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Autore: keska    20/10/2009    32 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Mi ristabilii nel giro di una settimana. Mi sentivo ancora molto fiacca, ero ancora anemica, e Carlisle insistette per continuare a somministrarmi farmaci in vena per assicurarsi che il mio organismo riuscisse a soddisfare le esigenze di mia figlia.

Infine, dopo numerosissime insistenze, riuscii persino ad andare a trovare mio padre a casa sua. Il patto con Edward era che sarei stata accanto a mio padre sul divano e mi sarei riposata per il resto del giorno, mentre lui ed Alice si occupavano del pranzo e della casa. Mio padre fu davvero sollevato di vedermi e capii quanto dovevo averlo fatto preoccupare.

«Come ti senti?» domandai, indicando la gamba ingessata.

«Non è niente» borbottò, volgendosi a guardarmi, serio «e tu, Bella? Stavi molto male, lo so. Ha a che fare con la gravidanza o…» si torse le mani in grembo «so che non deve essere stato facile tornare in quel posto, vedere Billy».

M’irrigidii. Mio padre pensava che avessi avuto una ricaduta dal punto di vista psichiatrico. Non potevo neppure immaginare in che stato mi avesse vista subito dopo il rapimento con Jacob. Ma la verità era che mi sentivo davvero meglio, nonostante la sospensione degli antidepressivi. Rosalie mi aveva avvisato che la gravidanza era un periodo molto particolare e che avrei potuto avere delle ricadute, ma a parte degli incubi, ogni tanto, e un po’ di inquietudine ad uscire all’aria aperta, potevo dire che stavo bene. «No, papà, davvero. Non è per quello» tentai di rassicurarlo.

«Per cosa allora?» fece serio, scrutandomi. «Non sembri stare bene. Sei molto pallida».

Mi mossi a disagio sui cuscini, non sapendo come spiegare a mio padre gli effetti collaterali di una gravidanza vampira.

Per fortuna Edward venne presto in mio soccorso, venendo a sedersi accanto a me. «Bella ha avuto un po’ di anemia. Era molto stanca e per lei e la bambina abbiamo pensato fosse meglio che stessero un po’ più a riposo».

Mio padre strinse le labbra, incerto se credere alle parole di mio marito. Di certo non avrei potuto essere più rassicurante di lui. «E adesso come stai?».

Gli sorrisi, portandomi una mano alla pancia. «Molto meglio, grazie».

«Sicura?».

Edward mi strinse con un braccio da dietro, portando anche lui la mano sulla mia pancia. Annuì.

Sospirai quando fummo di nuovo nell’auto. «Mi ero dimenticata quanto riuscisse ad essere inquisitorio mio padre. Sei riuscito a leggere i suoi pensieri? Hai riconosciuto il volto?» gli domandai. Uno degli scopi con cui eravamo venuti era proprio domandare a mio padre della donna sconosciuta. Aveva detto di averla fatta cercare dai suoi uomini, ma che era come se fosse scomparsa nel nulla. Un’ulteriore prova che mi spingeva a pensare ad un’immortale.

Edward crucciò la fronte. «Solo un po’ meglio».

«Che c’è?» domandai confusa, osservando il suo sguardo stanco e perso.

Scosse il capo. Aveva il viso teso e pallido, le occhiaie e gli occhi neri. «Forse ho un po’ esagerato» mormorò stringendo le mani sul volante.

«Oh Edward» sussurrai, preoccupata, capendo finalmente. Aveva molta sete, ed io non potevo neppure immaginare quanto stesse soffrendo. Mi sentii davvero stupida ad avergli chiesto di accompagnarmi. Il fatto che fosse così bravo a controllarsi non voleva dire che fosse altrettanto semplice. «Scusami».

«Non è colpa tua» mormorò con un sorriso mesto. «Ma è momento che tenga fede alla promessa. Tu stai meglio ed io devo nutrirmi. E poi volevo spingermi a nord con i ragazzi, sono l’unico oltre a tuo padre che ha visto il volto di quella donna e che potrebbe riconoscerlo. Le ragazze sono andate a caccia la scorsa settimana. Potresti stare con loro, va bene?» domandò, incerto.

Come se dovesse chiedermi il permesso o sentirsi in colpa a lasciarmi per un paio di giorni. «Portami subito a casa e vai» riuscii solo a dire.

Annuì, poi si bloccò, teso. «Se solo…».

«Cosa?» domandai.

Rilassò a fatica i muscoli. «La tua vicina di casa. Il suo odore, i suoi pensieri. È così concentrata su di noi che non riesco a distogliere l’attenzione».

«La mia vicina?» domandai sorpresa, seguendo il suo sguardo.

Era sul vialetto di casa, facendo finta di ritirare la posta mentre intanto ci scoccava per nulla discrete occhiatine di soppiatto. Presi un respiro, arrabbiata. Aprii lo sportello e scesi dall’auto «Ehi» la chiamai a voce alta, facendola trasalire «Adesso sono incinta, contenta? Io sì, molto. Se vuoi la prossima volta ti porto una foto dell’ecografia. Smettila di spiarci!» sbottai, rimettendomi seduta e sbattendo la portiera. Feci un cenno con il mento «Parti».

Edward mi fissò sgomento. «Pensavo che non volessi che la gente pensasse che fossi incinta».

«Quello era prima che fossi realmente incinta. Sono molto orgogliosa di mia figlia. E mi dà molto fastidio che ti diano problemi» spiegai, incrociando le braccia sul petto.

Scosse il capo con un mezzo sorriso, mettendo in moto. «La mia moglie protettiva».

Edward mi lasciò con un lunghissimo bacio, facendomi promettere che non mi sarei stancata, che non sarei stata troppo tempo in piedi e che lo avrei chiamato subito se avessi avuto un problema di qualsiasi tipo. Gli feci promettere che avrebbe fatto altrettanto e che non sarebbe stato sprovveduto con quella donna probabilmente immortale.

Partì quasi subito con Jasper, Emmett e Carlisle e le ragazze vennero a farmi compagnia. Non era solo della compagnia che avevo bisogno, ma di sentirmi protetta, e mio marito lo sapeva. Volevo provare a me stessa di essere in grado di stare da sola, ma sapevo che avevo bisogno di ancora un po’ di tempo per arrivare a quel punto.

«Tesoro, vuoi dei biscotti?» mi chiese Esme, porgendomi un vassoio ricolmo di ogni tipo di biscotto al cioccolato.

«Sì, grazie! Sto morendo di fame» confessai, mettendone uno in bocca.

Rosalie ridacchiò. «Ma se hai appena finito di mangiare! Passata la nausea?».

«Mmm» feci, con un biscotto in bocca, prendendone un altro «no, nienfe affaffo… ma ho fame».

«Bella!» esclamò Alice vendendo verso di me con una pila immensa di giornali, che si sollevava dalle sue braccia fin sopra la testa.

Afferrai un altro biscotto, osservandola con curiosità mentre posava tutti i giornali per terra, formando una pila di 70 cm. «Cfhe fono?» chiesi masticando.

Il suo viso s’illuminò. «Riviste di ultima generazione su gravidanza e bambini!» esclamò contenta «abbiamo tutto il pomeriggio per leggerle!».

«Tutte?» chiesi esterrefatta, indicando la pila.

«Certo! Edward si è raccomandato di non farti stancare, così potrai startene comodamente distesa sul divano. E poi così potremmo fare qualcosa tutte insieme, è divertente, non trovi?» chiese euforica.

Esme venne in mio soccorso. «Magari Bella vuole riposarsi, dev’essere abituata a dormire di pomeriggio».

Intervenni prima che il broncio di Alice si trasformasse in vere e proprie lacrime silenziose. «No, va bene, cominciamo e poi magari vediamo fin dove riusciamo a leggere» feci titubante.

Immediatamente si rallegrò trascinando con sé Rosalie e anche Esme. Passammo molto tempo a leggere articoli di giornale sulla gravidanza e sui neonati. C’erano moltissime cose che ignoravo completamente essendo una ragazza appena diciannovenne, ma me ne stavo rendendo conto solo allora. Tentavo sempre di smorzare il mio entusiasmo con Esme e Rosalie nei paraggi, non era mia intenzione farle intristire. Loro tuttavia sembravano tranquille e serene, felici di immaginare la piccola e di avere la possibilità di prendersene cura.

