Rosalie, che con un sorriso mi porse il cellulare.
Lo afferrai titubante, e lo portai
all’orecchio.
«Pronto?». Il cuore mi batté forte
perché c’era solo una voce che volevo
sentire in quel momento, quindi fui un po’ delusa quando
capii che non era mio
marito.
«Bella?
Bella
sei tu?».
«Amber!»
sospirai felice, scacciando subito la
delusione. Era da tempo che non la sentivo e mi era mancata. Mi
ricordava una
vita umana e normale, una quotidianità lontana da quel
momento.
«Bella!
Oh,
quanto tempo! Mi sei mancata tantissimo, sai?! Seguire i corsi senza te
non è
stata la stessa cosa!». Con il suo solito
entusiasmo e la sua solita,
solare, gioia di vivere, la mia amica d’università
mi regalò più di un sorriso.
Mi aggiornò sul programma di studi e su cosa avrei dovuto
studiare per
rimettermi in pari. Parlammo molto a lungo, mantenendo gli argomenti
sull’università e le mostre che ci sarebbero state
in città, e alla fine della telefonata
le promisi che ci saremmo riviste presto.
Mi aveva fatto molto piacere
sentire Amber: per tutta
la durata della conversazione, avevo potuto completamente dimenticare
l’esistenza di tutto all’infuori di me. Vidi una
vita normale, fatta di umani,
di college, di studi e di lavoro. Alice aveva avuto ragione, ero
riuscita a
distrarmi.
Riuscii a pranzare con il
buonissimo cibo cucinato da
Esme senza vomitare. Era una cuoca fenomenale e mi piaceva tantissimo
passare
del tempo con lei in cucina. Speravo che presto le nausee passassero
presto e
che avremmo potuto ricominciare a farlo.
Sbadigliai, molto stanca,
portandomi una mano alla
pancia. Sentivo come un senso di peso e come se fosse più
tiepida del solito.
«Tutto bene?»
mi domandò attenta mia suocera,
carezzandomi dolcemente la pancia. Era accanto a me, sul divano del
salotto.
Annuii, reprimendo un altro
sbadiglio. «Non è niente,
sono un po’ indolenzita».
I suoi occhi chiari si fecero
più attenti e mi sistemò
meglio la coperta sulle gambe. «Dovresti sdraiarti un
po’, riposare».
Le feci un piccolo sorriso.
«Tranquilla, mi capita
spesso. Devo solo fare un sonnellino» feci, malinconica.
Edward mi accompagnava
a letto a quell’ora, coccolandomi finché non mi
addormentavo, non prima di
somministrarmi tutti i preziosi farmaci che mi tenevano in vita.
«È
l’ora della medicina» disse Rosalie con un
sorrisino, comparendo accanto al divano con tre compresse in una mano e
due
siringhe nell’altra.
Mi nascosi il viso con la coperta.
«Non ce la posso
fare» biascicai con voce soffocata, facendola scoppiare a
ridere insieme ed
Esme. Abbassai la coperta quanto bastava per liberare un occhio.
«Vi prego, non
possiamo aspettare che torni Carlisle o Edward…? Rose, non
è che non mi fidi di
te, è che conosci le mie difficoltà»
biascicai querula. In quelle settimane
stavo avendo una terapia d’urto riguardo alla mia fobia degli
aghi.
Rose sollevò un
sopracciglio insieme alla sua logica
di ferro, facendo scintillare minacciosi gli aghi. «Intendi
le tue difficoltà
con questi preziosi farmaci che salvano la tua vita e quella della
bambina?» mi
prese in giro.
Mi nascosi ancora sotto la coperta,
sprofondando
arrendevole nel divano. Neppure Edward avrebbe potuto salvarmi da
quello.
Così dopo una
sceneggiata degna di mia figlia non
ancora nata e svariati punti di dignità persi, me ne stetti
buona, buona sul
divano, aspettando che il mio prode principe azzurro tornasse dalla
caccia per
salvarmi. L’inquietudine di non averlo accanto era tanta, ma
presto vinsero le
ore di sonno che avevo perso quella notte lontana da lui,
così, tormentata, mi
addormentai.
Sognai l’oceano gelido ed
io che ci nuotavo. In
lontananza una donna che non riuscivo a distinguere. La chiamavo,
cominciavo a
nuotare verso di lei, ma più volevo gridare forte
più la mia voce si bloccava e
più volevo nuotare veloce più le mie braccia si
facevano pesanti. E quando infine
non riuscii più a muovermi capii perché: delle
grandi braccia calde mi stavano
trattenendo. Quando mi voltai a fissare il suo volto sapevo
già a chi
appartenessero: Jacob.
Mi svegliai sudata, ansimando,
seduta sul divano.
Subito mi colpì fortissima la sua assenza: le sue braccia
fredde mi avrebbero
già raggiunta, circondata, impedendomi di andare in pezzi.
Mi avrebbe mormorato
una frase dolce all’orecchio o forse solo una nenia, e io
avrei capito che
niente di ciò che mi faceva paura era reale.
«Bella» mi
chiamò Esme preoccupata, scostando le tende.
«Tutto bene?».
Mi concentrai per rallentare i miei
ansiti frenetici.
Mi guardai attorno. Era solo una coperta, una coperta troppo calda che
mi aveva
portato dei pensieri spiacevoli. Non era reale. Annuii. Non era reale. «Sì»
soffiai con un filo di voce.
Si avvicinò cautamente,
quasi avesse paura di
spaventarmi. «Cos’è
successo?».
Scossi il capo, fissando il mio
sguardo sulle mani. Il
cuore non aveva ancora rallentato la sua folle corsa, e io avevo
bisogno di
qualcosa di reale per ricominciare a pensare normalmente. «Il
progesterone»
sibilai afona. Mi schiarii la voce. Deglutii. Ancora non riuscivo a
parlare,
perché quel maledetto sogno mi era sembrato così
reale e l’inquietudine che
sentivo non accennava a passare. Il progesterone, che mi
somministravano ogni
tre giorni per sostenere la gravidanza e scongiurare la minaccia
d’aborto, mi
faceva sempre fare degli incubi. Edward lo sapeva, non avrebbe mai
permesso che
mi svegliassi in quello stato senza starmi accanto.
Esme si venne a sedere accanto a
me, carezzandomi il
capo. «Ha chiamato, prima» mormorò
sottovoce, facendomi quasi trasalire «voleva
sapere come stessi. Mi ha chiesto di non svegliarti, aveva paura che
non avessi
riposato abbastanza questa notte».
Annuii, non riuscendo a parlare.
Sapeva sempre tutto.
