Capitolo 3
“Andare avanti”
Quando Ukyo si svegliò, il sole era già alto e la
maggior parte delle nubi si era dissipata.
Si scosse, stiracchiandosi lungo la panchina su cui era sdraiata e
scoprendo di essere indolenzita un po’ dappertutto.
Addormentarsi all’aperto, valutò distrattamente,
non costituiva la cosa più salutare di questo mondo.
Mentre si rialzava, come in un lampo, alcuni avvenimenti della notte
passata le tornarono nitidi alla mente. Si ricordò di Ranma,
della foga con cui era fuggito di casa. Di come lei l’avesse
seguito e fosse riuscita a portargli un po’ di conforto.
Il fidanzato aveva
pianto a lungo tra le sue braccia finché, finita la pioggia
e probabilmente scaricatosi anche lui dopo tanto tempo da ogni
tensione, si era infine abbandonato al sonno. Ukyo doveva essersi
addormentata non molto più tardi, sopraffatta a sua volta da
una spossatezza non solo fisica.
Si guardò con calma in giro ma di Ranma non vi era
più nessuna traccia e lei, sinceramente, non se ne sentiva
sorpresa. Al levarsi di una breve folata di vento, ebbe
l’istinto di proteggersi con le braccia: così
facendo, avvertì il contatto con un tessuto estraneo e si
accorse di stare indossando una certa camicia cinese di colore rosso.
Dunque, l’aveva abbandonata.
Di nuovo.
(“Avevate promesso di portarmi con voi!”)
Ormai avrebbe dovuto esserci abituata.
(“L’avevate promesso!”)
Tutto era andato storto. E nemmeno lei sapeva esattamente cosa fosse
accaduto: forse per la stanchezza dovuta allo scomodo risveglio, forse
per le tensioni della notte passata, provando a ricordare qualcosa di
più non trovava davanti a sé che diversi buchi di
memoria, oltre a un fastidioso capogiro.
Ukyo sospirò. Non era da lei arrendersi, così si
avviò verso casa Tendo, sperando con tutto il cuore che vi
avrebbe trovato Ranma. Anche se la ragione le diceva che non sarebbe
stato così.
Non era tornato a letto, quella notte.
Aveva, piuttosto, preferito mettersi qualcosa di caldo sulle spalle e
incamminarsi verso la palestra.
Era entrato, ponendo la massima attenzione nel non far rumore. Aveva
poi poggiato una mano sul legno della parete, assaporandone la
sensazione. Quelle quattro mura significavano tanto per lui.
Quante ore erano passate? Soun Tendo non poteva dirlo: aveva perso la
cognizione del tempo e, tutto sommato, preferiva così.
Sapeva solo che la luce del giorno, ora, filtrava all’interno
con violenza.
Preferì, dunque, sfuggirla e chiudere ancora una volta le
palpebre. Di nuovo, come per incanto, vide davanti a sé un
Soun più giovane e senza baffi che inaugurava il dojo,
assistito dallo sguardo grondante di gioia della propria consorte. Si
rimirò mentre dava lezioni agli allievi della scuola appena
fondata, che a quel tempo giungevano numerosi.
Sorrise mentre guardava se stesso esibirsi in qualche mossa di kempo di
fronte a tre piccole bimbe curiose e leggermente spaurite, con la
speranza segreta che a qualcuna di loro venisse voglia di imitarlo.
Sorrise di nuovo e con grande orgoglio, stavolta, ammirando la figlia
più piccola seguire le sue orme allenandosi con lui, e
girare di tanto in tanto gli occhioni vispi per capire se
papà fosse contento di lei.
E lui lo era. Immensamente.
La vanità del mondo… Tanti progetti, tanti
calcoli, per un castello di carte che sarebbe potuto crollare al primo
soffio di vento. Eppure, ponendo una carta sopra l’altra,
sapeva di non aver incontrato timori, ma solo soddisfazione per quello
che stava facendo.
Amava le arti marziali. E amava ancor di più la propria
famiglia. Evidentemente, il destino aveva deciso che non potesse godere
a lungo di nessuna delle due cose.
