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Autore: Evilcassy    07/11/2009    6 recensioni
Il 6° Torneo del Pugno d'Acciaio finisce con la morte dei Mishima e di Jin Kazama, e il crollo dell'impero della Mishima Zaibatsu e della G.Corp. Nina Williams è ora braccata da varie fazioni che cercano di ucciderla, ma inaspettatamente, il suo destino cambierà radicalmente. - EPILOGO E DOVUTI RINGRAZIAMENTI.
Genere: Romantico, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nina Williams, Sergei Dragunov
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Chilling Saga'
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Two Pairs of Chilling Eyes

 

20: La voce della coscienza.

 

Sdraiata bocconi su un tetto di un alto e anonimo palazzo della periferia di Berlino, Nina Williams attendeva, il fucile di precisione pronto e l’occhio nel mirino, puntato verso una delle tantissime finestre del palazzo di fronte, uguale e grigio come quello su cui si era appostata.

Pavlov le aveva riservato una missione estremamente semplice, per i suoi standard:  trovare ed eliminare un’ex agente della Spetsnaz, convertitosi a spia nemica.

Una pallottola nella testa sarebbe stata la giusta punizione per aver spiattellato importanti informazioni alla Tekken Force, un anno prima.

Un compito banale, che lei aveva accettato per dimostrare che le sue capacità erano rimaste invariate, che il suo allenamento aveva dato ottimi frutti e che non aveva nessun tipo di problema.

O, meglio, per nascondere il suo problema.

Aveva trovato l’obbiettivo quasi subito, la sua abitazione ubicata in quel degradato quartiere periferico, il suo appartamento che si perdeva tra gli altri dello stesso palazzo.

La finestra a cui mirava era quella del bagno. Inizialmente aveva pensato di bussare alla porta, fingendosi facchino di un corriere espresso, e di sparargli a bruciapelo, ma poi aveva pensato fosse meglio mantenere le distanze, decidendo di mettere alla prova la sua rinnovata mira da cecchino.

Avrebbe svolto quel lavoro, poi avrebbe preso l’aereo per Mosca e sarebbe andata a parlare immediatamente con Sergei. Non sapeva ancora quali parole avrebbe utilizzato, né che decisione avrebbe preso: dipendeva, fondamentalmente, tutto dalla sua reazione: al momento non si sentiva molto lucida per ponderare la soluzione più ragionevole e fattibile.

Durante il volo si era domandata più volte cosa realmente volesse dalla vita, se le andasse realmente bene quel destino che le era stato cucito addosso da suo padre: un genitore orgoglioso e assente, che non le aveva mai offerto una carezza, soltanto qualche parola di complimento, sempre suo maestro e mentore e mai il padre di una bambina.

Anzi, due. Ma per Richard Williams Anna praticamente non esisteva. Era un’ombra della casa, una ragazzina che cercava di attirare in tutti i modi la sua attenzione, senza riuscirci. Lui aveva già la sua allieva ed erede, non gliene serviva un’altra.

 

La porta del bagno che si apriva attirò nuovamente tutta la concentrazione della donna, che prese la mira. Davanti alla finestra un uomo dai biondi capelli cisposi entrò nella stanza e si posizionò davanti allo specchio, sbadigliando. Si spalmò la schiuma da barba sulla faccia e fece per prendere il rasoio.

Il proiettile lo colpì, silenzioso, alla tempia prima che riuscisse a portare la lametta al volto. Crollò a terra, Nina poté immaginare il tonfo sordo.

Perfetto. Pensò, smontando velocemente il fucile e infilandolo nello zaino. Gettò un ultimo sguardo alla finestra, prima di alzarsi, catturando una scena che le fece gelare il sangue nelle vene.

La porta del bagno si era riaperta, ed era comparsa una bambina dai lunghi capelli ricci e dorati. Fissò con gli occhi spalancati il cadavere sul pavimento, e lo strillo acuto che emise a pieni polmoni arrivò sino alle orecchie di Nina.

Aveva una figlia? Una figlia con lui, nel suo stesso appartamento, che si era trovata il padre morto in bagno, con il cervello sul pavimento.

Un conato di vomito le salì in gola, e Nina lo soffocò a stento.

Si voltò e scappò più velocemente che poteva.

 

 

Non si stupì nel trovare l’appartamento vuoto e buio. Non accese la luce subito. Si avvicinò praticamente a tentoni al divano e si lasciò cadere, il trolley che scivolava sul pavimento. Si sfilò le scarpe rabbiosamente e si portò le ginocchia al petto, abbracciandosele.