Avevo un magone tale che se avessi aperto bocca sarei scoppiata in
lacrime, e
non volevo: mio marito avrebbe visto i suoi pensieri al ritorno.
Così mi feci
coraggio, mi asciugai i palmi delle mani sudati sui pantaloni e mi
alzai,
dirigendomi verso il nostro bagno. Non potevo piangere.
Lottai contro me stessa
finché decisi che non potevo
più aspettare. Nonostante Alice mi avesse ripetuto che
sarebbe stato in una
zona isolata provai a richiamarlo, camminando avanti e indietro,
inquieta, nel
soggiorno. Non squillò neppure una volta e mi rispose subito
la segreteria
telefonica.
«Bella» mi
chiamò Rosalie dal salotto «vieni di qua.
C’è il caminetto acceso. Sdraiati un
po’, non ti fa bene stare così tanto tempo
in piedi».
Annuii, chiudendo la chiamata e
ricomponendo il
numero. «Arrivo fra un attimo» mormorai, facendola
sospirare.
Anche quella volta mi rispose la
segreteria. Mi arresi
a lasciargli un messaggio. «Ciao»
esitai, incerta
«spero che sia andato tutto bene e che ti sia divertito.
Mi… dispiace non
averti sentito prima» tentennai, spostando il peso da un
piede all’altro «mi
machi» soffiai infine, chiudendo velocemente la chiamata.
Non feci in tempo a mettere via il
cellulare che
sentii suonare alla porta.
Immediatamente fui presa da un moto
di sollievo. «Vado
io!» esclamai, andando verso la porta d’ingresso e
verso mio marito.
Chi mi trovai di fronte invece fu
Emmett. «Lilla!
Ciao!» esclamò subito, buttandosi in ginocchio e
cominciando a parlare con la
mia pancia.
«Dov’è
Edward?» chiesi ansiosa, guardando alle sue
spalle ed ignorando il nome dato alla bambina.
«Ma ciao
Lilla. Che combini lì dentro, eh? Dillo allo zio Emm.
Tesoro!».
«Emmett,
rispondimi» dissi decisa, tirandogli i
capelli tanto da costringerlo ad alzare lo sguardo.
«È rimasto con
Jasper, verrà fra un po’» mi rispose
prima di ricominciare a parlare con la bambina che si sarebbe chiamata
in tutti
i modi men che “Lilla”.
Mi andai a sedere, delusa,
trascinando inevitabilmente
anche Emmett, sul divano. L’inquietudine che mi aveva
lasciato il sogno e
l’assenza di Edward non accennava a diminuire. Avevo paura
che presto sarebbe
cresciuta tanto che non sarei riuscita a gestirla.
Infastidita, interruppi Emmett che
continuava a
parlare con la mia pancia. «Emmett, smettila, è
lunga appena due centimetri e
mezzo, non ti può sentire».
«Mia nipote ha preso
tutto da me» fece saccentemente
«secondo me mi può sentire, è
intelligente».
«Va bene, ma ora
smettila» dissi, cercando di suonare
un po’ meno burbera, abbassando la maglietta e scacciando le
sue mani fredde.
Non volevo prendermela con lui, ma mi sentivo indisposta per mancanza
di mio
marito.
Al secondo suono alla porta scattai
nuovamente in
piedi, ignorando i rimproveri di Alice e Rosalie che mi dicevano che
stavo
troppo tempo in piedi e che sarebbero potute andare loro ad aprire.
L’unico vampiro che
attraversò il portone fu però
Jasper. «Ragazzi, c’è un freddo fuori,
meno male che sono un vampiro».
«Dov’è
Edward?» chiesi ansiosa.
Abbassò il suo sguardo
sul mio. «Bella… stai bene?»
chiese sorpreso, sollevando un sopracciglio.
«Sì,
sì. Dov’è Edward?» ripetei,
sempre più agitata,
rispondendo frettolosamente alla sua domanda.
Piantò gli occhi dei
miei, corrugando le sopracciglia.
«È con Carlisle. Tutto bene?» chiese
titubante, leggendo probabilmente le mie
emozioni.
«Sì» mormorai afflitta e seccata,
abbassando le spalle e
trascinandomi nel soggiorno.
«Bella! La cena
è pronta!» mi chiamò Esme.
Non volevo deludere le sue
aspettative, ma riuscii
appena a mandare giù un paio di bocconi di cibo. Se avessi
mangiato di più avrei
certamente vomitato.
Emmett mi prese in giro, dicendomi
che quella sera non
ero per niente divertente e Jasper scoccò
un’occhiata ad Alice, cauta e
perplessa. Da quando era arrivato mi sentivo più tranquilla,
ma mi metteva a
disagio l’idea che stesse manipolando le mie emozioni.
Tanto meglio. Non volevo che Edward
leggesse nei loro
pensieri la mia fragilità, così mi decisi ad
approfittare di quella
tranquillità artificiale per ribattere a tono ad Emmett e
rimetterlo
scherzosamente al suo posto. Mi raccontarono che si erano divertiti
molto
cacciando, ma che non avevano trovato alcuna traccia di quella
probabile donna
immortale. Jasper disse di non preoccuparmi, che si era trattato
probabilmente
di una “visitatrice occasionale”.
Infine, finalmente, suonarono
ancora alla porta, e
sapevo che questa volta non poteva che essere lui.
«Bella, sta’
seduta, ti sei alzata già troppe volte
oggi».
Ignorando completamente le dolci
parole di Esme,
scattai in piedi, correndo, letteralmente, verso l’ingresso,
e sfidando in ogni
modo la forza di gravità.
Carlisle comparve sorridente
sull’uscio. «Bella» mi
salutò, il viso riposato di chi si era appena nutrito e gli
occhi ambrati
scintillanti concentrati sulle mie guance arrossate per il fiatone.
«Tutto
bene?».
«Edward?»
fremetti, attorcigliando le dita agitata e
ignorando la sua domanda.
La sua espressione si fece
sorpresa. «Edward? È con
Emmett» rispose, come se fosse ovvio.
«Ma
lui…» sentii un fortissimo moto
d’agitazione e
irritazione crescere in me. Ma prima di impazzire decisi di trovare una
spiegazione logica e plausibile. «Emmett» lo
chiamai, facendolo comparire
immediatamente accanto a noi «Carlisle dice che Edward doveva
essere con te».
Anche la sua espressione
mutò in sorpresa. «Con me?
No, il l’ho lasciato con Jasper» fece tranquillo.
Sgranai gli occhi, ancor
più agitata. «Jasper!» esclamai,
facendolo precipitare insieme agli altri Cullen.
«Edward dovrebbe essere con te, perché non
è con te?» sbottai d’un fiato, la
voce rotta dall’agitazione.
