Two Pairs of Chilling Eyes
20:
La voce della coscienza.
Sdraiata bocconi su un tetto di
un alto e anonimo palazzo della periferia di Berlino, Nina Williams attendeva,
il fucile di precisione pronto e l’occhio nel mirino, puntato verso una delle
tantissime finestre del palazzo di fronte, uguale e grigio come quello su cui
si era appostata.
Pavlov le aveva riservato una missione
estremamente semplice, per i suoi standard:
trovare ed eliminare un’ex agente della Spetsnaz,
convertitosi a spia nemica.
Una pallottola nella testa
sarebbe stata la giusta punizione per aver spiattellato importanti informazioni
alla Tekken Force, un anno
prima.
Un compito banale, che lei aveva
accettato per dimostrare che le sue capacità erano rimaste invariate, che il
suo allenamento aveva dato ottimi frutti e che non aveva nessun tipo di problema.
O, meglio, per nascondere il suo problema.
Aveva trovato l’obbiettivo quasi
subito, la sua abitazione ubicata in quel degradato quartiere periferico, il
suo appartamento che si perdeva tra gli altri dello stesso palazzo.
La finestra a cui mirava era
quella del bagno. Inizialmente aveva pensato di bussare alla porta, fingendosi
facchino di un corriere espresso, e di sparargli a bruciapelo, ma poi aveva
pensato fosse meglio mantenere le distanze, decidendo di mettere alla prova la
sua rinnovata mira da cecchino.
Avrebbe svolto quel lavoro, poi
avrebbe preso l’aereo per Mosca e sarebbe andata a parlare immediatamente con Sergei. Non sapeva ancora quali parole avrebbe utilizzato, né
che decisione avrebbe preso: dipendeva, fondamentalmente, tutto dalla sua
reazione: al momento non si sentiva molto lucida per ponderare la soluzione più
ragionevole e fattibile.
Durante il volo si era domandata
più volte cosa realmente volesse dalla vita, se le andasse realmente bene quel
destino che le era stato cucito addosso da suo padre: un genitore orgoglioso e
assente, che non le aveva mai offerto una carezza, soltanto qualche parola di
complimento, sempre suo maestro e mentore e mai il padre di una bambina.
Anzi, due. Ma per Richard
Williams Anna praticamente non esisteva. Era un’ombra della casa, una ragazzina
che cercava di attirare in tutti i modi la sua attenzione, senza riuscirci. Lui
aveva già la sua allieva ed erede, non gliene serviva un’altra.
La porta del bagno che si apriva
attirò nuovamente tutta la concentrazione della donna, che prese la mira. Davanti
alla finestra un uomo dai biondi capelli cisposi entrò nella stanza e si
posizionò davanti allo specchio, sbadigliando. Si spalmò la schiuma da barba
sulla faccia e fece per prendere il rasoio.
Il proiettile lo colpì,
silenzioso, alla tempia prima che riuscisse a portare la lametta al volto.
Crollò a terra, Nina poté immaginare il tonfo sordo.
Perfetto. Pensò, smontando velocemente il
fucile e infilandolo nello zaino. Gettò un ultimo sguardo alla finestra, prima
di alzarsi, catturando una scena che le fece gelare il sangue nelle vene.
La porta del bagno si era
riaperta, ed era comparsa una bambina dai lunghi capelli ricci e dorati. Fissò
con gli occhi spalancati il cadavere sul pavimento, e lo strillo acuto che
emise a pieni polmoni arrivò sino alle orecchie di Nina.
Aveva una figlia? Una figlia con
lui, nel suo stesso appartamento, che si era trovata il padre morto in bagno,
con il cervello sul pavimento.
Un conato di vomito le salì in
gola, e Nina lo soffocò a stento.
Si voltò e scappò più velocemente
che poteva.
Non si stupì nel trovare l’appartamento
vuoto e buio. Non accese la luce subito. Si avvicinò praticamente a tentoni al
divano e si lasciò cadere, il trolley che scivolava sul pavimento. Si sfilò le
scarpe rabbiosamente e si portò le ginocchia al petto, abbracciandosele.
Non aveva voglia di piangere. Provava
dentro di sé solamente una rabbia sorda ed impotente, che la faceva
rabbrividire.
Quella bambina aveva visto il
corpo di suo padre morto sul pavimento del bagno. Probabilmente non aveva
capito il perché. Aveva una madre o era sola al mondo?
Quanti anni avrà avuto? Otto,
nove al massimo?