Non aveva voglia di piangere. Provava dentro di sé solamente una rabbia sorda ed impotente, che la faceva rabbrividire.

Quella bambina aveva visto il corpo di suo padre morto sul pavimento del bagno. Probabilmente non aveva capito il perché. Aveva una madre o era sola al mondo?

Quanti anni avrà avuto? Otto, nove al massimo?

Lei quanti anni aveva quando la testa di suo padre era esplosa davanti ai suoi occhi?

Venti.

E non riusciva a scordarselo, e non riusciva a superarlo.

Quel sangue ovunque, le parti di cervello addosso anche a lei.

L’urlo acuto di Anna era uguale a quello della bambina.

L’aveva soffocato nei meandri più neri della sua anima oscura, cacciato a pedate sotto una coltre di indifferenza, seppellito con la sua coscienza.

Coscienza rediviva, che sbucava reclamando la sua mente e rinfacciandole le sue colpe.

Era una cosa ignobile, orribile, schifosa.

Ma la cosa peggiore… era che lei non riusciva a piangere, a pentirsi dei suoi peccati.

Le tornarono in mente le parole dure che Alexandersson le aveva rivolto, quando ormai credeva di averla in pugno, morente e piegata ai suoi voleri.

Come poteva pensare di poter essere una buona madre? Come poteva credere di crescere un figlio? Cosa gli avrebbe insegnato, lei che sapeva solo colpire, sparare, uccidere?

Il conato di vomito le tornò alla gola, e si precipitò in bagno, sbattendo contro le porte.

 

I passi di Sergei erano nel corridoio, Nina aprì la porta del bagno. Aveva ancora i capelli umidi, dopo la doccia, ed indossava la sua camicia da notte.

Il sorrisetto soddisfatto dell’uomo sembrò vacillare davanti al suo sguardo rosso e vago, al suo volto tetro e tirato.

“Devo dedurre che tu non sia stata soddisfatta della tua missione, Nina?” le domandò con disappunto. “Ho suggerito io stesso a Pavlov di affidartela, dovresti ringraziarmi per essere riuscito a farti tornare operativa. Tutti credevano fosse presto, e che non eri ancora pronta. Ma so che è tutto filato liscio come l’olio, e Volkov ne è stato visibilmente soddisfatto.” Le aveva voltato le spalle, camminando lentamente verso la camera, togliendosi il pesante cappotto. “Immagino che tu sia stanca.”

“Che ne è stato della bambina?”

Sergei le rivolse uno sguardo interrogativo. “Sua figlia?”

Nina annuì, rivolgendogli uno sguardo di puro disprezzo, appoggiandosi al muro. La testa le girava vorticosamente, si sentiva senza energia, sull’orlo di uno svenimento.

“Beh, credo proprio che sia tornata da sua madre. Erano separati, ma so che anche lei vive a Berlino.”

Appoggiò il cappotto all’appendiabiti. “Come mai mi hai fatto questa domanda?”

“Ha trovato suo padre riverso a terra, con la testa aperta in due da un proiettile, in un lago di sangue. Io l’ho vista mentre lo trovava e…

“Non è stata ferita, quindi…

“MA CAPISCI QUANDO PARLO?”  Incurante di essere ad un passo dal collasso, Nina si era staccata dal muro, la voce più alta che poteva, che lasciava uscire la sua esasperazione e la sua rabbia. “Quell’immagine non se la toglierà mai dalla mente! Quanti anni avrà avuto, Otto, Nove?”

“Senti, non ci possiamo fare nulla, no? Suo padre era un traditore, era una spia pericolosa, doveva essere eliminato. Nessuno sapeva che ci fosse sua figlia con lui.”

Una fitta improvvisa attraversò il ventre di Nina, che non smise di urlare: “A posto così per te?”

Nina…

“Dimmi, quante missioni abbiamo svolto insieme? O che mi avete fatto svolgere da sola? Mi hai mai visto in queste condizioni? Mi hai mai visto così Furiosa?

Nina…

“E non ti domandi perché? Io mi sento così? Lo vuoi sapere? PERCHE’ MIO PADRE E’ STATO AMMAZZATO COME UN CANE DAVANTI AI MIEI OCCHI, LA SUA TESTA E’ ESPLOSA E IO ERO RICOPERTA DAL SUO CERVELLO E DAL SUO SANGUE.”

“NINA, STAI SANGUINANDO!”