I suoi occhi scivolarono da
Carlisle a Emmett. «Io
sapevo che sarebbe rimasto con te Carlisle».
Battei le palpebre confusa, mentre
la tranquillità
artificiale di Jasper scivolava via sempre più rapidamente.
I tre cominciarono a parlare fra
loro, velocemente,
accusandosi reciprocamente. Rose, Alice e
Esme erano
attente ai loro discorsi. Infine
Carlisle disse,
alquanto divertito, «Ci deve essere stato un malinteso. A
questo punto devo
ritenere che l’abbiamo lasciato indietro».
Emmett e Jasper scoppiarono a
ridere.
Io no. Io ero pietrificata sul
posto, immobile. Presi
dei lenti e ansanti respiri dalla bocca, mentre sentivo la paura e
l’ansia
crescere esponenzialmente con il suono delle loro risate.
Jasper, il primo ad accorgersi del
mio umore grazie ai
suoi poteri, si tirò su, osservandomi. «Bella,
tutto bene?».
A poco a poco anche gli altri
smisero di ridere,
facendosi man mano seri.
«No» biascicai querula, sentendo il
primo singhiozzo
esplodere nel mio petto, senza che lo potessi controllare.
«Voi» farfugliai,
spaventata ed arrabbiata «voi… l’avete
lasciato solo?!».
Emmett riprese a ridere, facendomi
arrabbiare ancora
di più.
Strinsi i pugni lungo i fianchi
fino a far sbiancare
le nocche.
Tutti mi osservavano in silenzio,
perplessi, e anche
Emmett, resosi conto della mia espressione terrorizzata e seria,
tacque.
«Bella» fece infine Carlisle, tentando di
rassicurarmi, «Edward è un vampiro
centenario, sa badare a sé stesso, non temere».
Invece di acquietarmi, quelle
parole mi fecero
inspiegabilmente crollare, facendo esplodere tutta
l’inquietudine che avevo
tentato di arginare quel giorno e facendo venir fuori tutta la mia
vulnerabilità. «No invece» singhiozzai,
scoppiando a piangere «lo avete
lasciato solo con quella donna di cui non sappiamo niente in
giro».
«Oh cara, su non fare
così, Edward se la caverà»
tentò
di rassicurarmi Esme, accarezzandomi un braccio. «Vieni,
andiamoci a sedere.
Calmati».
«Non ci riesco»
piansi divincolandomi, sentendo
l’umido e il salato delle lacrime sulle mie labbra.
Jasper fece un passo nella mia
direzione, contraendo
l’espressione sul suo viso. «È molto
agitata, non riesco a calmarla
completamente».
«Bella, tranquilla,
vieniti a sedere, su, non fare
così» mi riprese bonariamente Alice, prendendomi
per l’altro braccio.
«Vorrei solo che fosse
qui» singhiozzai, pur
lasciandomi trascinare.
Mi sentivo vinta, sopraffatta dal
terrore che era
cresciuto sempre di più e che alla fine era esploso dentro
di me. Ero
preoccupata per Edward, presa dal panico all’idea di non
poter essere certa che
stesse bene ed insieme disperata all’idea di quanto la sua
assenza mi facesse
stare male.
Bevvi quasi inconsapevolmente dal
bicchiere d’acqua
fresca che mi trovai fra le mani, portandolo alle labbra tremante. Misi
una
mano sulla fronte, osservando i volti delle persone che mi fissavano
attenti e
preoccupati. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che
avevo avuto un vero
attacco di panico? Lasciai che Rosalie mi parlasse, rassicurandomi,
senza quasi
a riuscire a sentire le sue parole. Capii solo che mi diceva che non
era colpa
mia, che potevo permettermi di essere fragile ogni tanto. Ma io mi
sentivo
fraglie sempre.
Quando fui abbastanza calma
afferrai la coperta che
stava sul divano e mi diressi in silenzio verso la grande vetrata a est
della casa.
Mi lasciarono andare, discretamente, senza dirmi nulla. Mi sedetti sul
loggione, stendendo le gambe sui cuscini, e mi avvolsi nella coperta,
poggiando
la fronte sulla lastra fredda di vetro.
Mi sentivo stanca, fisicamente e
mentalmente. Vedevo,
fuori dalla finestra, il vento forte che soffiava via le foglie brune e
rossicce dagli alberi sparpagliandole qua e là,
così simili ad una folta chioma
di capelli ramati… Rabbrividii, stringendomi nella mia
coperta. Ero così
spossata che sarei crollata in un sonno tormentato, ma non potevo
permettermelo. Non sarei sopravvissuta ad un altro incubo.
Il mio fiato caldo, causa la
notevole differenza di
temperatura, formava un alone opaco sul vetro. Sollevai una mano fino a
posarla
sulla lastra trasparente, facendo formare intorno alle dita un altro
alone
bianco.
Improvvisamente sobbalzai, vedendo
cinque perfette e
bianche dita da pianista posarsi dall’altro lato del vetro,
combaciando con le
mie e ravvivando l’alone opaco.
Così com’erano
comparse scomparirono, per poi
apparire, perfette, nella figura di mio marito accanto a me. Gli occhi
perfettamente dorati, i capelli scarmigliati dal vento e sulle rosee
labbra un
magnifico sorriso sghembo fatto di infinite promesse d’amore.
«Edward»
sussurrai, senza poter nascondere il tremore
nella voce.
Con un sorriso sghembo e con una
velocità inumana mi
prese fra le braccia, posando le sue labbra sulle mie.
Lo strinsi forte a me, piena di
sollievo, desiderosa
di non lasciarlo andare via.
«Mi sei
mancata» sussurrò ad un mio orecchio.
Trattenni a stento un singhiozzo di
sollievo. «Anche
tu».
«Ehi, shh»
mormorò
consolandomi, sollevandomi il mento con una mano. I suoi occhi dolci e
comprensivi mi dicevano che sapeva che effetto mi avrebbe fatto la sua
assenza.
«Tranquilla, sono qui. Oggi è stato un giorno
difficile, lo so» mi disse,
sfregandomi la guancia con il pollice e scrutandomi con attenzione
«hai fatto
un brutto sogno? Oggi era il giorno del progesterone».
«Mi fa ancora
male» scherzai debolmente fra le
lacrime, lasciando dissolvere tutta la mia paura nel calore di pace che
sentivo
nel petto.
Ridacchiò, portandomi
divertito una mano al sedere
«Nulla che non si possa rimediare» mi promise,
lasciandomi un altro lento,
lungo, bacio sulle labbra.
Scossi il capo, asciugandomi le
lacrime. «Mi dispiace.