Quando fu ora di andare a dormire ero molto stanca. Sì, non ero più anemica come prima, ma il mio corpo stava facendo gli straordinari per stare al passo della gravidanza. Avevo sentito Edward al telefono poco dopo cena e ci eravamo reciprocamente rassicurati che andasse tutto bene. E sapevo che aldilà della porta c’erano Alice, Rosalie ed Esme, pronte a proteggermi e a rassicurarmi, ma sentivo un’inquietudine dentro che, mi rendevo conto, mio marito era l’unico in grado di scacciare.

Presi il cellulare in mano ed esitai. Gli avevo promesso di chiamarlo per alcun genere di problema, ma sapevo che si sarebbe preoccupato tantissimo. E volevo che si nutrisse, che stesse con la sua famiglia e che uscisse, ogni tanto, non sentendosi in dovere di stare sempre con me. Mi rannicchiai sotto le coperte. Magari avrei potuto prendere dei calmanti, ma non volevo ricominciare proprio ora che mi sembrava di stare meglio. Sospirai, voltandomi da un lato all’altro nel letto. Ormai era notte fonda, ed ancora non avevo chiuso occhio. Mi carezzai la pancia, dolcemente, pensando alla grazia che avevamo ricevuto con quella gravidanza. Canticchiai alla bimba la ninna-nanna che Edward aveva scritto per me, ma neppure quello riuscì farmi addormentare.

La verità era che mio marito mi mancava terribilmente ed ero molto preoccupata per la storia dell’immortale. Forse mi ero creduta più forte di quello che ero.

Decisi di andare a fare una doccia calda, sperando che mi sarei rilassata e che sarei riuscita a dormire. Sbadigliai, stanchissima, adocchiando nell’angolo del bagno la cesta con i panni sporchi. Esitai, poi afferrai la t-shirt di Edward, quella che aveva usato il giorno prima. La portai al naso: profumava ancora di lui. La indossai e mi accoccolai ancora nel letto. Canticchiai ancora e ad un certo punto, sfinita, dovetti addormentarmi.

Non ricordai immediatamente di aver sognato, ma mi svegliai che ero piuttosto inquieta. Dovevo aver fatto un incubo.

Qualcuno, Esme forse, mi aveva messo addosso una coperta, senza svegliarmi. Notai intorno a me la luce soffusa del cielo perennemente coperto di Forks. Doveva essere tarda mattinata. Dopo aver mangiato tutti quei biscotti, la sera prima, avevo la bocca molto secca. Di solito Edward mi faceva bere dopo mangiato o appena mi svegliavo. Un’attenzione cui non avevo mai dato particolare peso; decisi di alzarmi per andare a prendere un bicchiere d’acqua.

Misi dei pantaloni della tuta che avrebbero sicuramente fatto rabbrividire Alice, ma non me la sentii di rinunciare alla maglietta di Edward.

«Buongiorno» mi salutò Esme dalla poltrona dove stava leggendo un libro. Mi sorrise con dolcezza. «Hai dormito tesoro?».

Mi massaggiai le palpebre stanche. «Sì, grazie» mentii. Beh, qualche ora dovevo aver dormito e la consideravo una vittoria.

«Ti serve qualcosa?» domandò attenta a rispettare i miei spazi, ma accorta «Non ti stancare, chiedi a me».

Feci un mezzo sorriso. «Vado solo a prendere un bicchiere d’acqua» feci, dirigendomi verso la cucina. Presi un bicchiere e mischiai un po’ di acqua del rubinetto con quella in bottiglia che avevamo in frigo.

«Buongiorno Bella. Che fai?» mi chiese curiosa Rosalie, indicando il bicchiere.

Osservai le due bottiglie. «È… perché mi dà fastidio il sapore dell’acqua appena sveglia, lo fa sempre Edward» mormorai, bevendo l’acqua e tentando di non pensare alle mie stesse parole.

«Torneranno fra poco, vedrai» mi rassicurò lei, intuendo i miei pensieri. Lo speravo, mi mancava davvero tantissimo.

Annuii, non riuscendo a nascondere la mia insicurezza. «Non so se ho più paura che la trovino o che non la trovino».

Venne accanto a me, sfregando le mani sulle mie braccia come a rassicurarmi. «Hanno chiamato prima. Stanno bene, torneranno nel pomeriggio. Hanno corso, si sono divertiti e hanno cacciato. Vedrai, Edward starà molto meglio quando sarà qui, molto meno burbero e rompiscatole del solito».

«Oh, hanno già chiamato» sospirai delusa. Avrei tanto voluto sentire la voce di mio marito.

Rose colse la mia delusione. Mi carezzò il mento con una mano. «Puoi provare a richiamare se vuoi».

Alice saltellò verso la cucina. «Adesso sono nel bel mezzo della foresta, il cellulare non ha campo. Dai, Bella. Vieni a riposarti sul divano, non stare in piedi tutto questo tempo. Non fa bene né a te né alla bimba. Invece tuo marito sta benissimo» disse con un sorriso «ha preso già due puma».

«Ugh» feci schifata «okay, non volevo i dettagli».

Mi andai a sedere sul divano bianco con Alice, accendendo la Tv e cominciando a fare zapping; volevo trovare qualcosa di impegnativo, che mi distogliesse dall’assenza di mio marito. Infine scovai un programma per bambini sulle storie delle fiabe. Era divertente e faceva ridere per la sua banalità, così rimasi a guardarlo.

D’un tratto sentii qualcuno schiarirsi la voce. «Mmm… Bella, tutto bene?» fece Alice.

Solo in quell’istante mi accorsi di aver posato la testa sulla sua spalla e aver intrecciato le mie dita con le sue. Divenni rossa d’imbarazzo. «Oh, scusa, io… è che sono abituata… non l’ho fatto apposta… solo che… ecco… Edward…» balbettavo velocemente, a disagio.

Alice rise «E dai Bella, non è successo nulla, volevo solo prenderti un po’ in giro» disse abbracciandomi e schioccandomi un bacio su una guancia. «Ho una sorpresa per te, per distrarti un po’» disse, scomparendo e ricomparendo poco dopo con un bellissimo pacchetto bianco con un fiocco dorato.

«Oh, Alice. Sai che i regali mi mettono sempre in difficoltà» feci imbarazzata.

«Non questo, ti piacerà» fece sicura.

Esme e Rosalie vennero da noi. «È vero, ti piacerà Bella».

«Okay» sospirai incuriosita, scartando con attenzione la carta. C’era stato già abbastanza sangue in quei giorni. «Ma è… grazie!» esclamai aprendolo. C’era un set nuovissimo di pennelli italiani di cinghiale e di colori ad olio con un bellissimo pigmento, insieme a tre libri sull’arte. «È un regalo bellissimo. Grazie» esclamai, abbracciandole di slancio.

Esme ridacchiò. «Sono contenta che ti piaccia. È un po’ di materiale per il prossimo semestre in accademia. Edward ci ha detto che vuoi riprendere. Credo che la sorpresa non sia finita però» disse guardando Rosalie, che con un sorriso mi porse il cellulare.

Lo afferrai titubante, e lo portai all’orecchio. «Pronto?». Il cuore mi batté forte perché c’era solo una voce che volevo sentire in quel momento, quindi fui un po’ delusa quando capii che non era mio marito.

«Bella? Bella sei tu?».

«Amber!» sospirai felice, scacciando subito la delusione. Era da tempo che non la sentivo e mi era mancata. Mi ricordava una vita umana e normale, una quotidianità lontana da quel momento.

«Bella! Oh, quanto tempo! Mi sei mancata tantissimo, sai?! Seguire i corsi senza te non è stata la stessa cosa!». Con il suo solito entusiasmo e la sua solita, solare, gioia di vivere, la mia amica d’università mi regalò più di un sorriso. Mi aggiornò sul programma di studi e su cosa avrei dovuto studiare per rimettermi in pari. Parlammo molto a lungo, mantenendo gli argomenti sull’università e le mostre che ci sarebbero state in città, e alla fine della telefonata le promisi che ci saremmo riviste presto.