Lei
quanti anni aveva quando la testa di suo padre era esplosa davanti ai suoi
occhi?
Venti.
E non riusciva a scordarselo, e
non riusciva a superarlo.
Quel sangue ovunque, le parti di cervello addosso anche a lei.
L’urlo acuto di Anna era uguale a
quello della bambina.
L’aveva soffocato nei meandri più
neri della sua anima oscura, cacciato a pedate sotto una coltre di
indifferenza, seppellito con la sua coscienza.
Coscienza rediviva, che sbucava reclamando
la sua mente e rinfacciandole le sue colpe.
Era una cosa ignobile, orribile,
schifosa.
Ma la cosa peggiore…
era che lei non riusciva a piangere, a
pentirsi dei suoi peccati.
Le tornarono in mente le parole
dure che Alexandersson le aveva rivolto, quando ormai
credeva di averla in pugno, morente e piegata ai suoi voleri.
Come poteva pensare di poter
essere una buona madre? Come poteva credere di crescere un figlio? Cosa gli
avrebbe insegnato, lei che sapeva solo colpire, sparare, uccidere?
Il conato di vomito le tornò alla
gola, e si precipitò in bagno, sbattendo contro le porte.
I passi di Sergei
erano nel corridoio, Nina aprì la porta del bagno. Aveva ancora i capelli
umidi, dopo la doccia, ed indossava la sua camicia da notte.
Il sorrisetto soddisfatto dell’uomo
sembrò vacillare davanti al suo sguardo rosso e vago, al suo volto tetro e
tirato.
“Devo dedurre che tu non sia
stata soddisfatta della tua missione, Nina?” le domandò con disappunto. “Ho
suggerito io stesso a Pavlov di affidartela, dovresti
ringraziarmi per essere riuscito a farti tornare operativa. Tutti credevano
fosse presto, e che non eri ancora pronta. Ma so che è tutto filato liscio come
l’olio, e Volkov ne è stato visibilmente soddisfatto.”
Le aveva voltato le spalle, camminando lentamente verso la camera, togliendosi
il pesante cappotto. “Immagino che tu sia stanca.”
“Che ne è stato della bambina?”
Sergei le rivolse uno sguardo
interrogativo. “Sua figlia?”
Nina annuì, rivolgendogli uno
sguardo di puro disprezzo, appoggiandosi al muro. La testa le girava
vorticosamente, si sentiva senza energia, sull’orlo di uno svenimento.
“Beh, credo proprio che sia
tornata da sua madre. Erano separati, ma so che anche lei vive a Berlino.”
Appoggiò il cappotto all’appendiabiti.
“Come mai mi hai fatto questa domanda?”
“Ha trovato suo padre riverso a
terra, con la testa aperta in due da un proiettile, in un lago di sangue. Io l’ho
vista mentre lo trovava e…”
“Non è stata ferita, quindi…”
“MA CAPISCI QUANDO PARLO?” Incurante di essere ad un passo dal collasso,
Nina si era staccata dal muro, la voce più alta che poteva, che lasciava uscire
la sua esasperazione e la sua rabbia. “Quell’immagine non se la toglierà mai
dalla mente! Quanti anni avrà avuto, Otto, Nove?”
“Senti, non ci possiamo fare
nulla, no? Suo padre era un traditore, era una spia pericolosa, doveva essere
eliminato. Nessuno sapeva che ci fosse sua figlia con lui.”
Una fitta improvvisa attraversò
il ventre di Nina, che non smise di urlare: “A posto così per te?”
“Nina…”
“Dimmi, quante missioni abbiamo
svolto insieme? O che mi avete fatto svolgere da sola? Mi hai mai visto in
queste condizioni? Mi hai mai visto così Furiosa?”
“Nina…”
“E non ti domandi perché? Io mi
sento così? Lo vuoi sapere? PERCHE’ MIO PADRE E’ STATO AMMAZZATO COME UN CANE
DAVANTI AI MIEI OCCHI, LA SUA TESTA E’ ESPLOSA E IO ERO RICOPERTA DAL SUO
CERVELLO E DAL SUO SANGUE.”
“NINA, STAI SANGUINANDO!”
Fu come se qualcosa in lei si fosse
rotto, quando seguì lo sguardo dell’uomo tra le sue gambe. Abbassò gli occhi,
in tempo per vedere una goccia, color rubino, cadere sul pavimento già
macchiato.