Hai detto che eri stato orgoglioso di me per essere riuscita ad
affrontare
Billy, invece oggi sono stata pessima e ti ho deluso.
Perdonami».
Crucciò le sopracciglia,
dispiaciuto. «Come potrei
essere deluso?» soffiò con amore «sei la
creatura più coraggiosa e forte che
conosca. Sei stata bravissima. Puoi permetterti di essere fragile,
Bella. Hai
sospeso gli antidepressivi da poco più di una settimana, hai
affrontato
l’incidente di tuo padre e i mille pericoli in questa
gravidanza. È normale che
tu abbia bisogno di un punto di riferimento per stare bene».
Tirai su con il naso, fissando le
sue iridi chiare.
«Mi prometti che andrai comunque a caccia in
futuro?».
Sospirò con un sorriso,
chinandosi ad abbracciarmi.
«Oh, mia coraggiosa umana».
E lasciai che mi abbracciasse
forte, mettendo a posto
tutti i pezzi di me che erano andati in frantumi.
«Bella! Stai ancora
mangiando?» chiese scioccata Alice
più tardi, indicandomi e distraendomi dai miei pensieri.
Stavo stesa sul divano, fra le
gambe di Edward, con la
schiena appoggiata al suo petto. L’inquietudine era andata
via come una marea
che scompare, lasciandomi calma e spossata. «Mmm… ho
fame» biascicai con in bocca un cucchiaino di gelatina alla
frutta, che
estrassi per immergerlo nuovamente nel composto rossastro e traslucido.
Alice incrociò le
braccia al petto, fissandomi con
disappunto. «E voi non le dite nulla! Ha già
cenato, dovrebbe seguire una dieta
basata su pasti sani!». Quando vide che nessuno diceva nulla,
incalzò «Edward,
questa da te non me la sarei mai aspettata. E anche tu Carlisle,
insomma, che
medico sei?» fece imbronciata.
Io lo fissai con il cucchiaino in
bocca e uno sguardo
piuttosto eloquente. Nessuno poteva mettersi fra me e la mia gelatina!
Allo stesso modo Alice gli
riservò un vero sguardo
imbronciato.
Mi aspettai di vedere Carlisle per
la prima volta in
difficoltà, invece disse «È vero che
dovrebbe fare dei pasti sani, ma è vero
anche che Bella è leggermente sottopeso. Una gelatina non le
farà male»
concluse stringendo la mano di Esme che stava seduta accanto a lui sul
divano.
Erano tutti tranquilli e scherzosi,
come se nulla
fosse accaduto.
«Scusatemi per
prima» mi sentii di dire imbarazzata,
mettendo via la gelatina.
«Oh, tesoro, non
c’è bisogno che ti scusi di nulla»
fece Esme con un sorriso «noi ti capiamo».
«Piuttosto,
Edward» fece Rosalie, finendo di attizzare
il fuoco del camino «dove ti eri cacciato?».
Scrollò le spalle, lo
sguardo perso. «Stavo seguendo
una strana traccia. Mi è sembrato di sentire i pensieri di
qualcuno, ma poi
sono scomparsi troppo in fretta».
«Poteva essere quella
donna?» incalzò Jasper.
Fece spallucce. «Chi
può dirlo».
Emmett batté i palmi
delle mani sulle ginocchia. «Io
dico: torniamo a cercarla» fece, facendomi irrigidire
inconsapevolmente.
Carlisle gli lanciò
un’occhiata. «Io dico che è ora di
andare a dormire. Nessuno si esporrà più per
questa donna. Cercarla potrebbe
solo indurla ad avvicinarsi di più. Alice
cercherà le sue decisioni e se si
avvicinerà ancora saremo pronti ad ascoltarla»
fece cautamente.
Alice annuì, seria, e io
mi lasciai andare serenamente
con la testa sulla spalla di mio marito, sbadigliando stanca.
Mi baciò la fronte.
«Se volete scusarci» disse,
aiutandomi a sollevarmi «è l’ora di
andare a dormire».
Crollai subito, sfinita,
abbracciata a mio marito. E
quella notte non ci fu alcun incubo. Nei giorni successivi
andò meglio. Edward
fu molto attento e mi seguì da vicino, tanto da essere
sicuro che non avessi
bisogno del suo continuo supporto. Con il nuovo materiale e le
informazioni di
Amber riuscii a ricominciare a studiare, ponendomi come obbiettivo
quello di
recuperare il tempo perduto.
Segnai con il dito il confine della
mia pancia,
sorridendo, per un attimo distratta dai miei studi. Non perduto
completamente; usato
per far crescere l’esserino posto appena sotto le mie dita.
Sentii il suono del vetro contro il
metallo. Edward era
entrato nello studio con un bicchiere di spremuta d’arancia,
posandolo sul
tavolino da tè.
Sorrisi, scuotendo la testa.
«Amore, qualcuno potrebbe
pensare che mi approfitti di te. Cosa facevi prima di
conoscermi?» feci
sarcastica.
Lui mi sorrise, scostando la mia
mano per baciare la
pancia e per poi salire a posare un bacio sulle mie labbra.
«Un sacco di cose
poco divertenti» mi spiegò brevemente.
«Edward» voleva
essere un rimprovero, ma non riuscii a
nascondere l’ilarità nella mia voce.
Mi prese le mani fra le sue e le
strinse strofinandole
con i pollici. «Davvero, Bella. Non ti sto accanto solo per
evitare che tu
abbia un attacco di panico. Mi piace stare con te.
È per questo che ti
ho sposato».
Sospirai, liberando una mano dalle
sue per
accarezzargli una tempia, godendo della sua espressione assorta nelle
mie
carezze. Speravo che con il tempo sarei riuscita ad essere
più indipendente,
non perché non lo volessi accanto, ma perché
volevo stare bene anche senza
averlo accanto.
«A cosa pensi?»
chiese curioso, riaprendo gli occhi e
indagando l’espressione del mio viso.
«A te» risposi
semplicemente, raccontandogli una parte
della verità.
Sollevò le nostre mani
unite e poggiò le sue labbra
fredde sul dorso della mia mano. «Hai finito di
studiare?» mi chiese osservando
il libro accanto a me.
Sbuffai, prendendolo con una mano e
aprendolo alla
pagina che doveva interessarmi. «No, affatto, sono indietro e
devo recuperare
tutto» dissi rimettendomi a leggere.
Attese un po’ con me per
farmi compagnia, ma poi
decise di lasciarmi sola per poter studiare senza distrazioni,
così potei
concentrarmi completamente sulle materie trattate dai grossi tomi.