Mi aveva fatto molto piacere sentire Amber: per tutta la durata della conversazione, avevo potuto completamente dimenticare l’esistenza di tutto all’infuori di me. Vidi una vita normale, fatta di umani, di college, di studi e di lavoro. Alice aveva avuto ragione, ero riuscita a distrarmi.

Riuscii a pranzare con il buonissimo cibo cucinato da Esme senza vomitare. Era una cuoca fenomenale e mi piaceva tantissimo passare del tempo con lei in cucina. Speravo che presto le nausee passassero presto e che avremmo potuto ricominciare a farlo.

Sbadigliai, molto stanca, portandomi una mano alla pancia. Sentivo come un senso di peso e come se fosse più tiepida del solito.

«Tutto bene?» mi domandò attenta mia suocera, carezzandomi dolcemente la pancia. Era accanto a me, sul divano del salotto.

Annuii, reprimendo un altro sbadiglio. «Non è niente, sono un po’ indolenzita».

I suoi occhi chiari si fecero più attenti e mi sistemò meglio la coperta sulle gambe. «Dovresti sdraiarti un po’, riposare».

Le feci un piccolo sorriso. «Tranquilla, mi capita spesso. Devo solo fare un sonnellino» feci, malinconica. Edward mi accompagnava a letto a quell’ora, coccolandomi finché non mi addormentavo, non prima di somministrarmi tutti i preziosi farmaci che mi tenevano in vita.

«È l’ora della medicina» disse Rosalie con un sorrisino, comparendo accanto al divano con tre compresse in una mano e due siringhe nell’altra.

Mi nascosi il viso con la coperta. «Non ce la posso fare» biascicai con voce soffocata, facendola scoppiare a ridere insieme ed Esme. Abbassai la coperta quanto bastava per liberare un occhio. «Vi prego, non possiamo aspettare che torni Carlisle o Edward…? Rose, non è che non mi fidi di te, è che conosci le mie difficoltà» biascicai querula. In quelle settimane stavo avendo una terapia d’urto riguardo alla mia fobia degli aghi.

Rose sollevò un sopracciglio insieme alla sua logica di ferro, facendo scintillare minacciosi gli aghi. «Intendi le tue difficoltà con questi preziosi farmaci che salvano la tua vita e quella della bambina?» mi prese in giro.

Mi nascosi ancora sotto la coperta, sprofondando arrendevole nel divano. Neppure Edward avrebbe potuto salvarmi da quello.

Così dopo una sceneggiata degna di mia figlia non ancora nata e svariati punti di dignità persi, me ne stetti buona, buona sul divano, aspettando che il mio prode principe azzurro tornasse dalla caccia per salvarmi. L’inquietudine di non averlo accanto era tanta, ma presto vinsero le ore di sonno che avevo perso quella notte lontana da lui, così, tormentata, mi addormentai.

Sognai l’oceano gelido ed io che ci nuotavo. In lontananza una donna che non riuscivo a distinguere. La chiamavo, cominciavo a nuotare verso di lei, ma più volevo gridare forte più la mia voce si bloccava e più volevo nuotare veloce più le mie braccia si facevano pesanti. E quando infine non riuscii più a muovermi capii perché: delle grandi braccia calde mi stavano trattenendo. Quando mi voltai a fissare il suo volto sapevo già a chi appartenessero: Jacob.

Mi svegliai sudata, ansimando, seduta sul divano. Subito mi colpì fortissima la sua assenza: le sue braccia fredde mi avrebbero già raggiunta, circondata, impedendomi di andare in pezzi. Mi avrebbe mormorato una frase dolce all’orecchio o forse solo una nenia, e io avrei capito che niente di ciò che mi faceva paura era reale.

«Bella» mi chiamò Esme preoccupata, scostando le tende. «Tutto bene?».

Mi concentrai per rallentare i miei ansiti frenetici. Mi guardai attorno. Era solo una coperta, una coperta troppo calda che mi aveva portato dei pensieri spiacevoli. Non era reale. Annuii. Non era reale. «Sì» soffiai con un filo di voce.

Si avvicinò cautamente, quasi avesse paura di spaventarmi. «Cos’è successo?».

Scossi il capo, fissando il mio sguardo sulle mani. Il cuore non aveva ancora rallentato la sua folle corsa, e io avevo bisogno di qualcosa di reale per ricominciare a pensare normalmente. «Il progesterone» sibilai afona. Mi schiarii la voce. Deglutii. Ancora non riuscivo a parlare, perché quel maledetto sogno mi era sembrato così reale e l’inquietudine che sentivo non accennava a passare. Il progesterone, che mi somministravano ogni tre giorni per sostenere la gravidanza e scongiurare la minaccia d’aborto, mi faceva sempre fare degli incubi. Edward lo sapeva, non avrebbe mai permesso che mi svegliassi in quello stato senza starmi accanto.

Esme si venne a sedere accanto a me, carezzandomi il capo. «Ha chiamato, prima» mormorò sottovoce, facendomi quasi trasalire «voleva sapere come stessi. Mi ha chiesto di non svegliarti, aveva paura che non avessi riposato abbastanza questa notte».

Annuii, non riuscendo a parlare. Sapeva sempre tutto. Avevo un magone tale che se avessi aperto bocca sarei scoppiata in lacrime, e non volevo: mio marito avrebbe visto i suoi pensieri al ritorno. Così mi feci coraggio, mi asciugai i palmi delle mani sudati sui pantaloni e mi alzai, dirigendomi verso il nostro bagno. Non potevo piangere.

Lottai contro me stessa finché decisi che non potevo più aspettare. Nonostante Alice mi avesse ripetuto che sarebbe stato in una zona isolata provai a richiamarlo, camminando avanti e indietro, inquieta, nel soggiorno. Non squillò neppure una volta e mi rispose subito la segreteria telefonica.

«Bella» mi chiamò Rosalie dal salotto «vieni di qua. C’è il caminetto acceso. Sdraiati un po’, non ti fa bene stare così tanto tempo in piedi».

Annuii, chiudendo la chiamata e ricomponendo il numero. «Arrivo fra un attimo» mormorai, facendola sospirare.

Anche quella volta mi rispose la segreteria. Mi arresi a lasciargli un messaggio. «Ciao» esitai, incerta «spero che sia andato tutto bene e che ti sia divertito. Mi… dispiace non averti sentito prima» tentennai, spostando il peso da un piede all’altro «mi machi» soffiai infine, chiudendo velocemente la chiamata.

Non feci in tempo a mettere via il cellulare che sentii suonare alla porta.

Immediatamente fui presa da un moto di sollievo. «Vado io!» esclamai, andando verso la porta d’ingresso e verso mio marito.

Chi mi trovai di fronte invece fu Emmett. «Lilla! Ciao!» esclamò subito, buttandosi in ginocchio e cominciando a parlare con la mia pancia.

«Dov’è Edward?» chiesi ansiosa, guardando alle sue spalle ed ignorando il nome dato alla bambina.

 «Ma ciao Lilla. Che combini lì dentro, eh? Dillo allo zio Emm. Tesoro!».

«Emmett, rispondimi» dissi decisa, tirandogli i capelli tanto da costringerlo ad alzare lo sguardo.

«È rimasto con Jasper, verrà fra un po’» mi rispose prima di ricominciare a parlare con la bambina che si sarebbe chiamata in tutti i modi men che “Lilla”.

Mi andai a sedere, delusa, trascinando inevitabilmente anche Emmett, sul divano. L’inquietudine che mi aveva lasciato il sogno e l’assenza di Edward non accennava a diminuire. Avevo paura che presto sarebbe cresciuta tanto che non sarei riuscita a gestirla.

Infastidita, interruppi Emmett che continuava a parlare con la mia pancia. «Emmett, smettila, è lunga appena due centimetri e mezzo, non ti può sentire».

«Mia nipote ha preso tutto da me» fece saccentemente «secondo me mi può sentire, è intelligente».

«Va bene, ma ora smettila» dissi, cercando di suonare un po’ meno burbera, abbassando la maglietta e scacciando le sue mani fredde. Non volevo prendermela con lui, ma mi sentivo indisposta per mancanza di mio marito.