Ma lui si era imposto di farsi forza.
Era perfettamente consapevole che tutti davano per scontato che il
dolore per la sua piccola Akane lo avrebbe distrutto nel più
profondo recesso dell’anima. Lui non negava affatto di aver
sofferto, e di continuare a soffrire, come un disgraziato: chiaramente,
nei primi giorni, aveva pianto le sue lacrime, e copiose.
Tuttavia, ciò non bastava a farlo sentire un uomo debole.
Passò in rassegna, ancora una volta, la sua vita.
No.
Un uomo debole non resiste al dolore della perdita della moglie tanto
amata. Non guarda avanti, non cresce le tre figlie ancora piccine senza
chiedere aiuto ad alcuno.
No. Soun Tendo non era un debole. Lui aveva sempre combattuto per le
cose cui teneva.
Era partito da zero, dagli stenti, dai sacrifici. Aveva individuato il
suo maestro in un vecchiaccio che si sarebbe presto rivelato un
grandissimo pervertito e un terribile tiranno. Non importava. Lottando,
era comunque riuscito a trarre il meglio da tutto ciò.
Non aveva avuto figli maschi cui passare il testimone della scuola di
lotta indiscriminata, portando avanti il nome dei Tendo nelle arti
marziali. Non importava. Il cielo gli aveva donato tre gemme di figlie. Un
caro amico. E una promessa importante.
Fino a pochi giorni prima, soppesando gli inevitabili dolori e le
numerose gioie incontrate sulla propria strada, si era ritrovato a
pensare che il destino gli avesse concesso fin troppo, tutto sommato.
Non solo la piccola Akane aveva presto rivelato di amare le arti
marziali.
Non solo Genma Saotome non era venuto meno al loro vecchio accordo, ma
aveva anche cresciuto un ottimo ragazzo, straordinariamente dotato,
molto più di loro alla sua età, meritevole di
riunire le famiglie e le scuole di lotta, come stabilito, e di
ereditare la palestra.
Oltre a tutto questo, Ranma… aveva finito, col tempo, per
costituire il figlio
maschio che
non aveva mai avuto. Dunque cosa poteva desiderare di più?
Eppure, adesso, stava perdendo di nuovo ogni cosa a cui teneva. La sua
piccola Akane. Probabilmente, anche
Ranma. Aveva scrutato attentamente gli occhi del ragazzo,
nel momento in cui gridava di aver visto la fidanzata. Non vi aveva
scorto nulla di buono.
La speranza è, di per sé, qualcosa di positivo.
Ma non quando impedisce di guardare al futuro, non quando si deforma
evolvendosi in cupa disperazione.
Soun soffriva.
Soffriva terribilmente, ogni singolo istante. E pure adesso nuove
lacrime sgorgavano in silenzio dai suoi occhi. Ma si era imposto, anche
questa volta, di non soccombere al proprio dolore.
Non era importante pulirsi il viso. Presto le lacrime si sarebbero
asciugate da sole. Piuttosto alzò la fronte in direzione del
soffitto, cercando con tutto se stesso di mostrarsi ritto di fronte
alle avversità, senza abbandonare il proprio decoro.
Per Ranma… Soun considerò che dovesse valere lo
stesso discorso. Mai per nessun motivo si sarebbe dovuto rifugiare
nella consolazione di un mondo tutto suo, mai avrebbe dovuto perdersi a
caccia di vane
ombre.
Ragazzo mio, non devi smarrire il senso della
realtà…
Udendo la porta scorrevole spalancarsi, Soun inclinò
lievemente il capo verso il basso – ma attento a non piegare
la propria postura – e, senza girarsi, seguì con
lo sguardo rivolto ai suoi piedi un’ombra familiare
avvicinarsi alla propria.
“Tendo… non si saluta più?”
Domandò il proprietario della seconda ombra.
Soun ignorò il tono di rimprovero e chiese a sua volta:
“Notizie di tuo figlio?”
Genma scosse energicamente la testa.
“Nessuna. Ma Ukyo gli è corsa dietro e molto
probabilmente ce lo riporterà a casa prima che, per sfogare
la sua frustrazione, finisca per demolire il vicinato.”