Fu come se qualcosa in lei si fosse rotto, quando seguì lo sguardo dell’uomo tra le sue gambe. Abbassò gli occhi, in tempo per vedere una goccia, color rubino, cadere sul pavimento già macchiato.

Si premette le mani sulla bocca, prima di appoggiarsi al muro dietro di lei e scivolare al suolo. “Dobbiamo andare all’ospedale.”

“Nina, non è successo niente, su… non è una cosa normale per voi donne?”

“IDIOTA, portami all’ospedale subito!” Le lacrime avevano iniziato a solcarle le guancie, mentre gocce di sudore freddo le percorrevano la schiena.

Sergei l’aiutò a sollevarsi, prima di andare a recuperarle la giacca e le scarpe. “Non capisco, provi dolore?”

Lei non poté far altro che annuire.

 

Quando tornarono nell’appartamento era l’alba.

Nuovamente, Nina scivolò sul divano, portandosi le gambe al petto.

Ecco. Ora sapeva. Sapeva tutto quello che c’era da sapere.

Cioè che dentro di sé non c’era più nulla. Che il suo ventre era tornato freddo e vuoto. Che il problema non sussisteva più.

Si sentiva completamente svuotata, prima di ogni energia. C’era un groppo nella sua gola che non riusciva a ricacciare giù, che non voleva andarsene.

Da quando il medico l’aveva informata che aveva perso il bambino, che si era verificato un aborto spontaneo, Sergei non aveva più spiaccicato parola. L’aveva fissata, stupito, quasi stralunato e poi erano tornati a casa dopo la visita.

Ed ora si era seduto di fronte a lei, sul tavolino di legno tra la televisione e il divano. Le venne in mente, chissà perché, il giorno in cui lei aveva deciso che serviva un tavolino in quel posto, e che lo era andata a comprare in un negozio di mobili a basso costo. Era tornata a casa con la confezione, piatta e rettangolare, e l’aveva aperta, per scoprire che non era capace di raccapezzarsi tra tutti quei pezzetti di legno e viti.

Sergei era tornato venti minuti dopo, trovando uno sbilenco tavolino per terra e Nina dall’espressione corrucciata, persa tra le istruzioni.

E si era messa con lei a leggerle e a rimontare il mobiletto.

L’avevano montato insieme, come una coppia normale. E ora lui era seduto su quel tavolino di truciolato scuro, lo sguardo posato da qualche parte, tra lei e il muro, i gomiti sulle ginocchia e le mani che sorreggevano il mento. Sembrava sforzarsi di dire qualcosa, senza riuscirci.

Lo precedette lei: “E’ stato meglio così.” Decretò con voce afona, studiando la sua reazione. Lui alzò una spalla. “Beh, si. Il medico ha detto che sono così che capitano durante i primi mesi.”

“I primi mesi della prima gravidanza.” Ricordò lei. “Tecnicamente, questa per me era la seconda.”

“Credi sia stata la missione?”

Nina annuì. “Colpa di quello che ho visto.” Gettò la testa all’indietro. Era davvero stato meglio così. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di vuoto e di freddo, quella punta di dolore che le feriva il costato. “Il bambino non è voluto rimanere dentro un essere così… spregevole come me.”

“Stronzate” borbottò Sergei. “Non ho mai preso davvero in considerazione l’idea che potesse davvero succedere. In fondo siamo stati attenti, no? Come può essere stato possibile? In ogni caso, è andato, non devi più pensarci, Nina. Così come non lo sapevi prima.”

Nina alzò la testa. Sergei credeva che li non sapesse di essere incinta? Bene.

No. Doveva saperlo. In fondo ormai il bambino non c’era più, e quindi la sua reazione non sarebbe cambiata. Ma doveva dirglielo.

“Sapevo di essere incinta.” Disse semplicemente. Sergei le piantò gli occhi dritti in faccia, sorpreso. “Da quanto lo sapevi?”

“Dal giorno prima della mia partenza per le Bahamas. Ho notato di avere un ritardo, e ho fatto il testo. Tre, per la precisione. Tutti e tre identici.”

“Ed è per questo che sei andata da tua sorella? Hai scoperto di essere incinta e sei scappata alle Bahamas? Perché cazzo non hai detto nulla?”