Al secondo suono alla porta scattai nuovamente in piedi, ignorando i rimproveri di Alice e Rosalie che mi dicevano che stavo troppo tempo in piedi e che sarebbero potute andare loro ad aprire.

L’unico vampiro che attraversò il portone fu però Jasper. «Ragazzi, c’è un freddo fuori, meno male che sono un vampiro».

«Dov’è Edward?» chiesi ansiosa.

Abbassò il suo sguardo sul mio. «Bella… stai bene?» chiese sorpreso, sollevando un sopracciglio.

«Sì, sì. Dov’è Edward?» ripetei, sempre più agitata, rispondendo frettolosamente alla sua domanda.

Piantò gli occhi dei miei, corrugando le sopracciglia. «È con Carlisle. Tutto bene?» chiese titubante, leggendo probabilmente le mie emozioni.

«Sì» mormorai afflitta e seccata, abbassando le spalle e trascinandomi nel soggiorno.

«Bella! La cena è pronta!» mi chiamò Esme.

Non volevo deludere le sue aspettative, ma riuscii appena a mandare giù un paio di bocconi di cibo. Se avessi mangiato di più avrei certamente vomitato.

Emmett mi prese in giro, dicendomi che quella sera non ero per niente divertente e Jasper scoccò un’occhiata ad Alice, cauta e perplessa. Da quando era arrivato mi sentivo più tranquilla, ma mi metteva a disagio l’idea che stesse manipolando le mie emozioni.

Tanto meglio. Non volevo che Edward leggesse nei loro pensieri la mia fragilità, così mi decisi ad approfittare di quella tranquillità artificiale per ribattere a tono ad Emmett e rimetterlo scherzosamente al suo posto. Mi raccontarono che si erano divertiti molto cacciando, ma che non avevano trovato alcuna traccia di quella probabile donna immortale. Jasper disse di non preoccuparmi, che si era trattato probabilmente di una “visitatrice occasionale”.

Infine, finalmente, suonarono ancora alla porta, e sapevo che questa volta non poteva che essere lui.

«Bella, sta’ seduta, ti sei alzata già troppe volte oggi».

Ignorando completamente le dolci parole di Esme, scattai in piedi, correndo, letteralmente, verso l’ingresso, e sfidando in ogni modo la forza di gravità.

Carlisle comparve sorridente sull’uscio. «Bella» mi salutò, il viso riposato di chi si era appena nutrito e gli occhi ambrati scintillanti concentrati sulle mie guance arrossate per il fiatone. «Tutto bene?».

«Edward?» fremetti, attorcigliando le dita agitata e ignorando la sua domanda.

La sua espressione si fece sorpresa. «Edward? È con Emmett» rispose, come se fosse ovvio.

«Ma lui…» sentii un fortissimo moto d’agitazione e irritazione crescere in me. Ma prima di impazzire decisi di trovare una spiegazione logica e plausibile. «Emmett» lo chiamai, facendolo comparire immediatamente accanto a noi «Carlisle dice che Edward doveva essere con te».

Anche la sua espressione mutò in sorpresa. «Con me? No, il l’ho lasciato con Jasper» fece tranquillo.

Sgranai gli occhi, ancor più agitata. «Jasper!» esclamai, facendolo precipitare insieme agli altri Cullen. «Edward dovrebbe essere con te, perché non è con te?» sbottai d’un fiato, la voce rotta dall’agitazione.

I suoi occhi scivolarono da Carlisle a Emmett. «Io sapevo che sarebbe rimasto con te Carlisle».

Battei le palpebre confusa, mentre la tranquillità artificiale di Jasper scivolava via sempre più rapidamente.

I tre cominciarono a parlare fra loro, velocemente, accusandosi reciprocamente. Rose, Alice e Esme erano attente ai loro discorsi. Infine Carlisle disse, alquanto divertito, «Ci deve essere stato un malinteso. A questo punto devo ritenere che l’abbiamo lasciato indietro».

Emmett e Jasper scoppiarono a ridere.

Io no. Io ero pietrificata sul posto, immobile. Presi dei lenti e ansanti respiri dalla bocca, mentre sentivo la paura e l’ansia crescere esponenzialmente con il suono delle loro risate.

Jasper, il primo ad accorgersi del mio umore grazie ai suoi poteri, si tirò su, osservandomi. «Bella, tutto bene?».

A poco a poco anche gli altri smisero di ridere, facendosi man mano seri.

«No» biascicai querula, sentendo il primo singhiozzo esplodere nel mio petto, senza che lo potessi controllare. «Voi» farfugliai, spaventata ed arrabbiata «voi… l’avete lasciato solo?!».

Emmett riprese a ridere, facendomi arrabbiare ancora di più.

Strinsi i pugni lungo i fianchi fino a far sbiancare le nocche.

Tutti mi osservavano in silenzio, perplessi, e anche Emmett, resosi conto della mia espressione terrorizzata e seria, tacque. «Bella» fece infine Carlisle, tentando di rassicurarmi, «Edward è un vampiro centenario, sa badare a sé stesso, non temere».

Invece di acquietarmi, quelle parole mi fecero inspiegabilmente crollare, facendo esplodere tutta l’inquietudine che avevo tentato di arginare quel giorno e facendo venir fuori tutta la mia vulnerabilità. «No invece» singhiozzai, scoppiando a piangere «lo avete lasciato solo con quella donna di cui non sappiamo niente in giro».

«Oh cara, su non fare così, Edward se la caverà» tentò di rassicurarmi Esme, accarezzandomi un braccio. «Vieni, andiamoci a sedere. Calmati».

«Non ci riesco» piansi divincolandomi, sentendo l’umido e il salato delle lacrime sulle mie labbra.

Jasper fece un passo nella mia direzione, contraendo l’espressione sul suo viso. «È molto agitata, non riesco a calmarla completamente».

«Bella, tranquilla, vieniti a sedere, su, non fare così» mi riprese bonariamente Alice, prendendomi per l’altro braccio.

«Vorrei solo che fosse qui» singhiozzai, pur lasciandomi trascinare.

Mi sentivo vinta, sopraffatta dal terrore che era cresciuto sempre di più e che alla fine era esploso dentro di me. Ero preoccupata per Edward, presa dal panico all’idea di non poter essere certa che stesse bene ed insieme disperata all’idea di quanto la sua assenza mi facesse stare male.

Bevvi quasi inconsapevolmente dal bicchiere d’acqua fresca che mi trovai fra le mani, portandolo alle labbra tremante. Misi una mano sulla fronte, osservando i volti delle persone che mi fissavano attenti e preoccupati. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che avevo avuto un vero attacco di panico? Lasciai che Rosalie mi parlasse, rassicurandomi, senza quasi a riuscire a sentire le sue parole. Capii solo che mi diceva che non era colpa mia, che potevo permettermi di essere fragile ogni tanto. Ma io mi sentivo fraglie sempre.

Quando fui abbastanza calma afferrai la coperta che stava sul divano e mi diressi in silenzio verso la grande vetrata a est della casa. Mi lasciarono andare, discretamente, senza dirmi nulla. Mi sedetti sul loggione, stendendo le gambe sui cuscini, e mi avvolsi nella coperta, poggiando la fronte sulla lastra fredda di vetro.

Mi sentivo stanca, fisicamente e mentalmente. Vedevo, fuori dalla finestra, il vento forte che soffiava via le foglie brune e rossicce dagli alberi sparpagliandole qua e là, così simili ad una folta chioma di capelli ramati… Rabbrividii, stringendomi nella mia coperta. Ero così spossata che sarei crollata in un sonno tormentato, ma non potevo permettermelo. Non sarei sopravvissuta ad un altro incubo.

Il mio fiato caldo, causa la notevole differenza di temperatura, formava un alone opaco sul vetro. Sollevai una mano fino a posarla sulla lastra trasparente, facendo formare intorno alle dita un altro alone bianco.

Improvvisamente sobbalzai, vedendo cinque perfette e bianche dita da pianista posarsi dall’altro lato del vetro, combaciando con le mie e ravvivando l’alone opaco.