Si premette le mani sulla bocca,
prima di appoggiarsi al muro dietro di lei e scivolare al suolo. “Dobbiamo
andare all’ospedale.”
“Nina, non è successo niente, su… non è una cosa normale per voi donne?”
“IDIOTA, portami all’ospedale
subito!” Le lacrime avevano iniziato a solcarle le guancie, mentre gocce di
sudore freddo le percorrevano la schiena.
Sergei l’aiutò a sollevarsi, prima di
andare a recuperarle la giacca e le scarpe. “Non capisco, provi dolore?”
Lei non poté far altro che
annuire.
Quando tornarono nell’appartamento
era l’alba.
Nuovamente, Nina scivolò sul
divano, portandosi le gambe al petto.
Ecco. Ora sapeva. Sapeva tutto
quello che c’era da sapere.
Cioè che dentro di sé non c’era
più nulla. Che il suo ventre era tornato freddo e vuoto. Che il problema non sussisteva più.
Si sentiva completamente
svuotata, prima di ogni energia. C’era un groppo nella sua gola che non
riusciva a ricacciare giù, che non voleva andarsene.
Da quando il medico l’aveva
informata che aveva perso il bambino, che
si era verificato un aborto spontaneo,
Sergei non aveva più spiaccicato parola. L’aveva
fissata, stupito, quasi stralunato e poi erano tornati a casa dopo la visita.
Ed ora si era seduto di fronte a
lei, sul tavolino di legno tra la televisione e il divano. Le venne in mente,
chissà perché, il giorno in cui lei aveva
deciso che serviva un tavolino in quel posto, e che lo era andata a comprare in
un negozio di mobili a basso costo. Era tornata a casa con la confezione,
piatta e rettangolare, e l’aveva aperta, per scoprire che non era capace di
raccapezzarsi tra tutti quei pezzetti di legno e viti.
Sergei era tornato venti minuti dopo,
trovando uno sbilenco tavolino per terra e Nina dall’espressione corrucciata,
persa tra le istruzioni.
E si era messa con lei a leggerle
e a rimontare il mobiletto.
L’avevano montato insieme, come
una coppia normale. E ora lui era seduto su quel tavolino di truciolato scuro,
lo sguardo posato da qualche parte, tra lei e il muro, i gomiti sulle ginocchia
e le mani che sorreggevano il mento. Sembrava sforzarsi di dire qualcosa, senza
riuscirci.
Lo precedette lei: “E’ stato
meglio così.” Decretò con voce afona, studiando la sua reazione. Lui alzò una
spalla. “Beh, si. Il medico ha detto che sono così che capitano durante i primi
mesi.”
“I primi mesi della prima gravidanza.” Ricordò lei. “Tecnicamente,
questa per me era la seconda.”
“Credi sia stata la missione?”
Nina annuì. “Colpa di quello che
ho visto.” Gettò la testa all’indietro. Era davvero
stato meglio così. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di
vuoto e di freddo, quella punta di dolore che le feriva il costato. “Il bambino
non è voluto rimanere dentro un essere così… spregevole come me.”
“Stronzate” borbottò Sergei. “Non ho mai preso davvero in considerazione l’idea
che potesse davvero succedere. In fondo
siamo stati attenti, no? Come può essere stato possibile? In ogni caso, è
andato, non devi più pensarci, Nina. Così come non lo sapevi prima.”
Nina alzò la testa. Sergei credeva che li non sapesse di essere incinta? Bene.
No. Doveva saperlo. In fondo
ormai il bambino non c’era più, e quindi la sua reazione non sarebbe cambiata.
Ma doveva dirglielo.
“Sapevo di essere incinta.” Disse
semplicemente. Sergei le piantò gli occhi dritti in
faccia, sorpreso. “Da quanto lo sapevi?”
“Dal giorno prima della mia
partenza per le Bahamas. Ho notato di avere un ritardo, e ho fatto il testo.
Tre, per la precisione. Tutti e tre identici.”
“Ed è per questo che sei andata
da tua sorella? Hai scoperto di essere incinta e sei scappata alle Bahamas? Perché cazzo
non hai detto nulla?”
Lo sguardo dell’uomo si stava
incendiando. “Non sapevo che reazione avresti avuto. E volevo pensarci un po’ su,
non sapevo se tenerlo o meno e…”
“E sei stata così vigliacca da nascondermelo?” Il pugno
che aveva tirato al tavolino l’aveva fatta sobbalzare. Era scattato in piedi,
volgendole le spalle. Era furioso. “Mentre io ero al comando a cercare il modo
di rimandarti il missione, di non farti più sentire un’ameba inutile chiusa in
casa, di farti contenta, tu scappavi
alle Bahamas perché eri confusa e non
sapevi la mia reazione alla notizia?”