Soun esitò, prima di riprendere la parola.
“Stanotte… non credi di essere stato troppo
diretto? Dopotutto è normale che Ranma sia ancora sconvolto
e, forse, non era il caso di farlo soffrire di più.
Piuttosto, sarebbe stato meglio abituarlo poco a poco
all’idea di…”
“Pure tu? Vuoi insegnarmi come fare del mio ragazzo un uomo?
Ma penso che ti manchi un po’ di esperienza diretta,
Tendo.” Si frenò, forse notando – o
forse no – che Soun si era morso nervosamente le labbra.
Genma parlò con un tono di voce più leggero.
“Anche Nodoka, prima, mi ha rimproverato. E credimi, non
è facile ignorare le parole di una moglie che non molla per
un singolo istante la presa dall’impugnatura della propria
katana affilata. Addirittura tua figlia Kasumi mi ha fatto una piccola
predica… ho sempre detto che quella ragazza è una santa,
ma il solo immaginarla alterata mi mette i brividi addosso!”
“Saotome, io non intendevo rimproverarti.” Soun
assottiglio lo sguardo. “Però mi sono accorto che
ultimamente c’è qualcosa di strano in te. Sei
sicuro di non volerne parlare? Ricordati che noi due siamo vecchi
amici.”
Genma rise sgraziatamente.
“Veramente ti do questa impressione? E dire che ero solo
venuto a invitarti a una partita di shogi!
Ma se la pensi così accetterò volentieri le
pedine nere e tre mosse di vantaggio, quale prova ben più
tangibile della tua amicizia.”
“Saotome…”
“Su, non prendertela! Scherzavo!”
“Ma io dicevo sul serio.”
“Ma tu pensi anche troppo, amico mio, e pensare troppo
distoglie l’attenzione dalle soluzioni più
semplici, quelle che abbiamo a un palmo di naso.” Genma
afferrò divertito l’interlocutore per un braccio.
“Davvero, Tendo, non crederai che abbia tutta questa voglia
di mostrare a Nodoka suo figlio che si tormenta e frigna come una
donnicciola?! O preferisci forse vederci fare seppuku?
Per lei quella promessa è ancora valida, lo sai. Ma basta
deprimerci, andiamo a giocare!”
Soun si lasciò trascinare fuori dalla palestra, senza
opporre eccessiva resistenza.
Pensò casualmente che una volta la signora Nodoka aveva
detto che le donne della famiglia Saotome hanno sempre dei motivi per
stare in pena. Credette di stare cogliendo solo ora il vero significato
di quelle parole.
Genma e Ranma erano molto meno emotivi di lui, così era
difficile intavolare con loro un discorso di un certo spessore. Ma
ciò non significava che potessero soffrire di meno. Soun era
convinto che il comportamento generalmente poco serio di Genma, la
stessa cinica praticità di cui non mancava di offrire esempi
– anche di recente: nessuno era riuscito ad apprezzare la sua iniziativa in Cina
– nascondessero qualcosa di più profondo.
Improvvisamente pensò di aver compreso l’animo del
suo miglior amico. Del resto, ora conosceva
l’entità esatta del dolore di un padre che perdeva
il proprio figlio senza poterci fare assolutamente nulla.
E gli occhi di Ranma…
Nabiki sbuffò rumorosamente. Premette con vigore il pulsante
di riavvolgimento per poi, con una rapida pressione della falange su un
altro tasto, portare ancora una volta la cassetta in fase di
riproduzione.
“…nanzitutto, tengo a precisare che non
ero con voi in Cina e dunque non sono in grado di parlare con la piena
conoscenza dei fatti… ciò che
…irò… sarà basato
esclusivamente sulle cose che mi avete raccontato, sui dati…
…ulle… informazioni che mi avete
fornito…”
Pausa.
Giusto l’inizio della parte interessante. Nabiki ricordava
che, prima di proferire le proprie considerazioni, Cologne aveva
scrutato lei e gli altri spettatori con
un’espressione indecifrabile. In effetti, la secondogenita
delle Tendo avrebbe potuto giurare che quella sera al ristorante
Nekohanten i familiari e i resti della ‘spedizione
cinese’ costituissero un valido campionario delle emozioni
umane più disparate.