Così com’erano comparse scomparirono, per poi apparire, perfette, nella figura di mio marito accanto a me. Gli occhi perfettamente dorati, i capelli scarmigliati dal vento e sulle rosee labbra un magnifico sorriso sghembo fatto di infinite promesse d’amore.

«Edward» sussurrai, senza poter nascondere il tremore nella voce.

Con un sorriso sghembo e con una velocità inumana mi prese fra le braccia, posando le sue labbra sulle mie.

Lo strinsi forte a me, piena di sollievo, desiderosa di non lasciarlo andare via.

«Mi sei mancata» sussurrò ad un mio orecchio.

Trattenni a stento un singhiozzo di sollievo. «Anche tu».

«Ehi, shh» mormorò consolandomi, sollevandomi il mento con una mano. I suoi occhi dolci e comprensivi mi dicevano che sapeva che effetto mi avrebbe fatto la sua assenza. «Tranquilla, sono qui. Oggi è stato un giorno difficile, lo so» mi disse, sfregandomi la guancia con il pollice e scrutandomi con attenzione «hai fatto un brutto sogno? Oggi era il giorno del progesterone».

«Mi fa ancora male» scherzai debolmente fra le lacrime, lasciando dissolvere tutta la mia paura nel calore di pace che sentivo nel petto.

Ridacchiò, portandomi divertito una mano al sedere «Nulla che non si possa rimediare» mi promise, lasciandomi un altro lento, lungo, bacio sulle labbra.

Scossi il capo, asciugandomi le lacrime. «Mi dispiace. Hai detto che eri stato orgoglioso di me per essere riuscita ad affrontare Billy, invece oggi sono stata pessima e ti ho deluso. Perdonami».

Crucciò le sopracciglia, dispiaciuto. «Come potrei essere deluso?» soffiò con amore «sei la creatura più coraggiosa e forte che conosca. Sei stata bravissima. Puoi permetterti di essere fragile, Bella. Hai sospeso gli antidepressivi da poco più di una settimana, hai affrontato l’incidente di tuo padre e i mille pericoli in questa gravidanza. È normale che tu abbia bisogno di un punto di riferimento per stare bene».

Tirai su con il naso, fissando le sue iridi chiare. «Mi prometti che andrai comunque a caccia in futuro?».

Sospirò con un sorriso, chinandosi ad abbracciarmi. «Oh, mia coraggiosa umana».

E lasciai che mi abbracciasse forte, mettendo a posto tutti i pezzi di me che erano andati in frantumi.

«Bella! Stai ancora mangiando?» chiese scioccata Alice più tardi, indicandomi e distraendomi dai miei pensieri.

Stavo stesa sul divano, fra le gambe di Edward, con la schiena appoggiata al suo petto. L’inquietudine era andata via come una marea che scompare, lasciandomi calma e spossata. «Mmm… ho fame» biascicai con in bocca un cucchiaino di gelatina alla frutta, che estrassi per immergerlo nuovamente nel composto rossastro e traslucido.

Alice incrociò le braccia al petto, fissandomi con disappunto. «E voi non le dite nulla! Ha già cenato, dovrebbe seguire una dieta basata su pasti sani!». Quando vide che nessuno diceva nulla, incalzò «Edward, questa da te non me la sarei mai aspettata. E anche tu Carlisle, insomma, che medico sei?» fece imbronciata.

Io lo fissai con il cucchiaino in bocca e uno sguardo piuttosto eloquente. Nessuno poteva mettersi fra me e la mia gelatina!

Allo stesso modo Alice gli riservò un vero sguardo imbronciato.

Mi aspettai di vedere Carlisle per la prima volta in difficoltà, invece disse «È vero che dovrebbe fare dei pasti sani, ma è vero anche che Bella è leggermente sottopeso. Una gelatina non le farà male» concluse stringendo la mano di Esme che stava seduta accanto a lui sul divano.

Erano tutti tranquilli e scherzosi, come se nulla fosse accaduto.

«Scusatemi per prima» mi sentii di dire imbarazzata, mettendo via la gelatina.

«Oh, tesoro, non c’è bisogno che ti scusi di nulla» fece Esme con un sorriso «noi ti capiamo».

«Piuttosto, Edward» fece Rosalie, finendo di attizzare il fuoco del camino «dove ti eri cacciato?».

Scrollò le spalle, lo sguardo perso. «Stavo seguendo una strana traccia. Mi è sembrato di sentire i pensieri di qualcuno, ma poi sono scomparsi troppo in fretta».

«Poteva essere quella donna?» incalzò Jasper.

Fece spallucce. «Chi può dirlo».

Emmett batté i palmi delle mani sulle ginocchia. «Io dico: torniamo a cercarla» fece, facendomi irrigidire inconsapevolmente.

Carlisle gli lanciò un’occhiata. «Io dico che è ora di andare a dormire. Nessuno si esporrà più per questa donna. Cercarla potrebbe solo indurla ad avvicinarsi di più. Alice cercherà le sue decisioni e se si avvicinerà ancora saremo pronti ad ascoltarla» fece cautamente.

Alice annuì, seria, e io mi lasciai andare serenamente con la testa sulla spalla di mio marito, sbadigliando stanca.

Mi baciò la fronte. «Se volete scusarci» disse, aiutandomi a sollevarmi «è l’ora di andare a dormire».

Crollai subito, sfinita, abbracciata a mio marito. E quella notte non ci fu alcun incubo. Nei giorni successivi andò meglio. Edward fu molto attento e mi seguì da vicino, tanto da essere sicuro che non avessi bisogno del suo continuo supporto. Con il nuovo materiale e le informazioni di Amber riuscii a ricominciare a studiare, ponendomi come obbiettivo quello di recuperare il tempo perduto.

Segnai con il dito il confine della mia pancia, sorridendo, per un attimo distratta dai miei studi. Non perduto completamente; usato per far crescere l’esserino posto appena sotto le mie dita.

Sentii il suono del vetro contro il metallo. Edward era entrato nello studio con un bicchiere di spremuta d’arancia, posandolo sul tavolino da tè.

Sorrisi, scuotendo la testa. «Amore, qualcuno potrebbe pensare che mi approfitti di te. Cosa facevi prima di conoscermi?» feci sarcastica.

Lui mi sorrise, scostando la mia mano per baciare la pancia e per poi salire a posare un bacio sulle mie labbra. «Un sacco di cose poco divertenti» mi spiegò brevemente.

«Edward» voleva essere un rimprovero, ma non riuscii a nascondere l’ilarità nella mia voce.

Mi prese le mani fra le sue e le strinse strofinandole con i pollici. «Davvero, Bella. Non ti sto accanto solo per evitare che tu abbia un attacco di panico. Mi piace stare con te. È per questo che ti ho sposato».

Sospirai, liberando una mano dalle sue per accarezzargli una tempia, godendo della sua espressione assorta nelle mie carezze. Speravo che con il tempo sarei riuscita ad essere più indipendente, non perché non lo volessi accanto, ma perché volevo stare bene anche senza averlo accanto.

«A cosa pensi?» chiese curioso, riaprendo gli occhi e indagando l’espressione del mio viso.

«A te» risposi semplicemente, raccontandogli una parte della verità.

Sollevò le nostre mani unite e poggiò le sue labbra fredde sul dorso della mia mano. «Hai finito di studiare?» mi chiese osservando il libro accanto a me.

Sbuffai, prendendolo con una mano e aprendolo alla pagina che doveva interessarmi. «No, affatto, sono indietro e devo recuperare tutto» dissi rimettendomi a leggere.

Attese un po’ con me per farmi compagnia, ma poi decise di lasciarmi sola per poter studiare senza distrazioni, così potei concentrarmi completamente sulle materie trattate dai grossi tomi. Facendo un salto nel passato, mai avrei immaginato di poter essere così coinvolta in quelle materie artistiche. Mai, avrei pensato di pretendere con tale forza di volontà una certa autonomia negli studi, artistici per giunta.

Sentii dentro di me una strana sensazione di deja vu, nata come una fiammella, scomparsa man mano per lasciare solo un pallido e freddo ricordo di sé. Battei le palpebre lentamente, guardando la porta chiusa dello studio. Possibile che il mio patologico attaccamento a Edward si manifestasse anche con un distacco così breve? Scossi il capo, ricominciando a leggere con più attenzione.