“Non vorrai farmi credere che
saresti stato contento” anche Nina era saltata in piedi, incrociando le braccia
al petto, guardandolo con sfida. Sergei aveva
lasciato la bocca semiaperta, la mano sollevata a mezz’aria, come se non
sapesse cosa dire, come se fosse stato folgorato da una rivelazione improvvisa.
“Non è questo il punto!” esclamò,
volgendole di nuovo le spalle. Si stava accarezzando il mento, Nina lo sapeva,
lo conosceva ormai troppo bene. Forse non abbastanza. “Quello che voglio dire è
che… hai tradito la mia fiducia.” Lo stomaco le si
torse a sentire la frase. “Io mi sono fidato, pensando che quello che stessimo
vivendo fosse… come dire, abbastanza per instaurare un rapporto di fiducia reciproca. Ma a
quanto pare, per te siamo ancora allo stadio di Sottospecie di Relazione e non abbiamo nulla da spartire, a parte
il letto.”
“NO!” protestò lei. Le mancava il
fiato, le sue parole, dette con quel tono così duro e calmo allo stesso tempo,
la ferivano come mille lame. “Cosa dovevo pensare, con tutti quei litigi
continui, con la tua disattenzione nei miei confronti? Cosa posso aspettarmi da
una persona che non si accorge nemmeno che sta succedendo qualcosa quando gli
sono davanti, mentre mia sorella se ne è accorta parlandomi solamente per
telefono?”
“Cosa ti potevi aspettare?”
sibilò, avvicinandosi a lei. Nina indietreggiò, sedendosi sul divano, mentre l’uomo
si inginocchiava davanti a lei, gli occhi alla sua altezza, pericolosi, freddi,
quasi bianchi.
“Ho mentito ai miei superiori, ho
lasciato la mia squadra contro un mostro per venirti a prendere in quel cazzo di Hotel di Tokio, ho passato una
settimana praticamente senza dormire o mangiare per recuperarti, ho disobbedito
agli ordini, rischiando collo e carriera per salvarti dalla base di Alexandersson, Ho risparmiato la vita di quel bastardo di Boskonovitch per l’antidoto, e anche in questo caso sono
andato contro i miei superiori. E’ solo perché Volkov
mi reputa il migliore, e perché ero così amico di suo figlio, se il mio culo è
ancora dentro la Spetsnaz, se sono stato promosso
nonostante l’insubordinazione e se, soprattutto, tu abiti ancora in questo
posto e sei stata curata dall’elite di medici migliori a nostra disposizione.” Una lacrima scese sul viso pallido di Nina. “E
TU non sai cosa aspettarti da ME?”
Si allontanò come se le facesse
ribrezzo, come se fosse una carogna in putrefazione. La guardò disgustato, livido di rabbia. Poi si
diresse verso il corridoio.
Nina si morse le labbra,
sforzandosi di piangere in silenzio. Andò nella sua camera, quella in cui
dormiva senza di lui, un milione di
anni prima. Si gettò sul materasso, abbracciando quel cuscino azzurro che
rappresentava Steve, immergendoci la faccia sino quasi a soffocarsi.
La porta che si chiudeva le annunciò
che era rimasta sola.
Ancora.
E la cosa le faceva troppo male.
Eccolo
qui, il capitolo per cui mi farete fuori!!! Siete contente???
Purtroppo
la situazione non si è risolta per il meglio, per quanto riguarda il bambino… spero di non avervi deluso, o schifato, o peggio
ancora fatto arrabbiare.
C’est
la vie, e gli imprevisti sono dietro l’angolo.
Ci
stiamo avvicinando alla fine, sappiatelo. Un paio di
capitoli e avrò concluso (?) questa Fanfiction.
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIE GRAZIE,
GRAZIE GRAZIE
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIE GRAZIE,
GRAZIE GRAZIE
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIE GRAZIE,
GRAZIE GRAZIE
GRAZIE,
GRAZIE GRAZIE PER TUTTE LE VOSTRE RECENSIONI, SUPPORTI, E
DEGENERAZIONI (come quelle di Miss Trent :P)
Non
vi ringrazierò mai abbastanza. Questa FF l’avete scritta anche VOI.
GRAAAZIE!!!
EC