Facendo un
salto nel passato, mai avrei immaginato di poter essere così
coinvolta in quelle
materie artistiche. Mai, avrei pensato di pretendere con tale forza di
volontà una
certa autonomia negli studi, artistici per giunta.
Sentii dentro di me una strana
sensazione di deja vu,
nata come una fiammella, scomparsa man mano per
lasciare solo un pallido e freddo ricordo di sé. Battei le
palpebre lentamente,
guardando la porta chiusa dello studio. Possibile che il mio patologico
attaccamento a Edward si manifestasse anche con un distacco
così breve? Scossi
il capo, ricominciando a leggere con più attenzione.
Tuttavia, dopo due ore e mezza
potei dire di essermi
definitivamente scocciata. Non ero più abituata a stare
concentrata sui libri
per così tanto tempo, e la nausea, che ancora perdurava, mi
dava un’eccellente
motivazione per distrarmi.
Mi sollevai dal divano dello
studio, dirigendomi in
cucina alla ricerca di mio marito e di un po’ di sana
distrazione e, perché no,
qualcosa da mettere sotto i denti.
La prima cosa che intercettai
appena misi piede fuori dalla
porta fu l’odore delizioso del caffè. Mi
avventurai, come attratta da un’enorme
calamita, nel soggiorno, da cui l’aroma veniva diffuso.
Non appena adocchiai la tazza di
fumante liquido nero,
una voce mi colse in fallo.
«Bells,
sei in piedi?»
chiese mio padre, seduto sulla poltrona accanto a mio marito.
«Papà?»
domandai sconvolta, rinunciando immediatamente
alla possibilità di avere anche solo un assaggio di
caffè. «Che ci fai qui?»
domandai sorpresa, raggiungendoli velocemente in soggiorno.
Incrociò le braccia al
petto, scrutandomi. «Mi sono
fatto accompagnare da un amico» borbottò, ma da
come arrossì pensai che si
fosse fatto accompagnare da un’amica.
Sorrisi, chinandomi a baciargli una
guancia, decidendo
di non indagare ulteriormente. «Sono contenta che tu sia
qui» dissi sincera,
sistemandomi poi accanto a mio marito, facendomi circondare dal suo
abbraccio
freddo.
«Mi sembri meno
pallida» fece mio padre studiandomi.
Sollevai gli occhi al cielo.
«Sto benissimo». Certo
che ero meno pallida. I miei medici personali si assicuravano
costantemente che
la mia emoglobina non scendesse sotto il valore di 10, somministrandomi
più e
più farmaci ogni giorno.
«Finito di
studiare?» mi chiese a bassa voce Edward.
«No» mormorai sbadigliando.
«Non ce la farò mai a
recuperare tutto, ne sono certa».
Lui scosse la testa in disappunto.
«Non essere
sciocca, hai fatto tantissimo».
«Quando comincerai a
frequentare?» chiese mio padre,
inserendosi nel discorso.
«Fra due settimane,
all’inizio del nuovo trimestre».
«Oh» fece lui, abbassando lo sguardo
sulla tazza di caffè,
- mio caffè - che stava sorseggiando. Era arrossito e pareva
stranamente
assorto nei suoi pensieri. Avevo dato per scontato che fosse venuto
solo a
controllare che stessi bene, ma ora che lo vedevo così mi
chiedevo se non ci
fosse dell’altro.
Sentii mio marito irrigidirsi al
mio fianco, così mi
voltai verso di lui allarmata. Ma nei suoi occhi vidi solo
un’espressione
composta e serena, tipica maschera di un vampiro.
«Papà?»
feci titubante, tastando il terreno.
«C’è
qualcosa che non va?».
Lui lanciò
un’occhiata a Edward, e poi a me. Sembrava
a disagio. «Vedi, ecco» cominciò,
titubante «devi sapere che in paese si è
saputo del tuo… stato» fece cautamente.
Cacciai un respiro secco. Doveva
essere stata quella
pettegola della mia vicina. «Papà, non
m’importa che sappiano che sono incinta,
anche se sono giovane io e Edward siamo sposati e le voci di provincia
sono
l’ultima cosa che…».
«No, no»
m’interruppe, sollevando una mano «non è
questo» disse con una pausa, in seria difficoltà
su come continuare.
Mentre sentivo la presa di Edward
intensificarsi e
cementarsi sulla mia spalla, vidi Charlie muoversi imbarazzato sulla
poltrona.
Guardai mio marito. Dal suo sguardo potevo dire che si trattava di
qualcosa che
lo turbava. «Di cosa si tratta papà?»
chiesi allora agitata.
Temporeggiò ancora,
passando con gli occhi da me a
Edward. Poi sospirò. «Tutti credono che il bambino
non sia di Edward… che
sia…».
«Basta
così» sbottai, indignata, voltandomi verso mio
marito.
Era rigido, la mascella serrata e
gli occhi lontani.
Non poteva essere. Non poteva
essere, ancora, il
nostro tormento. Mi sentii ferita e addolorata all’idea di
quanto potesse fare
male a Edward.
Gli accarezzai la guancia marmorea
con delicatezza e
attenzione. «Edward» sussurrai, avvicinandomi al
suo orecchio in modo che solo
lui mi sentisse. «Sono solo umani, non importa quello che
dicono: questa è la
nostra bambina e non saranno certo delle stupide menzogne a farlo
cambiare».
Sospirò, allontanandosi
lievemente da me e fissando il
vuoto, immobile.
Avrei voluto continuare a
parlargli, rassicurarlo, capire
le sue motivazioni, ma la presenza di mio padre me lo impediva. Mi
voltai verso
di lui, incontrando il suo sguardo dispiaciuto. «Mi dispiace
che tu debba
sentire queste cose papà, ti prego di non preoccupartene
più» feci con un
sorriso di scuse.
«Non ti preoccupare Bells»
disse, recuperando le sue stampelle. «Non sapevo se
dirvelo» esitò poi, incerto
«ma non volevo veniste a saperlo da qualcun altro».
«Grazie»
sospirai afflitta, stringendo la mano di mio
marito, ancora immobile.
Edward riaccompagnò a
casa mio padre e quando tornò mi
sembrava più sereno di prima.
«Tutto bene?»
gli domandai preoccupata, studiandolo di
sottecchi.
«Sì» sospirò, togliendosi la
giacca bagnata dalla pioggia
«Non pensavo che delle voci di stupidi umani potessero darmi
tanto fastidio, ma
ora ti capisco. Mi secca molto» commentò
freddamente.
Mi avvicinai e lui mi strinse a
sé, posando un bacio
sui miei capelli. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo alla
mia vicina».