Tuttavia, dopo due ore e mezza potei dire di essermi definitivamente scocciata. Non ero più abituata a stare concentrata sui libri per così tanto tempo, e la nausea, che ancora perdurava, mi dava un’eccellente motivazione per distrarmi.

Mi sollevai dal divano dello studio, dirigendomi in cucina alla ricerca di mio marito e di un po’ di sana distrazione e, perché no, qualcosa da mettere sotto i denti.

La prima cosa che intercettai appena misi piede fuori dalla porta fu l’odore delizioso del caffè. Mi avventurai, come attratta da un’enorme calamita, nel soggiorno, da cui l’aroma veniva diffuso.

Non appena adocchiai la tazza di fumante liquido nero, una voce mi colse in fallo.

«Bells, sei in piedi?» chiese mio padre, seduto sulla poltrona accanto a mio marito.

«Papà?» domandai sconvolta, rinunciando immediatamente alla possibilità di avere anche solo un assaggio di caffè. «Che ci fai qui?» domandai sorpresa, raggiungendoli velocemente in soggiorno.

Incrociò le braccia al petto, scrutandomi. «Mi sono fatto accompagnare da un amico» borbottò, ma da come arrossì pensai che si fosse fatto accompagnare da un’amica.

Sorrisi, chinandomi a baciargli una guancia, decidendo di non indagare ulteriormente. «Sono contenta che tu sia qui» dissi sincera, sistemandomi poi accanto a mio marito, facendomi circondare dal suo abbraccio freddo.

«Mi sembri meno pallida» fece mio padre studiandomi.

Sollevai gli occhi al cielo. «Sto benissimo». Certo che ero meno pallida. I miei medici personali si assicuravano costantemente che la mia emoglobina non scendesse sotto il valore di 10, somministrandomi più e più farmaci ogni giorno.

«Finito di studiare?» mi chiese a bassa voce Edward.

«No» mormorai sbadigliando. «Non ce la farò mai a recuperare tutto, ne sono certa».

Lui scosse la testa in disappunto. «Non essere sciocca, hai fatto tantissimo».

«Quando comincerai a frequentare?» chiese mio padre, inserendosi nel discorso.

«Fra due settimane, all’inizio del nuovo trimestre».

«Oh» fece lui, abbassando lo sguardo sulla tazza di caffè, - mio caffè - che stava sorseggiando. Era arrossito e pareva stranamente assorto nei suoi pensieri. Avevo dato per scontato che fosse venuto solo a controllare che stessi bene, ma ora che lo vedevo così mi chiedevo se non ci fosse dell’altro.

Sentii mio marito irrigidirsi al mio fianco, così mi voltai verso di lui allarmata. Ma nei suoi occhi vidi solo un’espressione composta e serena, tipica maschera di un vampiro.

«Papà?» feci titubante, tastando il terreno. «C’è qualcosa che non va?».

Lui lanciò un’occhiata a Edward, e poi a me. Sembrava a disagio. «Vedi, ecco» cominciò, titubante «devi sapere che in paese si è saputo del tuo… stato» fece cautamente.

Cacciai un respiro secco. Doveva essere stata quella pettegola della mia vicina. «Papà, non m’importa che sappiano che sono incinta, anche se sono giovane io e Edward siamo sposati e le voci di provincia sono l’ultima cosa che…».

«No, no» m’interruppe, sollevando una mano «non è questo» disse con una pausa, in seria difficoltà su come continuare.

Mentre sentivo la presa di Edward intensificarsi e cementarsi sulla mia spalla, vidi Charlie muoversi imbarazzato sulla poltrona. Guardai mio marito. Dal suo sguardo potevo dire che si trattava di qualcosa che lo turbava. «Di cosa si tratta papà?» chiesi allora agitata.

Temporeggiò ancora, passando con gli occhi da me a Edward. Poi sospirò. «Tutti credono che il bambino non sia di Edward… che sia…».

«Basta così» sbottai, indignata, voltandomi verso mio marito.

Era rigido, la mascella serrata e gli occhi lontani.

Non poteva essere. Non poteva essere, ancora, il nostro tormento. Mi sentii ferita e addolorata all’idea di quanto potesse fare male a Edward.  

Gli accarezzai la guancia marmorea con delicatezza e attenzione. «Edward» sussurrai, avvicinandomi al suo orecchio in modo che solo lui mi sentisse. «Sono solo umani, non importa quello che dicono: questa è la nostra bambina e non saranno certo delle stupide menzogne a farlo cambiare».

Sospirò, allontanandosi lievemente da me e fissando il vuoto, immobile.

Avrei voluto continuare a parlargli, rassicurarlo, capire le sue motivazioni, ma la presenza di mio padre me lo impediva. Mi voltai verso di lui, incontrando il suo sguardo dispiaciuto. «Mi dispiace che tu debba sentire queste cose papà, ti prego di non preoccupartene più» feci con un sorriso di scuse.

«Non ti preoccupare Bells» disse, recuperando le sue stampelle. «Non sapevo se dirvelo» esitò poi, incerto «ma non volevo veniste a saperlo da qualcun altro».

«Grazie» sospirai afflitta, stringendo la mano di mio marito, ancora immobile.

Edward riaccompagnò a casa mio padre e quando tornò mi sembrava più sereno di prima.

«Tutto bene?» gli domandai preoccupata, studiandolo di sottecchi.

«Sì» sospirò, togliendosi la giacca bagnata dalla pioggia «Non pensavo che delle voci di stupidi umani potessero darmi tanto fastidio, ma ora ti capisco. Mi secca molto» commentò freddamente.

Mi avvicinai e lui mi strinse a sé, posando un bacio sui miei capelli. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo alla mia vicina».

Fece una risatina stanca al ricordo. «Sarebbe successo comunque. È solo che… non capisco come faccia ancora ad intervenire così nelle nostre vite» fece una breve pausa, serrando più forte la mascella, pensieroso. «Non importa, non diamogli il potere di farlo» concluse infine, illuminando nuovamente il dorato dei suoi occhi nei miei.

Sorrisi debolmente, lasciandogli un altro bacio proprio sull’angolo della bocca. «Stai meglio?».

«Sì» rispose sincero, determinato a concludere il discorso.

Neppure io volevo più parlare dell’argomento, sarebbe stato solo un motivo per non essere felici. «Bene» dissi serena, dirigendomi verso la cucina.

Cominciai a prepararmi qualcosa da mangiare. Da quando potevo fare molte più cose, Edward aveva cominciato a lasciarmi i miei spazi, a concedermi di essere autonoma e indipendente ed io man mano stavo riprendendo il controllo della mia vita.

Ebbi nuovamente quella strana emozione, simile a un ricordo antico e abituale, quando sollevai per un istante il bicchiere d’acqua. Per un attimo mi trovai come sospesa, in un mondo piano e parallelo fatto solo di quell’emozione, che se ne andò via lasciandomi un nugolo nel petto. Una cosa davvero strana.

«Lo sai Bella, che passi troppo tempo in piedi? Non dovresti stancarti di meno?» chiese sarcastico Edward, approfittando del blocco nella scioltezza dei miei movimenti.

«Ah sì, tu dici?» chiesi sollevando gli occhi al cielo e sedendomi accanto a lui, posando il piatto sul tavolo.

«Sì, io dico» fece con finta aria di rimprovero. «Carlisle ha detto un paio d’ore e ne sono passate quasi tre».

«Mmm… allora sì…» biascicai addentando un pezzo del mio pranzo e rivivendo, ancora una volta, la stessa, ormai abituale, emozione antica. M’irrigidii automaticamente.

Notai che Edward mi osservava accigliato.

Scossi il capo con noncuranza, finendo di mangiare in silenzio e lasciando che altrettanto in silenzio, giocasse con una ciocca dei miei capelli.

Non appena il telefono squillò, mi alzai facendo scattare indietro la sedia e con una risata dispettosa andai a rispondere. «Pronto?» chiesi trafelata dalla breve corsa.

«Bella, sei tu? Come mai non ha risposto Edward? Sei sempre in piedi» concluse Carlisle divertito.