Poteva dirlo perché anche lei si era, per un attimo,
soffermata a esaminare i presenti. Alcuni sprovveduti, come Ryoga,
pendevano letteralmente dalle labbra della vecchia. I più
sensibili, come papà, sembravano invece svuotati e
incuranti. Altri più smaliziati, come Nabiki stessa,
attendevano il suo responso con fare cauto e guardingo. Ma nemmeno lei
avrebbe potuto dire se Obaba tenesse in considerazione questi
atteggiamenti così diversi, o se si stesse semplicemente
divertendo alla loro vista.
Riproduzione.
“…do per …ontato…
che ormai tutti conosciate, alcuni di voi per esperienza diretta, i
poteri del Kinjakan… un’arma sacra per il popolo
del monte Hooh, fin troppo per essere toccata dalle indegne mani dei
miseri mortali, ragion per cui con il suo immenso calore ha
letteralmente disidratato il corpo di Akane…
Così… …on mi dilungherò
oltre…”
Nabiki annuì distrattamente. Conosceva praticamente ogni
dettaglio del viaggio in Cina. Aveva ottenuto informazioni con
qualsiasi mezzo e si era perfino servita di un testimone
oculare degli
eventi, se così poteva paradossalmente definirsi quella
talpa di Mousse.
Il nastro, nel punto seguente, era meno consumato ma proseguiva anche
con diversi secondi di silenzio, accompagnato solo da qualche mormorio
di disapprovazione sullo sfondo.
Nabiki ricordava che, al contrario di quanto aveva appena affermato,
Obaba si era presa tutto il suo tempo per inalare una boccata di fumo,
sotto gli occhi spazientiti di tutti. Compresi i suoi. Erano rarissime
le volte in cui l’aveva vista fumare, e quella vecchia –
era proprio il caso di dirlo – volpe dava
l’impressione di godersi appieno il suo grande momento.
“…il rimedio… era uno e uno
soltanto, e vi è stato riferito correttamente dalla guida di
Zhou Chuan Xiang. Una sola acqua poteva reidratare la ragazza: quella
della fonte primordiale chiamata Jusendo, ovvero l’acqua
magica da cui traggono linfa e vita le stesse Sorgenti Maledette...”
Di nuovo silenzio.
Ricordava nitidamente, anche senza bisogno dell’aiuto della
cassetta, ciò che era seguito. La vecchia aveva soffiato una
densa nuvoletta di fumo e in quel momento, complice forse la luce
pallida di una luna pressoché piena, a Nabiki era parso di
vederla circondata da una sorta di aura, come il più sacro
degli oracoli. Anche adesso poteva quasi rivivere quel breve momento di
soggezione, e se ne rimproverò.
“…Il futuro genero, non senza ostacoli e
soprattutto non senza perdere minuti preziosi, ha infine adoperato
l’acqua di Jusendo su Akane, che tuttavia, da quanto mi avete
detto, a quel tempo aveva già chiuso gli occhi. Questo segno
è inconfutabile: sta a significare che il suo spirito vitale
si era ormai esaurito e l’anima aveva lasciato
definitivamente il corpo. Il potere di quell’acqua tuttavia
è immenso: infatti, una volta che è stata
assorbita dal suo organismo, lo ha preservato dagli effetti della
morte. L’idratazione durerà, probabilmente, ancora
per qualche giorno, così pare che Akane, in fondo, stia
semplicemente dormendo.” Mentre aveva udito dal
vivo quelle parole, Nabiki ricordava di avere istintivamente accennato
un sorriso malizioso, come se fosse stata sul punto di sentirsi
spiegare il trucco di un prestigiatore.