Fece una risatina stanca al
ricordo. «Sarebbe successo
comunque. È solo che… non capisco come faccia
ancora ad intervenire così nelle
nostre vite» fece una breve pausa, serrando più
forte la mascella, pensieroso. «Non
importa, non diamogli il potere di farlo» concluse infine,
illuminando nuovamente
il dorato dei suoi occhi nei miei.
Sorrisi debolmente, lasciandogli un
altro bacio
proprio sull’angolo della bocca. «Stai
meglio?».
«Sì» rispose sincero, determinato a
concludere il discorso.
Neppure io volevo più
parlare dell’argomento, sarebbe
stato solo un motivo per non essere felici. «Bene»
dissi serena, dirigendomi
verso la cucina.
Cominciai a prepararmi qualcosa da
mangiare. Da quando
potevo fare molte più cose, Edward aveva cominciato a
lasciarmi i miei spazi, a
concedermi di essere autonoma e indipendente ed io man mano stavo
riprendendo
il controllo della mia vita.
Ebbi nuovamente quella strana
emozione, simile a un
ricordo antico e abituale, quando sollevai per un istante il bicchiere
d’acqua.
Per un attimo mi trovai come sospesa, in un mondo piano e parallelo
fatto solo
di quell’emozione, che se ne andò via lasciandomi
un nugolo nel petto. Una cosa
davvero strana.
«Lo sai Bella, che passi
troppo tempo in piedi? Non
dovresti stancarti di meno?» chiese sarcastico Edward,
approfittando del blocco
nella scioltezza dei miei movimenti.
«Ah sì, tu
dici?» chiesi sollevando gli occhi al cielo
e sedendomi accanto a lui, posando il piatto sul tavolo.
«Sì, io dico»
fece con finta aria di rimprovero. «Carlisle ha detto un paio
d’ore e ne sono
passate quasi tre».
«Mmm…
allora sì…» biascicai
addentando un pezzo del mio pranzo e rivivendo, ancora una volta, la
stessa,
ormai abituale, emozione antica. M’irrigidii automaticamente.
Notai che Edward mi osservava
accigliato.
Scossi il capo con noncuranza,
finendo di mangiare in
silenzio e lasciando che altrettanto in silenzio, giocasse con una
ciocca dei
miei capelli.
Non appena il telefono
squillò, mi alzai facendo
scattare indietro la sedia e con una risata dispettosa andai a
rispondere.
«Pronto?» chiesi trafelata dalla breve corsa.
«Bella,
sei tu?
Come mai non ha risposto Edward? Sei sempre in piedi»
concluse Carlisle divertito.
Sentii due mani fredde sulla vita e
dopo un piccolo
volo e un’esclamazione di sorpresa, mi ritrovai sul divano,
stretta nella morsa
di mio marito che mi solleticava con impertinenza. Ripresi fiato
finché non
riuscii nuovamente a parlare. «Ora non
più» biascicai infine arrossendo,
conscia del fatto che mio suocero avesse sentito tutto.
Si sentì una breve
risata. «Potresti passarmelo? Alice
ha previsto che ci sarà un temporale e mi ha chiesto di
avvertirlo, nel caso
volesse giocare con noi».
Mi irrigidii un attimo, sorpresa,
congelando il
sorriso sulle mie labbra. Poi passai in silenzio il telefono a Edward.
Sentivo
che, egoisticamente, non volevo che andasse. Ma, d’altra
parte, era giusto che
lo facesse; trascorreva sempre meno tempo con la sua famiglia per
potersi
dedicare completamente a me.
Mi accorsi che aveva già
finito di parlare e che mi
osservava attentamente, muto.
«Cosa fai?»
chiesi titubante, riemergendo forzatamente
dai miei pensieri.
«Stavo tentando di capire
a cosa pensi».
Feci una risatina.
«Ancora non ti sei dato per vinto?»
chiesi sarcastica. Allontanai per un attimo lo sguardo, tentando di
apparire
disinvolta. Non volevo che andasse via, eppure era giusto che lo
facesse. «A
che ora devi andare?» chiesi, non guardandolo volutamente
negli occhi.
Sentii le sue braccia stringermi
più forte. «Non ci
vado».
Sollevai lo sguardo, opponendomi
alla parte di me che
vilmente giova. «Perché no? Dai, Edward, lo so che
ci vuoi andare. Vai» lo
incoraggiai con un mezzo sorriso finto.
Lui sospirò, facendo
così sollevare i miei capelli. «Te
l’ho detto» fece serio «mi piace stare
con te».
«Edward» mi
lamentai «lo so che ti piace stare con me,
ma hai anche una famiglia. Da quando» sospirai «da
quando Jacob mi ha quasi
ucciso non sono più riuscita a stare senza di te senza
sentirmi sopraffare
dalla paura. Come possiamo andare avanti così? Come posso
credere che lo fai
solo perché “ti piace stare con
me”?».
Mi guardò con dolcezza.
«Non hai pensato che anch’io
da allora mi senta sopraffare dalla paura quando non sono con
te?».
Aprii la bocca per parlare, ma non
dissi nulla.
Mi baciò la fronte,
abbracciandomi. «So che non può
durare per sempre, ma so anche che migliorerà. Adesso
è troppo presto e forzare
le cose non porta mai nulla di buono».
«Ma loro ti
aspettano» protestai debolmente contro la
sua spalla «non possono giocare senza di te».
«Bella… non
importa, davvero, e poi stasera saranno di
nuovo qui con noi» rispose nascondendo maggiormente il suo
volto nell’incavo
del mio collo.
Sentii ancora una volta lo strano deja
vu. Capii per un istante che quell’emozione antica mi
lasciava una scia di
malinconia. «Suona almeno, fa qualcosa per te»
dissi infine, scacciando i miei
strani pensieri.
«Adesso?
Perché?».
Mi allontanai di proposito,
guardandolo negli occhi.
«Nemmeno se te lo chiedessi io? Per me?».
Lui ridacchiò.
«Crede di avere tutto questo ascendente
su di me, mademoiselle?».
Arrossii, imbarazzata.
«Beh, io…».
Il mio balbettio scatenò
una risata ancor più
fragorosa, ma alla fine ci ritrovammo entrambi nello studio, seduti
sulla panca
del piano, a sentire le deliziose note che si sollevavano dalle sue
dita. Mi
piaceva sentire come riuscisse a trasporre perfettamente le sue
emozioni in
musica. Per me le sue melodie erano come uno specchio della sua anima.
Così mi stupii quando
notai come potessero essere
malinconiche, tristi, o addirittura irose alcune sequenze di note, e mi
parve
di scorgere lo stesso stato d’animo che c’era stato
in lui poche ore prima, in
presenza di Charlie. Speravo che si calmasse, volevo fare qualcosa per
farlo
sentire meglio.