Sentii due mani fredde sulla vita e dopo un piccolo volo e un’esclamazione di sorpresa, mi ritrovai sul divano, stretta nella morsa di mio marito che mi solleticava con impertinenza. Ripresi fiato finché non riuscii nuovamente a parlare. «Ora non più» biascicai infine arrossendo, conscia del fatto che mio suocero avesse sentito tutto.

Si sentì una breve risata. «Potresti passarmelo? Alice ha previsto che ci sarà un temporale e mi ha chiesto di avvertirlo, nel caso volesse giocare con noi».

Mi irrigidii un attimo, sorpresa, congelando il sorriso sulle mie labbra. Poi passai in silenzio il telefono a Edward. Sentivo che, egoisticamente, non volevo che andasse. Ma, d’altra parte, era giusto che lo facesse; trascorreva sempre meno tempo con la sua famiglia per potersi dedicare completamente a me.

Mi accorsi che aveva già finito di parlare e che mi osservava attentamente, muto.

«Cosa fai?» chiesi titubante, riemergendo forzatamente dai miei pensieri.

«Stavo tentando di capire a cosa pensi».

Feci una risatina. «Ancora non ti sei dato per vinto?» chiesi sarcastica. Allontanai per un attimo lo sguardo, tentando di apparire disinvolta. Non volevo che andasse via, eppure era giusto che lo facesse. «A che ora devi andare?» chiesi, non guardandolo volutamente negli occhi.

Sentii le sue braccia stringermi più forte. «Non ci vado».

Sollevai lo sguardo, opponendomi alla parte di me che vilmente giova. «Perché no? Dai, Edward, lo so che ci vuoi andare. Vai» lo incoraggiai con un mezzo sorriso finto.

Lui sospirò, facendo così sollevare i miei capelli. «Te l’ho detto» fece serio «mi piace stare con te».

«Edward» mi lamentai «lo so che ti piace stare con me, ma hai anche una famiglia. Da quando» sospirai «da quando Jacob mi ha quasi ucciso non sono più riuscita a stare senza di te senza sentirmi sopraffare dalla paura. Come possiamo andare avanti così? Come posso credere che lo fai solo perché “ti piace stare con me”?».

Mi guardò con dolcezza. «Non hai pensato che anch’io da allora mi senta sopraffare dalla paura quando non sono con te?».

Aprii la bocca per parlare, ma non dissi nulla.

Mi baciò la fronte, abbracciandomi. «So che non può durare per sempre, ma so anche che migliorerà. Adesso è troppo presto e forzare le cose non porta mai nulla di buono».

«Ma loro ti aspettano» protestai debolmente contro la sua spalla «non possono giocare senza di te».

«Bella… non importa, davvero, e poi stasera saranno di nuovo qui con noi» rispose nascondendo maggiormente il suo volto nell’incavo del mio collo.

Sentii ancora una volta lo strano deja vu. Capii per un istante che quell’emozione antica mi lasciava una scia di malinconia. «Suona almeno, fa qualcosa per te» dissi infine, scacciando i miei strani pensieri.

«Adesso? Perché?».

Mi allontanai di proposito, guardandolo negli occhi. «Nemmeno se te lo chiedessi io? Per me?».

Lui ridacchiò. «Crede di avere tutto questo ascendente su di me, mademoiselle?».

Arrossii, imbarazzata. «Beh, io…».

Il mio balbettio scatenò una risata ancor più fragorosa, ma alla fine ci ritrovammo entrambi nello studio, seduti sulla panca del piano, a sentire le deliziose note che si sollevavano dalle sue dita. Mi piaceva sentire come riuscisse a trasporre perfettamente le sue emozioni in musica. Per me le sue melodie erano come uno specchio della sua anima.

Così mi stupii quando notai come potessero essere malinconiche, tristi, o addirittura irose alcune sequenze di note, e mi parve di scorgere lo stesso stato d’animo che c’era stato in lui poche ore prima, in presenza di Charlie. Speravo che si calmasse, volevo fare qualcosa per farlo sentire meglio.  

Saggiai con il palmo della mano la morbidezza dei suoi capelli, stringendo maggiormente la presa sul suo braccio e beandomi del sorriso che comparve sulle sue labbra.

Contemporaneamente le note fluttuarono verso onde più tranquille e serene, fino a diventare del tutto positive. Mi portai una mano alla pancia, tentando di rilassarmi e concentrarmi solo sulla bambina, ma quella strana emozione che sentivo emerse ancora, stridendo con i miei sentimenti.

«Tutto bene amore?» chiese Edward accigliato, rompendo il vuoto sordo del silenzio che si era venuto a creare non appena aveva smesso di suonare.

Sorrisi, carezzando il piccolissimo pancino. «Sì, va tutto bene» mormorai sorridendo.

«Davvero?». Due linee irregolari si formarono sulla sua fronte piatta, mentre poggiava una mano sulla mia.

«Sì» arrossii, rimuginando sui miei pensieri. Avrei voluto condividerli con lui, e magari in qualche modo alleviare quel senso di tristezza che mi era parso percepire nelle sue note. Tuttavia mi sentivo terribilmente sciocca a parlare di quelle emozioni che sentivo. «Oggi mi sento un po’ strana. Non fisicamente, intendo. Solo… un po’ di malinconia. Credi che abbia a che fare con l’attacco di panico dell’altro giorno?» domandai timorosa.

Mi studiò con attenzione. «Credo di no. Ti senti agitata?».

Scossi il capo. «No, affatto. È più come un deja-vù».

Mi sorrise dolcemente. «Capita spesso agli umani. Anche a quelli non in gravidanza e con un disturbo da stress post-traumatico».

«E ai vampiri?» chiesi interessata a comprendere il suo stato d’animo.

Si fece nuovamente pensieroso, lo sguardo perso. «I vampiri non provano emozioni così labili come le vostre. O sono tanto deboli da non scalfirci, o sono abbastanza forti per cambiarci» disse concludendo il discorso.

Pensai per un istante a quelle parole. Non mi ero mai soffermata a pensare alle conseguenze di quello che mi aveva fatto Jacob su Edward, troppo concentrata sulla mia stessa fragilità. E se lo avesse cambiato per sempre?

«Cosa posso fare per te?» domandai preoccupata, studiando il suo viso.

Mi sorrise. «Te l’ho detto. Stare con me, mi basta».

Gli baciai l’angolo della bocca. «Potresti provare gli antidepressivi. Funzionano» scherzai, allontanandomi.

Mi bloccò, impedendomi di allontanarmi troppo. «Ho in mente qualcosa che funziona meglio» soffiò malizioso, facendo aumentare il battito del mio cuore.

«Edward» ansimai, vinta dal desiderio «non possiamo».

«No» mormorò al mio orecchio, lasciandomi dei languidi baci sul collo «però possiamo divertirci un po’».  

Respirai a pieni polmoni il profumo dello shampoo alla fragola, frizionando i capelli con un asciugamano. Quel gesto portò con sé un’ondata di emozioni felici. Sorrisi canticchiando e afferrando il tubetto di crema per le smagliature.

Ne misi un po’ sul palmo e scostai leggermente l’asciugamano bianca in cui ero avvolta per posarlo sulla pancia.

Vidi, attraverso lo specchio, la mia espressione diventare vacua e pensierosa.

Tuttavia, non feci in tempo a rendermi conto della strana inconsuetudine di quel mio gesto, che una mano fredda e perfetta sostituì la mia in un delicato movimento circolare.

Piegai la testa all’indietro, posandola sulla sua spalla e lasciando che le sue labbra marmoree lambissero la pelle bianca e pulsante del mio collo. Strinsi la presa sui suoi capelli mentre mi beavo della delicata forza con cui il suo abbraccio mi stringeva da dietro.

Ed in quel momento pensai che tutto potesse davvero tornare ad essere perfetto, meglio di come fosse mai stato.

Poco dopo, come quasi ogni sera, i Cullen vennero a trovarci. Tuttavia, a malincuore, rimasi per poco tempo con loro, dovendo finire di studiare.

«Bellina, su, resta con noi!» esclamò Emmett dispiaciuto, stringendomi nel suo abbraccio.

Sorrisi. «Sai che mi piacerebbe, ma non posso Emmett, devo studiare, dai» lo supplicai con un visino dolce.