Lo sguardo dell’uomo si stava incendiando. “Non sapevo che reazione avresti avuto. E volevo pensarci un po’ su, non sapevo se tenerlo o meno e…

“E sei stata così vigliacca da nascondermelo?” Il pugno che aveva tirato al tavolino l’aveva fatta sobbalzare. Era scattato in piedi, volgendole le spalle. Era furioso. “Mentre io ero al comando a cercare il modo di rimandarti il missione, di non farti più sentire un’ameba inutile chiusa in casa, di farti contenta, tu scappavi alle Bahamas perché eri confusa e non sapevi la mia reazione alla notizia?”

“Non vorrai farmi credere che saresti stato contento” anche Nina era saltata in piedi, incrociando le braccia al petto, guardandolo con sfida. Sergei aveva lasciato la bocca semiaperta, la mano sollevata a mezz’aria, come se non sapesse cosa dire, come se fosse stato folgorato da una rivelazione improvvisa.

“Non è questo il punto!” esclamò, volgendole di nuovo le spalle. Si stava accarezzando il mento, Nina lo sapeva, lo conosceva ormai troppo bene. Forse non abbastanza. “Quello che voglio dire è che… hai tradito la mia fiducia.” Lo stomaco le si torse a sentire la frase. “Io mi sono fidato, pensando che quello che stessimo vivendo fosse… come dire, abbastanza per instaurare un rapporto di fiducia reciproca. Ma a quanto pare, per te siamo ancora allo stadio di Sottospecie di Relazione e non abbiamo nulla da spartire, a parte il letto.”

“NO!” protestò lei. Le mancava il fiato, le sue parole, dette con quel tono così duro e calmo allo stesso tempo, la ferivano come mille lame. “Cosa dovevo pensare, con tutti quei litigi continui, con la tua disattenzione nei miei confronti? Cosa posso aspettarmi da una persona che non si accorge nemmeno che sta succedendo qualcosa quando gli sono davanti, mentre mia sorella se ne è accorta parlandomi solamente per telefono?”

“Cosa ti potevi aspettare?” sibilò, avvicinandosi a lei. Nina indietreggiò, sedendosi sul divano, mentre l’uomo si inginocchiava davanti a lei, gli occhi alla sua altezza, pericolosi, freddi, quasi bianchi.

“Ho mentito ai miei superiori, ho lasciato la mia squadra contro un mostro per venirti a prendere in quel cazzo di Hotel di Tokio, ho passato una settimana praticamente senza dormire o mangiare per recuperarti, ho disobbedito agli ordini, rischiando collo e carriera per salvarti dalla base di Alexandersson, Ho risparmiato la vita di quel bastardo di Boskonovitch per l’antidoto, e anche in questo caso sono andato contro i miei superiori. E’ solo perché Volkov mi reputa il migliore, e perché ero così amico di suo figlio, se il mio culo è ancora dentro la Spetsnaz, se sono stato promosso nonostante l’insubordinazione e se, soprattutto, tu abiti ancora in questo posto e sei stata curata dall’elite di medici migliori a nostra disposizione.”  Una lacrima scese sul viso pallido di Nina. “E TU non sai cosa aspettarti da ME?”

Si allontanò come se le facesse ribrezzo, come se fosse una carogna in putrefazione.  La guardò disgustato, livido di rabbia. Poi si diresse verso il corridoio.

Nina si morse le labbra, sforzandosi di piangere in silenzio. Andò nella sua camera, quella in cui dormiva senza di lui, un milione di anni prima. Si gettò sul materasso, abbracciando quel cuscino azzurro che rappresentava Steve, immergendoci la faccia sino quasi a soffocarsi.

La porta che si chiudeva le annunciò che era rimasta sola.

Ancora.

E la cosa le faceva troppo male.

 

Eccolo qui, il capitolo per cui mi farete fuori!!! Siete contente???

Purtroppo la situazione non si è risolta per il meglio, per quanto riguarda il bambino… spero di non avervi deluso, o schifato, o peggio ancora fatto arrabbiare.

C’est la vie, e gli imprevisti sono dietro l’angolo.

Ci stiamo avvicinando alla fine, sappiatelo. Un paio di capitoli e avrò concluso (?) questa Fanfiction.

 

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE GRAZIE, GRAZIE GRAZIE

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE GRAZIE, GRAZIE GRAZIE

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE GRAZIE, GRAZIE GRAZIE

GRAZIE, GRAZIE GRAZIE  PER TUTTE LE VOSTRE RECENSIONI, SUPPORTI, E DEGENERAZIONI (come quelle di Miss Trent :P)

Non vi ringrazierò mai abbastanza. Questa FF l’avete scritta anche VOI.

GRAAAZIE!!!

EC

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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