Saggiai con il palmo della mano la
morbidezza dei suoi
capelli, stringendo maggiormente la presa sul suo braccio e beandomi
del
sorriso che comparve sulle sue labbra.
Contemporaneamente le note
fluttuarono verso onde più
tranquille e serene, fino a diventare del tutto positive. Mi portai una
mano
alla pancia, tentando di rilassarmi e concentrarmi solo sulla bambina,
ma
quella strana emozione che sentivo emerse ancora, stridendo con i miei
sentimenti.
«Tutto bene
amore?» chiese Edward accigliato, rompendo
il vuoto sordo del silenzio che si era venuto a creare non appena aveva
smesso
di suonare.
Sorrisi, carezzando il piccolissimo
pancino. «Sì, va
tutto bene» mormorai sorridendo.
«Davvero?». Due
linee irregolari si formarono sulla
sua fronte piatta, mentre poggiava una mano sulla mia.
«Sì» arrossii, rimuginando sui miei
pensieri. Avrei voluto
condividerli con lui, e magari in qualche modo alleviare quel senso di
tristezza che mi era parso percepire nelle sue note. Tuttavia
mi sentivo terribilmente sciocca a parlare di quelle emozioni che
sentivo. «Oggi
mi sento un po’ strana. Non fisicamente, intendo.
Solo… un po’ di malinconia.
Credi che abbia a che fare con l’attacco di panico
dell’altro giorno?» domandai
timorosa.
Mi studiò con
attenzione. «Credo di no. Ti senti
agitata?».
Scossi il capo. «No,
affatto. È più come un deja-vù».
Mi sorrise dolcemente.
«Capita spesso agli umani.
Anche a quelli non in gravidanza e con un disturbo da stress
post-traumatico».
«E ai vampiri?»
chiesi interessata a comprendere il
suo stato d’animo.
Si fece nuovamente pensieroso, lo
sguardo perso. «I
vampiri non provano emozioni così labili come le vostre. O
sono tanto deboli da
non scalfirci, o sono abbastanza forti per cambiarci» disse
concludendo il
discorso.
Pensai per un istante a quelle
parole. Non mi ero mai
soffermata a pensare alle conseguenze di quello che mi aveva fatto
Jacob su
Edward, troppo concentrata sulla mia stessa fragilità. E se
lo avesse cambiato per
sempre?
«Cosa posso fare per
te?» domandai preoccupata,
studiando il suo viso.
Mi sorrise. «Te
l’ho detto. Stare con me, mi basta».
Gli baciai l’angolo della
bocca. «Potresti provare gli
antidepressivi. Funzionano» scherzai, allontanandomi.
Mi bloccò, impedendomi
di allontanarmi troppo. «Ho in
mente qualcosa che funziona meglio» soffiò
malizioso, facendo aumentare il
battito del mio cuore.
«Edward»
ansimai, vinta dal desiderio «non possiamo».
«No» mormorò al mio
orecchio, lasciandomi dei languidi
baci sul collo «però possiamo divertirci un
po’».
Respirai a pieni polmoni il profumo
dello shampoo alla
fragola, frizionando i capelli con un asciugamano. Quel gesto
portò con sé un’ondata
di emozioni felici. Sorrisi canticchiando e afferrando il tubetto di
crema per
le smagliature.
Ne misi un po’ sul palmo
e scostai leggermente
l’asciugamano bianca in cui ero avvolta per posarlo sulla
pancia.
Vidi, attraverso lo specchio, la
mia espressione
diventare vacua e pensierosa.
Tuttavia, non feci in tempo a
rendermi conto della
strana inconsuetudine
di quel mio gesto, che una mano
fredda e perfetta sostituì la mia in un delicato movimento
circolare.
Piegai la testa
all’indietro, posandola sulla sua
spalla e lasciando che le sue labbra marmoree lambissero la pelle
bianca e
pulsante del mio collo. Strinsi la presa sui suoi capelli mentre mi
beavo della
delicata forza con cui il suo abbraccio mi stringeva da dietro.
Ed in quel momento pensai che tutto
potesse davvero
tornare ad essere perfetto, meglio di come fosse mai stato.
Poco dopo, come quasi ogni sera, i Cullen
vennero a trovarci. Tuttavia, a malincuore, rimasi per poco tempo con
loro,
dovendo finire di studiare.
«Bellina, su, resta con
noi!» esclamò Emmett dispiaciuto,
stringendomi nel suo abbraccio.
Sorrisi. «Sai che mi
piacerebbe, ma non posso Emmett,
devo studiare, dai» lo supplicai con un visino dolce.
«Guarda cosa
c’è per te?». Alice mi mise davanti agli
occhi un’ampia fetta di torta.
Immediatamente il mio sguardo
s’illuminò.
«Oh, Alice! Ma tu non eri
quella che le diceva di dover
mangiare sano?» chiese sarcastica Rosalie scatenando
l’ilarità di tutti.
Afferrai il piatto con il dolce,
improvvisamente affamata.
Alice sorrise, furba.
«Sì, ma oggi bisogna
festeggiare, perché domani sarà il penultimo
giorno di reclusione, dopo di che…».
Sollevai per un attimo la
forchettina dal dolce. Dopo di
che…? Osservai l’espressione
compiaciuta sul volto di Alice. Non prometteva nulla di buono.
«Dopo di che…
dobbiamo comprare un intero guardaroba
per te e la bambina!».
Per poco non mi strozzai con il
piccolo boccone che
ancora avevo in bocca, mandando subito un’occhiata
supplicante a Edward.
Mi strinse la mano, accarezzandone
il dorso.
Fu Esme, stretta in un affettuoso
abbraccio con
Carlisle, a parlare. «Alice, ti prego, frena il tuo
entusiasmo. Le cose si
faranno man mano, non è necessario avere tutto subito,
c’è ancora molto tempo e
altri problemi di cui preoccuparci».
Fu palese il cambiamento
d’umore nel suo viso e non mi
sfuggì neppure la schermaglia di occhiate che il piccolo
folletto si scambiò
con Edward. Feci finta di non notarla, concentrandomi sul dolce e
ripulendo il
piatto. Speravo che riuscissero a convincerla e sapevo di essere vile a
non affrontarla
direttamente, ma… Sapevo anche che non sarei riuscita a
cedere ai suoi modi di
fare, come d’altronde era stato per il matrimonio.
Subito dopo aver finito di mangiare
mi congedai da
tutti, sia per studiare, sia perché avevo intenzione di
lasciare Edward un po’
solo con la sua famiglia. Per quanto mi costasse volevo che il nostro
bisogno
di stare insieme tornasse ad essere vero e luminoso, e non malsanamente
morboso.