Il fatto era che le versioni, fino a quell’istante,
coincidevano e si integravano magnificamente. Infatti anche Tofu, al
quale lei si era già rivolta in precedenza,
all’insaputa di tutti e nel massimo riserbo le aveva
raccontato che potevano verificarsi dei casi nei quali
l’anima abbandonava la propria sede naturale eppure la
persona restava in vita. Nabiki avrebbe potuto ripetere parola per
parola l’esposizione del dottore: tale fenomeno riguardava,
di regola, l’ikiryo, ovvero lo spirito
legato a questo mondo da un qualche attaccamento terreno, ed era
definito proiezione o, più correttamente, sdoppiamento
astrale.
“Ma le cose non stanno così.”
Qui Nabiki poteva ancora percepire l’occhiata grave che
Cologne aveva scoccato loro, o forse solo nei suoi confronti.
“Il corpo e lo spirito non possono restare separati
a lungo: esistono delle testimonianze al riguardo, ma si limitano a
poche ore. In ogni caso, non avrei comunque saputo indicare un modo per
riportare l’anima nel corpo. Non lo conosco, né mi
risulta che esista. Oggi, essendo trascorsa quasi …na
…ettimana dal vostro …torno dalla Cina…”
Nabiki sbuffò: ecco di nuovo quei disturbi. “…il
discorso …on è più …emmeno
praticabile: semplicemen… è ormai
…oppo tardi.”
Dopo di ciò, diverse voci si sostituirono a quella di
Cologne, sovrapponendosi le une alle altre in un brusio
indistinguibile. Nabiki ricordava che la vecchia, ritenendo di aver
detto tutto quanto c’era da dire, aveva spento la pipa, era
scesa dallo sgabello e si era avviata verso la sua stanza, voltando le
spalle agli altri che già si stavano lanciando in mille
commenti e obiezioni.
Solo Nabiki non aveva aperto bocca, limitandosi a inseguire
l’amazzone prima che varcasse la porta, per poi allargare
appena la tasca dei pantaloni e catturare un’ultima frase che
Cologne aveva pronunciato a voce bassa, come a se stessa, con un tono
molto più sommesso del precedente.
Pausa. Avanzamento veloce. Stop. Riproduzione.
“…non…
più… nulla da …are… er
Akane…”
La secondogenita delle Tendo inarcò un sopracciglio, sempre
più nervosa. I rumori di fondo si erano fatti troppo
violenti per rendere del tutto comprensibili quelle parole, senza
contare che lei stessa aveva logorato ulteriormente quella porzione di
nastro a furia di riascoltarla.
Certo, la registrazione era ormai vecchia di giorni. Ogni tentativo che
era seguito aveva presto portato a un punto morto. Tutte le successive
ricerche avevano solo confermato che non esisteva alcuna
possibilità che l’anima fosse, sia pure in via
eccezionale, sopravvissuta così a lungo lontana dal suo
corpo.
Per questo, Nabiki non capiva come oggi a scuola non fosse riuscita a
pensare a niente di diverso dal rientrare a casa e analizzare
nuovamente, dopo tanto tempo, il proprio materiale. Avrebbe voluto
attribuire la colpa della sua paranoia alle poche ore di sonno, ma non
era da lei adagiarsi su simili soluzioni di comodo.
Riavvolgimento. Stop. Riproduzione.
“… nulla da… are…”
A voler essere obiettivi, la frase era chiarissima. E poche sentenze
potevano dirsi più definitive di questa. Ma più
di tutto, ogni volta che la riascoltava, Nabiki credeva di scorgervi
sempre di più qualcosa di diverso dal monologo sapiente che
l’aveva preceduta. Piuttosto uno sfogo sincero, sofferente:
l’impotenza di un’amazzone che normalmente era anni
luce davanti a loro.
Oppure, il frutto di una recitazione molto convincente.
Dopotutto, accettato che Akane fosse morta, Ranma era libero dal
fidanzamento. Shampoo si trovava con una pretendente in meno e, casualmente,
di lei non si avevano più notizie dal ritorno del gruppo dei
‘maledetti’ dalla Cina. A pensar male si fa peccato
ma…
Nabiki spense il registratore e si alzò dal letto.
Già che doveva fare alcune telefonate, pensò di
pescare dall’agendina un numero in più.