«Guarda cosa c’è per te?». Alice mi mise davanti agli occhi un’ampia fetta di torta.

Immediatamente il mio sguardo s’illuminò.

«Oh, Alice! Ma tu non eri quella che le diceva di dover mangiare sano?» chiese sarcastica Rosalie scatenando l’ilarità di tutti.

Afferrai il piatto con il dolce, improvvisamente affamata.

Alice sorrise, furba. «Sì, ma oggi bisogna festeggiare, perché domani sarà il penultimo giorno di reclusione, dopo di che…».

Sollevai per un attimo la forchettina dal dolce. Dopo di che…? Osservai l’espressione compiaciuta sul volto di Alice. Non prometteva nulla di buono.

«Dopo di che… dobbiamo comprare un intero guardaroba per te e la bambina!».

Per poco non mi strozzai con il piccolo boccone che ancora avevo in bocca, mandando subito un’occhiata supplicante a Edward.

Mi strinse la mano, accarezzandone il dorso.

Fu Esme, stretta in un affettuoso abbraccio con Carlisle, a parlare. «Alice, ti prego, frena il tuo entusiasmo. Le cose si faranno man mano, non è necessario avere tutto subito, c’è ancora molto tempo e altri problemi di cui preoccuparci».

Fu palese il cambiamento d’umore nel suo viso e non mi sfuggì neppure la schermaglia di occhiate che il piccolo folletto si scambiò con Edward. Feci finta di non notarla, concentrandomi sul dolce e ripulendo il piatto. Speravo che riuscissero a convincerla e sapevo di essere vile a non affrontarla direttamente, ma… Sapevo anche che non sarei riuscita a cedere ai suoi modi di fare, come d’altronde era stato per il matrimonio.

Subito dopo aver finito di mangiare mi congedai da tutti, sia per studiare, sia perché avevo intenzione di lasciare Edward un po’ solo con la sua famiglia. Per quanto mi costasse volevo che il nostro bisogno di stare insieme tornasse ad essere vero e luminoso, e non malsanamente morboso.

Tuttavia rimettersi a studiare non fu facile, soprattutto dopo aver passato quasi un intero pomeriggio a stretto contatto con lui. Mi accarezzai la pancia, sorridendo e pensando alle mani e alle labbra del mio amore che per una lunga ora avevano coccolato me e la piccola. Quel momento tra noi mi aveva rilassato e tranquillizzato molto e non avevo più sentito quelle strane emozioni.

Rabbrividii, stupendomi del freddo che sentivo. Di solito i riscaldamenti erano sempre in funzione, ma evidentemente non quella sera. Però non mi andava di attraversare l’intera casa per accenderli; dopo essere tornata dai Cullen non sarei più riuscita a tornare a studiare.

Mi alzai dal grande letto della nostra camera e andai a prendere una coperta nell’armadio. Sbadigliai, stanca; era stata una giornata stancante per una povera umana con la gravidanza vampira come me. Mi avvolsi come un bozzolo nella trapunta e mi misi nuovamente a studiare, tentando di concentrarmi sul senso delle parole per evitare che scorressero nella mia mente come acqua, alleggerite e sospese come bollicine da una più pensante e incalzante stanchezza.

Dovetti addormentarmi, perché cominciai a vedere immagini che non potevano potenzialmente essere reali, ma che non mi davano neppure la certezza di essere finte.

Mi accorsi di un suono strano, confuso, lontano, che man mano prendeva sempre più vigore, come la risacca delle onde in lontananza. Mi mossi alla ricerca della fonte di quel suono, sempre più curiosa, spinta dalla voglia di scoprirne l’origine e la fonte e soprattutto di dare una spiegazione al turbamento che sentivo nascere in me.

D’un tratto mi bloccai: era il suono di un pianto. Il pianto, un vagito di un neonato, costante, monocorde negli sbalzi e nei fiati prorompenti.

«La bambina!» pensai, ancora più allarmata, continuando a correre per quelle che erano diventate le stanze di casa. Le immagini erano in costante movimento, fatte di momenti accelerati e innaturalmente rallentati e gli unici suoni oltre al silenzio, erano il vagito e il rumore del mio fiato ansante.

Nonostante corressi, la cercassi, non mi fermassi, non riuscivo mai a trovarla, e il pianto aumentava di più e sempre più. Annaspai, voltandomi, tentando di individuare la provenienza del suono che ormai sembrava provenire da ogni punto, troppo forte per essere distinto.

Mi lasciai cadere a terra, ansante, mentre tutto prendeva a turbinare velocemente attorno a me.

Ciò che vidi non appena aprii gli occhi fu il buio. Ripresi fiato, portando una mano sul cuore per fermare il suo battito accelerato. Qualcuno, Edward probabilmente, aveva spento la luce e mi aveva sistemato sotto la coperta che avevo usato per avvolgermi.

Chiusi nuovamente gli occhi, stanca. Era la prima volta che facevo un sogno collegato al bambino. Mi sentivo stranissima… come se i miei pensieri fossero dominati dalle mie sensazioni, come se ci fosse qualcosa che mi sfuggisse, qualcosa che non riuscivo a controllare e che mi stava facendo sentire una stranissima sensazione di angoscia. Come un cattivo presentimento, un’immotivata tristezza.

Sentii il lieve cigolio della porta e percepii appena, attraverso le palpebre chiuse, la presenza per qualche istante di una tenue luce.

Era Edward.

Mi aspettai di sentire, come spesso accadeva, scomparire la tristezza, ma così non fu. Sentendo il materasso abbassarsi e sue braccia stringermi in un abbraccio mi voltai, stringendomi al suo petto e aspettando nel silenzio che l’inquietudine mi abbandonasse.

Passarono i secondi, scanditi rumorosamente dal crescente silenzio. Mi sentivo sempre più inquieta, neppure la presenza di Edward riusciva a darmi sollievo per concedermi un nuovo sonno.

«Sono andati via?» mormorai poi debolmente, rompendo il silenzio che opprimeva la mia mente.

Sentii le sue braccia stringermi più forte e una sua mano accarezzarmi i capelli. «Hai avuto un incubo?».

Sopirai, richiudendo gli occhi e tentando di scacciare la pesantezza dalla testa. Ovviamente la presenza di Jasper aveva avuto il suo effetto. «Non lo sai che non si risponde ad una domanda con un’altra domanda?» chiesi, tentando di essere sarcastica.

«Lo sai che mi preoccupo».

«Certo che lo so, per questo non ti dico niente» gli risposi impertinente. Tuttavia nella mia voce si sentii il tremolio strano dell’esasperante inquietudine.

Sentii una mano sotto al mento, e anche nel buio riuscii a distinguere il bagliore di due occhi ambrati. «Ti senti triste? Te l’ho detto, va bene sentirsi tristi, non fartene una colpa» mi disse serio.

Scossi la testa, divincolandomi dalla sua presa e cancellando le assurde lacrime che si erano formate al bordo dei miei occhi. Mi tuffai con il viso nel suo petto tentando di calmarmi. Sentivo come se ci fosse uno spesso strato di condensa a pulsare sulla mia mente stanca e a cui non riuscivo a trovare sollievo, né origine. Perché mi era capitato, alcune altre volte, di sentirmi così. Ma poi era bastata la presenza di Edward, una sua carezza, una sua parola, per farmi tornare serena.

Ora non era così. Non riuscivo a controllare quella tristezza, come se non fosse mia.

E non era come le altre volte…

Edward fece per parlare di nuovo, ma lo bloccai.

«Io… ora passa, va bene?» chiesi debolmente «Resta qui, resta con me».

Lo sentii sospirare, poi si rilassò e posò le sue labbra sulla mia fronte, come a darmi il suo assenso. Sospirai anch’io, ma non riuscii a rilassarmi.

Ero bloccata in un recinto di sensazioni negative da cui non riuscivo a scappare.

Lasciai istintivamente un bacio sul suo petto, proprio all’altezza del cuore che non batteva più. Poi posai un orecchio ad ascoltare l’eco del mio battito che si perdeva dentro di lui, animandolo; solo così, dopo un tempo infinito, riuscii a trovare pace nel sonno.

   
 
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