Tuttavia rimettersi a studiare non fu
facile, soprattutto dopo
aver passato quasi un intero pomeriggio a stretto contatto con lui. Mi
accarezzai la pancia, sorridendo e pensando alle mani e alle labbra del
mio
amore che per una lunga ora avevano coccolato me e la piccola. Quel
momento tra
noi mi aveva rilassato e tranquillizzato molto e non avevo
più sentito quelle
strane emozioni.
Rabbrividii, stupendomi del freddo
che sentivo. Di
solito i riscaldamenti erano sempre in funzione, ma evidentemente non
quella
sera. Però non mi andava di attraversare l’intera
casa per accenderli; dopo
essere tornata dai Cullen
non sarei più riuscita a
tornare a studiare.
Mi alzai dal grande letto della
nostra camera e andai
a prendere una coperta nell’armadio. Sbadigliai, stanca; era
stata una giornata
stancante per una povera umana con la gravidanza vampira come me. Mi
avvolsi
come un bozzolo nella trapunta e mi misi nuovamente a studiare,
tentando di
concentrarmi sul senso delle parole per evitare che scorressero nella
mia mente
come acqua, alleggerite e sospese come bollicine da una più
pensante e
incalzante stanchezza.
Dovetti addormentarmi,
perché cominciai a vedere
immagini che non potevano potenzialmente essere reali, ma che non mi
davano
neppure la certezza di essere finte.
Mi accorsi di un suono strano,
confuso, lontano, che
man mano prendeva sempre più vigore, come la risacca delle
onde in lontananza. Mi
mossi alla ricerca della fonte di quel suono, sempre più
curiosa, spinta dalla
voglia di scoprirne l’origine e la fonte e soprattutto di
dare una spiegazione
al turbamento che sentivo nascere in me.
D’un tratto mi bloccai:
era il suono di un pianto. Il
pianto, un vagito di un neonato, costante, monocorde negli sbalzi e nei
fiati
prorompenti.
«La
bambina!»
pensai, ancora più allarmata, continuando a correre per
quelle che erano
diventate le stanze di casa. Le immagini erano in costante movimento,
fatte di
momenti accelerati e innaturalmente rallentati e gli unici suoni oltre
al
silenzio, erano il vagito e il rumore del mio fiato ansante.
Nonostante corressi, la cercassi,
non mi fermassi, non
riuscivo mai a trovarla, e il pianto aumentava di più e
sempre più. Annaspai,
voltandomi, tentando di individuare la provenienza del suono che ormai
sembrava
provenire da ogni punto, troppo forte per essere distinto.
Mi lasciai cadere a terra, ansante,
mentre tutto
prendeva a turbinare velocemente attorno a me.
Ciò che vidi non appena
aprii gli occhi fu il buio.
Ripresi fiato, portando una mano sul cuore per fermare il suo battito
accelerato. Qualcuno, Edward probabilmente, aveva spento la luce e mi
aveva
sistemato sotto la coperta che avevo usato per avvolgermi.
Chiusi nuovamente gli occhi,
stanca. Era la prima
volta che facevo un sogno collegato al bambino. Mi sentivo
stranissima… come se
i miei pensieri fossero dominati dalle mie sensazioni, come se ci fosse
qualcosa
che mi sfuggisse, qualcosa che non riuscivo a controllare e che mi
stava
facendo sentire una stranissima sensazione di angoscia. Come un cattivo
presentimento, un’immotivata tristezza.
Sentii il lieve cigolio della porta
e percepii appena,
attraverso le palpebre chiuse, la presenza per qualche istante di una
tenue
luce.
Era Edward.
Mi aspettai di sentire, come spesso
accadeva,
scomparire la tristezza, ma così non fu. Sentendo il
materasso abbassarsi e sue
braccia stringermi in un abbraccio mi voltai, stringendomi al suo petto
e
aspettando nel silenzio che l’inquietudine mi abbandonasse.
Passarono i secondi, scanditi
rumorosamente dal
crescente silenzio. Mi sentivo sempre più inquieta, neppure
la presenza di
Edward riusciva a darmi sollievo per concedermi un nuovo sonno.
«Sono andati
via?» mormorai poi debolmente, rompendo
il silenzio che opprimeva la mia mente.
Sentii le sue braccia stringermi
più forte e una sua
mano accarezzarmi i capelli. «Hai avuto un incubo?».
Sopirai, richiudendo gli occhi e
tentando di scacciare
la pesantezza dalla testa. Ovviamente la presenza di Jasper aveva avuto
il suo
effetto. «Non lo sai che non si risponde ad una domanda con
un’altra domanda?»
chiesi, tentando di essere sarcastica.
«Lo sai che mi
preoccupo».
«Certo che lo so, per
questo non ti dico niente» gli
risposi impertinente. Tuttavia
nella mia voce si
sentii il tremolio strano dell’esasperante inquietudine.
Sentii una mano sotto al mento, e
anche nel buio
riuscii a distinguere il bagliore di due occhi ambrati. «Ti
senti triste? Te
l’ho detto, va bene sentirsi tristi, non fartene una
colpa» mi disse serio.
Scossi la testa, divincolandomi
dalla sua presa e
cancellando le assurde lacrime che si erano formate al bordo dei miei
occhi. Mi
tuffai con il viso nel suo petto tentando di calmarmi. Sentivo come se
ci fosse
uno spesso strato di condensa a pulsare sulla mia mente stanca e a cui
non
riuscivo a trovare sollievo, né origine. Perché
mi era capitato, alcune altre
volte, di sentirmi così. Ma poi era bastata la presenza di
Edward, una sua
carezza, una sua parola, per farmi tornare serena.
Ora non era così. Non
riuscivo a controllare quella
tristezza, come se non fosse mia.
E non era come le altre
volte…
Edward fece per parlare di nuovo,
ma lo bloccai.
«Io… ora
passa, va bene?» chiesi debolmente «Resta qui,
resta con me».
Lo sentii sospirare, poi si
rilassò e posò le sue
labbra sulla mia fronte, come a darmi il suo assenso. Sospirai
anch’io, ma non
riuscii a rilassarmi.
Ero bloccata in un recinto di
sensazioni negative da
cui non riuscivo a scappare.
Lasciai istintivamente un bacio sul
suo petto, proprio
all’altezza del cuore che non batteva più. Poi
posai un orecchio ad ascoltare
l’eco del mio battito che si perdeva dentro di lui,
animandolo; solo così, dopo
un tempo infinito, riuscii a trovare pace nel sonno.