Il tramonto accese il cielo, ormai totalmente sgombro di nubi, di un
penetrante rosso fuoco. Tanta intensità la metteva a
disagio, quasi che il sole volesse opporre l’estrema
resistenza alla discesa di una nuova notte, la quale non avrebbe
portato che sventure.
Kasumi scosse il capo, come per scacciare da sé questi
pensieri così negativi, che non erano proprio da lei.
Rientrò rapidamente in casa e finì di mettere il
bucato nella lavatrice. Quando uscendo dal bagno incrociò
Nabiki, ebbe per un istante l’impressione che la sorella
minore la stesse aspettando al varco, come per cogliere in lei anche il
minimo segno di turbamento esteriore. Ma Kasumi sapeva di non esibire
la minima prova, per il semplice fatto di non essere turbata.
Perché lei non avrebbe mai potuto
farsi vedere turbata, in un momento tanto critico.
Fu Ukyo, che evidentemente stava tenendo compagnia a Nabiki da prima
che le raggiungesse, a esprimere la sua preoccupazione per lei.
“Non è ancora tornato...”
Cominciò.
“Lo sappiamo bene.” Tagliò corto Nabiki
con fare brusco, sprofondando di nuovo l’ambiente sotto una
pesante cappa di silenzio.
Kasumi avvertì, per la seconda volta in pochi minuti, lo
stesso senso di oppressione. Capì che doveva essere lei a
parlare.
“Ukyo-chan, ti fermi anche questa notte
da noi?”
La frase era stata pronunciata col tono di un invito.
L’interpellata non poté fare a meno di annuire
timidamente.
“Anche se non avresti più il
diritto…” S’intromise ancora la sorella
minore.
Cielo, non così…
“C’è forse qualcosa che vorresti
dirmi?!” Le si rivolse Ucchan, la cui voce tradiva un
evidente nervosismo.
“Nulla che tu non sia in grado di constatare da
sola.” Rispose Nabiki, provocando la ragazza con la spatola.
“Ora che Ranma non è qui, il tuo interesse a
restare mi sorprende. Forse hai voglia di far fuggire di casa anche
nostro padre?”
Non anche dentro le nostre mura…
“Non è stata mia, l’idea di sistemarmi a
casa vostra per aiutare Ran-chan a superare questo difficile momento! E
soprattutto io
non l’ho fatto fuggire di casa!”
Kasumi ebbe l’impressione di scorgere un moto di esitazione
in Nabiki, come se fosse rimasta colpita dalla reazione di Ukyo. Invece
lei sconfessò subito una tale congettura, rincarando la dose.
“Oh, ma certo! Perdonami l’infelice scelta di
parole. Tu volevi solo consolarlo, giusto? Non è colpa tua
se è scappato. Non è colpa tua se gli sei corsa
dietro per fermarlo, per tornare la mattina dopo confessandoci
candidamente di averlo lasciato là fuori a inseguire i suoi
fantasmi!”
Kasumi portò istintivamente entrambe le mani alle labbra,
guardando impotente Nabiki sorridere con aria di vittoria come una
bambina e Ukyo sul punto di saltarle addosso.
Ma non poteva restare così inerte. Doveva riprendere il
controllo.
Avanzò e si frappose tra le due ragazze, attirando
immediatamente l’attenzione di entrambe.
Ukyo parve calmarsi di colpo. Nabiki sembrò sul punto di
aprire bocca, ma venne anticipata dalla sorella maggiore.
“So quello che ti ho detto ieri notte, ma ora
penso… che dovremmo andare a cercarlo.”
Pochi minuti più tardi, Ranma stava fronteggiando un nuovo fantasma.
Indubbiamente corporeo, questo, per quanto illuminato solo dalle
flebili luci della strada e pallido come il
più cadaverico degli spettri.
Qualcosa d’irreale, tuttavia, lo avvolgeva. Probabilmente il
suo incedere, profondo, smarrito, non di questo mondo. Ranma credette,
per qualche motivo a lui ignoto, di vedere se stesso, prima di
identificare nell’arcana figura le sembianze di Tatewaki Kuno.
In quel momento, avvertì dentro di sé che una
nuova notte era appena iniziata.